Informazione

### http://www.cubahautetfort.com/ ###


De :Réseau JRCF [mailto:reseau.jrcf @ wanadoo.fr]
Envoyé : vendredi 28 octobre 2005 02:04
À : Réseau JRCF
Objet : SAMEDI 12 NOVEMBRE : GRAND RASSEMBLEMENT EUROPEEN DE
SOLIDARITE AVEC CUBA SOCIALISTE


A diffuser largement et rapidement


Un GRAND RASSEMBLEMENT EUROPEEN DE SOLIDARITE AVEC CUBA SOCIALISTE
aura lieu le SAMEDI 12 NOVEMBRE A SAINT DENIS (au Complexe sportif
Nelson Mandela : 6 rue Francis de Pressensé, RER B station La Plaine
Stade de France).

Au programme : l'intervention de nombreuses personnalités européennes
et cubaines, la projection de vidéos d'interviews réalisées à Cuba, la
participation d'artistes cubains, le tout agrémenté de musique et de
boissons cubaines.

Parlez-en autour de vous, et soyez nombreuses et nombreux à venir
soutenir la Révolution cubaine en général, et les cinq cubains
injustement emprisonnés aux Etats-Unis en particulier.

Ce rassemblement est organisé par la Coordination nationale pour la
défense de la Révolution cubaine et la libération des cinq Cubains
emprisonnés aux Etats-Unis, à l'appel de :

l'ARAC, le Cercle Bolivarien de Paris, le Collectif Alba France, le
Collectif pour Cuba de Grenoble, le Comité Honecker, le Comité
Solidarité Cuba Nord Pas de Calais, Cuba si France, Cuba Linda,
l'Espace Che Guevara, France Amérique Latine, les JRCF, Les amis de
Cuba, France Cuba, Moncada 26 juillet, le Pôle de Renaissance
Communiste en France, Racines cubaines, l'Union des Révolutionnaires
Communistes de France)


Alexis Lacroix

Responsable du réseau JRCF


Pour nous contacter, écrivez à reseau.jrcf @ wanadoo.fr

---

SE RENDRE SUR PLACE:

Complexe sportif Nelson Mandela
6 Rue Francis de Pressensé
93200 Saint-Denis

Par les transports en commun

RER ligne B
(gare La Plaine - Stade de France®)
10 mn du centre de Paris

RER ligne D
(gares Saint-Denis et Stade de France® Saint-Denis)
10 mn du centre de Paris

Métro ligne 13
(stations Porte de Paris, Basilique de Saint-Denis ou Saint-Denis
Université)
20 mn du centre de Paris

Liaisons routières

20 mn du centre de Paris
Routes nationales N°: 1, 14, 186, 214
Autoroutes A1 et A86
Boulevard périphérique: sortie porte de la Chapelle

---

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D'ALEMA: UNA GARANZIA


1)

Italia/Luttwak: "per gli Usa D'Alema fu più affidabile di Berlusconi"

''Nel 1999 il governo di Massimo D'Alema ha combattuto nel Kosovo ed
e' rimasto lealmente al fianco degli americani dal principio fino alla
fine della guerra. Nel 2003 il governo di Silvio Berlusconi non ha
partecipato all'intervento in Iraq. Questa e' l'unica vera differenza
che Washington ha notato fra il centrosinistra ed il centrodestra, sul
piano della strategia militare''. Lo afferma a ''La Stampa'' Edward
Luttwak, Senior fellow del Center for Strategical and International
Studies.

E, riguardo le affermazioni del presidente del Consiglio, Silvio
Berlusconi, secondo cui il capo della Casa Bianca, George Bush,
avrebbe lasciato intendere di non volere il ritorno del centrosinistra
a Palazzo Chigi, Luttwak afferma ancora: ''In generale, per principio,
il governo americano non dichiarerebbe mai di non poter lavorare con
l'opposizione di un Paese democratico, quando andasse al potere
vincendo regolari elezioni''.

''Non lo facciamo -aggiunge l'esperto statunitense- neanche quando gli
oppositori sono i nostri peggiori nemici. Nel caso dell'Italia, poi,
gli Stati Uniti hanno gia' lavorato col centrosinistra, e si sono
trovati meglio che con gli altri governi ostentatamente filoamericani''.

FONTE: http://www.contropiano.org/doc_europa&russia.asp
02.11.05 - Italia/Luttwak: " per gli Usa D'Alema fu più affidabile di
Berlusconi "

NOTA: per una rassegna dettagliata dei crimini commessi nel corso dei
bombardamenti sulla Jugoslavia, ordinati contro la Costituzione e
contro il diritto internazionale da Massimo D'Alema - al quale la
magistratura italiana ha sinora garantito l'impunità - vedi:
https://www.cnj.it/24MARZO99/criminale.htm

2)

A.N.P.I.(ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D'ITALIA)

Con riferimento alle dichiarazioni dell'On. Massimo D'Alema rilasciate
per un libro di Bruno Vespa e anticipate da Panorama, secondo le quali
l'uccisione di Mussolini, avvenuta il 28 aprile 1945 a Giulino
Mezzegra ad opera di un comandante partigiano inviato dal Corpo
Volontari della Libertà, rappresenterebbe "uno di quegli episodi che
possono accadere nella ferocia della guerra civile, ma che non
possiamo considerare accettabili" e che sarebbe stato meglio
sottoporlo a un giudizio come quello di Norimberga, ove furono
processati alcuni dei massimi esponenti nazisti, la Presidenza
nazionale e la Segreteria nazionale dell'Associazione Nazionale
Partigiani d'Italia (A.N.P.I.) esprimono un fermo e motivato dissenso.

L'esecuzione di Mussolini fu un atto di giustizia deliberato ed
eseguito nel corso, se pure alla fine, della guerra di Liberazione
nazionale dagli organi che erano, anche formalmente e
istituzionalmente, i legittimi rappresentanti del Governo italiano
nell'Italia occupata, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia
(C.L.N.A.I.) e il Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà
(C.V.L.), organi dotati di tutti i poteri inerenti allo stato di guerra.

Quell'atto di giustizia era stato motivato per le gravissime
responsabilità, dalla soppressione violenta di ogni libertà, agli
eccidi e stragi di cittadini italiani che a Mussolini, più che a
chiunque altro, erano riferibili come capo del primo fascismo e del
secondo fascismo, quello particolarmente sanguinario di Salò.

L'esecuzione del capo del fascismo era reclamata da tutti gli Italiani
in espiazione delle enormi sofferenze che le sue decisioni e la sua
politica avevano causato al nostro popolo.

E anche di questo sentimento gli organismi responsabili della
Resistenza si fecero interpreti.

Diversa la situazione della Germania, nella quale non vi fu una
Resistenza armata e i capi del nazismo furono catturati dagli Alleati
che organizzarono il processo di Norimberga.

L'osservazione dell'On. D'Alema in merito non tiene conto della realtà
storica.

Roma, 4 novembre 2005

FONTE: Sezioni ANPI Milano: Barona – Giambellino – Lorenteggio – Porta
Genova
per contatti: anpibarona @...

http://www.repubblica.it/2005/k/sezioni/esteri/iraq71/rainews/rainews.html

Inchiesta shock di "Rai News 24": l'agente chimico usato
come arma. Un veterano: "I corpi si scioglievano"

"Fosforo bianco contro i civili"
Così gli Usa hanno preso Falluja

Un documento svela anche un test su un nuovo tipo di Napalm

ROMA - In gergo i soldati Usa lo chiamano Willy Pete. Il nome tecnico
è fosforo bianco. In teoria dovrebbe essere usato per illuminare le
postazioni nemiche al buio. In pratica è stato usato come arma chimica
nella città ribelle irachena di Falluja. E non solo contro combattenti
e guerriglieri, ma contro civili inermi. Gli americani si sarebbero
resi responsabili di una strage con armi non convenzionali, la stessa
accusa di cui deve rispondere l'ex dittatore iracheno Saddam Hussein.
Questo racconta un'inchiesta di Rai News 24, il canale all news della
Rai svelando uno dei misteri del fronte di guerra tenuto più nascosto
dell'intera campagna americana in Iraq.

"Ho sentito io l'ordine di fare attenzione perché veniva usato il
fosforo bianco su Fallujah. Nel gergo militare viene chiamato Willy
Pete. Il fosforo brucia i corpi, addirittura li scioglie fino alle
ossa", dice un veterano della guerra in Iraq a Sigfrido Ranucci,
inviato di Rai News 24.

"Ho visto i corpi bruciati di donne e bambini - aggiunge l'ex militare
statunitense - il fosforo esplode e forma una nuvola. Chi si trova nel
raggio di 150 metri è spacciato".

L'inchiesta di Rai News 24, Fallujah. La strage nascosta, in onda
domani su Rai3, presenta, oltre alle testimonianze di militari
statunitensi che hanno combattuto in Iraq, quelle di abitanti di
Fallujah. "Una pioggia di fuoco è scesa sulla città, la gente colpita
da queste sostanze di diverso colore ha cominciato a bruciare, abbiamo
trovato gente morta con strane ferite, i corpi bruciati e i vestiti
intatti", racconta Mohamad Tareq al Deraji, biologo di Falluja.

"Avevo raccolto testimonianze sull'uso del fosforo e del Napalm da
alcuni profughi di Falluja che avrei dovuto incontrare prima di essere
rapita - dice nel servizio la giornalista del Manifesto rapita in Iraq
(proprio a Falluja) nel febbraio scorso, Giuliana Sgrena, a Rai News
24 - Avrei voluto raccontare tutto questo, ma i miei rapitori non me
l'hanno permesso".

Rainews 24 mostrerà documenti filmati e fotografici raccolti nella
città irachena durante e dopo i bombardamenti del novembre 2004, dai
quali risulta che l'esercito americano, contrariamente a quanto
dichiarato dal Dipartimento di Stato in una nota del 9 dicembre 2004,
non ha usato l'agente chimico per illuminare le postazioni nemiche,
come sarebbe lecito, ma ha gettato fosforo bianco in maniera
indiscriminata e massiccia sui quartieri della città.

Nell'inchiesta, curata da Maurizio Torrealta, vengono trasmessi anche
documenti drammatici che riprendono gli effetti dei bombardamenti
anche sui civili, donne e bambini di Falluja, alcuni dei quali
sorpresi nel sonno.

L'inchiesta mostra anche un documento dove si prova l'uso in Iraq di
una versione del Napalm, chiamata con il nome MK77. L'uso di queste
sostanze incendiarie su civili è vietato dalle convenzioni dell'Onu
del 1980. Mentre l'uso di armi chimiche è vietato da una convenzione
che gli Stati Uniti hanno firmato nel 1997.

Fallujah. La Strage Nascosta verrà trasmessa da Rai News domani 8
novembre alle ore 07.35 (sul satellite Hot Bird, sul canale 506 di Sky
e su Rai Tre), in replica sul satellite Hot Bird e sul canale 506 di
Sky alle 17 e nei due giorni successivi.

(7 novembre 2005)

# Jean Bricmont, Impérialisme humanitaire. Droits de l'homme, droit
d'ingérence, droit du plus fort ? (Préface de François Houtart),
octobre 2005, 256 pages Format 14 cm x 20 cm ISBN 2930402148 - 18
euros. Edition Aden http://www.aden.be #

http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2005-11-07%2011:27:10&log=invites
http://www.legrandsoir.info/article.php3?id_article=2845

Présentation de l'ouvrage:

"Impérialisme humanitaire. Droits de l'homme, droit d'ingérence, droit
du plus fort ?"

par Jean Bricmont.


# Jean Bricmont est professeur de physique théorique à l'Université de
Louvain (Belgique). Il a notamment publié « Impostures intellectuelles
», avec Alan Sokal, (Odile Jacob, 1997 / LGF, 1999) et « À l'ombre des
Lumières », avec Régis Debray, (Odile Jacob, 2003). #



Une des caractéristiques du discours politique, de la droite à la
gauche, est qu'il est aujourd'hui entièrement dominé par ce qu'on
pourrait appeler l'impératif d'ingérence.

Nous sommes constamment appelés à défendre les droits des minorités
opprimées dans des pays lointains (Tchétchénie, Tibet, Kosovo,
Kurdistan), à propos desquels il faut bien reconnaître que la plupart
d'entre nous ne connaissent pas grand-chose, à protester contre les
violations des droits de l'homme à Cuba, en Chine ou au Soudan, à
exiger l'abolition de la peine de mort aux États-Unis, ou à dénoncer
la persécution des femmes musulmanes.

Le droit d'ingérence humanitaire est non seulement très généralement
admis, mais il est souvent devenu un « devoir d'ingérence ». On nous
assure qu'il est urgent de créer des tribunaux internationaux pour
juger divers crimes commis à l'intérieur d'États-nations. Le monde est
supposé être devenu un village global et rien de ce qui s'y passe ne
doit nous laisser indifférent.

La sagesse de ceux qui prétendent « cultiver leur jardin » passe pour
anachronique et réactionnaire. La gauche excelle dans ce discours
encore plus que la droite, accusée alors d'égoïsme, et pense continuer
ainsi la grande tradition d'internationalisme du mouvement ouvrier et
de solidarité lors de la guerre d'Espagne ou des luttes
anticoloniales. Par ailleurs, la gauche actuelle insiste sur le fait
qu'il ne faut surtout pas « répéter les erreurs du passé » en
s'abstenant de dénoncer les régimes opposés à l'Occident, comme la
gauche « stalinienne » l'a fait dans le temps à propos de l'Union
soviétique ou à l'instar de certains intellectuels « tiers-mondistes
», vis-à-vis du Cambodge à l'époque des Khmers rouges ou d'autres
régimes issus de la décolonisation.

Corrélativement à cette situation, les mouvements pacifistes ne sont
que l'ombre de ce qu'ils étaient, par exemple lors de la crise des
missiles dans les années 80, et les mouvements tiers-mondistes ont
pratiquement disparu. Il n'y eut pratiquement pas d'opposition à la
guerre à la Yougoslavie en 1999, qui fut la guerre « humanitaire » par
excellence, et très peu lors de l'invasion de l'Afghanistan en 2001.
Il est vrai qu'il y a eu des manifestations gigantesques, uniques dans
l'histoire et porteuses d'espoirs certains, contre la guerre en Irak.
Mais il faut reconnaître qu'une fois la victoire proclamée par
l'administration Bush, les opinions publiques, en Occident du moins,
sont devenues relativement muettes, alors que continuent en Irak des
combats qui sont loin d'être d'arrière-garde.

De plus, Fallujah a été un Guernica sans Picasso. Une ville de 300 000
âmes privée d'eau, d'électricité et de vivres, vidée de ses habitants
qui sont ensuite parqués dans des camps. Puis le bombardement
méthodique, la reprise de la ville, quartier par quartier. Quand un
hôpital est occupé, le New York Times justifie cela en disant qu'il
servait de centre de propagande, en gonflant le chiffre des victimes.
Justement, combien y a-t-il de victimes de la guerre en Irak ? Nul ne
le sait, on ne fait pas de body count (pour les Irakiens). Quand des
estimations sont publiées, même par les revues scientifiques les plus
réputées, telles le Lancet, elles sont dénoncées comme exagérées.

Face à cela, combien de protestations ? Combien de manifestations
devant les ambassades américaines ? Combien de pétitions pour appeler
nos gouvernements à exiger des États-Unis qu'ils arrêtent ? Combien
d'éditoriaux dans les journaux qui dénoncent ces crimes ? Qui, parmi
les partisans de la « société civile » et de la non-violence, rappelle
que les malheurs de Fallujah ont commencé lorsque, peu après
l'invasion, ses habitants ont manifesté pacifiquement et que les
Américains ont tiré dans la foule, tuant 16 personnes ? Il n'y a pas
que Fallujah ; il y a aussi, entre autres, Najaf, Al Kaïm, Haditha,
Samarra, Bakouba, Hit, Bouhriz.

Le BRussels tribunal, un tribunal d'opinion qui examine les crimes
américains en Irak et dont fait partie l'auteur, reçoit fréquemment
des informations sur des disparitions et des assassinats en Irak. Mais
à qui transmettre ces informations ? Qui s'intéresse à cela ?

Cette double constation, l'omniprésence de l'idéologie de l'ingérence
d'une part et la faiblesse de l'opposition aux guerres impériales
d'autre part, est à l'origine de ce livre. L'auteur jette un regard
critique sur les préjugés qui sous-tendent l'idéologie de l'ingérence
et soulève un certain nombre de questions qui sont rarement énoncées
et auxquelles il est encore plus rarement répondu : quelle est la
nature de l'agent qui est supposer s'ingérer ?
Comme il s'agit en pratique des pays puissants, quelles raisons a-t-on
de croire à la sincérité de leurs proclamations humanitaires ? Quel
est l'effet sur le long terme des ingérences occidentales dans le
tiers monde ? La vision traditionnelle du droit international, qui
interdit l'ingérence unilatérale, est-elle vraiment dépassée ? Notre
histoire et notre mode de développement nous donnent-t-ils le droit de
dire aux autres pays ce qu'ils doivent faire ? Lorsque l'on parle de
droits de l'homme, pense-t-on aussi aux droits économiques et sociaux
? Si oui, ces droits sont-il toujours compatibles avec les droits
politiques et individuels ? Et s'ils ne le sont pas, comment établir
des priorités entre différents types de droits ?

Par ailleurs, on peut également poser un certain nombre de questions
aux mouvements progressistes, pacifistes ou écologistes. Ces
mouvements ne prennent-ils pas trop vite pour argent comptant les
déclarations des médias et des dirigeants occidentaux ? En
particulier, les dirigeants du tiers monde démonisés par l'Occident
sont-ils vraiment de nouveaux Hitler, face auxquels toute
compromission équivaudrait à un nouveau Munich ? La construction
européenne offre-t-elle un espoir d'alternative face à l'hégémonie
américaine ? La politique d'ingérence est-elle réellement
internationaliste ?

L'examen critique de ces questions ne se fonde sur aucun relativisme
moral ou culturel. L'auteur admet parfaitement que toutes les
aspirations contenues dans la Déclaration Universelle de 1948 sont
souhaitables. La critique ne se limite pas non plus à celle,
relativement courante, de l'hypocrisie du pouvoir américain, qui
soutient des dictatures à certains endroits tout en prétendant imposer
la démocratie à d'autres endroits. L'auteur cherche plutôt à mettre en
question, d'un point de vue global, et tout en restant dans un cadre
universaliste, la légitimité et les effets des politiques occidentales
vis-à-vis du tiers monde.

Finalement, l'auteur tente d'esquisser une autre démarche politique
que celle de l'ingérence, fondée sur une vision radicalement
différente des rapports Nord-Sud et sur une volonté de remettre la
critique de l'impérialisme au centre de nos préoccupations politiques.
Il espère ainsi contribuer à la renaissance d'une opposition ferme et
sans complexe aux agressions américaines présentes et futures.

Toute idée, aussi légitime soit-elle, court le risque d'être
transformée en idéologie et d'être utilisée par les pouvoirs en place
à des fins qui leur sont propres. C'est ce qui arrive avec l'idée de
la défense des droits de l'homme lorsqu'elle se transforme en
légitimation de l'ingérence militaire unilatérale et qu'elle appuie le
rejet du droit international.

Pendant la période coloniale, la domination occidentale sur le monde a
été justifiée par le christianisme ou par la " mission civilisatrice "
de la République. Après la décolonisation et la fin de la guerre du
Vietnam, c'est un certain discours sur les droits de l'homme et la
démocratie, mêlé à une représentation particulière de la Deuxième
Guerre mondiale, qui a rempli ce rôle.

Cette idéologie a réussi à mystifier et à affaiblir les mouvements
progressistes ou pacifistes qui cherchent à s'opposer aux agressions
occidentales et aux stratégies de domination. Elle est une sorte de
cheval de Troie idéologique de l'interventionnisme occidental au sein
des mouvements qui lui sont en principe opposés. De plus, elle
contribue à faire oublier aux mouvements altermondialistes que l'ordre
socio-économique profondément injuste qu'ils combattent est soutenu en
fin de compte par la puissance militaire américaine.

Ce livre se propose de démêler un certain nombre de confusions
idéologiques fort répandues, surtout dans les milieux progressistes,
sur les thèmes des droits de l'homme et des rapports entre l'Occident
et le reste du monde. Il espère contribuer ainsi à la renaissance
d'une opposition ferme et sans complexe aux agressions américaines
présentes et futures.



# Jean Bricmont, Impérialisme humanitaire. Droits de l'homme, droit
d'ingérence, droit du plus fort ? (Préface de François Houtart),
octobre 2005, 256 pages Format 14 cm x 20 cm ISBN 2930402148 - 18
euros. Edition Aden http://www.aden.be #


[Pour illustrer ce qui est erroné dans la tendance dominante,
commençons par le slogan « ni-ni » : maintenant que Milosevic est à La
Haye, les Talibans et Saddam Hussein renversés, les partisans de ce
slogan peuvent-ils expliquer comment ils comptent se débarrasser de
l'autre partie du « ni », Bush ou l'OTAN ?
Bien entendu, c'est impossible et ils le savent très bien. Mais c'est
bien là tout le problème : on ne peut pas mettre sur le même pied un
pays où vivent 4 % de l'humanité et dont les dirigeants déclarent
ouvertement que le siècle qui commence sera « américain » et des
pouvoirs brutaux (au demeurant très différents entre eux) mais dont
l'action est fortement limitée dans le temps et dans l'espace. Jean
Bricmont ]

Á lire aussi: L'espoir change-t-il de camp?
http://www.legrandsoir.info/article.php3?id_article=2123

(english / francais / italiano)

Il Parlamento di Serbia-Montenegro ha ratificato l'accordo con la NATO
sul transito delle truppe di peacekeeping attraverso il territorio di
Serbia-Montenegro.
Un totale di 49 rappresentanti della Serbia hanno votato per la
ratifica, assieme a 19 montenegrini. Un totale di 33 rappresentanti ha
votato contro la legge, per la maggioranza membri del Partito Radicale
Serbo e del Partito Socialista della Serbia.

L'accordo era stato inizialmente firmato da Vuk Draskovic, ministro
degli affari esteri della Serbia-Montenegro, e da Jaap de Hoop
Scheffer, segretario generale della NATO, lo scorso 18 luglio. Esso
consente alle forze NATO, nonché alle attrezzature al loro seguito, di
viaggiare attraverso la Serbia-Montenegro senza alcun compenso
finanziario, autorizzando la Serbia-Montenegro a richiedere una cifra
ridotta per i suoi servizi. (B92 News 4/11/05)

---

Le Parlement de Serbie-Monténégro a ratifié l’accord avec l’OTAN sur le
transit de troupes de maintien de la paix à travers le territoire de
Serbie-Monténégro.
Un total de 49 représentants de Serbie a voté pour la ratification,
ainsi que 19 du Monténégro. Un total de 33 représentants a voté contre
la loi, pour la plupart des membres du Parti radical serbe et du Parti
socialiste de Serbie.

L’accord a été initialement signé par Vuk Draskovic, ministre des
affaires étrangères de Serbie-Monténégro, et par Jaap de Hoop Scheffer,
secrétaire général de l’OTAN le 18 juillet. Il permet aux forces de
l’OTAN, ainsi qu’à l’équipement qui les accompagne, de voyager à
travers la Serbie-Monténégro sans aucune compensation financière,
autorisant la Serbie-Monténégro à demander un prix réduit pour ses
services. (B92 News 4/11/05)

---

NATO agreement ratified | 16:35 November 04 | Beta

VIENNA -- Friday – The Serbia-Montenegro Parliament has ratified the
NATO agreement regarding the transit of peacekeeping troops through the
territory of Serbia-Montenegro.

A total of 49 officials from Serbia voted for the ratification, and 19
from Montenegro. Voting against the law where a total of 33
representatives, mostly members of the Serbian Radical Party and
Socialist Party of Serbia.

The agreement was initially signed by Serbia-Montenegro Foreign Affairs
Minister Vuk Draskovic and NATO Secretary General Jaap de Hoop Scheffer
on July 18. It enables NATO forces, along with their accompanying
equipment, to travel through Serbia-Montenegro without any monetary
compensation, with Serbia-Montenegro being allowed to ask for a low
price for its services.

---

SOURCE: http://fr.groups.yahoo.com/group/alerte_otan/messages
Liste gérée par des membres du Comité de Surveillance OTAN

Da: kontakt @...
Data: Sab 5 nov 2005 05:40:18 Europe/Rome
A: kontakt @...
Oggetto: Rundbrief Srebrenica

Sehr geehrte Damen und Herren,

aufgrund mehrerer Anfragen und mit freundlicher Genehmigung des Autors
übermittle ich in der Anlage per Rundbrief den viel beachteten Text
"Srebrenica und das Video" von Dr. Werner Sauer, Graz.

Gleichzeitig weise ich auf einen Internet-Beitrag zur selben Thematik
hin:
"Der Mythos Srebrenica" von Dr. Hans-Georg Ruf, Augsburg. Download (nach
kurzem Scrollen) unter >http://www.forumaugsburg.de<

Mit der Bitte um Beachtung und besten Grüßen
Kurt Köpruner


### DOKUMENT - IN .DOC FORMAT - DOWNLOAD UNTER:
https://www.cnj.it/documentazione/wsauer.doc ###

KUSTURICA CON MARADONA CONTRO LE POLITICHE ASSASSINE DI J. W. BUSH

# La foto su: https://www.cnj.it/immagini/kustur_re.jpg #

http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/esteri/marabush/trenomara/
trenomara.html

L'ex calciatore in treno a Mar del Plata accolto da centinaia di persone
con lui altri contestatori del presidente degli Stati Uniti

Bush, Maradona guida la protesta
Alla stazione folla in delirio

La città argentina ospita i colloqui sull'accordo commerciale Alca
Insieme al Pibe de oro, intellettuali e politici dell'America Latina

MAR DEL PLATA (ARGENTINA) - E' arrivato questa mattina a Mar del Plata
l'espresso Alba, il treno con a bordo Diego Armando Maradona e altre
160 persone partite da Buenos Aires per contestare il presidente
statunitense George W. Bush e il Vertice delle Americhe in programma
nella località marittima argentina. Al centro del summit sono i
negoziati sponsorizzati dagli Usa per l'Area di libero commercio delle
Americhe (Alca), ai quali i manifestanti, con il "Pibe de Oro" in
testa, contrappongono Alba, un progetto di integrazione commerciale tra
stati sudamericani di ispirazione bolivarista messo a punto dal
presidente venezuelano Hugo Chavez.

Prima di salire a bordo del convoglio, Maradona, che indossava una
magliettina su cui era scritto "Stop Bush", con la "S" sostituita da
una svastica, ha detto che "è un orgoglio viaggiare in questo treno per
protestare contro questa immondizia rappresentata da Bush". A fare il
viaggio in compagnia dell'ex calciatore sono state varie personalità,
tra le quali il candidato alle presidenziali della Bolivia Evo Morales,
il regista bosniaco Emir Kusturica, e vari attori e cantanti argentini.

Tutti parteciperanno nello stadio Mundialista di Mar del Plata ad una
manifestazione in cui canterà fra gli altri il cubano Silvio Rodriguez
e che sarà chiusa dal presidente venezuelano Hugo Chavez. Il treno di
Maradona era atteso alla stazione da centinaia di persone e da una
grande quantità di giornalisti. Una folla tale che il "Pibe" è stato
costretto ad uscire di soppiatto da un vagone, lasciando poi la
stazione da un'uscita secondaria.

(4 novembre 2005)

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http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/esteri/marabush/marabush/
marabush.html

Il campione intervista il Leader Maximo all'Avana e accusa
"Guiderò la marcia anti Usa, lo prometto al mio comandante"

Maradona: "Castro è un dio
Bush soltanto un assassino"

L'AVANA - "Per me il comandante è un Dio". Bush invece "è un
assassino". Parola di Diego Armando Maradona. Il più grande calciatore
di tutti i tempi in un programma speciale della tv cubana in compagnia
di Fidel Castro è esploso in durissime accuse politiche. Il Pibe de oro
già in passato si era scagliato contro il presidente Usa. Nel 2002,
dopo aver condannato il terrorismo, il campione sottolineò però che
"gli USA fanno terrorismo contro Cuba da sempre" e che l'embargo
imposto all'isola causava la morte di uomini, donne e soprattutto
bambini. Poi aveva detto che era "meglio mille volte la Cuba di Fidel
Castro che l'America di Bush". Questa volta ha rincarato la dose.

Maradona era arrivato ieri all'Avana per intervistare il Leader Maximo
e trasmettere la conversazione all'interno del suo programma "La noche
del 10", che sta conducendo in Argentina.

Intervistato e intervistatore hanno dunque animato la serata dei
palinsesti televisivi cubani. Oltre a chiamare Castro "un dio",
Maradona ha promesso che guiderà la marcia anti-Bush che si svolgerà a
Mar del Plata, contemporaneamente al vertice delle Americhe del 4
novembre, che quest'anno si terrà in Argentina.

Quindi l'affondo contro George W.Bush: "Per me è un assassino - ha
detto davanti alle telecamere cubane e accanto a Castro - Gli argentini
devono rifiutarsi che venga nel nostro Paese. Guiderò la marcia che si
terrà in terra argentina", ha dunque annunciato.

Parteciperà alla marcia, ha assicurato El Pibe, "perché se lo prometto
al mio comandante lo faccio". Poi un altro attacco a Bush: "Ci
disprezza, ci vuole ai suoi piedi. Noi argentini abbiamo molti difetti,
ma la dignità la manteniamo sempre".

Intervistare Castro, ha aggiunto Maradona, "è un sogno" ed "il massimo
che può desiderare chiunque si trova a condurre un programma".

L'intervista di Maradona a Fidel Castro andrà in onda lunedì e si
aprirà con un abbraccio tra il presidente cubano e l'ex campione, che
indosserà una maglietta con il volto di Ernesto Che Guevara. "Questo è
l'abbraccio più grande della mia vita", ha detto Maradona, rivedendo
dopo la trasmissione di ieri le immagini della tv cubana.

El Pibe ha dichiarato all'Avana di sentirsi bene e recuperato: "Dico
che per avere il presente di oggi ho dovuto passare tutto quello che ho
passato, per ricordarmi che niente è definitivo e che se uno tocca il
fondo e non può più andare avanti non può che risalire".

Maradona conosce bene Cuba, dove andò per la prima volta dieci anni fa
e dove lo scorso anno ha trascorso un periodo di disintossicazione in
una clinica specialistica per curarsi dalla dipendenza della droga.

(28 ottobre 2005)

BERTINOTTI E L’USCITA DI LELLA


La presenza ossessiva di Bertinotti sui media piu’ disparati e’ a dir
poco sconcertante. Pensavamo che dopo la volata tiratagli per le
primarie (e vista la colossale trombata subita dall’inFausto —ha
accanitamente voluto una competizione che si e’ risolta in un
plebiscito per Prodi e che ha quindi spostato a destra tutto l’asse
dell’Unione al punto che si riparla del partito Democratico) lo
avrebbero  oscurato per un po’. Manco per sogno! E’ sempre sulle prime
pagine, rilasciando interviste a destra e a manca. Anzi, solo desso si
tocca il fondo. Come si addice ad ogni telenovela politica degna di
questo nome, doveva venir fuori anche Lella, la fisrt lady del PRC,
ovvero sua moglie. Dobbiamo pero’ ringraziarla per la sua prima
sortita. Ella, Lella, ha affermato: <Non fu Fausto a far cadere Prodi.
Fausto avrebbe le prove per dimostrarlo, ma non lo fara’. Eppo non e’
piu’ il tempo>. (Corriere del 29 ottobre). Davvero interessante questa
chicca. Non che non ci fosse chiaro che chi fece irrigidire Prodi
causando la rottura con Bertinotti lo fece in vista dell’aggressione
infame alla Jugoslavia —ovvero forgiare un governo che non si sarebbe
sfrangiato con lo strappo di quella guerra. Tuttavia la frasetta
sibillina della Lella implica un supplemento di verita’ che lascia
aperti torbidi interrogativi. Non ritengono la Lella e suo marito che
sia ora di dire la verita’ vera su quella sceneggiata? Perche mai se
Bertinotti ha le prove non le mostra, almeno al suo partito? E’ sempre
il tempo per dire la verita’. O no? Forse per poter saziare la propria
egocentrica ambizione (Bertinotti non ha nascosto di voler diventare
Presidente della Camera) egli deve fornire, ai burattinai che tirano
gli occulti fili delle trame di Stato, un’altra prova di lealta’.
Ovvero la capacita’ non solo di mentire, ma di mantenere sempre
rispetto alle cosche istituzionali, un vincolo di mafiosa omerta’.

(Fonte: Notiziario del Campo Antimperialista  ... 2 novembre 2005 ...
http://www.antiimperialista.org )

[ The original article, in english, can be read at:
www.globalresearch.ca/
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Al Qaeda e il Movimento di Resistenza Iracheno

by Michel Chossudovsky
(traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

18 settembre 2005
GlobalResearch.ca

Voi lo sapete, io odio essere profeta di sventure di violenza, ma devo
proprio capire la natura degli assassini. Questo fantoccio, Zarqawi, un
membro di al Qaeda, che si trovava a Baghdad, a proposito, prima della
destituzione di Saddam Hussein, è tranquillamente libero di agire in
Iraq. E come voi ben ricorderete, una parte del suo piano operativo era
di seminare violenza e discordia fra i vari gruppi in Iraq, ammazzando
a sangue freddo. E noi dobbiamo aiutare a scovare Zarqawi, in modo che
il popolo dell’Iraq possa avere un futuro molto più roseo.
(George W. Bush, Conferenza Stampa, 1 giugno 2004)
 

Le forze Statunitensi stanno conducendo un pesante attacco contro la
città di Tal Afar del nord Iraq, diretto contro la Resistenza Irachena.
L’assedio USA alla città, che comprende bombardamenti aerei, ha come
risultato la morte per innumerevoli civili. I raids aerei di
bombardamento hanno causato una crisi umanitaria rimarcata da un esodo
di massa, sotto la minaccia delle armi, di una larga parte della
popolazione di Tal Afar di quasi 300.000 persone. Sia all’interno
della città, così come nei campi profughi, la forze USA e i loro
colleghi Iracheni sono stati impegnati in una “operazione di ricerche e
di violenza”, che ha terrorizzato la popolazione civile.

Simile nella sostanza all’assedio di Fallujah
del 2004, l’attacco su Tal Afar è identificato con indifferenza come
una iniziativa congiunta Statunitense ed Irachena per estirpare
terroristi. Vengono impiegati circa 6.000 uomini delle forse USA, con
armamento pesante, e quasi 4.000 uomini delle truppe Irachene. (
Peshmerga Curdi e l’Esercito di Shia Badr).
Tal Afar viene raffigurata dai media come una “roccaforte di Al Qaeda”
sotto la guida della mente direttiva del terrore Abu Musab Al Zarqawi.
La città è vicina al confine Siriano e la Siria viene identificata come
compiacente al movimento di “terroristi” verso l’Iraq.
Si dichiara che le truppe Irachene e Statunitensi stanno “inseguendo” i
cosiddetti “combattenti stranieri”, che sono “per lo più integralisti
religiosi e fanatici Sunniti”.


Mentre i documenti mediatici
puntano la loro attenzione sulla presenza di “combattenti stranieri”,
molti dei resistenti che combattono a Tal Afar sono Iracheni. Vi sono
stati rapporti poco attendibili di arresti di massa di combattenti
stranieri. ( vedi la dichiarazione del Colonnello Robert Brown, US
State Department, States News Services, 14 settembre 2005).

È stata stimata la presenza dai 400 ai 500 combattenti Iracheni.
Rapporti suggeriscono che la maggior parte dei combattenti della
Resistenza hanno abbandonato la città. È stato stimato che il 90% dei
residenti hanno lasciato le loro case, data la violenza distruttiva
dell’assedio, ed anche per evitare irruzioni nelle proprie case e i
cecchini.
Il modello Fallujah è stato applicato ancora una volta, sebbene su
scala più ridotta…
Mentre
l’Esercito USA dichiara di aver ammazzato approssimativamente 200
“terroristi” durante l’operazione, rapporti dal terreno degli scontri
stabiliscono che la maggior parte dei combattenti all’interno della
città si era da lungo tempo ritirata per evitare il confronto diretto
con la forza militare soverchiante (un principio fondamentale della
strategia della guerriglia).
(Vedi Dahr Jamail,
http://www.globalresearch.ca/
index.php?context=viewArticle&code=20050916&articleId=959 )
L’esercito USA ha identificato la regione dell’Eufrate come una
“roccaforte di Zarqawi " e, secondo il The New York Times, ha
pianificato di intervenire con operazioni similari in altre città nelle
prossime settimane: “Ufficiali superiori al Pentagono e in Iraq hanno
dichiarato di ritenere che Mr. Zarqawi e il “centro di gravità” della
rivolta si trovano ora nelle cittadine posizionate nelle anse della
vallata del fiume Eufrate, vicino al confine Siriano.


Comandanti
confermano il piano di schiacciare in queste aree la leadership di
Zarqawi e dei rivoltosi Iracheni. Per tutta la primavera e l’estate, le
forze armate e i marines hanno messo in atto attacchi contro queste
cittadine, requisendo grandi quantità di armi micidiali ai rivoltosi.
Ma molti combattenti si sono dispersi per le campagne, e qui non vi
sono bastanti truppe della coalizione per realizzare una sufficiente
presenza nei villaggi. Altresì, vengono confermate nuove offensive
nella Provincia di Al-Anbar per le prossime settimane, sul modello
dell’assedio di Tal Afar,che ha visto l’impiego di 8.500 uomini, fra
truppe Americane e Irachene.” (New York Times, 17 settembre 2005)
Secondo l’UPI (United Press International: una agenzia di stampa
americana), centinaia di famiglie di Samara, situata sulle rive del
fiume Tigri, stanno abbandonando la città ( 18 settembre) in seguito
all’annuncio del Ministro della Difesa Iracheno Saadoun al-Duleimi di
un progettato attacco militare contro la città, per “purificarla dai
terroristi”.

Blackout dei Media

Effettivamente vi è stato un blackout su quello che realmente sta
accadendo a Tal Afar. La crisi umanitaria e le condizioni di vita dei
civili non sono l’oggetto dell’attenzione e del dibattito sui media.
Inoltre, dai giornalisti “embedded”non ci vengono forniti particolari
dettagliati dal teatro di guerra sulla natura precisa delle operazioni
militari. In effetti, risulterebbe anche che i media, pur “embedded”,
sono stati esclusi dall’essere presenti. Molti articoli fuori
dell’Iraq sono concentrati sugli attentati suicidi nelle zone popolate
da Sciiti, che hanno procurato qualcosa come 200 civili morti. Senza
alcuna prova, questi attacchi suicidi vengono descritti come parte di
una “controffensiva”, come “azioni di vendetta” per Tal Afar. In un
testo pubblicato su un sito web misterioso, si afferma che Al Zarqawi
si è impegnato ad ingaggiare una guerra senza quartiere contro la
maggioranza Sciita, in risposta agli attacchi contro i Sunniti a Tal
Afar:  “ È sembrato che Abu Musab al- Zarqawi, il leader di al-Qaeda in
Iraq, abbia rivendicato la responsabilità per gli attacchi suicidi,
pubblicando una dichiarazione in un sito web che “ è iniziata la
battaglia per vendicare i Sunniti di Tal Afar". Seconda una logica
contorta, Tal Afar è stata presentata come parte di un “conflitto
settario” tra Sciiti e Sunniti in cui l’esercito Statunitense e la
“comunità internazionale” vengono presentati come mediatori. Ora, Tal
Afar è una città ad etnia prevalentemente Turcomanna. Il 30% della sua
popolazione Turcomanna è Sciita, e questi sono anche vittime delle
operazioni condotte dall’esercito USA.” . (Vedi Irish
Times, 14 settembre 2005).


Ecco allora che la pubblicazione sul sito web di Zarqawi che
puntualizza che “la battaglia è per vendicare i Sunniti” appare essere
priva di consistenza, data la composizione demografica della città, che
comprende in modo significativo anche popolazione Sciita e dove gli
Arabi Sunniti sono una piccola minoranza. Lo scorso anno, il governo
Turco aveva fatto pressioni su quello USA perché non intervenisse
militarmente a Tal Afar. “ La Turchia cesserà di cooperare con gli
Stati Uniti in Iraq nel caso in cui continuassero attacchi contro i
Turcomanni”, così si esprimeva il Ministro degli Esteri Turco Abdullah
Gul  (Anatolia news agency, Ankara, 15 settembre 2004). Di conseguenza,
l’operazione militare USA progettata nel 2004 diretta contro la
popolazione Turcomanna di Tal Afar era stata differita. Ora vi sono
indicazioni che le operazioni del settembre 2005 sono state accettate
dalle autorità Turche!
La testa pensante del terrorismo Al Zarqawi, che personifica
l’insurrezione, viene fatta apparire come l’ostacolo più importante per
la democrazia in Iraq. Contemporaneamente, il ruolo delle forze di
occupazione USA e le loro atrocità che non si contano più ricevono
scarsa o nessuna copertura giornalistica. Il compito della forza
multinazionale guidata dagli Stati Uniti è quello di “prevenire e
combattere il terrorismo”.

"Able Danger" e "Al Qaeda in Iraq"

I media, tutti in coro, presentano "Al Qaeda in Iraq", sotto il comando
di Al Zarqawi, come responsabile dei recenti attentati suicidi, senza
mai fare menzione che Al Qaeda è una creazione degli apparati di
spionaggio USA. Questa connessione è riconosciuta dalla CIA e
documentata in numerosi studi. ( Vedi
 http://www.globalresearch.ca/
index.php?context=viewArticle&code=20010912&articleId=368 ) 
Un recente documento relativo ad una operazione segreta del Pentagono,
ora in discussione presso il Congresso USA, getta seri dubbi non solo
sul resoconto ufficiale sui fatti dell’11 settembre, ma sull’intero
costrutto “guerra al terrorismo”. Nel caso dell’Iraq, questo costrutto
consiste nel presentare il movimento di Resistenza come un movimento di
“terroristi”:

“ Secondo il Tenente Colonnello riservista
dell’Esercito Anthony Shaffer, un progetto segretissimo del Pentagono,
nome in codice Able Ranger, aveva identificato Atta e tre altri
dirottatori dell’11 settembre come membri di una cellula di al-Qaida
più di un anno prima degli attacchi.

Secondo lo Shaffer, Able Danger era
un’operazione da 18 mesi altamente segreta a cui era stato assegnato il
compito di “ sviluppare informazioni con oggetto al-Qaida su scala
globale”, e che usava tecniche per estrarre dati per cercare “ esempi,
associazioni e connessioni”. Shaffer affermava che egli stesso per
primo si era imbattuto nei nomi dei quattro dirottatori a metà del
2000.”
(Vedi Daniele Ganser, Operation Able Danger,
http://www.globalresearch.ca/
index.php?context=viewArticle&code=20050827&articleId=867 )
Gli elementi operativi di Al Qaeda, incluso il capo dei terroristi
dell’11 settembre Mohamed Atta, sono stati sottoposti alla sorveglianza
diretta dell’esercito USA e dei servizi di spionaggio almeno un anno
prima dell’11 settembre, sorveglianza che risulta parte di una
operazione al massimo di segretezza del Comando Operazioni Speciali del
Pentagono (SOCOM).

“Able Danger” conferma che tutto questo è già noto e documentato: il
resoconto ufficiale dei fatti accaduti l’11 settembre, come viene
sottolineato dalla Commissione sull’11 settembre, costituisce solo una
copertura.

“Voci dal retroscena”

Per tutto questo, le rivelazioni respingono la “soffiata dal
retroscena”, vale a dire che Al Qaeda, creata dalla CIA durante la
guerra Sovietico-Afghana, in qualche modo si sia rivoltata contro i
suoi sponsors USA. Al Qaeda è ancora coinvolta attivamente nel
sovrintendere la propria organizzazione di intelligence nel contesto di
una Operazione del Pentagono di massima segretezza. In più, le
rivelazioni che concernono l’Operazione “Able Danger” hanno avuto una
diretta conseguenza sulla nostra presa di conoscenza su Al Zarqawi e
sugli attentati suicidi in Iraq, supposti sponsorizzati da Al Qaeda.



Allora, anche queste operazioni di Al Qaeda in Iraq
sono sotto la sorveglianza del Pentagono?
I numerosi collegamenti documentati, riguardanti i rapporti tra la CIA
e la Rete Terroristica Islamica, gettano ombre di dubbio sui documenti
dei media, che presentano “Al Qaeda in Iraq” guidata da Al Zarqawi
come una organizzazione paramilitare indipendente che combatte contro
le forze degli Stati Uniti.


In altri termini, se Al Qaeda in Iraq e la
sua struttura di spionaggio è (indirettamente) controllata dal
Pentagono e/o dalla CIA, ragionevolmente non può costituire un
effettivo movimento di resistenza contro l’occupazione militare USA. La
organizzazione di intelligence nel caso Iracheno è uno strumento delle
forze di occupazione.


Quindi, “Al Qaeda in Iraq” viene usata dall’esercito USA per indebolire
il vero movimento di resistenza, creando inoltre divisioni all’interno
della società Irachena?  

Gli attentati suicidi

Qual’è il ruolo di Zarqawi, che favorisce gli attentati suicidi?
Questi servono a far apparire il movimento di resistenza come
terrorista. Questi indeboliscono l’appoggio dell’opinione pubblica
all’interno dell’Iraq per il movimento di resistenza contro
l’occupazione USA. La Resistenza, costituita da diversi gruppi far loro
differenti, è caratterizzata da un esercito di guerriglieri impegnato
in operazioni che hanno come obiettivo diretto l’esercito degli Stati
Uniti. I documenti dei media, che centrano la loro attenzione sul
ruolo di Al Zarqawi e di bin Laden, servono a distorcere la natura del
movimento di resistenza, presentando i rivoltosi come aggressori di
civili:
“Al Qaeda ha fornito da se stessa le prove di essere una gang spietata,
settaria, che ha dichiarato guerra agli Sciiti in Iraq”, così ha
scritto un quotidiano Libanese in risposta al recente appello di Abu
Musab al- Zarqawi, affermando come“Al Qaeda abbia perso qualsiasi
possibilità di rivendicare, se mai l’abbia avuta, finalità morali,
nobili o razionali”. ( the Star, Beirut, 17 settembre 2005)
“Il leader di Al-Qa'ida in Iraq, Abu Musab al- Zarqawi, ha sostenuto la
sua responsabilità per l’ultima ondata di violenza e ha dichiarato
guerra senza quartiere agli Sciiti. Invocando l’assistenza
internazionale, il Presidente dell’Iraq, Jalal Talabani, non ha esitato
a dire apertamente e francamente che il suo paese aveva la disperata
necessità del…vostro appoggio per i nostri tentativi di combattere il
terrorismo.” ( The Australian, 17 settembre 2005)
In Iraq, quattro attentati suicidi hanno colpito ancora Baghdad,
ammazzando 31 persone e portando il tributo di sangue in due giorni a
200 morti: così il leader di al Qaeda in Iraq Abu Musab al- Zarqawi ha
cercato di infiammare le divisioni etniche e religiose fra Sunniti e
Sciiti. Comunque, l’esercito USA è sicuro che le sue recenti operazioni
che hanno obiettivo Al Qaeda in Iraq hanno avuto pieno successo,
malgrado l’attuale violenza. Il CBS Evening News (15 settembre,
articolo 6, 2:00, Martin) riferiva che esistevano ormai
“raccapriccianti riscontri della dichiarazione di Abu Musab Al- Zarqawi
di guerra senza quartiere contro gli Sciiti, che controllavano il
governo dell’Iraq. Il sito web di Zarqawi annunciava che la carneficina
di Baghdad era la vendetta per l’assalto delle truppe USA ed Irachene
contro la città di Tal Afar nelle vicinanze del confine Siriano, un
fulcro per le operazioni dei ribelli nel nord dell’Iraq, dove
l’esercito USA ha dichiarato di aver conseguito successi
drammaticamente.” (Frontrunner, 16 settembre 2005)
Gli attacchi si sono scatenati quando i leaders Iracheni hanno
conclamato di aver portato a termine una costituzione, e quando la
ramificazione di al-Qaeda in Iraq aveva giurato vendetta per la
recente offensiva USA-Irachena contro la città nord-orientale di Tal
Afar. Nella capitale, il tributo di morte in un solo giorno è stato
forse il più elevato dal marzo 2003, e uno degli attentati, un attacco
suicida con autobomba nel quartiere di Kadhemiya, a predominanza
Sciita, nel nord di Baghdad che ha ammazzato 117 persone, è stato il
secondo per entità di morti causati da un unico colpo…Testimoni
affermano che non esistevano nelle vicinanze obiettivi costituiti da
militari o poliziotti USA o Iracheni, e questo suggerisce che il
kamikaze aveva puntato a causare quanto più grande possibile la
carneficina di civili. (Financial Times, 15 settembre 2005)

Commento conclusivo

Gli Stati Uniti hanno creato, come parte di una operazione segreta di
intelligence, un finto “movimento di resistenza” truccando la stessa Al
Qaeda in appoggio ai "terroristi"? Gli attentati suicidi di Al Qaeda
prendono come obiettivo i civili Iracheni, piuttosto che l’esercito
degli USA.
Gli attentati suicidi tendono ad incoraggiare le divisioni settarie,
non solo in Iraq, ma in tutto il Medio Oriente. Questi sono utili agli
interessi di Washington e contribuiscono a indebolire lo sviluppo di un
movimento di resistenza più largo, che unisca Sciiti, Sunniti, Curdi e
Cristiani contro l’occupazione illegale della nazione Irachena. Inoltre
gli attentati cercano di creare, a livello internazionale, divisioni
all’interno dei movimenti contro la guerra e per la pace. Inoltre, la
campagna di disinformazione permea anche la stampa Irachena e
Mediorientale. Queste ultime tendono a dare valore alle supposte
dichiarazioni di Al Zarqawi pubblicate su Internet. Le minacce di
Zarqawi agli Sciiti sono considerate veritiere. Non vengono quasi mai
menzionati i collegamenti fra Al Qaeda in Iraq e lo spionaggio
Statunitense.


Michel Chossudovsky è Professore di Economia all’Università di Ottawa e
Direttore del Centro per le Ricerche sulla Globalizzazione (CRG), ed è
l’autore di America's "War on Terrorism" ,  Global Research, 2005.


articolo correlato:
Chi è Abu Musab Al-Zarqawi? Di Michel Chossudovsky, 11 giugno
2004, http://globalresearch.ca/articles/CHO405B.html

© Copyright Michel Chossudovsky, GlobalResearch.ca, 2005
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GUERRA BIPARTISAN CONTRO L'IRAN

1. Due Lettere Aperte, a Fassino ed a Veltroni
2. Minacce di guerra bipartisan contro l'Iran (S. Cararo)
3. Fiaccole romane (R. Rossanda)

4. 18-19 novembre: INIZIATIVE PER LA PALESTINA


=== 1 ===

G.A.MA.DI. (Gruppo Atei Materialisti Dialettici
Via di Casal Bruciato, 15 Roma
Telefono 0339 3873909
Sito Internet: www.gamadi.it

LETTERA APERTA
All’ attenzione dell’ onorevole Piero Fassino

Questa organizzazione fondata da partigiani nella lotta di liberazione
contro il nazi fascismo, si rivolge a te, compagno Fassino, facendo una
chiara premessa: per noi nessun Paese e sottolineiamo NESSUN Paese deve
venir cancellato dalla carta geografica e questo, logicamente, vale
anche per Israele il cui popol, non è colpevole dei continuati reati
contro il popolo palestinese, compiuti dal suo governo.

Fatta questa premessa, noi restiamo allibiti che tu vada a dar una mano
alla grottesca e spudoratamente di parte manifestazione inscenata da
Ferrara, azzeccagarbugli politico degli USA.

Onorevole Fassino!

Ti sei mai accorto che c’è un Paese clamorosamente cancellato dalla
carta geografica, un paese a noi vicino, compagno di lotta nella
guerra contro il nazifascismo, Paese che si chiamava “Jugoslavia” ?

Perché non sei mai sceso a manifestare contro questo grave misfatto,
fatto in pratica con bombe e distruzione e non solo di “parole”
pronunciate dal leader iraniano per cui andrai a manifestare?

Noi tutti siamo elettori di sinistra, e certe “cantonate” sono gravi e
pregiudicano, in certi casi, la partecipazione alle urne.

Capisco che oggi non è facile, per te, tornare indietro... ma noi
Gramsciani sappiamo che “la verità è sempre rivoluzionaria” e non
temiamo mai la critica e la verità.

A nome di tutta l’ organizzazione ti facciamo molti auguri, per il bene
della sinistra e ti salutiamo con cordialità.

Presidente
Miriam Pellegrini Ferri

2 novembre 2005

> -------Messaggio originale-------
>
> Da: Daniele Frongia
> Data: 10/31/05 16:22:19
> A: v.veltroni@...
> Cc: posta@...; PACIFISTAT; g.mannino@...;
> albeman@...
> Oggetto: bandiere senza vento
>
> Caro Veltroni,
> giovedi' ci incontreremo all'ambasciata iraniana per manifestare
> contro le dichiarazioni di Ahmadinejad ("Israele va cancellato"). Il
> diritto all'esistenza, tuttavia, non e' appannaggio del solo stato
> ebraico. Da quasi sessant'anni Israele sta di fatto "cancellando" i
> palestinesi e i loro diritti. Il ritiro di Gaza non e' l'inizio della
> fine dell'occupazione. Come rilevato dall'inviato del quartetto James
> Wolfensohn, ''il governo di Israele, nonostante le preoccupazioni
> sulla sicurezza, e' lontano dal cedere il controllo, agisce anzi come
> se non ci fosse stato alcun ritiro, rinviando ogni decisione ad altre
> riunioni". La Striscia di Gaza, senza poter usufruire dei propri
> confini, del mare e dello spazio aereo, e' diventata un enorme ghetto.
> In Cisgiordania le cose non vanno meglio: l'estensione della colonia
> illegale Ma'ale Adumim intorno a Gerusalemme est sta raggiungendo
> quella della Striscia, il muro (costruito non sul confine ma dentro le
> terre palestinesi) separa famiglie e villaggi, e gli oltre 700 check
> point rendono ulteriormente invivibile il tutto.
> Tuttavia il dramma palestinese non sembra interessarLa piu' di tanto:
> non una protesta, non un momento di riflessione sul dramma del muro,
> nemmeno la piu' volte richiesta via dedicata ad Arafat. Al comune di
> Marano son stati piu' coraggiosi e, nonostante la valanga di insulti e
> minacce ricevuti da autoproclamati "amici di Israele", hanno
> inaugurato Via Yasser Arafat.
> Ci vediamo giovedi'. Ferrara invita i partecipanti a portare e a
> sventolare la bandiera di Israele. Mi auguro che il mio Sindaco non
> scenda cosi' in basso.
> Daniele Frongia
>
> FONTE: http://groups.yahoo.com/group/aa-info/


=== 2 ===

MINACCE DI GUERRA BIPARTIZAN CONTRO L'IRAN

di Sergio Cararo*

Mentre gli USA sono pesantemente impantanati in Iraq, Israele e Gran
Bretagna spingono per aprire un nuovo fronte di guerra contro l'Iran.
Il prestesto dell'atomica iraniana non regge alla prova dei fatti. Che
forze politiche e personalità del centro-sinistra italiano si rendano
complici di questa operazione è vergognoso.

 
Diversamente dall’Iraq, questa volta anche importanti paesi europei
come Francia e Germania sembrano essersi fatti influenzare pesantemente
dalla Gran Bretagna. La “trojka” europea a cui gli USA hanno lasciato
parziali spazi di manovra nei negoziati con l’Iran,  in questa
occasione pare ripetere a pappagallo i luoghi comuni e le menzogne
diffuse a piene mani dai giornali reazionari statunitensi ed
israeliani. La posizione degli europei è talmente subalterna agli USA
da aver provocato la sospensione dei colloqui con le autorità iraniane
e il riavvio del piano nucleare di Teheran. Al momento solo uno
Schroeder azzoppato dalle elezioni  si è limitato a dire no all’opzione
militare contro l’Iran visti i guasti prodotti da questa opzione in
Iraq, ma se il cancelliere tedesco questa volta è un’anatra zoppa, il
suo partner francese – Chirac – lo è altrettanto a causa delle ripetute
batoste accumulate sul piano interno ed internazionale.

In tale contesto, un parte dei dirigenti e dei partiti dell'Unione (il
centro-sinistra italiano) si va rendendo complice di una campagna
politico-mediatica messa in piedi dal "Likudzik-System" esistente in
Italia. Vedere Fassino e Folena sfilare con Giuliano Ferrara contro
l'Iran e a sostegno di Israele è quantomeno disgustoso, anche perchè la
realtà dei fatti demolisce lo tsunami disinformativo messo in piedi
sulle dichiarazioni anti-israeliane del presidente iraniano.

Una cosa è certa, se la resistenza irachena non avesse inchiodato le
forze armate americane, l’escalation aggressiva statunitense ed
israeliana contro l’Iran oggi non sarebbe ancora limitata alle minacce.

I giornali ed i governi europei, hanno passato sotto silenzio il
rapporto indipendente di un gruppo plurinazionale di scienziati
rivelato dal “Washington Post”. Il rapporto, ha ulteriormente demolito
la campagna mediatica, politica e diplomatica contro l’Iran sulla
vicenda del nucleare. Questo gruppo di scienziati ha scoperto che i
residui di uranio “per la bomba iraniana”, appartengono in realtà ad un
vecchio silos pakistano portato pubblicamente (per l’Agenzia Atomica
Internazionale) in Iran per essere bonificato. Il Washington Post ha
affermato perentoriamente che questa rapporto priva la campagna
anti-iraniana dell’amministrazione Bush del suo argomento principale
(1).

E’ noto a tutti che gli artefici principali di questa campagna siano i
cosiddetti “likudzik” cioè i progetti e i soggetti convergenti della
fazione filo-israeliana nell’amministrazione Bush con le autorità
israeliane vere e proprie.

Per i primi la liquidazione – anche manu militari – dell’Iran significa
il completamento del progetto “Grande Medio Oriente”, per i secondi
rappresenta l’eliminazione di una potenza regionale rivale che sostiene
apertamente organizzazioni come gli Hezbollah libanesi e rimane l’unico
fattore di equilibrio nei confronti della strapotenza militare e
nucleare israeliana. A questa campagna si è unito "volenterosamente" il
premier britannico Blair, che ha accusato l'Iran - ma senza averlo
dimostrato - di appaoggiare la resistenza irachena nel sud del paese.


Una ragnatela contraddittoria nelle relazioni con l'Iran

Che i rapporti tra Iran, Stati Uniti ed Israele oggi non siano buoni è
evidente a molti. Sono meno noti i ripetuti tentativi delle varie
amministrazioni repubblicane (e degli israeliani) di utilizzazione
dell’Iran per i loro giochi di destabilizzazione in Medio Oriente.

Nonostante la crisi degli ostaggi che costò la rielezione a Carter nel
1980 e nonostante l’Iran degli ayatollah definisse gli USA “Il Grande
Satana”, sono note sia operazioni triangolari come l’Iran-Contras sia
il doppio gioco degli USA per scatenare l’Iran contro l’Iraq e
viceversa nella devastante guerra che ha dissanguato i due paesi tra il
1980 e il 1988. Lo stesso Rafsanjani, fortunatamente e clamorosamente
uscito sconfitto dalle recenti elezioni in Iran, rappresentava la
corrente dell’establishment iraniano che intendeva riaprire a tutto
campo le relazioni con gli Stati Uniti.

Abboccamenti c’erano stati durante l’invasione dell’Afganistan nel 2001
(i taleban non erano affatto amici degli iraniani, anzi contro la
minoranza sciita in Afganistan erano stati assai pesanti). E
abboccamenti ci sono stati anche per cooptare e dare potere nell’Iraq
occupato dagli USA alle milizie filo-iraniane dello Sciri che si vanno
configurando (insieme a quelle curde) come il vero braccio armato del
governo fantoccio scaturito dalle elezioni farsa.

Non solo. Nel 1998, Paul Wolfowitz (oggi collocato alla Banca Mondiale)
ma uomo chiave nel team della prima amministrazione Bush, pubblicava un
rapporto sul Medio Oriente in cui diceva quattro cose esplicite: gli
USA devono attaccare l’Iraq, non si può permettere che i prezzi del
petrolio siano troppo bassi, occorre impedire la destabilizzazione
dell’Arabia saudita, occorre riaprire il “dialogo con l’Iran”. Se un
falco come Wolfowitz auspicava il dialogo con Teheran, vuol dire che in
quell’ambito esistevano canali aperti, probabilmente lo stesso
Rafsanjani e settori dei cosiddetti “riformisti” (2)

Diverso è invece il rapporto tra Israele e Iran. In questo caso
possiamo parlare più di interessi oggettivi che di dialogo. La destra
israeliana infatti è dagli anni Ottanta che ha in mente la riscrittura
della mappa geopolitica del Medio Oriente funzionale ai propri progetti
(3)

In tal senso ha sempre cercato di dare vita ad una diplomazia di
interessi verso i paesi “non arabi” dell’area in funzione
destabilizzante nei confronti dei paesi arabi. E’ il caso dei cristiani
maroniti in Libano, della Turchia e dello stesso Iran. Gli effetti di
questa politica si sono visti nel prolungamento/dissanguamento della
assurda guerra tra Iran e Iraq, nelle ingerenze della Turchia contro
Siria e Iraq, nel sostegno ai falangisti libanesi, ai curdi iracheni o
ai gruppi secessionisti in Sudan ed infine nel pervicace tentativo di
balcanizzazione dell’Iraq in tre cantoni (curdo a nord, sciita a sud e
sannita al centro). L’approvazione della Costituzione federale in Iraq
segnerebbe un indubbio successo israeliano che non a caso ha inviato
numerosi “consiglieri” nella regione curda-irachena e parecchi
specialisti di controguerriglia al fianco delle truppe statunitensi.

 
L'atomica iraniana. Due pesi, due misure...

Alcuni dei commentatori che si prestano alla campagna contro l’Iran,
giocano su un argomento semplice ma di una certa efficacia. L’Iran
infatti è uno dei principali produttori di petrolio e dunque non ha
problemi di approvvigionamento energetico. Che bisogno ha del nucleare
se non per fare le bombe atomiche? E’ un ragionamento che su menti
semplici può fare effetto. Si potrebbe rispondere che anche paesi
petroliferi come Russia o Stati Uniti hanno le centrali nucleari, ma
potrebbe non bastare, in fondo il senso comune guarda sempre con
rispetto e timore alle grandi potenze.

Altri sostengono che solo le democrazie possono detenere le armi
atomiche. Ragione per cui non si trova nulla da eccepire se gli USA,
Francia, Gran Bretagna e Israele possiedono centinaia di testate
nucleari.

I meccanismi di controllo interno dei sistemi democratici
“impedirebbero” che vengano usate impropriamente. Qualcuno potrebbe
contestare il fatto che nella storia le uniche bombe atomiche sulle
città le hanno sganciate i “democratici” Stati Uniti. Ma anche su
questo vale il ragionamento fatto prima. Inoltre gli USA hanno la vinto
la guerra, la storia la scrivono come gli pare e piace e buona parte
del mondo “civilizzato” è disposto a credergli. Qualcun altro però
potrebbe contestare questa tesi accomodante e rammentare che le armi
atomiche ce l’hanno anche la Russia, la Cina, l’India e perfino il
Pakistan. Questi ultimi due paesi – sette anni fa – furono sottoposti a
sanzioni per gli esperimenti nucleari che sorpresero il mondo, incluso
il vertice del G 8.

Cina e Russia sono troppo grossi e potenti per vedere rimesso in
discussione il loro potere di deterrenza nucleare e poi sono membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ma l’India ha assai
migliorato le sue relazioni con gli USA mentre il Pakistan,
collaborando all’occupazione dell’Afganistan, si è magicamente
trasformato da una dittatura militare in una democrazia alleata della
coalizione antiterrorismo.

Secondo questa logica assai eccepibile, l’Iran non avrebbe alcuna
legittimità per dotarsi di impianti nucleari. Non ne ha bisogno, non è
una democrazia, gli ayatollah sono “matti”, non è una potenza
permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, non è neanche parte
della coalizione dei volenterosi contro il terrorismo quindi…l'Iran non
ha diritto a dotarsi dell'energia nucleare.

Stando così le cose un pò di verità non guasta, soprattutto alla luce
dell’esperienza di questi ultimi dieci anni e dello scatenamento della
guerra preventiva. Che la verità costringa talvolta al cinismo è una
causa ed un effetto della storia.

 
Il nucleare iraniano. Una minaccia o un fattore di riequilibrio?

I programmi nucleari sono stati sviluppati in moltissimi paesi nel
corso degli anni Novanta. Se vogliamo parlare di paradossi, il paese
che negli anni Novanta ha fatto incetta di plutonio e uranio… è stato
il Giappone. Pochi ricordano quante navi hanno preso la strada del Sol
Levante provenienti dalla Francia o dagli Stati Uniti con carichi
nucleari.

Diversamente che in Europa o nei paesi capitalisti, il ricorso al
nucleare in molti paesi emergenti corrispondeva più a standard di
sviluppo tecnologico (anche militare) che ad esigenze energetiche.

Va ricordato in tal senso il tentativo iracheno di costruire un
impianto nucleare a Osirak che fu stroncato unilateralmente dagli
israeliani con un bombardamento.

La “bomba islamica” l’ha costruita il Pakistan con i finanziamenti
ricevuti da tutti i paesi arabi ed islamici. Il Pakistan non lo ha
fatto per assicurarsi una fonte di approvvigionamento energetico
alternativo al petrolio ma per acquisire uno status di potenza
regionale nei confronti di India e Cina e per dare “un punto di forza”
alla nazione islamica nei confronti dell’arsenale nucleare israeliano.

La stessa Israele, ha creato l’impianto nucleare di Dimona non per
produrre energia di cui non dispone e aggirare così l’embargo
petrolifero arabo ma per produrre decine di testate nucleari operative.
Il povero Vanunu sta ancora passando i suoi guai per averlo rivelato al
Sunday Times.

Cosa hanno in comune la bomba islamica pakistana, quella indiana e
quelle israeliana? Che tutte e tre sono nate di nascosto e in paesi che
hanno rifiutato di firmare il Trattato di Non Proliferazione Nucleare
per evitare le ispezioni dell’AIEA nei loro impianti.

Al contrario, la Repubblica Islamica Iraniana, ha firmato il Trattato,
ha ospitato sistematicamente le ispezioni dell’AIEA ed ha dato vita
pubblicamente e legalmente al suo programma nucleare. Ma perché un
importante paese produttore di petrolio ha dato vita ad un programma
nucleare?

Le ragioni dell’accelerazione del piano nucleare iraniano, vanno viste
nel contesto del “Grande Gioco” apertosi pesantemente in Asia Centrale
a metà degli anni Novanta. Tra gli obiettivi dichiarati del “Silk Road
Strategy Act” statunitense vi era quello di tagliare fuori dai corridoi
energetici la Russia e l’Iran. (4)

La guerra degli oledotti che si è aperta e combattuta nel Caucaso e
nelle repubbliche asiatiche ex sovietiche non è ancora terminata ed è
stata di una durezza che pochi hanno saputo cogliere (se non in
occasione della guerra NATO nei Balcani).

Gli Stati Uniti puntavano a isolare ed estromettere l’Iran dalle
dinamiche della geografia mondiale del petrolio. Di questo erano
consapevoli il ricco Rafsanjani e i cosiddetti riformisti iraniani che
hanno quindi cercato di riallacciare i contatti con gli USA.

A complicare ed a chiarire le cose, ci si è messo però il Progetto per
il Nuovo Secolo Americano, il rafforzamento dei “likudzik” a Washington
ed a Tel Aviv e lo scatenamento della guerra preventiva da parte degli
Stati Uniti. La realtà infatti ha dimostrato fino ad oggi che le bombe
atomiche, è meglio averle che non averle e che se un paese dispone di
bombe atomiche può decidere da solo se farsi “esportare o meno la
democrazia in casa”. Lo scenario visto prima in Afganistan e poi in
Iraq è stato un serio deterrente per l’Iran. Questo paese infatti si
trova preso in mezzo ai due paesi occupati militarmente dagli USA e
l’amministrazione statunitense non nasconde affatto l’ambizione di
chiudere anche territorialmente questa parte dell’Arco di Crisi
indicato da tempo da Brzezinski e Kissinger.

Oggi l’amministrazione Bush è seriamente impantanata in Iraq ed è
ancora lontana dal raggiungimento degli obiettivi strategici prefissati
dal “Grande Medio Oriente”. La tabella di marcia del Nuovo Secolo
Americano deve fare i conti con la realtà e con la resistenza di popoli
e di Stati all’egemonia globale USA. Gli USA sono sottoposti a
fortissime pressioni israeliane per mettere in moto le operazioni
contro l’Iran. Bush non ha affatto escluso l’opzione militare ma deve
però prendere tempo e incentivare la campagna perché l’Iraq non è solo
una rogna dal punto di vista militare ma lo è ancora di più dal punto
di vista politico e della credibilità. Inoltre due potenze come Russia
e Cina hanno emesso un serio monito contro una eventuale aggressione
contro l’Iran.

Gli scienziati che hanno rivelato al Washington Post l’ulteriore
menzogna di guerra dell’amministrazione Bush e Sharon sul nucleare
iraniano, potrebbero essere più ascoltati e fortunati di quanto lo
furono quegli onesti ispettori dell’ONU che persero la voce a forza di
denunciare il fatto che di armi di distruzioni di massa in Iraq non ce
n’erano.

E’ possibile, anzi probabile, che nella prossima fase assisteremo ad
una escalation sempre più pericolosa contro l’Iran, ma sarà una
escalation la cui variabile indipendente non sarà rappresentata dagli
“ayatollah” ma da chi guiderà i governi israeliani. Per dirla con
Prodi: le chiavi della pace in Medio Oriente restano a Gerusalemme, non
a Bagdad né a Teheran.

Una conferenza o un piano che punti ad un processo di disarmo nucleare
del Medio Oriente riguarda certo l’Iran ma non può che includere anche
Israele. L'unico ad aver avanzato la proposta della denuclearizzazione
del Medio Oriente, è stato il Presidente iraniano intervendo alle
Nazioni Unite. Le potenze che vogliono attaccare o isolare l'Iran hanno
detto che non era credibile. Una domanda sorge semplice semplice:
perchè?

 * redazione di Contropiano

NOTE:
(1)  Washington Post del 23 agosto, riportato sulla stampa italiana il
24 agosto
(2)  Il rapporto di Wolfowitz è stato resto noto dal CorriereEconomia
del 14 dicembre del 1998
(3)  Vedi “Israele senza confini” a cura di Antonio Moscato e Sergio
Giulianati, edizioni Sapere 2000, 1984
(4)  Vedi Sergio Cararo “Il Grande Gioco in Asia Centrale”, Proteo nr.
4 del 2001

Mail: cpiano @ tiscali.it
Sito : http://www.contropiano.org


=== 3 ===

Fiaccole romane

di Rossana Rossanda

su Il Manifesto del 02/11/2005

Cominciamo con l'eliminare le bassezze. Un esponente della comunità
ebraica romana ha dichiarato che chiunque non sarà al suo fianco a
manifestare davanti all'ambasciata dell'Iran giovedì sera non soltanto
è nemico di Israele ma di tutti gli ebrei, e deve sapere che sarà
tenuto sotto osservazione. Il saggio amico Amos Luzzatto ha cercato di
rimediare osservando che qualcuno sarà impedito di esserci perché
ammalato o all'estero. Io sono in questa condizione. E però non a
Pacifici, che una volta mi ha additato come terrorista alle sassate dei
suoi seguaci, ma a Luzzatto voglio dire che non sarei andata alla
fiaccolata neanche se fossi a Roma e sana come un pesce. Primo, perché
nessuno mi farà andare o non andare a una manifestazione sotto minaccia
di essere schedata, e non preciserò che cosa questo mi ricordi;
secondo, perché non vedo ragioni di essere a fianco di Calderoli e di
Fini e sotto l'egida del Foglio. E con ciò chiuso. Che qualcuno della
comunità ebraica possa definirmi per questo antisemita è un problema
della medesima comunità. Delle intemperanze del Foglio, che sta
varcando il limite tra provocazione e stupidità, non meriterebbe
parlare se troppi e troppe non fossero frementi di frequentarne la
scena. E veniamo alle cose serie. Politicamente grave è stata l'uscita
di Ahmadinejad sulla necessità di cancellare Israele dalla carta
geografica, e miserrimo il rattoppo: «Ma non sarà l'Iran a cominciare,
e del resto sono cose che Khomeini e Khamenei hanno detto per
vent'anni». Grave che una folla di giovani e meno giovani e financo di
donne, trattate come sono da quel regime, si sia inebriata per le
strade di Tehran di questa minaccia simbolica.

Perché è un mero simbolo, ancorché pessimo. Non solo Israele è uno
degli stati più difesi, più armati e per certi versi più aggressivi del
mondo, e quindi non è certo messa in pericolo dall'Iran, ma quel che
gli ebrei hanno subito nel `900 fa dell'esistenza di una terra loro,
dove non possano mai sentirsi perseguitati o indesiderati, il minimo
che l'umanità deve a se stessa. Se c'è qualcosa da cancellare è
l'incapacità di molte comunità della diaspora di liberarsi dal senso di
essere in un ghetto, di essere isolata e perseguitata, e la parallela
incapacità di Israele di presentarsi come in stato d'assedio e quindi
di agire in modo conseguente per uscire da quel conflitto in
medioriente, nel quale sia ebrei sia palestinesi, spossessati della
loro terra, hanno perduto troppe vite e stanno dando il peggio di sé.
Non è vero che un forsennato presidente iraniano voglia cancellare lo
stato di Israele mentre il saggio Sharon riconosce pienamente
l'esistenza di uno stato palestinese. Ambedue rifiutano di
riconoscersi, si rilanciano minacce di sterminio che fortunatamente non
possono mettere in atto, svicolano dai loro problemi reali e danno
corda ai reciproci fondamentalismi.

Su questo l'appello a partecipare al presidio di giovedì non dice né
solo né tutta la verità. E' una manovra che fa comodo alla destra,
viene da uno dei suoi uomini, pretende di misurare la temperatura
democratica della sinistra di fronte a uno dei problemi più dolorosi
del tempo nostro. Soprattutto è una misera cosa davanti al vero
problema di civiltà dal quale è impossibile stornare ormai lo sguardo.
Da tutte le parti del mondo ci viene infatti un'analoga immagine: al
venir meno di un conflitto civilizzato come è stata e vissuta nel `900
la lotta di classe e quella di emancipazione dei popoli, sono
conseguite da parte della sinistra l'abbandono di ogni principio, e nei
paesi terzi la retrocessione dalla emancipazione all'identità di sangue
e terra. E' giocoforza constatare che alla fine di un messianesimo
terrestre per ingenuo che fosse, dai primi illuministi all'ambizione di
creare un soggetto sociale rivoluzionario internazionalista, è
sopravvenuta non altro che una regressione dell'una e dell'altra molto
al di qua del punto da cui si era partiti.
La fine dei laicismi arabi è una catastrofe per quei paesi: davvero
solo gli ayatollah potevano liberare l'Iran dalla modernità poliziesca
e filoamericana dello scià? Davvero solo la disperazione dei kamikaze
può ormai far fronte a Sharon? O Al Qaeda e la sue ramificazioni al
venire meno di ogni progressismo arabo? E sono le sette
fondamentaliste, musulmane o indu, che si danno reciprocamente fuoco ma
convincono e spesso organizzano i reietti della crescita indiana. Ma
anche in occidente sembra che alla mera forza della tecnica del mercato
non possa opporsi che la mera visceralità. Non è questa che ha dato
spazio negli Stati Uniti ai neocons, in Francia a Le Pen, a Bossi in
Italia, ai Kaczynski in Polonia, e si potrebbe continuare? Il modello
occidentale trionfante moltiplica i reietti, e i reietti non sono - su
questo ha ragione Dahrendorf - il terreno delle rivoluzioni. Sono
terreno del populismo. Così quel che potrebbe essere stato, anche nel
caso del presidente iraniano, un dibattito serio nel conflitto politico
italiano degenera di colpo in una brutta commedia. Bisognerà pure che
qualcuno si decida a dirlo.


=== 4 ===

PER LA PALESTINA:

Appello delle comunità palestinesi in Cisgiordania per il 3° anno della
campagna internazionale contro il muro dell’Apartheid.

 
Contro la distruzione della terra e dei suoi frutti che sono da sempre
la ricchezza e la bellezza della Palestina; Contro i muri colonizzatori
e ghettizzanti, contro la militarizzazione, le case, le strade e le
infrastrutture solo per i coloni, volte all’estinzione dell’eredità e
del futuro del nostro popolo; Contro la pulizia etnica di Gerusalemme –
il cuore della Palestina – e l’espulsione in corso della nostra gente
dalla propria casa.Per rafforzare la resistenza di massa palestinese e
isolare l’apartheid messa in atto da Israele sono necessarie azioni di
boicottaggio nei confronti delle compagnie che appoggiano l’occupazione
israeliana dei territori palestinesi, ed è indispensabile fare
pressioni sui governi per imporre un’applicazione delle sanzioni emesse
contro il muro dalla Corte Internazionale dell’Aja.

        
Proseguire e rilanciare la solidarietà e la mobilitazione a fianco del
popolo palestinese è una priorità di tutti i democratici del nostro
paese.

 
IL SILENZIO E’ COMPLICE DELL’OCCUPAZIONE DELLA PALESTINA

 
I territori palestinesi continuano ad essere occupati e Gaza continua
ad essere assediata. In Cisgiordania proseguono la colonizzazione e
l’annessione delle terre palestinesi di cui il Muro della vergogna è
uno strumento. Sharon e la dirigenza israeliana continuano ad agire
contro il diritto internazionale per impedire la nascita di uno Stato
palestinese indipendente.

 
ABBATTIAMO IL MURO DELL’APARTHEID IN PALESTINA
DIRITTO AL RITORNO PER I PROFUGHI
LIBERTA’ PER MARWAN BARGHOUTI E PER TUTTI
I PRIGIONIERI POLITICI PALESTINESI


IL 18 E 19 NOVEMBRE

Manifestazione Nazionale


VENERDI 18 NOVEMBRE 2005

Ore 21.30 alla Tenda del Villaggio Globale

Musica per la Palestina - CONCERTOCON LUCA ZULU IN THE AL MUKAWAMA
EXPERIMENT 3 dalle ore 20 nella sala cinema del Villaggio Globale
Mostre e filmati sull’occupazione israeliana e sulla resistenza
palestinese

Lancio della proposta di costituzione del comitato per la liberazione
di Marwan Barghouti con la partecipazione di Fadua Barghouti

 
SABATO 19 NOVEMBRE 2005

Facoltà diArchitettura Roma Tre (ex mattatoio Testaccio) via Aldo
Manuzio,72

Ore 16.30 INCONTRO PUBBLICO con:

Faruk Qaddumi (segretario di Al Fatah) Fadua Barghouti (comitato per la
liberazione di Marwan Barghouti)

Kassem Ayna (ONG profughi palestinesi in Libano)

Performance di Luca Zulu sul progetto Libano

COMITATO PER NON DIMENTICARE SABRA E CHATILA

Alle iniziative sono state invitate le forze politiche e sociali della
sinistra italiana


Info, contatti e adesioni: Palestina_novembre2005 @ yahoo.it

Prime adesioni e partecipazioni:

Comitato con la Palestina nel cuore; Associazione giovani palestinesi
Wael Zuaiter; Associazione culturale libera informazione; forum
Palestina; Associazione nazionale punto critico; settimanale “la
Rinascita”; rivista l’Ernesto; Contropiano; Radio Città aperta;
Comitato di solidarietà con l’Intifada; Centro sociale Intifada;
Associazione amici della mezzaluna rossa palestinese; Centro sociale
autogestito Villaggio Globale; CPA Firenze-Sud; Coordinamento toscano
di solidarietà con la Palestina; Circolo arci Agorà di Pisa; Campagna
Stop the Wall; Un ponte per; Associazione di amicizia italo-palestinese
di Firenze; Comitato donne RdB per la Palestina; Centro di cultura
popolare Tufello;Comitato pisano di solidarietà con la palestina

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=53&did=265

Pubblichiamo due proposte dell'On. Bulgarelli al Parlamento per:

1. l'abolizione del segreto sui documenti di Stato
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5972

2. un referendum per smantellare le armi nucleari e sulla NATO in Italia
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5971

Incontro nazionale a Roma il 17 novembre

Palazzo Marini, via del Pozzetto 158, ore16.00

In tutta Italia i comandi militari USA e NATO stanno procedendo
all'allargamento delle basi militari sottoponendo il territorio ad una
ulteriore militarizzazione. Alcune di queste basi ospitano armi
nucleari, in altre attraccano unità navali a propulsione nucleare. In
molte realtà locali sta crescendo la preoccupazione e l'insofferenza
per la presenza di queste strutture militari rese operative o
installate in base a protocolli segreti di cui il Parlamento o le
comunità locali non sanno nulla.

Giovedì 17 novembre, presso la Sala delle Colonne della Camera dei
deputati, a Palazzo Marini, Via del Pozzetto 158, saranno presentati
due progetti di legge a firma del deputato dei Verdi Mauro Bulgarelli.
Il primo (Pdl n. 5971) riguarda l'indizione di un referendum
consultivo sullo smantellamento degli armamenti nucleari presenti sul
territorio nazionale, teso a dare ai cittadini la possibilità di
esprimersi sull'opportunità di mantenere negli insediamenti militari
italiani e stranieri, nonché nei poligoni di tiro, a costi
elevatissimi per l'intera collettività, dispositivi nucleari che
comportano, per tipologia e caratteristiche intrinseche, un elevato
rischio per la popolazione, sia sotto il profilo ambientale che sotto
il profilo sanitario. Il secondo (Pdl n.6100), propone la
desecretazione automatica di tutti i documenti coperti da segreto di
stato la cui stipula risalga ad oltre 25 anni fa. Nel nostro paese,
infatti, poco o nulla si è fatto per garantire che i cittadini
potessero avere accesso reale alle informazioni, in particolare a
quelle che riguardano i rapporti e i patti di collaborazione stipulati
negli anni dal Governo italiano con altre nazioni o organismi
sovranazionali e a quelle inerenti le attività dei servizi di
sicurezza. La nostra storia recente dimostra che, proprio riguardo a
questi ultimi due temi, l'apposizione sistematica del segreto di Stato
ha inciso negativamente sia sui rapporti tra l'opinione pubblica e
l'esecutivo – come dimostra la crescente ostilità di quelle
popolazioni costrette a convivere sul proprio territorio con basi
militari straniere insediate grazie a patti bilaterali segreti - sia
sull'accertamento della verità riguardo a una serie di tragici
avvenimenti che sconvolsero la vita del Paese negli anni settanta e
ottanta del secolo scorso, durante il periodo della cosiddetta «
strategia della tensione », e di cui ancora nulla si conosce per
quanto concerne le responsabilità e i ruoli ricoperti da apparati
dello Stato in seno alle trame eversive che segnarono quegli anni.

Il Comitato nazionale per il ritiro dei militari dall'Iraq da tempo è
impegnato affinché lo smantellamento delle basi militari e delle armi
nucleari diventi un punto centrale nell'iniziativa del movimento
contro la guerra. Con questo obiettivo invitiamo tutte le realtà a
partecipare attivamente all'incontro del 17 novembre per discutere
come gestire questi due progetti di legge sia a livello nazionale che
nei territori.

N.B: è necessario l'accredito e la giacca. Chi vuole partecipare
all'incontro deve far pervenire nome e cognome entro il 14 novembre a:
viadalliraqora @...; agorapi @...; bulgarelli_m
@... oppure telefonare e lasciare nome e cognome a 06-67608786

Comitato nazionale per il ritiro dei militari dall'Iraq

---
1. per l'abolizione del segreto sui documenti di Stato
---

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5972

Bulgarelli: "Abolire il segreto sui documenti di Stato"

di Atti parlamentari - Camera dei Deputati

su vari articoli online del 27/09/2005

CAMERA DEI DEPUTATI N. 6100

PROPOSTA DI LEGGE d'iniziativa del deputato BULGARELLI

Disposizioni in materia di desecretazione e accesso ai documenti di Stato

Presentata il 27 settembre 2005

Onorevoli colleghi! - il problema della trasparenza degli atti
amministrativi e di governo è da tempo al centro del dibattito
politico e istituzionale, in Italia come in altri paesi del mondo. Nel
nostro paese, tuttavia, poco o nulla si è fatto per garantire che i
cittadini potessero avere accesso reale alle informazioni, in
particolare a quelle che riguardano i rapporti e i patti di
collaborazione stipulati negli anni dal governo italiano con altre
nazioni o organismi sovranazionali e a quelle inerenti le attività dei
servizi di sicurezza. La nostra storia recente dimostra che, proprio a
riguardo di questi ultimi due temi, l'apposizione sistematica del
segreto di stato ha inciso negativamente sia sui rapporti tra
l'opinione pubblica e l'esecutivo –si veda, in particolare, la
crescente ostilità di quelle popolazioni costrette a convivere sul
proprio territorio con basi militari straniere di cui sono ignoti allo
stesso parlamento gli atti che all'indomani del secondo conflitto
mondiale portarono al loro insediamento –, sia sull'accertamento della
verità riguardo a una serie di tragici avvenimenti che sconvolsero la
vita del paese negli anni settanta e ottanta del secolo scorso,
durante il periodo della cosiddetta "strategia della tensione", e di
cui ancora nulla si conosce per quanto concerne le responsabilità e i
ruoli ricoperti da apparati dello stato in seno alle trame eversive
che segnarono quegli anni. Eppure sussistono tutti i motivi per
rendere finalmente di pubblico dominio la documentazione fin qui
secretata: da una parte, il contesto storico e geopolitico che portò
all'insediamento delle basi Usa e Nato sul territorio italiano è
radicalmente mutato con la fine della "guerra fredda" e della
contrapposizione tra i blocchi e, dall'altra, vi è tuttora la
necessità di fare piena luce su una serie di orribili stragi rimaste
impunite e di rispondere alla sete di verità e giustizia dei familiari
di coloro che ne rimasero vittime. Rendere pubblici tutti quei
materiali fin qui tenuti segreti sarebbe dunque un dovere morale,
prima che istituzionale, storico e giudiziario. In molti paesi, queste
stesse motivazioni hanno portato all'emanazione di specifiche
normative. Negli Stati uniti la legge che regola la declassificazione
dei documenti – il Freedom of Information Act (FOIA), o 5 U.S.C. § 552
– è stata introdotta nel lontano 1966. Essa stabilisce che qualunque
cittadino, americano o straniero, possa richiedere la
declassificazione di documenti che per motivi di vario genere non
siano ancora consultabili. L'amministrazione interessata è obbligata a
fornire una risposta che, nel 70% dei casi, è positiva. In caso di
risposta negativa, d'altra parte, è possibile ricorrere in appello
presso la stessa amministrazione, e spesso l'appello ribalta il primo
giudizio. Qualora l'amministrazione si rifiuti, anche dopo il ricorso
in appello, di declassificare un determinato documento, è prevista la
possibilità di citarla in giudizio. In questo caso il richiedente deve
sostenere le spese di una causa giudiziaria il cui esito, però, può
essergli favorevole: recentemente un istituto di ricerca privato, il
National Security Archive, ha ottenuto in questo modo il rilascio da
parte del Dipartimento di Stato di un'importantissima collezione di
documenti relativi alla crisi cubana del 1962 che i legali del
Dipartimento si erano rifiutati di rilasciare attraverso la normale
procedura prevista dal Freedom Information Act.
Alla fine del secolo scorso, le pressioni esercitate dalla comunità
degli storici e la fine della guerra fredda, spinsero il Congresso Usa
ad approvare una nuova legge, la Public Law 102-138 del 28 ottobre
1991, che ampliava il numero dei documenti suscettibili di
desecretazione e, successivamente, nell'aprile del 1995, il Presidente
Clinton emanò un Executive Order (E.O. 12958) che incentivava
ulteriormente la declassificazione dei documenti da parte delle varie
agenzie federali.
La nuova legge stabiliva, infatti, che, a meno che un documento non
appartenesse a una delle nove categorie specificamente elencate –
piani militari ancora validi riguardanti la sicurezza nazionale del
paese, informazioni concernenti i ruoli ricoperti da singole persone
all'interno dei servizi di intelligence, segreti aziendali,
commerciali e finanziari ottenuti in via confidenziale, dati sensibili
sulla situazione sanitaria dei cittadini o che comunque ne potessero
ledere la privacy, ecc. – ogni ente governativo fosse tenuto a
declassificare automaticamente entro l'aprile del 2000 (cioè entro
cinque anni dall'entrata in vigore dell'E.O.) tutta la sua
documentazione più vecchia di venticinque anni; inoltre ogni anno
ciascun dipartimento, o agenzia governativa, era tenuto a
declassificare una quota specifica dei suoi documenti ancora classificati.
E' importante sottolineare che queste normative si applicavano alla
stessa Cia (Central Intelligence Agency), della quale negli ultimi
anni è stata resa pubblica una mole enorme di documenti dell'OSS
ancora classificati, molti dei quali di straordinario valore storico e
politico. La Cia può rifiutarsi di divulgare documenti che contengano
materiale relativo alla sicurezza nazionale o alle fonti e agli
strumenti per la collezione dell'intelligence, ma è comunque tenuta a
rispondere alle domande rivoltele in base al Freedom of Information Act.
L'E.O. 12958, proprio in relazione alle esigenze di tutela della
sicurezza nazionale, lasciava alle varie amministrazioni ampia
discrezionalità nella valutare l'opportunità di divulgare un
determinato documento ma introduceva un principio fondamentale: la
desecretazione automatica, dopo 25 anni dalla loro emanazione, di
tutti i documenti da esse prodotti, a eccezione di quelli concernenti
le nove categorie sopra menzionate. Un lasso di tempo più che
ragionevole per far sì che tale divulgazione non pregiudicasse proprio
le esigenze correnti di sicurezza. Appare superfluo sottolineare
l'opportunità e i vantaggi che un simile criterio apporterebbe in sede
storica e di trasparenza istituzionale qualora fosse adottato anche
nel nostro paese. Sempre l' E.O. 12958 introduceva una vera e propria
"rivoluzione" nelle procedure di divulgazione dei documenti,
predisponendo con gli "Electronic Freedom of Information Act
Amendments" del 2 ottobre1996, voluti dal presidente Bill Clinton e
raccolti nella Public Law No. 104-231, 110 Stat. 3048, la
digitalizzazione e la messa in rete di tutti i documenti suscettibili
di desecretazione automatica.
Sempre più paesi nel mondo stanno adottando il Foia. Il 1 gennaio 2005
è entrato in vigore in Gran Bretagna il Freedom of Information Act
2000, che stabilisce nel Regno Unito il diritto dei cittadini a
richiedere e visionare i documenti conservati dagli uffici pubblici,
come quelli dei dipartimenti governativi, delle scuole, del servizio
sanitario, delle forze dell'ordine e delle autorità locali.
Anche in questo caso, ogni singolo cittadino privato, di qualsiasi
nazionalità e da qualsiasi Paese, potrà accedere a tutta una serie di
dati relativi ad esempio alle modalità con cui si sono fatte certe
scelte pubbliche o a come sono stati spesi alcuni fondi statali
semplicemente attraverso una richiesta scritta cui l'ufficio
destinatario darà risposta entro 20 giorni lavorativi.
Tra la documentazione che sarà oggetto di diffusione pubblica potranno
figurare atti istituzionali, attestati sulle prestazioni ospedaliere e
mediche, contratti pubblici, studi e ricerche in base ai quali si sono
operate delle scelte che hanno avuto peso nella vita dei cittadini, le
procedure di pagamento dei funzionari pubblici, in definitiva tutto
ciò che potrà avere un interesse pubblico.
Nel caso in cui non si potesse procedere alla pubblicazione
dell'oggetto della richiesta il rifiuto sarà debitamente motivato,
dimostrando che è maggiore l'interesse temporaneo a tenere riservata
l'informazione e a monitorare l'equità e la legittimità di questo
processo sarà l'ufficio dell'Information Commissioner che opererà di
volta in volta una specifica valutazione.
Per quanto riguarda la Germania, in questi mesi il Parlamento tedesco
ha completato l'esame in prima lettura della proposta di legge del 17
dicembre 2004 Freedom of Information, che dispone il diritto di
accesso pubblico ai documenti ufficiali della pubblica
amministrazione, senza dover dimostrare un interesse particolare
all'acquisizione dell'informazione.
La proposta di legge, che stabilisce altresì l'obbligo per gli uffici
pubblici a rendere pubblicamente disponibili on line una serie di atti
e documenti, prevede che le richieste vengano soddisfatte in modo
risoluto e veloce; solo in caso di procedure complesse si pone un
tempo limite di 2 mesi.
D'altra parte, su tutto il territorio europeo soltanto Cipro, Malta e
Lussemburgo non dispongono ancora di una legislazione sull'informazione.
In Italia, la situazione è confusa e, per certi versi, paradossale. La
legge dal titolo "Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi"
(legge 7 agosto 1990, n. 241), aveva innovato profondamente le regole
sul procedimento amministrativo e aveva introdotto il principio della
trasparenza e del diritto di accesso dei cittadini alle informazioni
che li riguardano. Essa è stata modificata molte volte e, da ultimo,
dalla Legge 11 Febbraio 2005 , n. 15 ("Modifiche ed integrazioni alla
legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione
amministrativa").
La legge 241, all'articolo 22, primo comma, recita: " Al fine di
assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne
lo svolgimento imparziale è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse
per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di
accesso ai documenti amministrativi, secondo le modalità stabilite
dalla presente legge".

Nulla di paragonabile al diritto di accesso imposto dal Freedom of
Information Act Usa, ma comunque un primo passo nella direzione della
pubblicità degli atti di governo. La norma, tuttavia, è stata
sistematicamente disapplicata da molte amministrazioni, anche col
pretesto della poi sopravvenuta normativa sulla tutela dei dati personali.
Ma è l'articolo 24 che vanifica, di fatto, la reale utilità di un
simile provvedimento, quando, al comma 1, recita: " Il diritto di
accesso è escluso per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi
dell'articolo 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, per quelli
relativi ai procedimenti previsti dal decreto-legge 15 gennaio 1991,
n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82,
e successive modificazioni, e dal decreto legislativo 29 marzo 1993,
n. 119, e successive modificazioni nonché nei casi di segreto o di
divieto di divulgazione altrimenti previsti dall'ordinamento".
Al fine di adeguare la nostra legislazione a gran parte di quelle
europee e internazionali, il presente progetto di legge propone di
rimuovere il segreto di stato gravante su tutti i documenti prodotti
dalle amministrazioni, dagli organi dello stato e dagli apparati di
sicurezza e di intelligence, una volta che dalla loro emanazione siano
trascorsi 25 anni, adottando un automatismo simile a quello previsto
dal Freedom Informaton Act Usa.


TESTO DELLA PROPOSTA DI LEGGE

Articolo 1
(Principi)

1. Al fine di promuovere la massima trasparenza nell'attività degli
organi dello stato e dei suoi apparati di intelligence e di sicurezza
nazionale e a integrazione di quanto disposto dalla legge 7 agosto
1990, n. 241 e successive modifiche, si prevede il diritto d'accesso,
per qualunque cittadino italiano o straniero che ne faccia richiesta,
a tutti i documenti fin qui coperti da segreto di Stato ai sensi
dell'articolo 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, per quelli
relativi ai procedimenti previsti dal decreto-legge 15 gennaio 1991,
n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82,
e successive modificazioni, e dal decreto legislativo 29 marzo 1993,
n. 119, e successive modificazioni, dalla cui redazione siano
trascorsi almeno 25 anni.
2. Rimangono coperti da segreto di stato esclusivamente quei documenti
la cui divulgazione possa arrecare attuale pregiudizio alla sicurezza
nazionale o possa ledere il diritto alla privacy di singole persone.

Articolo 2
( Responsabile del procedimento)

1. E' istituita un'apposita unità organizzativa, denominata
Commissione per la desecretazione degli atti di stato, responsabile
della istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché
dell'adozione del provvedimento finale.
2. La commissione è presieduta da un funzionario dello stato ed è
composta da due senatori e due deputati designati dai Presidenti delle
rispettive Camere, quattro funzionari pubblici, quattro docenti
universitari di ruolo in materie storiche e giuridico-amministrative,
quattro esponenti della società civile con funzioni di controllo e
garanzia. La Commissione è nominata con decreto del Presidente della
Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri,
sentito il Consiglio dei ministri.

Articolo 3
( Istruzione e modalità del procedimento)

1. E' riconosciuto a chiunque vi abbia interesse l'accesso a qualsiasi
documento prodotto da amministrazioni pubbliche, enti e organi di
sicurezza dello stato, la cui emanazione risalga ad almeno 25 anni
prima, senza che la sua richiesta debba essere motivata.
2. È considerato documento ogni rappresentazione grafica,
fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del
contenuto di atti, anche a uso interno, formati dai soggetti
menzionati al comma 1.
3. L'esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è
subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le
disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca
e di visura.
4. La commissione è tenuta in ogni caso, entro il termine di 30
giorni, a esprimere un parere sulla richiesta presentata, anche nel
caso intenda ad essa opporre un rifiuto, che deve essere motivato e
circostanziato.
5. Il richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo
regionale, il quale decide in camera di consiglio entro trenta giorni
dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i
difensori delle parti che ne abbiano fatto richiesta. La decisione del
tribunale è appellabile, entro trenta giorni dalla notifica della
stessa, al Consiglio di Stato, il quale decide con le medesime
modalità e negli stessi termini.
6. In caso di totale o parziale accoglimento del ricorso il giudice
amministrativo, sussistendone i presupposti, ordina l'esibizione dei
documenti richiesti.
7. La commissione procede, a prescindere dalle richieste presso di
essa inoltrate, alla desecretazione d'ufficio di tutti i documenti la
cui estensione risalga ad almeno 25 anni.
8. La commissione è tenuta a pubblicare con scadenza semestrale una
relazione sull'attività svolta, a darne massima diffusione nonché a
predisporre tutte le iniziative dirette a rendere effettivo il diritto
d'accesso.
9. La commissione è tenuta a disporre tutti i necessari procedimenti
organizzativi per la digitalizzazione dei documenti desecretati e per
la loro pubblicazione in internet.
10. La commissione è rinnovata ogni tre anni

---
2. per un referendum per smantellare le armi nucleari e sulla NATO in
Italia
---

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5971

Bulgarelli: "Un referendum consultivo per smantellare gli armamenti
nucleari e sulla Nato in Italia"

di Atti parlamentari - Camera dei Deputati

su vari articoli online del 05/07/2005

CAMERA DEI DEPUTATI N. 5971

PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE d'iniziativa del deputato BULGARELLI

Audizione di un referendum consultivo sullo smantellamento degli
armamenti nucleari sul territorio nazionale e sull'adesione
dell'Italia alla NATO

Presentata il 5 luglio 2005

Onorevoli colleghi! - Gli enormi cambiamenti che si sono verificati
nel corso degli ultimi cinquanta anni hanno fortemente ridimensionato
la validità del modello di difesa introdotto con l'approvazione del
trattato multilaterale che ha dato vita alla Nato (North Atlantic
Treaty Organisation - Organizzazione del Trattato Nord Atlantico). A
questa struttura di difesa multinazionale, creata nel 1949 in supporto
al Patto Atlantico, (firmato a Washington il 4 aprile dello stesso
anno), ha aderito sin dall'inizio l'Italia, insieme a Gran Bretagna,
Canada, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Portogallo.
Il trattato costitutivo della Nato ha carattere strettamente
difensivo, e si rifà, in verità impropriamente, all'art. 51 della
Carta Onu, che recita testualmente: «Nessuna disposizione della
presente Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela
individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato
contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di
Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e
la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell'esercizio
di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a
conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo
il potere ed il compito spettanti, secondo la presente Carta al
Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quella
azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace
e la sicurezza internazionale».
Tale articolo prevede effettivamente l'uso della forza da parte di uno
Stato, a patto che esso sia in funzione auto-difensiva, in prospettiva
di un attacco imminente e fino all'attivazione del Consiglio di
Sicurezza. Tuttavia la dottrina internazionalistica ha da tempo messo
in rilievo come l'art. 51 preveda l'uso della forza esclusivamente nel
caso in cui uno Stato debba difendersi da un attacco armato, e non nel
caso in cui l'attacco sia imminente ma non attuale. In effetti, il
ruolo affidato alla Nato va letto nel contesto della cosiddetta
"guerra fredda", fondata sulla contrapposizione strategica tra il
blocco delle potenze occidentali e quello facente capo all'Unione
Sovietica, con, in più, funzioni di monitoraggio e contenimento del
"fianco sud-est" (Grecia, Turchia). In ragione di ciò, la Nato fu
destinataria, fin dalle origini, di una mission articolata: da una
parte, la difesa di tipo strettamente militare, volta a fronteggiare
l'arsenale nucleare sovietico, fu improntata in chiave di
"deterrenza"; dall'altra, proprio in considerazione della
contrapposizione sistemica tra i due blocchi, obiettivo parallelo
della Nato divenne quello di consolidare la coesione
politico-culturale dei partner europei nel segno dell'egemonia
culturale e ideologica degli Usa. Nel mezzo secolo della "guerra
fredda", la Nato non intervenne militarmente in alcuna area, anche
laddove si determinarono situazioni di crisi, come nel Mediterraneo.
Ciononostante, centinaia di basi Usa e Nato furono insediate in Europa
e, di queste, quasi 150 nella sola Italia. Oggi le basi militari Usa
nel mondo conosciute sono oltre 850, il doppio di quelle dell'impero
romano d'occidente nel momento della sua massima espansione – II sec.
d.c., quando esso si estese dall'Atlantico al Caucaso, al Sahara, alla
Britannia – e un terzo in più di quello vittoriano, sui cui territori,
29 milioni di chilometri quadrati abitati da 390 milioni di persone,
agli albori del XX secolo non tramontava mai il sole, come con
malcelata nostalgia ricorda Samuel Huntigton in un suo celebre libro.
Riguardo questo impressionante dispiegamento bellico, sono sempre più
numerosi gli analisti che ritengono che esso comporti un sostanziale
depotenziamento dello stesso concetto di sovranità territoriale e, del
resto, gli esperti militari, quando si trovano a dover descrivere il
segno della supremazia Usa sul pianeta, ricorrono al termine
"footprint" –"impronta"-, che non evoca le immagini classicamente
legate ai conflitti bellici – bombardamenti, invasioni, occupazioni
manu militari- quanto piuttosto le moderne caratteristiche reticolari
della presenza globale americana nel mondo, non esente da venature che
pare lecito definire neocolonialiste. In alcune zone la concentrazione
di insediamenti Usa e Nato è addirittura parossistica, come a Okinawa,
piccola isola del Pacifico, che "ospita" ben 38 basi militari
americane, o come in Sardegna, dove è concentrato il 66% delle basi e
servitù militari, italiane e non. Una presenza così massiccia non può
non condizionare in maniera rilevante l'economia delle regioni
interessate e scadenzare i tempi di vita delle popolazioni, alle quali
è progressivamente sottratta la ricchezza derivante dall'utilizzo
paesaggistico del proprio territorio, in conseguenza dell'inquinamento
ambientale e dell'esproprio di vaste porzioni di esso e, spesso, è
concesso usufruire dei beni naturali (il mare, la spiaggia, il verde)
solo in subordine ai tempi delle attività belliche (le esercitazioni,
le manovre militari, i trasporti di armamenti), o, infine, è concesso
esercitare le attività necessarie alla propria sussistenza solo nella
misura in cui esse siano compatibili con le esigenze militari. Questo
sistema di servitù che pende sul capo della gente disegna dunque un
concetto di sovranità –di spoliazione di sovranità– molto più
complesso della semplice espropriazione di territorio e ha
determinato, nel nostro paese, una forte opposizione da parte di
moltissime associazioni della società civile, molte delle quali
concertano da tempo un'azione diffusa sull'intero territorio
nazionale, come è emerso, per esempio, in occasione del convegno
nazionale tenutosi l'11 e il 12 novembre 2004 a Pisa,
significativamente intitolato "Mediterraneo Parabellum".
Alla presenza di insediamenti militari è legata inoltre un'altra
problematica particolarmente scottante, riguardante la presenza di
numerosi ordigni nucleari stoccati nelle basi. Secondo lo studio
condotto dal Natural Resources Defence Council, sarebbero 40 le
testate nucleari stoccate nella base di Torre di Ghedi e 50 quelle
custodite a Aviano, della potenza variante dai 0,3 a 170 chilotoni
(quella della bomba sganciata su Hiroshima era di circa 15 chilotoni),
pronte a essere lanciate dai Tornado della 102esima e della 154esima
squadriglia del sesto stormo dell'aeronautica italiana. Il
munizionamento nucleare, inoltre, viene gestito da un'unità speciale
statunitense, lo 831o squadrone Muns, agli ordini diretti ed esclusivi
dello Stato Maggiore Usa; tale unità è anche l'unica ad avere accesso
ai bunker dove le testate sono custodite e, più in generale, a
garantire la manutenzione degli ordigni. Il documento ufficiale
National Security Strategy, risalente al 1997, definisce tali ordigni
"forze nucleari strategiche che costituiscono un'assicurazione vitale
per un futuro incerto, una garanzia dei nostri impegni per la
sicurezza degli alleati e un deterrente per coloro che contemplino
l'acquisizione o lo sviluppo di loro arsenali atomici", ma la
Direttiva 60, promulgata dal Presidente Clinton, prevede che le armi
nucleari sub-strategiche dislocate in Italia e in Europa possano
essere impiegate "contro soggetti o gruppi non presenti al livello
istituzionale di Stato, contro i loro centri operativi che dispongano
di mezzi atomici di distruzione di massa". La Direttiva 60 è stata
integrata nella precedente strategia dell'Alleanza senza essere
sottoposta all'approvazione dei Parlamenti dei paesi alleati e ciò
pone un problema interpretativo rispetto all'istituto della cosiddetta
"co-decisione".
Secondo le decisioni prese a Gleneagles dal Nuclear Planning Group
della Nato nell'ottobre del 1992, "una particolare considerazione
verrà estesa bilateralmente dagli Stati Uniti ai Governi eventualmente
coinvolti nell'impiego di armi atomiche". Tuttavia, a parere di
numerosi esperti militari, rimarrebbe tuttora in vigore la direttiva
enunciata nel 1962 dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa
Charles E. Johnson (Memorandum, Charles E. Johnson for the record,
"President's Decisions at the Meeting on Nuclear Weapons Requirements
on May 3, 1962), che recita: "Conseguentemente all'impegno Nato su
modalità nucleari della difesa comune, gli alleati non nucleari
dell'alleanza in caso di guerra assumono a tutti gli effetti il ruolo
di potenze nucleari". Ciò pone drammatici interrogativi sulla catena
di comando che si attiverebbe in caso di proclamato stato di emergenza
o di guerra in relazione all'utilizzo dei dispositivi "nazionali", il
cui controllo, di fatto, verrebbe sottratto ai poteri decisionali dei
rispettivi Governi e riservato unicamente ai comandi Usa e Nato in Europa.
In undici porti italiani, infine, è previsto l'attracco di navigli a
propulsione nucleare; tale attività comporta evidenti rischi per la
popolazione civile, vista la possibilità che possano determinarsi
incidenti dalle conseguenze gravissime per la salute pubblica e per
l'ecosistema, soprattutto perché, nonostante la normativa vigente in
sede europea preveda l'obbligo di fornire adeguata informazione alla
popolazione civile riguardo i rischi derivanti da incidente nucleare e
individui le autorità e gli enti cui spetta il compito di predisporre
i piani di emergenza (Direttive Euratom 80/386, 84/467, 84/466,
89/618, 90/641 e 92/3 in materia di radiazioni ionizzanti), a
tutt'oggi, tali disposizioni vengono disattese dal governo italiano e
non viene fornita alla popolazione adeguata informazione a riguardo di
eventuali emergenze nucleari; in particolare, non sono noti – tranne
che, parzialmente, per i porti di La Spezia e Taranto– i piani di
emergenza predisposti dalla Marina militare di concerto con le
Prefetture. Ciò pone un altro rilevante problema concernente la
sovranità nazionale. Il nostro paese, infatti, con referendum popolare
dell'8 novembre 1987, si è espresso a larghissima maggioranza (80,06%)
per la chiusura delle centrali nucleari esistenti e contro la
costruzione di nuove. E' dunque paradossale che i rischi che si erano
voluti evitare mediante l'abolizione del nucleare a uso civile siano
indirettamente reintrodotti dalla presenza di numerosi ordigni bellici
e dal transito e attracco di navigli a propulsione nucleare, soggetti,
quest'ultimi, a incidenti dalle conseguenze potenzialmente
catastrofiche, come dimostra il caso del sottomarino Hartford,
incagliatosi al largo dell'isola della Maddalena nell'ottobre del 2003.
Ma altre considerazioni vanno svolte in merito al permanere del nostro
paese in seno all'Alleanza Atlantica. Negli anni `70/'80 del secolo
scorso, infatti, con il progressivo tramontare della potenza
sovietica, la politica militare della Nato si è fatta più
spiccatamente offensiva. Nel 1978 Zibgnew Brzezinski, National
Security Adviser del Presidente americano Carter, elaborò il concetto
di "arco di crisi" per il fianco sud della Nato, per applicare il
quale, nel 1983, venne costituito il CENTCOM (Central Command), con
competenza su circa 40 paesi tra Mediterraneo e Golfo e la Rapid
Deployment Force. In quegli stessi anni, l'Amministrazione Usa passò
dalla filosofia della deterrenza a quella della "compellenza",
criterio che prevedeva l'adozione di "ogni politica che tenda ad agire
su un dato scenario in modo da costringere l'avversario ad adottare
quelle politiche che meglio si adattano ai propri interessi". Al
Consiglio Atlantico di Roma del 7-8 novembre 1991 venne quindi
elaborato il "Nuovo concetto strategico dell'Alleanza atlantica" e
istituito il Consiglio di cooperazione del Nord Atlantico (Nacc) che
inizierà le sue attività il 20 dicembre 1991. Ma è nel gennaio 1994,
al vertice di Bruxelles, che venne elaborata la "nuova" Nato, a
partire dal lancio del programma Partnership for peace, volto
all'allargamento dell'alleanza a Est e preludio per la radicale
trasformazione, avvenuta il 24 aprile del 1999, dello statuto
dell'Alleanza che, ampliando aree e motivazioni di intervento, da
trattato difensivo si trasformò ufficialmente in trattato di
intervento globale in tutto il mondo. Al centro di questa
trasformazione vi è il "nuovo concetto strategico" (The Alliance
Strategic Concept), e la Defense Capabilities Initiative, che
prevedono che la Nato utilizzi ora le sue forze militari come
strumento di gestione delle crisi, di intervento e di proiezione della
forza, estendendo l'area d'azione alla periferia dei paesi membri
(Parte II, 20), nonché a tutte le aree in cui vi sia il pericolo di
interruzione del flusso di risorse vitali, cioè energetiche. Perno
della nuova strategia è la collaborazione con la Russia e
l'allargamento dell'alleanza a Est, mentre nel Mediterraneo viene
rafforzata la cooperazione militare con Israele e alcuni paesi arabi
(Egitto, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia).
Alla luce dei passaggi fin qui sommariamente accennati, appare
opportuno valutare sotto una luce radicalmente nuova il ruolo
strategico della Nato. Il nemico di un tempo, l'ex Unione Sovietica, è
oggi tra gli alleati su cui si fonda la nuova partnership globale, il
blocco di paesi dell'Est, un tempo sotto la sfera di influenza
sovietica, è membro dell'Alleanza o è in procinto di entrarvi a far
parte, il controllo del Mediterraneo non è più in discussione e con
esso sono tramontate le ragioni di carattere difensivo che spinsero
molti paesi, tra i quali l'Italia, ad aderire all'Alleanza Atlantica.
Queste ragioni vengono tanto più vanificate dalla intrinseca
trasformazione della Nato da struttura difensiva in struttura di
controllo egemonico e proiezione, di fatto, dell'egemonia Usa sul
pianeta. In una parola, l'interesse della sicurezza nazionale italiana
non coincide più con le strategie messe in atto dalla Nato.
Tale approccio strategico, inoltre, sta dimostrando in modo sempre più
evidente i propri limiti e la propria inadeguatezza ad affrontare
pericoli che non sono più determinati da conflittualità di tipo
"tradizionale" tra gli stati, ma da cause ben diverse – legate molto
spesso agli squilibri socio-economici imposti dai paesi più ricchi –
che sempre più spesso generano fenomeni terroristici di caratura
globale, contro i quali alcuna funzione di deterrenza possono svolgere
gli insediamenti militari di tipo convenzionale che anzi,
paradossalmente, acuiscono l'eventualità di attentati e, dunque,
l'insicurezza per i paesi che li ospitano. E' necessario quindi
superare la cosiddetta "logica securitaria", sottesa alle ragioni
costituenti della Nato, e prendere atto che il modello di sicurezza
che a esse si ispirava dimostra oggi tutta la sua inefficacia e
obsolescenza proprio nell'adozione di tecniche e strumenti che sono
intrinsecamente in contraddizione con gli obiettivi che si prefiggono:
la pace e la sicurezza del paese. Appare dunque del tutto ragionevole
considerare esaurite le motivazioni dell'adesione italiana alla Nato e
sottoporre alla volontà popolare l'opportunità di non rinnovare per il
futuro tale adesione.
Sta crescendo sempre di più la convinzione, o meglio la
consapevolezza, che la vera sicurezza può derivare soltanto dalla
crescita della comunicazione sociale e della fiducia collettiva, e non
dall'esclusione e dalla marginalizzazione dei 'diversi' e degli
'altri', dalla difesa armata dei cancelli e dei muri, dalla
sottolineatura delle differenze –di cultura, di religione, di etnia– e
alla conseguente individuazione dei 'nemici' assoluti.
Il nostro Paese –a fronte anche della sua storia millenaria basata su
una cultura dell'integrazione e dell'accoglienza– deve finalmente
prendere atto degli enormi cambiamenti che si sono verificati a
livello geopolitico mondiale e sottrarsi a quella logica del
"conflitto permanente" che in buona parte è la semplice applicazione
delle teorie keynesiane all'economia militarista.
Non va infine trascurato –come sottolineato dai vari comitati che si
battono per la riconversione a usi civili degli insediamenti militari-
l'aspetto della difficile coabitazione di quest'ultimi con le comunità
locali, che si vedono ingiustamente espropriate di ampie e bellissime
zone, che vivono nella preoccupazione delle conseguenze ambientali e
sanitarie delle attività militari (responsabili di diversi tipi di
inquinamento: dell'aria, dell'acqua e del suolo) e che temono la
presenza di armi nucleari a pochi metri dalle proprie abitazioni.
Con questa proposta di legge si vuole semplicemente chiedere di dare
la possibilità ai cittadini di esprimere la propria opinione
sull'opportunità di mantenere –peraltro a costi elevatissimi per
l'intera collettività– la presenza sul territorio italiano di
dispositivi nucleari che comportano, per tipologia e caratteristiche
intrinseche, un elevato rischio per la popolazione, sia sotto il
profilo ambientale che sotto il profilo sanitario, nonché
sull'opportunità di una progressiva chiusura dei poligoni militari di
tiro e sulla ipotesi di non rinnovare l'adesione al trattato Nord
Atlantico (Nato).


TESTO DELLA PROPOSTA DI LEGGE

Articolo 1
1. Il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei
Ministri, indice un referendum entro 180 giorni dalla data di entrata
in vigore della presente legge, avente per oggetto il quesito indicato
nell'articolo 2.
2. Hanno diritto di voto tutti i cittadini che, alla data di
svolgimento del referendum, abbiano compiuto il diciottesimo anno di
età e che siano iscritti nelle liste elettorali del comune, a termini
delle disposizioni contenute nel testo unico approvato con D.P.R. 20
marzo 1967, numero 223, e successive modificazioni e integrazioni.

Articolo 2
1. I quesiti da sottoporre al referendum sono i seguenti:
a) Quesito n. 1: «Ritenete voi che l'Italia debba procedere
all'immediato smantellamento di tutte le armi nucleari presenti, a
qualunque titolo, sul territorio italiano»;
b) Quesito n. 2: «Ritenete voi che l'Italia debba revocare ogni
autorizzazione concessa a seguito di accordi internazionali e proibire
l'ingresso nel territorio nazionale, ivi comprese le acque
territoriali, di armi nucleari nonché di mezzi di trasporto a
propulsione nucleare»;
c) Quesito n. 3: «Ritenete voi che l'Italia debba avviare un piano per
la progressiva chiusura dei poligoni di tiro a uso militare, dando la
priorità alle strutture che comportano maggiori pericoli e disagi per
la popolazione circostante»;
d) Quesito n. 4: «Ritenete voi che l'Italia debba valutare
l'opportunità di non rinnovare l'adesione al Trattato Nord Atlantico,
ratificato con la legge 30 novembre 1955, n. 1335, in ottemperanza al
ripudio della guerra sancito dall'articolo 11 del dettato
costituzionale?».

Articolo 3
1. La propaganda relativa allo svolgimento del referendum previsto
dalla presente legge costituzionale è disciplinata dalle disposizioni
contenute nelle leggi 4 aprile 1956, n. 212, 24 aprile 1975, n. 130,
nell'articolo 52 della legge 25 maggio 1970, n. 352, nonché nella
legge 22 febbraio 2000, n. 28.
2. Le facoltà riconosciute dalle disposizioni vigenti ai partiti o
gruppi politici rappresentati in Parlamento e ai comitati promotori di
referendum sono estese anche agli enti e alle associazioni aventi
rilevanza nazionale o che comunque operino in almeno due regioni e che
abbiano interesse positivo o negativo verso la formazione dell'unità
europea e il sostegno e la promozione dell'Europa comunitaria. Tali
enti e associazioni sono individuati, a richiesta dei medesimi, con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di concerto con il
Ministro dell'interno, entro trenta giorni dalla data di entrata in
vigore della presente legge costituzionale.
3. La commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza
dei servizi radiotelevisivi formula gli indirizzi atti a garantire ai
partiti, enti e associazioni di cui al comma 2 la partecipazione alle
trasmissioni radiotelevisive dedicate alla illustrazione del quesito
referendario, entro i termini stabiliti per l'elezione dei
rappresentanti del Parlamento europeo.

Articolo 4
1. Il Governo, sulla base del risultato della consultazione
referendaria, avvia le azioni necessarie all'adeguamento della
legislazione alla volontà popolare.

Articolo 5
1. La presente legge costituzionale entra in vigore il giorno seguente
a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale successiva alla
sua promulgazione.


### 7 - 10 NOVEMBRE
CUBA, CONFERENZA INTERNAZIONALE SULLE BASI MILITARI STRANIERE
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5930 ###

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/28-Ottobre-2005/art127.html

il manifesto, 28 Ottobre 2005

DUE ANNIVERSARI


Balcani, vuoto a perdere


Dieci anni fa Dayton, sei anni fa Kumanovo dopo i raid Nato. Ora
l'Occidente che obbliga la Bosnia alla multietnicità, vuole per il
Kosovo un'indipendenza monoetnica


MIODRAG LEKIC *


Mentre resta ancora in attesa della risposta degli storici il quesito
se la Jugoslavia sia morta di morte naturale, sia stata assasinata, si
sia suicidata o altri l'abbiano «suicidata», la sua lunga
disintegrazione ed agonia nel 2005 celebra i suoi anniversari. Nella
geopolitica degli anniversari si ricordano infatti questo anno gli
inizi di due «protettorati»: quello ormai decennale in Bosnia
Erzegovina e i sei anni del protettorato sul Kosovo. E' probabilmente
inutile, a questo punto, chiedersi se l'Europa non avrebbe fatto
meglio, nel proprio interesse, a cercare di salvare quell'elemento di
stabilizzazione e integrazione tra i popoli rappresentato dalla
Jugoslavia, invece di trovarsi di fronte una serie di nuovi Stati su
base etnica, a volte pseudo-Stati o protettorati, quale sanguinoso
frutto della «primavera dei popoli ex-jugoslavi».

Nel novembre di dieci anni fa gli accordi di Dayton ponevano fine ai
combattimenti in Bosnia , dopo anni di scontri sanguinosi, che, in una
fase, avevano assunto il carattere di bellum omnium contra omnes.
Caratteristica di un accordo diplomatico, con elementi di un trattato
internazionale e perciò del tutto atipico, fu la pretesa di imporre
anche un modello di sistema costituzionale. E' nata così una complessa
macchina politico-burocratica che conta quattro presidenti, tre primi
ministri, tre parlamenti, più di cento ministri, due eserciti e 14
livelli di governo. Anche se alcuni risultati positivi sono stati
raggiunti, soprattutto per quanto riguarda i profughi (circa il 50% ha
trovato una sistemazione), la macchina statale si presenta come
elefantiaca, costosissima e spesso inefficace. Inoltre, secondo quasi
tutti gli analisti politici, è innegabile che la Bosnia accoglie tre
popolazioni ancor oggi, in gran parte, etnicamente divise tra loro e
la pacificazione è ancor oggi garantita dalla presenza di un
contingente di truppe, attualmente della UE.

Un Alto protettore, non eletto

Nel quadro di sviluppo democratico del paese - institution building -
è stata prevista la figura dell'Alto rappresentante della comunità
internazionale (non eletto), che può licenziare politici locali
(eletti), sospendere o cassare leggi approvate dai Parlamenti (eletti)
e imporre decreti con valore di legge.

Il decennale potrebbe essere un'occasione per fare il punto della
situazione e vedere se non sarebbe forse il caso di proporre nuove
soluzioni equilibrate e che non danneggino nessuno dei gruppi etnici.
Sarebbe forse proficuo rileggere le proposte formulate dalla comunità
internazionale precedentemente a Dayton - piano Cutillero, piano Owen-
Stoltenberg, in entrambi i casi iniziative europee, rifiutate in
circostanze non ancora del tutto chiarite. Secondo Lord Owen, nel suo
libro Odissea balcanica, gli americani avrebbero sabotato il suo piano
per spostare la sede negoziale nella base militare di Dayton, per
attribuirsi - a scopi elettorali - il merito di aver concluso la guerra.

A differenza della Bosnia, che ha istituzioni sui generis che
convivono con forti elementi di protettorato, il Kosovo, a più di sei
anni dalla fine della guerra (giugno 1999) continua a vivere sotto un
classico protettorato internazionale (Unmik/Kfor).

Negli ultimi mesi sono state avanzate varie proposte per una soluzione
definitiva. Dopo anni in cui ci si è trincerati dietro la formula
«prima standard, poi status» che ha garantito un pessimo status quo
della regione, per il Kosovo, che vive in una sorta di «buio
mediatico», si profilano oggi i primi segni di un rinnovato interesse
internazionale. Il 24 ottobre le Nazioni Unite, dopo la discussione al
Consiglio di Sicurezza, hanno deciso di aprire formalmente il
negoziato per definire lo status della provincia.

Prima di entrare nel merito delle possibili soluzioni, a questo punto
vale forse la pena di ricapitolare brevemente come si è giunti
all'attuale situazione.

La guerra, che, alla fine di marzo del 1999, gli strateghi della Nato
avevano previsto di breve durata (3, 4 giorni) si è conclusa dopo 78
giorni di intensi bombardamenti e dopo la sigla a Kumanovo di un
accordo tra forze militari jugoslave e Alleanza atlantica. In Kosovo
il ritiro dell'esercito di Belgrado è stato accompagnato dall'entrata
contemporanea delle forze della Nato e delle milizie dell'Uck.

E' indubbio che, se di «pulizia etnica» degli albanesi non si poteva
parlare prima dell'inizio della guerra, la campagna aerea ha scatenato
rappresaglie dei serbi contro gli albanesi, che naturalmente non
possono essere giustificate con la brutalità dei bombardamenti stessi
(che hanno colpito infrastrutture civili- ospedali, scuole,
acquedotti, ponti, centrali elettriche, ecc., hanno causato la morte
di donne e bambini, facendo uso di armi vietate da molte Convenzioni
internazionali...).

Dopo la «liberazione» del Kosovo, è iniziata una «pulizia etnica» in
senso opposto: il 90% della popolazione non albanese è stata costretta
a lasciare il Kosovo e non ha ancora potuto farvi ritorno, ad onta di
tutte le promesse e le garanzie della «comunità internazionale»;
inoltre i luoghi santi della regione sono stati distrutti (finora 150
chiese e monasteri ortodossi). Si tratta delle testimonianze medievali
del Cristianesimo serbo, culla dell'identità nazionale, oltre che
patrimonio dell'Umanità secondo l'Unesco.

Molti osservatori concordano nel riconoscere che la situazione
economica e dei diritti umani in Kosovo è attualmente per molti versi
peggiore di quanto non fosse sei anni fa. (Su questo tema si veda
l'articolo del generale Fabio Mini, a lungo Comandante Nato in Kosovo,
F.Mini, «Kosovo Roadmap», Limes, 2004/2).

Un trucco gli accordi di Kumanovo?

La definizione dello status finale non potrà non tener conto del
documento che ha concluso la guerra del 1999: la risoluzione 1244 del
Consiglio di Sicurezza dell'Onu del 10 giugno, di cui fanno parte
integranti gli accordi tecnico-militari di Kumanovo. Nei documenti
vengono confermati esplicitamente «sovranità e integrità territoriale
della Repubblica Federale di Jugoslavia» e «una sostanziale autonomia
del Kosovo». Le conclusioni del G8 del 6 maggio 1999, così come
l'accordo stipulato grazie alla mediazione di Ahtisaari e
Chernomyrdin, e accettato dall'Assemblea nazionale serba il 3 giugno,
prevedevano ugualmente l'integrità territoriale della Jugoslavia. La
guerra non avrebbe potuto essere conclusa il 10 giugno senza questo
riconoscimento dell'integrità del paese. Riconoscere ora
l'indipendenza del Kosovo sarebbe come ammettere che si è arrivati
alla «vittoria» della più grande potenza militare della storia contro
un piccolo paese grazie ad un abile trucco diplomatico.

Ma come trovare una soluzione partendo da un documento che attribuisce
de jure la sovranità sul Kosovo alla Jugoslavia (e alla Serbia),
mentre de facto ha trasformato la regione in un protettorato militare
della Nato e sotto amministrazione dell'Unmik-Nato qualsiasi soluzione
credibile, dal punto di vista della legalità internazionale, deve
basarsi sulla risoluzione Onu e può scaturire solo dal dialogo diretto
tra Pristina e Belgrado, sia pur mediato da una presenza
internazionale super partes? Ora che al governo in Serbia sono
politici , considerati filo-occidentali, e che difendono in egual
misura i principi democratici e gli interessi nazionali, si può
sperare che si trovino di fronte leader kosovari che condividano gli
stessi valori. Belgrado ha al contempo la responsabilità di proporre
un modello di reale integrazione democratica per gli albanesi in
Serbia e di porsi come fattore i stabilità regionale. Siccome i
politici serbi si pronunciano per una soluzione che contempli «più
dell'autonomia e meno dell'indipendenza», forse varrebbe la pena di
riprendere gli studi sul modello Alto Adige, che Rugova ha nel
frattempo abbandonato, anche perché forse è sottoposto a forti
pressioni interne. E la «comunità internazionale» potrebbe spiegare
loro che quello con gli altoatesini non sarebbe un paragone offensivo.
Ma conditio sine qua non per la riuscita dei negoziati è il ritorno
dei più di 200.000 nuovi profughi e la ripresa della vita civile,
nelle sue forme più elementari, per tutti i non albanesi. Se la
«comunità internazionale» non è in grado, a dispetto della sua forte
presenza - civile e militare - di garantire una vita «normale» ai
serbi e alle altre etnie, come si può pensare che queste potranno
rientrare in Kosovo e godervi dei diritti umani, una volta che la Kfor
e l'Unmik avranno lasciato la regione? Dovrebbe essere chiaro che se
il Kosovo, per la prima volta nella storia, avrà raggiunto
l'indipendenza, altrettanto per la prima volta quella regione sarà
«etnicamente pulita».

In termini realistici il processo di definizione dello status dovrà
necessariamente tener conto di tre elementi della politica
internazionale: gli interessi nazionali delle parti coinvolte, i
rapporti di forza e le regole. Ma, concretamente, restano molte
incognite: chi, ad esempio, avrà l'iniziativa da un punto di vista
internazionale? Gli Stati Uniti, l'Unione europea o l'Onu? O, per una
volta, ci sarà un vera trattativa diretta tra le parti, senza
soluzioni imposte dall'esterno?

La lobby dell'indipendenza da pulizia etnica

Mentre, contemporaneamente all'avvio del processo, permangono le
ambiguità dei fattori internazionali, è ormai evidente, in questo
2005, un forte impegno di gruppi informali, con forti connotazioni
lobbystico-mediatiche, in favore dell'indipendenza del Kosovo

Il 25 gennaio di quest'anno l'International crisis group, di cui fanno
parte - tra gli altri - Zbigniew Brzezinski, Marti Ahtisaari, il
generale Wesley Clark, George Soros ed Emma Bonino, ha presentato un
documento che prevede l'indipendenza del Kosovo. Un altro gruppo,
l'International commission on the Balkans, presieduto dall'on.
Giuliano Amato, e finanziata da quattro Fondazioni private, è
arrivato, in aprile, ad un'analoga proposta di indipendenza, sia pur
da raggiungere in quattro fasi. Val la pena di sottolineare che, in
occasione della presentazione alla Farnesina del piano Amato (26
aprile 2005), i responsabili del Ministero e lo stesso ministro, l'on.
Gianfranco Fini, hanno mostrato un'estrema prudenza.

Va riconosciuto all'on. Amato il merito di aver fornito un quadro
realistico, ed impietoso, dell'attuale situazione dei Balcani, e
soprattutto in Bosnia e Kosovo. E' inoltre certo convincente la sua
proposta di integrazione dell'intera regione nella Ue in tempi
relativamente brevi. Ma in questo caso si tratta di passare dalla
proposta ai fatti, e per questo è necessario avere una chiara visione
dell'Europa del futuro.

E' certo molto bella l'immagine dell'on Amato, secondo cui il 2014, in
cui si commemorerà il centenario dell'attentato di Sarajevo e
dell'inizio della follia della prima guerra mondiale, dovrebbe vedere
l'entrata di tutti i paesi balcanici, finalmente in pace, nella Ue, ed
aprire una fase di concordia e prosperità, una sorta di belle époque
ritrovata.

Ma, nei Balcani, la storia a volte, nelle sue componenti interne ed
esterne, torna come l'eroe di Dostovjeski, Raskolnikov, sul luogo del
delitto. Tutti gli attori della tragedia sono ancora sul luogo,
speriamo che il delitto non si compia.



* Ex-ambasciatore jugoslavo in Italia, 1996-1999 e 2001-2003,
attualmente professore a contratto presso la LUISS e l' Università di
Roma "La Sapienza"