Informazione

UN ESERCITO ANTICOSTITUZIONALE


Ieri, la Camera dei deputati ha definitivamente abolito l'esercito di
leva, con il solo voto contrario di Rifondazione e l'astensione dei
Verdi. Un breve commento alla notizia. Fino a non molto tempo fa, i
Lagunari della San Marco - meglio conosciuti con il soprannome di Marò
- godevano di una fama assai negativa, specie negli ambienti della
sinistra. Generalizzando, li si parificava all'universo mondo dei
"Fascisti". Nei suoi reparti regnava il nonnismo più becero e pesante.
Non rare morti di giovani reclute erano derubricate sempre come
"incidenti". Ora, soprattutto grazie alla missione in Iraq, i Marò sono
divenuti parte della nuova retorica nazionale, declinata sempre meno
come sacralità della Costituzione repubblicana (povero art.11..), ma
sempre più come linguaggio militaresco ed eroico; come necessità
urgente di sicurezza e ordine, anche interni. Mi chiedo: si sono
"spostati" i Marò verso la normalità della Costituzione, oppure è
l'Italia che si è "spostata" verso i Marò? Se alcune autorità
istituzionali del nostro paese adottano, nei proprio discorsi, tutto
l'armamentario retorico e soldatesco che prima era confinato solo nelle
caserme, come non preoccuparci di un esercito esclusivamente
professionale?
 
Lorenzo Mazzucato - Padova

http://www.resistenze.org/sito/te/po/se/pose4f26.htm
www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 26-06-04

tratto da Slow News


Il Kosovo tra mafia e terrorismo

di Franca Giansoldati (Apcom)


Il Kosovo: paradigma dell'ennesimo flop del Palazzo di Vetro. A cinque
anni tondi tondi dalla fine della guerra Nato e dall'inizio del
protettorato Unmik, la comunità internazionale è di nuovo costretta a
fare i conti coi guasti causati dalla mancanza di una politica
concordata e unitaria. E basta poco per vedere quali risultati
disastrosi abbia prodotto in una regione grande quanto il Molise.

Benché vi sia la più alta concentrazione al mondo di truppe straniere
per chilometro quadrato (25 mila), il crimine organizzato è proliferato
indisturbato, con volumi d'affari da capogiro (secondo fonti della Kfor
l'80 pc del Pil è frutto di traffici: prostituzione, droga, sigarette);
poi c'è lo spettro del terrorismo che si aggira minaccioso sebbene la
penetrazione dell'Islam radicale non sia riuscita ancora a far breccia
nella popolazione. E ancora: il tasso di disoccupazione è al 70 per
cento; il comparto economico tira avanti grazie agli aiuti
internazionali e la convivenza tra la minoranza serba
cristiano-ortodossa (circa 200 mila persone) e l'etnia
kosovaro-albanese, musulmana (circa 2 milioni) al momento è solo un pio
intendimento senza appigli nel concreto.

A questo poco rassicurante quadro va aggiunta - per completezza di
cronaca - la debacle di quella 'road map' studiata per dotare il Kosovo
di standard europei. Il Ksip (Kosovo Standard Implementation Plan) di
fatto resta lettera morta per la quasi totalità degli obiettivi
prefissati. Così l'Onu -dopo i disordini del 18 marzo- ha deciso di far
slittare 'sine die' ogni decisione sullo status finale da assegnare
alla regione. In ballo c'è il tema dell'indipendenza da Belgrado
richiesto a gran voce dall'etnia albanese. Inizialmente era stata
fissata una data: il 2005, ma è chiaro che in queste circostanze sembra
irrealistico affrontare un nodo istituzionale così complesso e in un
contesto così instabile. Inoltre il Parlamento di Pristina non sarebbe
in grado di controllare politicamente del forze dell'Uck.

Dopo i fatti di marzo - 31 morti, 286 case bruciate, 30 monasteri
ortodossi incendiati, 600 civili feriti e 3 mila serbi costretti a
lasciare le proprie case - il capo dell'Unmik, Harri Holkeri si è
dimesso. A riprova del fallimento dell'Onu. Oggi come oggi in Kosovo
sono in pochi coloro disposti a difenderne l'operato. Persino il
partito di governo del Presidente Rugova, Ldk, dice: "non possiamo più
ingannare il nostro elettorato, poiché non ci sono più argomenti a
difesa dell'Unmik". Parole impensabili che fino a qualche tempo fa il
segretario del partito, l'autorevole Kol Berisha, non si sarebbe mai
sognato di pronunciare.

Paradossalmente, invece, arrivano nel giorno del quinto anniversario
della "liberazione di Pristina da parte della Nato". Nel suo studio,
tra la bandiera albanese, campeggiano due enormi fotografie, una in
compagnia di Magdalene Albright e l'altra di Bill Clinton. "Se non
arriverà l'indipendenza è chiaro che ci sarà un'altra guerra. Perché il
Kosovo indipendente, per noi albanesi, è tutta la nostra vita". Fino a
quanto siete disposti a pazientare? "Di sicuro non fino al 2020, né
tanto meno fino al 2010. Serve una decisione subito".

L'OMBRA DEL TERRORISMO - Sullo sfondo della regione si staglia torva
anche l'ombra del terrorismo. Finora la matrice dei disordini era
riconducibile all'eccessivo nazionalismo. Ma a molti questa versione
non convince più e solleva qualche dubbio. Fonti diplomatiche non
nascondono timori per la presenza sul territorio di importanti flussi
di denaro provenienti da fondazioni caritative arabe. Assai esplicito
uno dei più autorevoli islamismi dell'università di Belgrado, Dragan
Vimeunovic: "Attualmente non si può parlare di penetrazione vera e
propria dell'Islam radicale. Tuttavia esisterebbero altre connessioni,
di tipo logistico, tra il crimine kosovaro e possibili transiti di
cellule terroristiche islamiche". Una tesi che condivide anche padre
Janijc Sava del monastero di Dracanica: "Sono in molti a supporre che
l'Uck abbia avuto contatti con cellule di al Qaeda". E rincarando la
dose aggiunge: "in passato in Kosovo era presente la al Haramein
Foundation, associazione benefica saudita poi messa al bando. E anche
una fondazione chiamata Abu Bakr al Sadik che si dice operasse nella
zona di Mitrovica". Infine, Sava aggiunge un altro inquietante
tassello: "Non dimentichiamo che nel 1994 in Albania si è registrata la
presenza di bin Laden".

"Non più nazionalismo. Ora è anche un conflitto religioso". Padre Sava
ha idee ben chiare anche sui disordini che nel marzo scorso hanno messo
ferro e fuoco il Kosovo causando la morte di 31 persone, bruciato 286
case e distrutto 30 monasteri ortodossi. "Gli estremisti
kosovari-albanesi (di religione musulmana) hanno deliberatamente
cancellato simboli cristiani, rotto croci, dissacrato cimiteri,
bruciato icone, senza pensare che spesso erano opere d'arte. È stata
una azione deliberata che non può essere interpretata come un'azione
contro la minoranza serba solo perché serba. Ormai è chiaro. Era contro
la cultura cristiana" afferma il religioso in una intervista ad Apcom.
Poi, rivolgendo un appello all'Europa e a Prodi, aggiunge: "distruggere
le chiese è antieuropeo".

Cosa la induce a pensare di trovarsi di fronte ad uno scontro
religioso? "Fatti. Per esempio -replica padre Sava- la presenza davanti
alle moschee nuove, appena costruite, dell'insegna di una ong
proveniente dall'Arabia Saudita. Solo a Decani in questi due anni sono
sorte cinque nuove moschee. Su una di queste insegne si leggeva la
scritta Al Haramein, che se non ricordo male è una fondazione saudita
fantasma messa al bando poiché indirettamente collegata con al Qaeda.
Credo che questa fondazione sia stata espulsa successivamente anche
dalla Bosnia. Ma sappiamo che ci sono altre fondazioni che operano sul
territorio kosovaro. Non saprei dire quali sono. Una cosa mi pare però
certa: i finanziamenti arrivano".

Padre Sava racconta anche che alcuni militari gli hanno riferito del
ritrovamento di casse di armi e, tra le armi, libri del Corano. "Un
giorno fermarono un camion per un accertamento e dietro trovarono
quella merce. La fotografarono". Un altro episodio significativo è un
video girato durante i disordini del 17 marzo. "All'interno di una
chiesa, mentre si stava compiendo la devastazione, si intravede un uomo
che fa scempio di cose sacre con la barba lunga. È un particolare che
mi ha colpito. La barba lunga è un elemento della tradizione serba
ortodossa, ma mai di quella kosovara. Non si sono mai incontrati
albanesi con la barba lunga in passato. Perché ora?".

Cosa vede nel futuro dei cristiani di quella regione? "La mia
previsione è che i kosovari puntano ad un Kosovo indipendente e
totalmente dominato dai musulmani. A questo punto la presenza dei
cristiani non avrà più futuro".

L'ISLAM ALLA 'KOSOVARA' - Benché il 90 per cento della popolazione sia
musulmana, quello che c'è in Kosovo è un Islam assai blando, niente a
che fare con il rigido orientamento wahabita. Il capo dei 560 imam
della regione, Bajgora Sabri, 45 anni e una sola moglie ("qui nessuno
può aver più di una moglie, sarebbe impensabile") mette subito in
chiaro: "La religione è libera e non si può imporre. E noi siamo i
primi a vigilare affinché non si affermi un Islam che non ci
appartiene. [...] L'unica cosa che chiedo a tutti in moschea è di
rispettare le cinque preghiere quotidiane, il ramadan, l'elemosina,
l'unicità di Dio e di recarsi alla Mecca almeno una volta prima di
morire. Sul resto sono di manica larga...". Sabri racconta che vengono
fatti periodici controlli sulle associazioni benefiche saudite e sugli
studenti kosovari che si recano ogni anno a studiare nelle madrasse
arabe (circa 200 all'anno).

"Stiamo ben attenti a verificare che a questi ragazzi non venga
inculcata una predicazione troppo radicale". Intanto l'Islam cresce.
Nel 1999 in Kosovo si contavano 560 moschee, oggi ce ne sono 590.
Tenendo conto che con la guerra sono stati distrutti 218 edifici,
significa che nell'arco di cinque anni su un territorio vasto come il
Molise sono state costruite o ricostruite ben 248 moschee. "I
finanziamenti -aggiunge l'imam- arrivano da molti Paesi, anche l'Italia
ha contribuito a costruire l'antica moschea di Pec. A Iablanica la
moschea è stata rimessa a posto grazie all'aiuto della comunità ebraica
americana e della chiesa cattolica".

GENOCIDIO CULTURALE? - La distruzione di chiese e monasteri ortodossi
è stata definita da alcuni un 'genocidio culturale' perpetrato dagli
albanesi-kosovari per distruggere l'identità della minoranza serba
radicata nel cristianesimo. Ma anche un modo, assai sbrigativo, per
evitare il rientro dei profughi. Secondo alcuni diplomatici l'obiettivo
degli albanesi-kosovari è quello di gettare le basi per uno Stato
omogeneo dal punto di vista etnico e religioso. Si sta cercando poco
per volta di svuotare il Kosovo di serbi e di cancellare i loro luoghi
simbolici.. Come è accaduto per la chiesa di S.Giovanni Battista a
Samodreza, andata distrutta durante la guerra. Lì venivano benedetti i
cavalieri cristiani che nel XIV secolo andavano a combattere contro i
turchi. Di quella chiesa oggi non esiste più nulla, nemmeno una pietra,
solo un prato sul quale si divertono a giocare i bambini. Di 300 mila
profughi di guerra hanno fatto ritorno poche migliaia. Anche se rimane
obiettivo primario dell'Unmik riportarli a casa, purtroppo le
condizioni sono tali che nessuno pensa al rientro. La minoranza serba
(poco meno di 20 mila persone) da cinque anni vive reclusa in enclave,
senza poter uscire, controllata dai militari della Kfor che hanno il
compito di assicurare protezione. Non esiste il concetto di sicurezza,
non hanno accesso ai servizi più elementari.

Molte enclave in questi anni hanno cercato di rendersi autonome,
arrangiandosi. Lazic Dragisha, 45 anni, insegnante ed ex dirigente in
una azienda statale elettrica, vive nell'enclave di Priluzie, in tutto
3500 anime. Priluzje si trova a qualche chilometro da Obilic dove c'è
una centrale elettrica a carbone. Il fumo nero che esce dalle bocche
delle ciminiere si vede a chilometri di distanza. Da lì parte una
strada piccola, piena di buche, rettilinea che sembra finire nel nulla.
Ogni tanto si vede una mucca che l'attraversa. "Chi può se ne va e non
fa più ritorno - dice Draghisha. Gli altri campano come possono.
Cerchiamo di arrangiarci".

L'Unmik, al quale è stato affidato il protettorato del Kosovo, si era
posta il rientro entro il 2005 dei 300 mila profughi fuggiti durante la
guerra. Ad oggi ne sono rientrati solo poche migliaia anche se sono
state ricostruite per loro 58 mila case. "Possono pure costruite tutte
le case che vogliono, ma se non ci sono condizioni di vita normali,
come fanno rientrare -si chiede Draghisha- In questo villaggio viviamo
in segregazione, da cinque lunghi anni. Ho pensato più volte di
prendere la mia famiglia e andarmene.Ma dove vado? Io ho casa qui, qui
accanto ci abita il mio anziano padre, dunque: perché me ne devo
andare? Eppoi -aggiunge con sarcasmo- non avremmo nemmeno di documenti
in regola per farlo. L'Unmik, infatti, può solo rilasciarci dei 'travel
document' che molti paesi, tra cui l'Italia, non riconoscono".

La speranza di quest'uomo è riposta in un miracolo: poter assistere un
giorno alla coesistenza tra serbi e kosovari-albanesi, in uno stato
multietnico, con condizioni di vita migliori. "Ma se ci sarà
l'indipendenza del Kosovo, come vogliono gli albanesi, per noi serbi
non ci sarà futuro. Ormai è chiaro a tutti". Lazan Draghisha confessa
di sentirsi abbandonato: "l'Unmik ci doveva aiutare ma non vediamo
cambiamenti. Così come dovevano aiutarci la Kfor e il governo locale di
Pristina. L'Europa, invece, allarga il portafoglio ma fa finta di non
vedere e così idem per gli Stati Uniti. Credo che se non accadranno
altre cose a noi serbi non rimane che sperare in Belgrado. Ci rimane
solo quello".

LE ELEZIONI A OTTOBRE - Ad appesantire il clima ci sono le elezioni
fissate per il prossimo 23 ottobre. Per la seconda volta l'elettorato
sarà chiamato a rinnovare l'Assemblea. A dare del filo da torcere al
partito di maggioranza presieduto da Rugova, Ldk, che ora ha 47 seggi,
si sta imponendo all'attenzione della gente una nuova lista che si
chiama Aak, Alleanza Democratica che punta ad avere un esercito
nazionale e che si prepara ad una campagna elettorale di fortissima
critica contro l'Unmik. Nonostante il quadro complicato la situazione
almeno in superficie pare calma. Ma sono in molti a chiedersi se
reggerà fino al 2005.

ITALIANO IL PROSSIMO CAPO DELL'UNMIK? - Holkeri se n'è andato,
adducendo motivi di salute: di fatto spinto dal fallimento dell'Unmik.
Ora fervono in contatti tra i Paesi che formano il 'gruppo di contatto'
per individuare un sostituto. La scelta spetterà a Kofi Annan ma per
questo ruolo si ritorna a parlare di un italiano. E in questi giorni si
è fatto il nome anche di Stefano Sannino, diplomatico vicino a Prodi e
Staffan de Mistura. Accanto a loro il norvegese Kai Eide, il francese,
Alain le Roi, e il danese Pietre Feith. Fonti diplomatiche fanno sapere
che potrebbe spuntarla anche un italiano, ma dipende da quanto il
governo si impegnerà per sostenere una delle due candidature.

IL FUTURO - "La pacificazione arriverà, ma bisogna aspettare che
passino almeno due generazioni. Nel frattempo occorre agire su tre
direttrici: la politica di prossimità con la quale l'Ue disegna i
rapporti coi suoi futuri vicini; l'educazione dei kosovari e le
condizioni di sviluppo economico dell'area". Margherita Saulle, docente
di diritto internazionale alla Sapienza di Roma, non vede altre
scappatoie per uscire dal vicolo cieco del Kosovo. "Al momento lo
status finale resta irrisolto e non può essere diversamente".

Questa giurista è tra coloro che meglio conoscono la realtà balcanica
e le dinamiche del dopoguerra per avere vissuto 7 anni in Bosnia quale
presidente della Commissione internazionale istituita per studiare il
problema della restituzione dei beni immobili ai profughi ("finora
siamo riusciti a restituire 240 mila tra case e poderi, secondo lo
spirito degli accordi di Dayton").

"La società multietnica -aggiunge Saulle- è un concetto che abbiamo
noi ed ciò che immaginiamo per il presente e per il futuro del mondo.
Anche in Kosovo si arriverà a questo, ne sono certa, ma ci vorranno
almeno 20 anni. Non è solo per il fatto che lì c'è stata una guerra
civile interetnica. È anche per la mentalità, la gente è molto chiusa e
cruenta, di per sé poco portata a rapportarsi con l'esterno, poiché
vive da sempre in una dinamica di clan. In più c'è una specie di
coefficiente genetico che li porta ad attualizzare i torti subiti dal
proprio popolo anche sette secoli addietro. Sin da bambini pensano al
male che fu fatto ai loro avi nel medio evo. Va da sé che con una
dinamica di questo genere da questa spirale è difficile uscire".

Quanto al ritorno dei profughi, la giurista sottolinea che va avanti
con lentezza ma che "non può essere altrimenti. Durante la guerra,
infatti, sono stati bruciate tutte le mappe catastali, persino quelle
che risalivano a Maria Teresa D'Austria. È difficile ricostruire le
proprietà".

18 giugno 2004
Franca Giansoldati (Apcom)

Da: ICDSM Italia
A: i c d s m - i t a l i a @ y a h o o g r o u p s . c o m
Subject: [icdsm-italia] 50 Lawyers from 12 Countries
Appeal against Imposition of Counsel on Milosevic
Inviato: 29/07/2004 18:24


[ Una cinquantina di avvocati, giuristi ed esperti di diritto
internazionale hanno gia' sottoscritto questa lettera, indirizzata
al Segretario generale dell'ONU e ad altre altissime personalita'
internazionali: in essa si esprime viva preoccupazione per la
cinica manovra in atto all'Aia, dove le gravi condizioni di salute
di Milosevic -- per le quali la Corte non aveva mai preso seri
provvedimenti prima d'ora -- vengono adesso usate a
pretesto per imporre misure che ledono i diritti di autodifesa
dell' "imputato". In particolare, nei prossimi giorni la Corte
potrebbe formalmente imporre a Milosevic un "avvocato
d'ufficio" allo scopo di impedirgli di gestire in prima persona
la successiva fase dibattimentale.
In tale senso si e' espressa anche Carla Del Ponte, con una
formale richiesta, dimostrando cosi' lo sfacciato interesse
della "pubblica accusa" in questa manovra.
Chi volesse aggiungere la propria adesione alla lettera puo'
contattare l'Associazione "Sloboda" di Belgrado
(slobodavk@...) oppure telefonicamente:
Tiphaine Dickson (Montreal) +1 450 263 7974
Christopher Black (Toronto) + 1 416 928 6611
Ramsey Clark (New York) +1 212 475 3232
Vladimir Krsljanin (Belgrade) +381 63 886 2301 ]


Da: "Vladimir Krsljanin"
Data: Gio 29 Lug 2004 17:51:25 Europe/Rome
Oggetto: URGENT: 50 Lawyers from 12 Countries Appeal against
Imposition of Counsel on Milosevic

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P R E S S R E L E A S E 29 July 2004
***************************************************************

50 LAWYERS FROM 12 COUNTRIES APPEAL AGAINST THE
IMPOSITION OF COUNSEL ON SLOBODAN MILOSEVIC

Ramsey Clark (USA), Sergei Baburin (Vice-President of Russian Duma),
Jacques Verges (France), Professor Paech and Friedrich Wolf (Germany),
Jitendra Sharma (India) - President of the International Association of
Democratic Lawyers and Professors Avramov and Cavoski from Belgrade
among those convinced that the intention of the Hague Tribunal must be
prevented since it "threatens the future of International Law and the
life of the defendant".

A letter, signed by 50 distinguished jurists, law professors and
international criminal lawyers from 12 countries has been sent today to
UN Secretary General, Security Council and General Assembly, as
well as to the Hague Tribunal, which works under UN auspices. The
signers state that "the envisaged imposition of counsel constitutes
an egregious violation of internationally recognized judicial rights,
and will serve only to aggravate Mr Milosevic's life-threatening illness
and further discredit these proceedings." In their argument, the lawyers
who joined their signatures to this initiative only within last couple
of
days, refer to the International Covenant of Civil and Political Rights,
US Supreme Court decisions, the Statute of the Hague Tribunal and
"Rivonia trials" of Nelson Mandela.

The letter, drafted by the international criminal lawyers from Canada,
Tiphaine Dickson and Christopher Black, engaged also in the
International Committee to Defend Slobodan Milosevic, points as
well that the Tribunal avoids to consider properly the requests for
provisional release of Slobodan Milosevic on the basis of the state of
his health and violates his rights in a way which only contributes to
his
illness. The petition also warns against the announced "radical reform"
of the proceedings, which is supposed to bring "changes of the rules
in the mid-trial to the defendant's detriment".
The described behavior of the Tribunal is characterized as "perversion
of both the letter and spirit of international law", which "the United
Nations should not tolerate".

The petitioners call upon their colleagues from other countries to join
the petition in the coming days in the interest of justice and
International Law.

The full text of the petition with the complete list of signatures is
given below. It can be also seen on the web site www.icdsm.org
New signers can e-mail their data on slobodavk@...

For additional information or statements, media representatives are
free to contact by phone:
Tiphaine Dickson (Montreal) +1 450 263 7974
Christopher Black (Toronto) + 1 416 928 6611
Ramsey Clark (New York) +1 212 475 3232
Vladimir Krsljanin (Belgrade) +381 63 886 2301

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IMPOSITION OF COUNSEL ON SLOBODAN MILOSEVIC THREATENS
THE FUTURE OF INTERNATIONAL LAW AND THE LIFE OF THE
DEFENDANT

H.E. Mr. KOFI ANNAN, Secretary General of the United Nations,
H.E. Mr. JULIAN ROBERT HUNTE, President of 58th Session of the UN
General Assembly
Romanian (Russian) Presidency of the UN Security Council,
To all members of the UN Security Council, to all members of the UN
Cc: International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia

We the undersigned, jurists, law professors, and international criminal
lawyers, hereby declare our alarm and concern that the International
Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia (ICTY) is preparing the
imposition of counsel upon an unwilling accused, Slobodan Milosevic.

This apparently punitive measure is contrary to international law,
incompatible with the adversarial system of criminal justice adopted by
the Security Council in Resolution 808, and ignores the court's
obligation to provide adequate medical care and provisional release
to the defendant. The ICTY, instead of taking appropriate measures
to alleviate Slobodan Milosevic's long-standing medical problems,
has compounded them. The ICTY has ignored repeated requests
for provisional release, to which everyone presumed innocent is
entitled, has imposed unrealistically short preparation periods on
the defence, and has permitted the introduction of an inordinate
quantity of Prosecution evidence, much of which was bereft of probative
value, thereby increasing Mr. Milosevic's level of stress, the principal
trigger of his illness. Chamber III has been informed of this by their
chosen cardiologist. The defendant has been denied examination by his
own physician, a further violation of his rights..

Now, having brought about the very degradation of President Milosevic's
health of which it had been warned, the ICTY seeks to impose counsel
upon him over his objections, rather than granting him provisional
release in order to receive adequate and proper medical care, a
reasonable measure reflected in domestic and international law and
practice. The envisaged imposition of counsel constitutes an
egregious violation of internationally recognized judicial rights, and
will serve only to aggravate Mr Milosevic's life-threatening illness
and further discredit these proceedings.

The right to defend oneself against criminal charges is central in both
international law and in the very structure of the adversarial system.
The fundamental, minimum rights provided to a defendant under
the Rome Statute of the International Criminal Court, as well as
the under the Statutes of the International Criminal Tribunals for
Rwanda and Yugoslavia, include the right to defend oneself
in person. The general economy of these provisions
all envisage the reality that rights are afforded to an accused, not
to a lawyer. The right afforded is to represent oneself against
charges brought by the Prosecution and subsidiary to this, to
receive the assistance of counsel, if an accused expresses the
wish to receive such assistance. However, if, as Slobodan
Milosevic, a defendant unequivocally expresses his
objection to representation by counsel, his right to represent himself
supercedes a court's or prosecutor's preference for assigning defence
counsel. As stated by the U.S. Supreme Court, with respect to the Sixth
Amendment of the Bill of Rights, which bears a striking similarity to
Article 21 of the ICTY Statute:

"It speaks of the 'assistance' of counsel, and an assistant, however
expert, is still an assistant. The language and spirit of the Sixth
Amendment contemplate that counsel, like the other defense
tools guaranteed by the Amendment, shall be an aid to a willing
defendant - not an organ of the State interposed between an
unwilling defendant and his right to defend himself personally.
To thrust counsel upon the accused, against his considered wish,
thus violates the logic of the Amendment. In such a case,
counsel is not an assistant, but a master; and the right to make a
defense is stripped of the personal character upon which the
Amendment insists."
Faretta v.California, 422 U.S. 806 (1975)

The ICTY Statute (as well as ICTR and ICC Statutes) similarly grant
"defence tools," such as the right to be represented by counsel, or
the right for counsel to be provided free of charge, if the accused
is indigent. The essence of the right to represent oneself is defeated
when the right to counsel becomes an obligation. As stated in
Farretta, supra:

"An unwanted counsel 'represents' the defendant only through a tenuous
and unacceptable legal fiction. Unless the accused has acquiesced in
such representation, the defense presented is not the defense
guaranteed him by the Constitution, for, in a very real sense, it is not
his defense."
Id.

Nor would the defence of Slobodan Milosevic be the defence guaranteed
him under international law, were he to have counsel imposed
upon him against his will.

The ICTY's general structure is that of an adversarial system of
criminal justice. Other legal influences have been integrated to
the Rules of Procedure and Evidence, but the nature of the
proceedings, which involve a prosecutor and defendant, as
parties, presenting evidence before a panel whose function is
that of arbiter, is unquestionably of an adversarial nature. In the
adversarial system, history has eloquently illustrated that
imposition of counsel on an unwilling accused is the practice of
political courts, and does not have its place in a democratic system
of justice, much less before an institution that will generate
precedent for a truly legitimate international criminal jurisdiction,
whose establishment has been the fruit of half a century of struggle:

"In the long history of British criminal jurisprudence, there was only
one tribunal that ever adopted a practice of forcing counsel
upon an unwilling defendant in a criminal proceeding. The tribunal
was the Star Chamber. That curious institution, which flourished
in the late 16th and early 17th centuries, was of mixed executive
and judicial character, and characteristically departed from
common-law traditions. For those reasons, and because it
specialized in trying 'political' offenses, the Star Chamber
has for centuries symbolized disregard of basic individual rights."
Faretta, Id.

Recently, the ICTY has ordered the Prosecutor, and only the
Prosecutor, to provide an opinion with respect to the imposition
of counsel in the absence of instructions or cooperation from
Mr. Milosevic. The Chamber has repeatedly referred to its
obligation to carry out a fair trial, and held, when it acknowledged
the right to self-representation in April 2003, that it
"has indeed an obligation to ensure that a trial is fair and
expeditious; moreover, where the health of the Accused is in
issue, that obligation takes on special significance." Article 21 of
the ICTY's Statute states that the Chamber must exercise this
obligation "with full respect for the rights of the accused." However,
expediency has become, as the defendant is set to present
essential and potentially embarrassing evidence, the Chamber's
apparently overwhelming concern.

Imposition of counsel, even "standby counsel", as appears to be
presently envisaged by the ICTY, will not alleviate any of the
difficulties facing the process: it will not treat, much less cure,
Slobodan Milosevic's malignant hypertension; it will not provide
the defendant with the time and conditions to prepare his case; it
will not redress the gross imbalance in the resources accorded
the Prosecutor and the defence, a redress required by the
principle of equality of arms, which the Court professes to recognize.
If counsel is imposed, Slobodan Milosevic's basic right to
represent himself will be violated, and he will still have only 150
days to present his defence, only half of the time allotted to the
Prosecution.

It is presently unclear what role an imposed counsel would play.
Whatever it may be, it is certain that there is no benefit to be gained
from going forward with this unprecedented measure. The ICTY
Statute provides the minimum right to be present for one's trial.
If Slobodan Milosevic's medical condition does not permit him to
attend the proceedings, and he does not waive his right to be
present, the ICTY does not have the jurisdiction to
hold hearings in his absence. Adjournments will continue as long as
measures are not taken to treat Mr. Milosevic's malignant
hypertension, a condition that cannot be treated by further violating
his rights, threatening to remove him from the process, or by
transferring his defence to a complete stranger.

The ICTY assigned three counsel to act as amicus curiae, and whose
stated role is to ensure, inter alia, a fair trial. It is doubtful an
imposed
counsel, even a "standby counsel" could provide any additional
assistance, without hijacking President Milosevic's defence, or
simply silencing him.
Furthermore, any reference to precedent with respect to the imposition
of standby counsel is inapposite. In the case of Dr Seselj, "standby
counsel" has been imposed, before the beginning of a trial, and
to prevent "disruption" of the proceedings.

President Slobodan Milosevic does not recognize the ICTY. He asserts
his innocence, and steadfastly criticizes the ICTY and NATO. He is
innocent until proven otherwise, and has every right to oppose the
legitimacy of this institution. By imposing counsel, the ICTY would
not only violate his right to self-representation, but his right to
present relevant evidence demonstrating the repeated violations
of Yugoslavia's sovereignty over a decade. These violations led
to NATO's illegal war of aggression against and bombing of
Yugoslavia - at the very height of which an indictment against
Slobodan Milosevic was confirmed by the ICTY - in a transparent bid to
deprive the Yugoslav people of a voice to negotiate peace and in order
to justify the continuation of that war of aggression.

The trial of Slobodan Milosevic before the ICTY has been adjourned until
August 31st, 2004. The Prosecutor has presented 295 witnesses in as many
days, all of which have been cross-examined by the defendant in person,
as he does not recognize the ICTY as a judicial body, and signals this
non-recognition by refusing to assign counsel. Slobodan Milosevic is a
law school graduate, was three times elected to the highest state
offices
of Serbia and Yugoslavia, and has by all accounts ably contested the
Prosecution's case. There is no question as to his mental fitness and
ability to waive his right to counsel. The ICTY may not enjoy President
Milosevic's criticism. Nonetheless, the public benefits of respecting
his right to self-representation far outweigh whatever embarrassment
might be visited upon the ICTY. Justice demands that Slobodan
Milosevic be given the right to demonstrate that the Security Council
institution detaining him is a political weapon against the sovereignty
and self-determination of the people of Serbia and all the peoples
of Yugoslavia.

Nelson Mandela represented himself during the infamous Rivonia trials
of the 1960s. Mandela mounted a political defence against apartheid,
yet even the South African judiciary did not impose counsel to
silence him. The ICTY is poised to threaten the future of international
law by doing what even apartheid-era judges dared not do - gag a
defendant and impair his ability to respond to a case. A case, we
note, made unwieldy, unintelligible and inexplicably lengthy by
the Prosecutor, with the Chamber's assent, and not
by Slobodan Milosevic. Indeed, most observers of the process have noted
that the Prosecutor failed to present compelling evidence to support
any of their charges; rather than stay the proceedings, the ICTY
permitted the Prosecutor to present additional witnesses, in
apparent desperation to make something stick.

The right to defend oneself in person is at the heart of the
International Covenant for Civil and Political Rights. The United
Nations should not tolerate these continuing violations of international
law in the name of expediency. Using a detained person's
inappropriately treated illness as an excuse to infringe upon his
rights and silence him, and embark upon a "radical reform"
of the proceedings-- as the Chamber is now considering, by
changing the rules in mid-trial, and to the defendant's detriment-- is a
perversion of both the letter and spirit of international law.

As jurists, we are deeply concerned that the planned imposition of
counsel constitutes an irrevocable precedent, and potentially deprives
any accused person of the right to present a meaningful defence
in the future. In the case of Slobodan Milosevic, this measure will
only increase his hypertension and place his life at risk.

The ICTY and Security Council will be held responsible for the
tragically predictable consequences of their actions.

Signed:

Tiphaine Dickson, Lawyer, Montreal, Quebec, Canada

Christopher Black, Lawyer, Toronto, Canada


Professor Smilja Avramov (Former President, International Law
Association), Belgrade, Serbia and Montenegro

Sergei Baburin, Doctor of Law, Professor, (Vice-President, State Duma
of the Federal Assembly of the Russian Federation), Moscow,
Russian Federation

Nicole Bergevin, Lawyer, Montreal, Quebec

Professor Aldo Bernardini, International Law, University of Teramo,
Italy

Professor Erich Buchholz, Lawyer, Berlin, Germany

Professor Kosta Cavoski, University of Belgrade, Belgrade, Serbia and
Montenegro

Professor Panayotis G. Charitos, LLD, International Law, Supreme Court
Attorney, Greece

Ramsey Clark, Former US Attorney General, New York, USA

Goran Cvetic, Lawyer, Belgrade, Serbia and Montenegro

Trendafil Danailov, Lawyer, (Former President, Sofia District Court),
Sofia, Bulgaria

Bjørn Elmquist, Lawyer, (Former MP), Copenhagen, Denmark

Professor Peter Erlinder, (past-President, National Lawyers Guild, NYC),
William Mitchell College of Law, St. Paul, MN, USA

Armin Fiand, Lawyer, Hamburg, Germany

Jeff Frazier, Lawyer, Houston, Texas, USA

Dr Mikhail Fomichenko, (Head, Center for Human Rights and Legal
Protection), Moscow, Russian Federation

Sergei Glotov, Doctor of Law, Professor, (Deputy President, Commission
on Administrative and Organizational Issues of the State Duma),
Moscow, Russian Federation

Dr Heinrich Hannover, Lawyer, Worpswede, Germany

Professor Yuri Ilyin, Lawyer, Moscow, Russian Federation

Viktor Ilyuchin, State Counselor of Justice of II Order, (Deputy
President, Commission for Security of the State Duma), Moscow,
Russian Federation

Strahinja Kastratovic, Lawyer, (Former President, Lawyers' Chamber of
Belgrade), Belgrade, Serbia and Montenegro

Professor Mikhail Kuznecov, Lawyer, (President, Tribunal for NATO
Crimes in Yugoslavia), Moscow, Russian Federation

Jennie Lusk, J.D., Lawyer, Albuquerque, New Mexico, USA

Mikhail Menev, Lawyer, (Former President, Sofia City Court), Sofia,
Bulgaria

Dr Alexander Mezyaev, International Law, (Deputy Head, Department of
Constitutional and International Law, Academy of Busyness, Kazan';
Member, Russian International Law Association; Member, Experts'
Council of the Ombudsman of the Republic of Tatarstan), Kazan',
Tatarstan, Russian Federation

Professor Dimitar Mikhailov, Criminal Law, (Former Member, UN Committee
Against Torture), Sofia, Bulgaria

Oksana Mikhalkina, Lawyer (President, Moscow Lawyers' Association),
Moscow, Russian Federation

Oleg Mironov, Doctor of Law, Professor, (Director, Institute for Human
Rights), Moscow, Russian Federation

Professor Claudio Moffa, Ordinario, University of Teramo, Italy

E. Olof, Lawyer, Zeist, Netherlands

H.E. Schmitt-Lermann, Lawyer, Munich, Germany

Professor Norman Paech, University for Econonomy and Politics, Hamburg,
Germany

Dmitrij Potockij, Lawyer, Moscow, Russian Federation

Professor Enyo Savov, International Law, Sofia, Bulgaria

Dr Heinz Juergen Schneider, Lawyer, Hamburg, Germany

Elena Semenovna, Lawyer, Moscow, Russian Federation

David K. Sergi, Lawyer, San Marcos, Texas, USA

Jitendra Sharma, Senior Advocate, Supreme Court of India (President,
International Association of Democratic Lawyers)

Dr Taras Shamba, Moscow, Russian Federation

Sergei Shtin, Lawyer, Moscow, Russian Federation

Valentina Shtraus, Lawyer, Rostov, Russian Federation

Professor Bhim Singh, Advocate, Supreme Court of India (President,
National Panthers Party)

N.M.P. Steijnen, Lawyer, Zeist, Netherlands

L.P.H. Stibru, Lawyer, Zeist, Netherlands

Dr Milan Tepavac, International Law, Belgrade, Serbia and Montenegro

Professor Andre Tremblay, Lawyer, Montreal, Quebec, Canada

Professor Velko Valkanov, (President, Bulgarian Committee for Human
Rights, Former MP), Sofia, Bulgaria

Jacques Verges, Advocate at the Court of Appeal, Paris, France

Dr Friedrich Wolff, Lawyer, Berlin, Germany

Professor Ivan Yatsenko (Vice-President, European Peace Forum), Moscow,
Russian Federation

****************************************************************

SLOBODA urgently needs your donation.
Please find the detailed instructions at:
http://www.sloboda.org.yu/pomoc.htm

To join or help this struggle, visit:
http://www.sloboda.org.yu/ (Sloboda/Freedom association)
http://www.icdsm.org/ (the international committee to defend Slobodan
Milosevic)
http://www.free-slobo.de/ (German section of ICDSM)
http://www.icdsm-us.org/ (US section of ICDSM)
http://www.icdsmireland.org/ (ICDSM Ireland)
http://www.pasti.org/milodif.htm (ICDSM Italy)
http://www.wpc-in.org/ (world peace council)
http://www.geocities.com/b_antinato/ (Balkan antiNATO center)



==========================
ICDSM - Sezione Italiana
c/o GAMADI, Via L. Da Vinci 27
00043 Ciampino (Roma)
tel/fax +39-06-4828957
email: icdsm-italia @ libero.it

Conto Corrente Postale numero 86557006
intestato ad Adolfo Amoroso, ROMA
causale: DIFESA MILOSEVIC

sito internet:
http://www.pasti.org/linkmilo.htm

"Commissariamento globale e preventivo"
nel PRC in vista del Congresso

3: CAPRI ESPIATORI


3a. Comunicato stampa di Claudio Grassi
3b. Comunicato stampa di Bianca Bracci Torsi ed altri
3c. Come far fuori Nunzio D’Erme, Nichi Vendola e dar la colpa a
Beatrice
Giavazzi. Piccolo manuale per il prossimo congresso, di Gianni Favaro

... e la discussione prosegue su Indymedia:
http://italy.indymedia.org/news/2004/07/592765_comment.php#593006


=== 3a ===


Partito della Rifondazione Comunista
Direzione Nazionale

COMUNICATO STAMPA DI CLAUDIO GRASSI
(SEGRETERIA NAZIONALE P.R.C.)

Rifondazione Comunista ha ormai imboccato la strada dei commissariamenti
e degli interventi burocratici e autoritari tesi a colpire le
espressioni di dissenso che si sono manifestate in questi anni
all’interno della maggioranza del partito.

Dopo aver commissariato, 15 giorni fa, l’intera regione Calabria dove il
segretario regionale era espressione dell’Area de l’Ernesto, oggi la
Segreteria nazionale, a maggioranza (voto contrario di Claudio Grassi)
ha deciso di colpire il Dipartimento Enti Locali guidato, guarda caso,
da Gianluigi Pegolo, anch’egli rappresentante di spicco dell’Area de
l’Ernesto.

Le motivazioni di questo provvedimento, che consiste nel togliere
l’Ufficio Elettorale dal Dipartimento Enti Locali per passarlo
all’Organizzazione, sono legate alla mancata elezione di Nichi Vendola
al Parlamento Europeo.

Peccato che l’Ufficio Elettorale non abbia alcuna responsabilità di
questo! Si è voluto costruire e cercare un capro espiatorio. Infatti
mai, da quando esiste Rifondazione Comunista, la scelta di opzione in un
collegio o in un altro di Fausto Bertinotti, o di altri dirigenti del
partito, è stata effettuata dall’Ufficio Elettorale.

Siamo di fronte, quindi, ad un nuovo provvedimento contro il pluralismo
interno, che assume una valenza ancora più grave poiché viene attuata,
così come per il commissariamento della Calabria, a Congresso avviato.

Probabilmente si pensa di fermare con queste modalità il processo di
crescita e di consenso intorno alle posizioni politiche espresse
dall’Area de l’Ernesto. In questi ultimi due anni, infatti, la
componente che allo scorso congresso presentò gli emendamenti, si è
rafforzata, come ha dimostrato anche lo straordinario successo della
Festa nazionale de l’Ernesto conclusasi domenica scorsa a Cantiano.

Con i provvedimenti, come quello preso oggi a maggioranza dalla
Segreteria nazionale, la democrazia, la partecipazione, il rispetto del
pluralismo interno vengono purtroppo sempre più calpestate da un modo di
procedere burocratico e maggioritario.

Claudio Grassi (Segreteria nazionale PRC)

Roma, 27 luglio 2004


=== 3b ===


COMUNICATO STAMPA

In riferimento al comunicato stampa del 27 luglio scorso a firma di
Claudio Grassi, membro della Segreteria nazionale del Prc, si informa
che i firmatari del presente comunicato, in sintonia con le
preoccupazioni di una parte consistente del partito romano in ordine
allo stato del partito stesso e alla sua democrazia interna, si sono
recati oggi presso la Direzione Nazionale del Prc per chiedere un
urgente incontro alla Segreteria e per consegnare la seguente lettera:

Care compagne, cari compagni,

apprendiamo esterrefatti della decisione assunta a maggioranza (con il
voto contrario di Claudio Grassi) dalla Segreteria nazionale in merito
alla vicenda che ha visto inopinatamente rimesso in questione l’incarico
di deputato europeo del compagno Nichi Vendola.
La responsabilità di tale grave infortunio è stata attribuita
all’Ufficio elettorale e, quindi, alla compagna Beatrice Giavazzi (unica
componente di detto ufficio): conseguentemente, si è deciso di
trasferire l’Ufficio elettorale dal dipartimento Enti Locali a quello
dell’Organizzazione.
Riteniamo tale decisione profondamente ingiusta. Sappiamo che la
comunicazione formale dell’opzione dei compagni eletti in più collegi
elettorali non è sin qui mai stata compito dell’Ufficio elettorale
medesimo. Inoltre conosciamo bene la compagna Beatrice: senza un filo di
retorica, possiamo dire che il suddetto provvedimento di fatto penalizza
una compagna splendida, che – nella totale solitudine in cui in questi
mesi è stato lasciato l’ufficio in questione – ha dato con abnegazione
un contributo unico di esperienza e competenza per il bene e il successo
del nostro partito. Vediamo dunque in tale decisione l’ennesima e più
sconcertante pagina nera nell’ambito della dialettica interna al
partito.
Anche per assicurare al percorso congressuale un clima consono allo
sviluppo di una libera discussione, nell’auspicare un ripensamento che
includa una giusta valutazione dei fatti e delle persone coinvolte,
chiediamo urgentemente un incontro con i membri della Segreteria
nazionale.

Saluti comunisti

Bianca Bracci Torsi
Rosanna Palomba
Mauro Belisario
Bruno Steri
Daniela Cortese
Emilio Zanetti Chini
Gualtiero Alunni
Massimo Cola
Franco Vanni
Franco Pallone
Vincenzo Di Brango
Alba Paolini
Tina Costa
Luca Fontana
Manuela Ausilio
Giovanni Barbera
Silvia De Bianchi
Luca Placidi
Clelia Forgnone
Renato Caputo
Roberto Fucci
Giorgio Montesi
Francesco Cori
Franco Forconi
Domenico Farina
Romolo Moreschi
Angelo Cavalli
Franco Guerra
Claudio Di Cesare
Massimiliano Ortu
Valentina Steri
Giovanni Ammendola
Nicola Porcelli

... e tanti altri

(si tratta di segretari di circolo, consiglieri, assessori, giovani del
PRC e del presidente dell'Associazione Italia-Cuba di Roma di Roma)

Roma, 28 luglio 2004


=== 3c ===


Come far fuori Nunzio D’Erme, Nichi Vendola e dar la colpa a Beatrice
Giavazzi. Piccolo manuale per il prossimo congresso.

Regola n° 1 bisogna avere un autorevolissimo segretario nazionale con
almeno sei persone (tra segretari e ufficio stampa) alla sede della
direzione nazionale, un imprecisato numero di altre persone tra uffici
della camera dei deputati e del parlamento europeo che lo seguono, ne
curano l’immagine e sbrigano tutte sue incombenze amministrative.

Regola n° 2 bisogna avere un dipartimento enti locali diretto da un
dirigente, ex membro della segreteria nazionale, critico verso la linea
del segretario (area Grassi), meglio se ha ottenuto un buon risultato
alle ultime elezioni amministrative.

Regola n° 3 serve una impiegata del dipartimento enti locali che da anni
si occupa (stimata e apprezzata da tutti) anche dell’ufficio elettorale.
Bisogna però lasciarla sola durante tutta la campagna elettorale e
negarle anche i mezzi (ad esempio il fax ) per poter garantire il lavoro
minimo.

Regola n°4 si convoca una segreteria nazionale e si incolpa, a
maggioranza, la povera Giavazzi di non aver pensato che gli innumerevoli
collaboratori e lo stesso segretario, improvvisamente e stranamente
colti da amnesia, non si sono ricordati di far optare Bertinotti (com’è
sempre stato in passato) per una delle circoscrizioni in cui è stato
eletto, in questo caso quella delle Isole come deciso dalla stessa
segreteria diversi giorni prima. Ovviamente non bisogna far sapere che:
- le lettere di nomina a parlamentare europeo sono arrivate
personalmente al segretario e non all’ufficio elettorale.
- Le lettere arrivate ai rappresentanti della lista nelle
circoscrizioni o sono sparite o non sono state trasmesse a Roma
- Quando hanno discusso in segreteria del caso D’Erme/ Vendola e
si è scelta la circoscrizione Isole nessuno ha pensato che bisognasse
optare, nemmeno il segretario che lo fa oramai da anni.

Seguendo queste semplici regole si possono ottenere simultaneamente
diversi risultati positivi:
a) Si evita di far fare un figuraccia al segretario smemorato
b) Si scarica su un’area interna critica la responsabilità del
pasticcio, sempre creato dal segretario, sul caso D’Erme e disobbedienti
c) Si scarica sull’ufficio elettorale la figuraccia fatta dal
segretario nei confronti del povero Nichi Vendola.
d) Si colpisce un dipartimento che da fastidio.
e) Si scredita una compagna molto stimata e ascoltata dal partito
che ha anche lei una posizione critica.

Gianni Favaro
Direzione PRC

http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=3269


Uranio Impoverito: tutto da rifare

Nel 2001 l'indagine Mandelli negò una relazione certa tra linfoma di
Hodgkin e uranio. Conclusioni criticate, messe in dubbio persino da ex
membri della Commissione. Ora il direttore generale della Sanità
militare annuncia un altro studio epidemiologico

(28/07/2004)
Un articolo tratto da "La Nuova Ecologia"


Il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che è anche capo
delle forze armate, intervenga sul caso dei militari italiani esposti
all'uranio impoverito. Lo chiede il presidente dell'Associazione
italiana assistenza vittime arruolati nelle forze armate (Anavafaf),
Falco Accame.

Un altro militare, fa sapere Accame, è morto per linfoma di Hodgkin. Si
tratta di Fabio Porru di Cagliari e il fatto, prosegue il presidente
dell'Anavafaf, «si è saputo al solito casualmente, dal padre nel corso
di un convegno, mentre si tratta di dati che il Ministero della Difesa
dovrebbe comunicare alle Commissioni parlamentari della Difesa.
Finalmente - ha proseguito - dopo le errate valutazioni espresse a
seguito della Relazione Mandelli, nella quale si dava per certo che
l'uranio impoverito non presentasse pericoli, sta emergendo la verità:
la Relazione era affetta da gravissimi errori di calcolo, solo in
piccola parte evitati nelle relazioni successive». Ora, ha aggiunto,
«vista l'indifferenza delle istituzioni, è necessario che intervenga
direttamente il capo dello Stato».

A poche ore dalle dichiarazioni di Accame, il direttore generale della
Sanità militare, generale Michele Buonvito, nel corso di un'audizione
alla commissione Difesa della Camera ha reso noto che a cominciare dal
prossimo agosto partirà uno studio epidemiologico sull'uranio
impoverito promosso dalla stessa Sanità militare. I primi risultati ci
saranno dopo 18 mesi e cioè all'inizio del 2006. Mille militari
italiani impegnati in missioni all'estero saranno monitorati nel tempo
per avere, in meno di 10 anni, una risposta «inequivocabile» sui
possibili legami tra esposizione all'uranio impoverito e aumento
dell'incidenza dei tumori. L'iniziativa, ha detto il generale,
«rappresenta la logica conclusione dei tanti sforzi sin qui posti in
essere dalla Difesa per cercare di sgomberare il campo dai dubbi sul
tema dei rischi per la salute legati ai vari teatri operativi».

Lo studio si propone di valutare la presenza di esposizione a uranio
impoverito; evidenziare la presenza di esposizione non previste a
sostanze cancerogene; stimare il rischio di tumore in funzione della
variazione della frequenza delle sostanze tossiche studiate. La
principale innovazione di questo studio, ha proseguito il direttore
della Sanità militare, «consiste nella caratteristica prospettica e
seriale della ricerca, in base alla quale per ogni militare sottoposto
alle indagini è prevista l'analisi di campioni di urine prelevati prima
e al termine dell'impiego in area di operazione». Tra le ipotesi da
verificare quella sostenuta da Antonietta Morena Gatti dell'Università
di Modena, che avendo rinvenuto delle nanoparticelle di elementi
metallici in campioni bioptici di militari italiani affetti da
patologie tumorali, reduci da aree balcaniche, ha supposto che
potessero derivare da inalazione o ingestione di polveri fini. Queste
polveri, che possono risultare dall'impatto dei dardi contenenti uranio
impoverito contro obiettivi «duri», sarebbero in grado secondo la
studiosa di innescare, se inalati o ingeriti, un processo neoplastico.

Lo studio è basato sull'adesione volontaria e ciò comporta la necessità
di avviare iniziative di informazione preliminari, in modo da
raccogliere il consenso alla partecipazione. Questa, secondo il
generale, «rappresenta l'unica via in grado di raggiungere un'ottima
sensibilità nei sottogruppi di soldati potenzialmente esposti a vari
agenti genotossici ed evidenziare, in un ragionevolmente breve
intervallo di anni, l'esistenza di importanti incrementi nel rischio di
tumore».


Vedi dal nostro archivio [ http://www.osservatoriobalcani.org ] :

- Uranio impoverito: animali con otto zampe

- Morire di Zastava

- Uranio impoverito: la guerra infinita

- Uranio impoverito: si faccia chiarezza

- Ancora veleno radioattivo nel distretto di Pcinj

- Uranio impoverito alla ribalta della RAI

- Sindrome dei Balcani? Accordo governo - regioni per il monitoraggio

- Uranio impoverito in BiH

- Sud Serbia: radiazioni nell’aria

- Le Nazioni Unite trovano tracce di uranio impoverito in FRY

- Uranio impoverito: tra silenzi, morti sospette e nuove ricerche

- La realtà delle armi all'uranio impoverito

- Montenegro: la bonifica di Punta Arza, contaminata dall’uranio
impoverito


» Fonte: © Osservatorio sui Balcani

[ "C'erano solo due ragioni credibili per invadere l'Iraq: il controllo
del petrolio e la difesa del dollaro..." Lo scrive John Chapman sul
Guardian. E specifica: la "vera colpa" di Saddam e' stata quella di
aver proposto, pochi anni fa, che il suo petrolio venisse pagato in
euro.
Tutti lo sanno, tranne il pubblico italiano: il petrolio oramai
scarseggia (siamo attorno al "picco di estrazione"), percio' e' sempre
piu' strategico: e' di ieri il superamento della soglia-record di 42
dollari al barile! E, di fatto, il valore del dollaro e' oggi fissato
solo dalla violenza militare, poiche' esso non corrisponde piu',
nemmeno alla lontana, all'effettivo stato dell'economia degli USA (vedi
il loro vertiginoso deficit).
Come nascondere questa semplice, devastante realta'?
Beh, per esempio inventandosi le "armi di distruzione di massa di
Saddam", come ha fatto Blair, oppure evocando la "spirale
guerra-terrorismo", come fa Bertinotti... (a cura di I. Slavo) ]


The real reasons Bush went to war

WMD was the rationale for invading Iraq. But what was really driving
the US were fears over oil and the future of the dollar

John Chapman

Wednesday July 28, 2004
The Guardian

There were only two credible reasons for invading Iraq: control over
oil and preservation of the dollar as the world's reserve currency. Yet
the government has kept silent on these factors, instead treating us to
the intriguing distractions of the Hutton and Butler reports.

Butler's overall finding of a "group think" failure was pure charity.
Absurdities like the 45-minute claim were adopted by high-level
officials and ministers because those concerned recognised the
substantial reason for war - oil. WMD provided only the bureaucratic
argument: the real reason was that Iraq was swimming in oil.

Some may still believe the eve-of-war contention by Donald Rumsfeld
that "We won't take forces and go around the world and try to take
other people's oil ... That's not how democracies operate." Maybe
others will go along with Blair's post-war contention: "There is no way
whatsoever, if oil were the issue, that it would not have been
infinitely easier to cut a deal with Saddam."

But senior civil servants are not so naive. On the eve of the Butler
report, I attended the 40th anniversary of the Mandarins cricket club.
I was taken aside by a knighted civil servant to discuss my contention
in a Guardian article earlier this year that Sir Humphrey was no longer
independent. I had then attacked the deceits in the WMD report, and
this impressive official and I discussed the geopolitical issues of
Iraq and Saudi Arabia, and US unwillingness to build nuclear power
stations and curb petrol consumption, rather than go to war.

Saddam controlled a country at the centre of the Gulf, a region with a
quarter of world oil production in 2003, and containing more than 60%
of the world's known reserves. With 115bn barrels of oil reserves, and
perhaps as much again in the 90% of the country not yet explored, Iraq
has capacity second only to Saudi Arabia. The US, in contrast, is the
world's largest net importer of oil. Last year the US Department of
Energy forecast that imports will cover 70% of domestic demand by 2025.

By invading Iraq, Bush has taken over the Iraqi oil fields, and
persuaded the UN to lift production limits imposed after the Kuwait
war. Production may rise to 3m barrels a day by year end, about double
2002 levels. More oil should bring down Opec-led prices, and if Iraqi
oil production rose to 6m barrels a day, Bush could even attack the
Opec oil-pricing cartel.

Control over Iraqi oil should improve security of supplies to the US,
and possibly the UK, with the development and exploration contracts
between Saddam and China, France, India, Indonesia and Russia being set
aside in favour of US and possibly British companies. And a US military
presence in Iraq is an insurance policy against any extremists in Iran
and Saudi Arabia.

Overseeing Iraqi oil supplies, and maybe soon supplies from other Gulf
countries, would enable the US to use oil as power. In 1990, the then
oil man, Dick Cheney, wrote that: "Whoever controls the flow of Persian
Gulf oil has a stranglehold not only on our economy but also on the
other countries of the world as well."

In the 70s, the US agreed with Saudi Arabia that Opec oil should be
traded in dollars. American governments have since been able to print
dollars to cover huge trading deficits, with the further benefit of
those dollars being placed in the US money markets. In return, the US
allowed the Opec countries to operate a production and pricing cartel.

Over the past 15 years, the overall US deficit with the rest of the
world has risen to $2,700bn - an abuse of its privileged currency
position. Although about 80% of foreign exchange and half of world
trade is in dollars, the euro provides a realistic alternative. Euro
countries also have a bigger share of world trade, and of trade with
Opec countries, than the US.

In 1999, Iran mooted pricing its oil in euros, and in late 2000 Saddam
made the switch for Iraqi oil. In early 2002 Bush placed Iran and Iraq
in the axis of evil. If the other Opec countries had followed Saddam's
move to euros, the consequences for Bush could have been huge.
Worldwide switches out of the dollar, on top of the already huge
deficit, would have led to a plummeting dollar, a runaway from US
markets and dramatic upheavals in the US.

Bush had many reasons to invade Iraq, but why did Blair join him? He
might have squared his conscience by looking at UK oil prospects. In
1968, when North Sea oil was in its infancy, as private secretary to
the minister of power I wrote a report on oil policy, advocating
changes like the setting up of a British national oil company (as was
done). My proposals found little favour with the BP/Shell-supporting
officials, but Richard Marsh, the then minister, pressed them and the
petroleum division was expanded into an operations division and a
planning division.

Sadly, when I was promoted out of private office the free-trading
petroleum officials conspired to block my posting to the planning
division, where I would surely have advocated a prudent exploitation of
North Sea resources to reduce our dependence on the likes of Iraq. UK
North Sea oil output peaked in 1999, and has since fallen by one-sixth.
Exports now barely cover imports, and we shall shortly be a net oil
importer. Supporting Bush might have been justified on geo-strategic
grounds.

Oil and the dollar were the real reasons for the attack on Iraq, with
WMD as the public reason now exposed as woefully inadequate. Should we
now look at Bush and Blair as brilliant strategists whose actions will
improve the security of our oil supplies, or as international conmen?
Should we support them if they sweep into Iran and perhaps Saudi
Arabia, or should there be a regime change in the UK and US instead?

If the latter, we should follow that up by adopting the pious aims of
UN oversight of world oil exploitation within a world energy plan, and
the replacement of the dollar with a new reserve currency based on a
basket of national currencies.


· John Chapman is a former assistant secretary in the civil service, in
which he served from 1963-96

"Commissariamento globale e preventivo"
nel PRC in vista del Congresso

2: CALABRIA COMMISSARIATA

2allegato: Intervento di Claudia Cernigoi sulla sospensione di
Fulvio Grimaldi (vedi anche:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3669 )


---

DICHIARAZIONE DI VOTO DI CLAUDIO GRASSI
(SEGRETERIA NAZIONALE) ALLA
DIREZIONE STRAORDINARIA DEL 15.7.2004
SUL COMMISSARIAMENTO DELLA CALABRIA

Il commissariamento della regione Calabria è un fatto grave. Mai nella
storia di Rifondazione Comunista si era proceduto al commissariamento di
una intera regione. Questo crea un precedente grave, viene colpita la
democrazia interna del partito. Nessuno degli addebiti specifici che
sono stati sollevati per proporre il commissariamento riguardano
l’operato del segretario regionale che questo commissariamento fa
decadere o l’attività del comitato regionale. Sono addebiti che
riguardano singole federazioni o singoli circoli che, in quanto tali, e
come prevede il nostro statuto, andavano affrontati. Tra l’altro gli
elementi specifici che qui sono stati argomentati (rissosità, problemi
di tesseramento, ecc.) sono presenti, purtroppo allo stesso modo, anche
in molte altre federazioni di altre regioni. Mai però si è pensato di
commissariare un’intera regione.

La verità è che siamo di fronte a un commissariamento politico che
avviene a congresso nazionale avviato e dopo che, due mesi fa, in quella
regione era stato legittimamente eletto dal comitato politico regionale,
alla presenza del compagno Francesco Ferrara, un segretario regionale,
il compagno Rocco Tassone, che al congresso precedente aveva votato gli
emendamenti. Quindi viene commissariata una regione in pieno percorso
congressuale dove la minoranza della maggioranza è maggioranza.
E’ come se due mesi prima dello svolgimento dello scorso congresso
i Democratici di Sinistra avessero commissariato la Campania dove
il Correntone aveva la maggioranza. Come avremmo giudicato noi
una scelta simile se non il fatto che si voleva penalizzare una
minoranza interna?
E’ stato detto che in Calabria il Partito della Rifondazione Comunista
non è più un presidio democratico: le parole in questo caso sono pietre.

Sono stato in questi anni molte volte in Calabria ben prima dell’ultimo
congresso, quindi ben prima dell’articolazione politica dell’attuale
maggioranza. Il mio legame forte con quei compagni si è prodotto nel
1998 quando contrastammo sul campo una scissione durissima guidata dai
Tripodi, da Brunetti e De Paola, che sembrava dovesse spazzare via il
nostro partito. Non fu così. Grazie a quei compagni che oggi non
sarebbero più un presidio democratico. Non nego difficoltà, problemi ed
errori, li ho visti anch’io andando spesso in Calabria, ma questi non si
risolvono con un atto autoritario e repressivo quale quello del
commissariamento. Il commissariamento li aggrava. D’altra parte, se
vogliamo essere onesti, problemi ci sono anche in altre situazioni e
potrei fare un lungo elenco. Ma devo dire che andando spesso in Calabria
assieme alle difficoltà, ho visto anche un partito che lotta, attivo, in
mille battaglie, spesso fatte contro i poteri forti, contro la mafia,
contro i neofascisti, in condizioni di grandi difficoltà e con mezzi
inadeguati.
Rifondazione Comunista in Calabria è un grande presidio democratico.

Infine sulle mie dimissioni dalla Segreteria nazionale.
I compagni e le compagne che all’ultimo congresso hanno determinato le
condizioni perché io sia in quel posto, mi chiedono di rimanere e io lo
farò. Li ringrazio per quello che hanno fatto e detto in queste giornate
per me difficili. Non mollare, mi è stato detto e non mollerò. Ma vorrei
dire che le mie dimissioni non sono state né un colpo di testa e nemmeno
un ricatto. Sono in segreteria nazionale da 9 anni e mai ho posto –
anche in passaggi difficilissimi – questo problema. L’ho fatto perché ho
vissuto e vivo questa scelta come una scelta grave che colpisce la
nostra democrazia interna. La vivo come un sopruso, un’angheria,
un’ingiustizia. Una di quelle cose che ti spinge, almeno a me capita
così, a ribellarti istintivamente.
La scelta che si sta compiendo oggi è un grave errore. Ci sono problemi
in Calabria come in altre regioni. Ma gli interventi autoritari non solo
non li possono risolvere ma li acuiscono.


=== 2allegato ===

Cari compagni, alcuni giorni or sono ho inviato questo messaggio al
direttore di Liberazione, ma a tutt'oggi non ho avuto risposte.
Quindi ve lo giro e lo faccio girare
Saluti comunisti
Claudia Cernigoi - Trieste
 
Caro direttore, ho sentito (chiedo conferma o smentita) che Fulvio
Grimaldi sarebbe stato sospeso dal partito per sei mesi perché avrebbe
esposto uno striscione con la scritta Bertinot in my name o qualcosa
del genere ad una conferenza stampa del segretario. Chiedo notizie dato
che la cosa mi pare assurda, per un avvenimento che definirei nulla più
che una goliardata, visto che sono stati ben altri gli avvenimenti
all'interno del partito che non hanno mai comportato (almeno per quanto
ne so io) sospensioni o comunque provvedimenti disciplinari.
Altrimenti, se la notizia fosse vera, dovrei tristemente concludere che
il superamento del leninismo visto come progetto politico dal partito,
non porta contestualmente con sé anche il superamento dello stalinismo,
inteso non come sistema politico ma come modus operandi all'interno del
partito.
Saluti
Claudia Cernigoi Trieste

IL CLERO ORTODOSSO BENEDICE L'INVASORE


BALCANI: DA ORTODOSSI SERBI ONORIFICENZA A BRIGATA FOLGORE (ANSA) -
ROMA, 26 LUG - Giovedi' prossimo, alla presenza del generale Gaetano
Romeo, comandante del 1/o Comando delle Forze di Difesa, Sua Eccellenza
Amphilhius, metropolita di Montenegro (Massima Autorita' religiosa
serba), concedera' la decorazione 'San Sava di II Grado' alla Brigata
paracadutisti Folgore. E' la prima volta che l'onorificenza viene
conferita ad unita' di eserciti stranieri. L'onorificenza, tra le piu'
importanti per i Cristiano-Ortodossi, sara' conferita in virtu' di una
deliberazione di tutto il Sacro Sinodo dei Vescovi della Chiesa
Ortodossa Serba, riunitosi per l'occasione nello scorso mese di maggio.
Nella motivazione si legge che, sin dagli anni Novanta, durante il
sanguinoso conflitto che ha sconvolto i Balcani, gli uomini della
brigata Folgore hanno mostrato una particolare capacita' di
comprensione per gli aspetti religiosi dell'intera regione, ponendo
particolare attenzione alla tutela e salvaguardia dei monasteri e delle
chiese ortodosse. In particolare, in occasione dei recenti scontri che
nel mese di marzo hanno nuovamente insanguinato il Kosovo, l'intervento
dei militari si e' rivelato determinante per la cessazione delle
ostilita' e devastazioni ed il ripristino della legalita'. La cerimonia
di consegna si inserisce in un'altra, altrettanto importante per i
Paracadutisti: il cambio del Comandante. Proprio il 29, infatti, il
generale Marco Bertolini lascera' il comando dell' unita' al generale
Pietro Costantino. (ANSA). NE
26/07/2004 18:32

[ See at the original URL http://antiwar.com/malic/ for the several
useful hyperlinks.
On the same issue, of Kerry's foreign policy, see also:
D. Johnstone: Clinton, Kerry and Kosovo: The Lie of a "Good War"
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3626 ]


http://antiwar.com/malic/
July 29, 2004

The Choice: Bush's Empire or Kerry's

Empire's Failure in the Balkans

by Nebojsa Malic


With foreign policy becoming the big issue of the 2004 U.S. elections,
predictions that Democrats would invoke the "successes" of Clintonian
interventions, particularly in the Balkans, seem to be coming true. But
though Bosnia and Kosovo don't seem to figure prominently in convention
speeches just yet, with the assortment of Balkans veterans on John
Kerry's staff, that is only a matter of time.

Contrary to the belief of many anti-Bush activists, Kerry is hardly a
peace candidate. The Democrats offer America a vision of "good wars,"
fought with the enthusiastic support of the rest of the world – but
wars still, and fought nonetheless. "American foreign policy under
Kerry would not change dramatically," Philip H. Gordon of the Brookings
Institution told The New York Times.

Americans will get an Empire whether they buy George W. Bush's or John
Kerry's version. And while Bush's reign may make one nostalgic for the
Age of Clinton that Kerry promises to restore, it may not be a bad idea
to remember that Clinton's Empire – and Kerry's – is not all it's
advertised as being.

A Different Reality

Democrats, Republicans and the mendicant media can "package" Imperial
wars all they want, but they cannot change their true nature, which is
becoming increasingly obvious: widespread destruction, bitterness and
poverty among the invaded, along with callousness, cruelty and
corruption among the invaders. "Stopping genocide" sounds great, until
it is discovered the genocide was a fabrication. The gullible may be
fooled by photos of people cheering and throwing flowers at the
occupation troops – as many Albanians did in Kosovo – until someone
points out that they cheered the 1941 Axis invasion with the same
enthusiasm.

The claim that American intervention in the Balkans demonstrated good
will by defending Muslims has utterly failed to impress the Muslim
world. Indeed, many Muslims dismiss intervention in Bosnia and Kosovo
as "belated," and "helping the Serbs," despite evidence to the
contrary. Kosovo Albanians perhaps worship Bill Clinton and Tony Blair,
but the regime of Alija Izetbegovic never presented foreign assistance
as a favor, but rather as a moral obligation the West failed to
properly meet. Dozens of UN commanders in Bosnia were viciously smeared
by Muslims for the slightest refusal to support their cause.

Setting logic and principle aside, for the sake of argument, one fact
dooms the proponents of the Democratic empire as surely as lies about
Iraq ought to doom their Republican counterparts: none of the highly
praised interventions in the Balkans actually worked. Bosnia is a
protectorate misruled by a foreign tyrant. Kosovo is a concentration
camp for non-Albanians, and a haven for slavers, drug- and gun-runners.
And Macedonia is a simmering cauldron of resentment.

Misguided Symbolism

The grand reopening of the reconstructed Old Bridge in Mostar attracted
a lot of media attention last week, with travelogues describing its
beauty and state propaganda calling it a "symbol of hope." The bridge,
built by the Ottoman Turks in the 16th century, was destroyed by
Croatian forces in 1993, during their battles with Bosnian Muslims. It
was rebuilt as closely to the original as possible over the past two
years.

Unfortunately, and as with everything in Bosnia, the restored bridge
was far more important for its political symbolism than its truly
majestic beauty. Bosnia's viceroy Paddy Ashdown called its restoration
a "triumph of hope over barbarism." Both the Washington Post and the
Associated Press saw it as a harbinger of Bosnia's slow but certain
reunification. But if anything, the New Old Bridge is a symbol of
Imperial hubris. Bosnia is still divided, because its people want it
so. There are two Mostars now, Muslim and Croat, while the once-vibrant
Serb community has been destroyed.

For almost nine years, the Empire has sought to reinvent Bosnia from
the ashes of its civil war, pretending that the issues that caused the
conflict did not exist. Persisting in a belief that the right amount of
social engineering, threats and violence can persuade the divided
Bosnians to become one nation, it has erected an illusion of peace and
integration that is, if anything, fueling ethnic animosities. In their
ignorance or arrogance, no matter which, Imperial officials blame the
hatred on "war criminals" still at large. When uncomfortable truths
begin to emerge, such as that Bosnia is an attractive base for Islamic
militants, supporters of the Empire protest and complain. Bosnia has
become a myth cherished by social engineers of the Balkans. Perhaps it
always has been.

The Old Bridge was restored more for the sake of politicians and
princes. The peoples who reduced it – and Bosnia – to rubble would
likely do it again, given the opportunity. Modern Bosnia does not
deserve such an architectural treasure; it may some day, but not yet.

Defending Disaster

The next "successful" intervention, in Kosovo (1999), has been tainted
from the start by the naked aggression it entailed, brazen lies used to
justify it, and the ethnic cleansing that took place once NATO occupied
that Serbian province. Supporters of the Empire persistently ignored
the terror that has ravaged Kosovo since 1999, again pretending there
was "progress" where there manifestly couldn't be any. Then the pogrom
of March 17-18 took place, with some 60,000 Albanians attacking Serb
villages, churches and monasteries in an organized fashion, often
unhindered by NATO troops or UN police. Faced with such a damning
indictment of their occupation, what do the Empire's partisans do? Lie
and deny, again.

Four months later, with the pogrom already forgotten in Washington and
Brussels, Human Rights Watch, a frequent apologist for intervention,
issued a report condemning NATO and UNMIK for failure to protect the
Serbs from attacks. Apparently, it takes four months to state the
obvious. Not that it made any difference: NATO and the UN rejected
HRW's criticism out of hand. Besides, HRW only demanded a restructuring
of the occupation, not its end.

Visiting EU dignitaries continue to spout nonsense about Kosovo. Just
this week, Dutch Foreign Minister Bernard Bot said he was "shocked by
the March events, but … encouraged by reconstruction."

What reconstruction?

Signs of Resistance

Macedonia, also a victim of Empire's intervention (2001), demonstrated
this week the consequences of impossible demands. Under immense
pressure from EU and NATO to enact a law on "decentralization" that
would give more power to local authorities (in effect, empowering
Albanian separatists in the western part of the country), the
government ran into a roadblock: its own people.

Open riots erupted in the town of Struga last Thursday, where angry
protesters chased off the visiting Defense Minister. A protest meeting
was scheduled for Tuesday in the capital, Skopje, and it took place
peacefully. Unfortunately, the political forces opposing the
fragmentation of the country not only failed to present a compelling
and principled argument against it, but merely recycled old and
discredited rhetoric. While the government desperately seeks approval
from Brussels and Washington, the opposition appeals to the people's
fear of losing their nationhood. In this bitter but futile infighting,
the only winners are Albanian separatists and the Empire.

However ineffectual Macedonians' resistance may seem, however, it is
worth noting that people are no longer willing to suffer the iniquities
of Imperial diktat in silence. Who knows, maybe the inevitable
rejection of their sentiments by the Empire will dispel the
Macedonians' illusions about the "international community," which are
largely the source of their current predicament.

Doomed to Failure

It is evident from looking at Bosnia, Kosovo and Macedonia – to take
just these three – that Empire's intervention in the Balkans is not a
success, but rather a disaster. The Pax Americana imposed on the region
in the last decade is unnatural, based on lies and violence. It has had
a considerable corrupting effect on people already suffering from
Communism and chauvinism. The results are in plain view: poverty,
apathy, despair, lingering hatred, violent crime and widespread
delusions.

Some may argue that the solution lies in fine-tuning the intervention;
however well-intentioned, they would be wrong. The best thing the
Empire can do for the Balkans would be to leave. A true peace must be
made by consenting parties, and as long as the Empire is around to back
any of them, there will be no political will for a settlement of any
kind.

Ninety years ago, a once-potent European empire embarked on a project
of conquering the Balkans. On July 28, 1914, Austria-Hungary declared
war on Serbia and started a chain reaction that became World War One.
What followed is sometimes described as the "suicide of European
civilization," resulting in a century of protracted agony. It was
certainly the end of Austria-Hungary, and its Hapsburg emperors.

Attempts to force an artificial order upon the Balkans – or anywhere
else, really – are doomed to fail. The more this pressure forces things
to bend to its will, the more violent the blowback will be. History has
shown this time and again. Does anyone really need another
demonstration?

MORE RUSSOPHOBIA IN INTERNATIONAL PRESS


http://english.pravda.ru/printed.html?news_id=13583

More russophobia in international press - 07/28/2004 18:26

This time it's the BBC
There is no mine disaster, no missile running amok, this President
does not drink in public or even in private, the nuclear power stations
are behaving themselves, the Russian economy is picking up, there is no
default and no banking crisis. Where then can the BBC attack Putin's
Russia?
Simple! The army. In today's online BBC we have in nice clear letters
the headline "Suicides increase in Russian army" and the lead
paragraph, quoting Russian military sources, then states that there has
been a 38% increase in suicides in the Russian armed forces over the
last year.
That is an improvement, because usually western news sources are
accusing the Russians of lying. Now they quote them, but only of course
to paint a dreary picture and to print negative stories.
The report begins by claiming that 109 soldiers committed suicide in
2003, among a total of 420 servicemen who lost their lives in
non-combat operations. Out of a total of 1.2 million, but this the BBC
forgot to add.
Speaking of casualties, how many British and American servicemen have
died over the last twelve months during their venture in Iraq? How many
British soldiers have committed suicide? A visit to the Ministry of
Defence website makes interesting reading.
For instance, between 1989 and 2000, there were 285 recorded suicides
in the British Armed Forces. Other information in the site claims that
"young Army males experience more deaths from suicides than the
equivalent UK national population".
So with less than half the number of servicemen as Russia, Britain
has three times as many suicides? Why doesn't the BBC report about that?

Timothy Bancroft-Hinchey
Pravda.Ru

Kosmet (textes en francais)

1. Occupations militaires - La prostitution érigée en système
(Richard Poulin, Le Devoir - Quebec - 26 mai 2004)

2. « Les Serbes du Kosovo n'ont plus d'autre droit que celui de mourir
». La vie impossible des Serbes du ghetto de Ljipljan

Voir aussi:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3491
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3518
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3607


=== 1 ===


Source: http://fr.groups.yahoo.com/group/alerte_otan/messages


Occupations militaires - La prostitution érigée en système


Richard Poulin

Professeur, département de sociologie, Université d'Ottawa; professeur
invité, Universität Innsbruck; auteur de La Mondialisation des
industries du sexe, à paraître à l'automne

http://www.ledevoir.com/cgi-bin/imprimer?path=/2004/05/26/55328.html

Le Devoir (Quebec)
Édition du mercredi 26 mai 2004


Les soldats de la force de l'OTAN au Kosovo (KFOR) et le personnel de
l'ONU contribuent à alimenter l'essor de la prostitution dans la
province de Serbie à majorité albanaise, affirme Amnesty International
dans un rapport rendu public le 6 mai dernier.


Selon l'organisation de défense des droits humains, 20 % des clients
des réseaux de prostitution au Kosovo sont des soldats de la KFOR et
des policiers de la MINUK (Mission des Nations unies), qui contribuent
de la sorte à fournir «une part substantielle des revenus», évaluée à
70 %, de l'industrie du sexe.

Il semble paradoxal que dans un pays qui a connu les horreurs de la
guerre civile, certaines des violations des droits humains les plus
élémentaires soient commises par la communauté internationale censée
apporter la paix et permettre la reconstruction du pays. Toutefois, ce
paradoxe n'en est pas un : le stationnement de troupes armées
d'occupation développe les infrastructures prostitutionnelles et, par
conséquent, la traite des femmes et des enfants aux fins de
prostitution. Cet essor se traduit également par une augmentation de la
clientèle locale et régionale.

La mise en place de telles infrastructures est encouragée, sinon
pilotée par les forces d'occupation. Elle est l'une des fondations sur
lesquelles se déploie le tourisme sexuel.


Les installations récréatives de la Corée

L'industrie massive de la prostitution et la traite des êtres humains
qui l'accompagne en Asie du Sud-Est a pris son essor grâce aux guerres
du Viêt-nam et de Corée.

À la fin des années 50, le gouvernement américain et la République de
Corée ont signé un traité de défense mutuel qui a formellement accordé
des bases militaires aux troupes américaines en Corée du Sud. Une des
clause du traité prévoyait la mise en place de Rest and Recreation
sites pour les soldats américains. Dans ces sites, les bordels étaient
subventionnés par le gouvernement coréen, qui a ainsi pu édicter ses
règles : il a estimé que des filles «de réconfort militaire» devaient
«servir» 29 militaires par jour. Le gouvernement a même évalué que les
contacts sexuels ne devaient pas dépasser les 30 minutes.

La pauvreté engendrée par la guerre ainsi que ses dislocations
familiales et sociales ont permis au gouvernement coréen de recruter
des femmes en promettant un emploi gouvernemental bien payé mais qui,
en fait, était celui de prostituée pour les soldats américains.

À la fin des années 90, on dénombrait 18 000 personnes prostituées
enregistrées et 9000 non enregistrées au service des 43 000 militaires
états-uniens stationnés en Corée. Aujourd'hui, 8500 femmes, originaires
surtout des Philippines et de la Russie, sont victimes de la traite aux
fins de prostitution pour les militaires américains de la Corée. Elles
ont pu entrer au pays au moyen de visas de «divertissement» délivrés
par le gouvernement à la suite de négociations avec l'association des
propriétaires de bars des camptowns.

En 2003, un rapport du ministère de la Défense américain reconnaissait
que les soldats américains avaient «encouragé» la traite de femmes aux
fins de prostitution en Corée.


Les bordels de réconfort nippons

Entre 1937 et 1945, l'armée japonaise d'occupation a utilisé entre
100 000 et 200 000 Coréennes qui ont été incarcérées dans des comfort
stations (bordels de réconfort). Ce système était institutionnalisé :
des officiers nippons recevaient une formation de l'armée pour
apprendre à bien gérer l'approvisionnement en marchandises inanimées et
vivantes pour le «réconfort» des soldats. La majorité des prostituées
(approximativement 80 %) était d'origine coréenne, la plus ancienne
colonie japonaise. Au fur et à mesure de la guerre et de l'occupation
de divers pays par les troupes impériales, des bordels ont été ouverts
et approvisionnés en femmes provenant des nouvelles colonies de Chine,
des Philippines, de Birmanie, d'Indonésie, de la Malaysia, de Singapour
et du Timor. Ces femmes étaient jugées inférieures d'un point de vue
racial, ce qui légitimait leur esclavage sexuel. Elles étaient
régulièrement battues et torturées. Si elles tombaient enceinte, elles
étaient assassinées.

Quelques jours seulement après la défaite japonaise, l'Association pour
la création d'installations récréatives spéciales, financée
indirectement par le gouvernement japonais, ouvrait un premier bordel
de réconfort pour les troupes américaines d'occupation. À son point
culminant, cette association «employait» 70 000 personnes prostituées
japonaises.


Les Rest and Recreation sites en Thaïlande

À la différence de la Corée, les Rest and Recreation sites développés
pendant la guerre du Viêt-nam n'ont pas été directement rattachés aux
bases militaires. Ces établissements se sont développés en Thaïlande et
aux Philippines. Les États-Unis ont conclu une entente avec la
Thaïlande en 1967 pour que le pays soit un lieu «de repos et de loisir»
pour ses soldats. C'est un général de la Royal Air Force thaïe qui a
négocié cette entente qui a permis un afflux énorme de devises fortes
dans l'économie du pays. Son épouse a dirigé la première agence de
tours sexuels de la Thaïlande pour les militaires américains.

Approximativement quatre millions $US ont été prêtés à l'époque au pays
pour financer la construction des nombreux Rest and Recreation sites.
Entre 1962 et 1976, environ 700 000 militaires américains sont allés
«se reposer et reprendre des forces» dans les bordels thaïlandais. On
estime aujourd'hui à deux millions le nombre de personnes prostituées,
dont 300 000 enfants, en Thaïlande, une destination prisée des
touristes sexuels.

L'utilisation d'«installations récréatives» fait encore partie des
politiques du Pentagone. Immédiatement après la première guerre contre
l'Irak, les troupes américaines ont été envoyées en Thaïlande pour y
prendre du «bon temps».


La Bosnie-Herzégovine

La traite des femmes a radicalement augmenté avec la présence de la
mission de pacification de l'ONU en Bosnie-Herzégovine. L'histoire de
la mise en place de l'Arizona Market en Bosnie est édifiante à cet
égard. Ce vaste marché détaxé, créé en 1992 par la SFOR (Force de
stabilisation de l'OTAN), porte le nom d'un désert américain car les
autorités militaires des États-Unis y ont piloté la création d'une zone
franche «pour réconcilier par le commerce» les populations serbo-croate
et bosniaque.

Dans cette zone du nord du pays, laissée sous autorité américaine et
internationale après 1999, le système proxénète a établi son marché.
Les femmes y sont vendues comme l'étaient les esclaves victimes de la
traite des négriers. Le processus de vente se déroule comme suit : les
jeunes femmes montent sur une scène d'un bar quelconque, y font
quelques pirouettes pendant que les acheteurs inspectent leur corps et
même leur bouche avant de faire une offre, entre 980 et 1967 $US pour
les plus convoitées. Les filles passent de main en main et sont vendues
plusieurs fois. Une des mineures rapatriées par l'Organisation
internationale pour les migrations (OIM), âgée de 14 ans, a été vendue
22 fois.

L'OIM évalue à 10 000 le nombre de personnes prostituées clandestines
en Bosnie. En 2002, un rapport de la MINUK suspectait 227 boîtes de
nuit et bars de Bosnie d'être partie prenante dans la traite des femmes
et des enfants aux fins de prostitution. L'OIM estime que 250 000
femmes et enfants de l'Europe de l'Est sont victimes de la traite via
la Serbie et les États voisins, dont un grand nombre se retrouve dans
les nouveaux protectorats internationaux de la Bosnie et du Kosovo pour
desservir soldats, policiers et membres des ONG.

Un certain nombre de rapports font état de dissimulation de la
participation d'équipes spéciales de la police de l'ONU ou de soldats
sous le commandement de l'OTAN dans la traite des femmes et des enfants
aux fins de prostitution. Mais peu à peu, la vérité s'est frayé un
chemin. Les soldats de la SFOR, le personnel de l'ONU ainsi que celui
des 400 ONG de Bosnie non seulement profitent du marché prostitutionnel
comme clients mais en sont même des trafiquants proxénètes dans
certains cas.

Un rapport de l'ONU, non publié à l'extérieur de la Bosnie, met en
évidence la complicité de la police locale, de la SFOR et même de
l'International Police Task Force (IPTF) dans de nombreuses affaires de
prostitution, de traite ou de «protection» de ces industries en échange
d'argent ou de passes gratuites.

Une ancienne employée de l'ONU, mise à pied après avoir dénoncé aux
plus hautes autorités de l'ONU et de la SFOR de la Bosnie-Herzégovine
l'implication de certains de leurs membres dans la traite, a intenté
une poursuite en justice contre son employeur, la société de sécurité
britannique DynCorp Aerospace, une filiale de la société américaine
DynCorp Incorporated, chargée, entre autres, du recrutement des
officiers de l'IPTF. Selon ses accusations, des employés de la DynCorp
ont contrefait des documents pour faciliter le transport de femmes
victimes de la traite en Bosnie.

En 1998, des accusations ont été portées contre des soldats italiens,
portugais et égyptiens, sous le commandement de l'OTAN, pour leur
implication dans un réseau de prostitution d'enfants -- des fillettes
âgées de 12 à 14 ans -- à Sarajevo. L'OTAN a écarté ces allégations du
revers de la main.

Ajoutons à ce sombre tableau le fait que les accords de paix de Dayton
de 1995 permettent à l'ONU «le mouvement complet et libre» et ne lui
confèrent «aucune responsabilité pour des dégâts à la propriété».
L'annexe B accorde l'immunité juridique au personnel de l'OTAN pour ses
actions «dans toutes les circonstances et à tout moment». Il est
désormais soumis «à l'autorité exclusive» de la justice des pays
d'origine, peu importe les infractions criminelles commises en Bosnie.

Au Kosovo, une loi interdisant le trafic des femmes a été promulguée en
février 2001. Toutefois, les dispositions visant à protéger les
victimes n'ont pas encore été mises en application. Des membres de la
force internationale de maintien de la paix et des forces de la police
civile qui ont été soupçonnés d'être impliqués dans la traite des
femmes n'ont pas été poursuivis malgré les dispositions juridiques
applicables en la matière. Pour l'instant, la MINUK n'a fait qu'édicter
un code de conduite et distribuer massivement des préservatifs à ses
troupes..Les pouvoirs occidentaux gouvernent les «protectorats» de la
région comme les anciens maîtres coloniaux dirigeaient leurs empires.
La prostitution y est érigée en système. La communauté internationale
est complice des trafiquants : la Bosnie et le Kosovo sont désormais
deux plaques tournantes de la traite d'êtres humains et de la
prostitution.


=== 2 ===


Date : Wed, 28 Jul 2004 00:17:15 +0200
De : "Roland Marounek"
A: alerte_otan@...
Objet : [alerte_otan] RFI : « Les Serbes du Kosovo n'ont plus d'autre
droit que celui de mourir »

Kosovo : cinq ans après l'intervention de l'Otan

La vie impossible des Serbes du ghetto de Ljipljan

Après les émeutes du mois de mars, le sort des Serbes qui vivent dans
des enclaves du Kosovo central est de plus en plus menacé. Dans le
ghetto de Ljipljan, beaucoup ne croient plus en un règlement négocié,
et vendent leurs maisons

De notre envoyé spécial au Kosovo


Jusqu'aux émeutes du mois de mars dernier, le ghetto serbe du centre de
Lipljan comptait plus de 2 500 habitants. Dans cette commune située à
une vingtaine de kilomètres à l'est de Pristina, les soirs des 17 et 18
mars, un tiers des maisons du ghetto ont été détruites et incendiées
par des émeutiers albanais. Aujourd'hui, le ghetto ne compterait plus
qu'environ 800 habitants.

Alors que les Serbes ont été chassés de toutes les villes du Kosovo dès
juin 1999, après l'arrivée des forces de l'Otan, et se concentrent
aujourd'hui dans des villages gardés par les soldats de la KFOR,
Ljipljan était la seule ville où une importante communauté serbe avait
pu se maintenir. Les Serbes n'ont pas cependant plus accès au centre
ville depuis 1999, et vivent dans un quartier pavillonnaire qui s'étale
en longeant la ville devenue albanaise.

Des parcours secrets conduisent de maison en maison
Ici, la communauté serbe dispose de ses écoles et de son église,
entourée de barbelés et sévèrement gardée par les blindés de la KFOR.
Des itinéraires parallèles se sont mis en place pour passer d'une
maison à l'autre, en traversant les cours et les jardins. Le docteur
Zoran Trajkovic explique que « depuis cinq ans, les Serbes de Lipljan
ont oublié ce qu'était l'asphalte ». Lui-même assure une permanence de
santé dans le quartier, et travaille dans le village serbe de Gustarice
où il se rend quotidiennement dans un véhicule escorté par la KFOR.

Mirka Simeonovic, la cousine du docteur Zoran, fait partie des
irréductibles Serbes qui vivent toujours à Lipljan. Elle balaie d'un
revers de la main toutes les questions sur les risques qu'elle encourt.
« Mon fils unique était réserviste, il a été tué durant les
bombardements de l'OTAN. Mon mari est mort peu après, rongé par le
chagrin ». Mirka, 63 ans, doit subvenir aux besoins des trois enfants
de son fils, qu'elle avait pu mettre à l'abri chez un cousin, dans un
village serbe, juste avant que n'éclatent les émeutes.

« Je serai sûrement tuée par des extrémistes albanais »

« Je voudrais que les enfants de mon fils puissent partir à Belgrade
pour faire de bonnes études, en sécurité, mais je ne connais personne
en Serbie et je n'ai pas d'argent », soupire Mirka. « S'ils pouvaient
partir, je serai soulagée. Moi, je resterai ici tant que je pourrai,
pour aller fleurir tous les jours la tombe de mon fils. De toute façon,
je serai sûrement très vite tuée par les extrémistes albanais. Les
Serbes du Kosovo n'ont plus d'autre droit que celui de mourir .»

Malgré la timide normalisation amorcée depuis le mois de mars, les
conditions de vie des Serbes de Lipljan sont toujours plus difficiles.
Alors que les commerces de la rue centrale de Lipljan ne se trouvent
qu'à quelques dizaines de mètres du ghetto, les Serbes ne peuvent
sortir dans la ville albanaise que deux fois par semaines, le mercredi
et le samedi, de 10 heures à 14 heures, sous solide escorte des soldats
finlandais de la KFOR, qui sont déployés dans la ville. « Les Serbes du
Kosovo vivent en 2004 comme les Juifs durant la Seconde Guerre mondiale
», lâche le docteur Zoran.

« Dans un an, il n'y aura plus de Serbes ici.. »

Depuis mars, les maisons du ghetto serbe qui n'ont pas été détruites
sont bradées. La plupart des Serbes essaient de fuir et l'on peut
trouver une grande maison pour quelques dizaines de milliers d'euros. «
Les Albanais attendent que les prix baissent encore. Dans un an, il n'y
aura plus de Serbes à Lipljan, et les extrémistes albanais auront
obtenu ce qu'ils voulaient », estime le docteur Zoran.

Comme tous les Serbes du Kosovo, il n'espère rien de bon des
négociations sur l'avenir du Kosovo. « Pour les politiciens de
Belgrade, le Kosovo est un boulet. Si la province était partagée, le
nord serait rattaché à la Serbie, tandis que les enclaves seraient
liquidées. La communauté internationale aussi préférerait cette
solution, plutôt que de devoir continuer à mobiliser des milliers de
soldats pour faire semblant d'assurer notre protection ». Cent à
cent-vingt mille Serbes vivraient toujours au Kosovo, tandis que 250
000 sont réfugiés en Serbie et au Monténégro. La présence serbe au
Kosovo se partage entre le secteur nord, homogène et contigu à la
Serbie et un chapelets d'enclaves qui s'étalent à travers toute la
province. Quelque 20 000 Serbes vivent toujours dans le « secteur
central », qui regroupe une vingtaine de villages sur le territoire des
communes de Pristina, Obilic, Kosovo Polje et Lipljan.

Zoran Trajkovic exclut catégoriquement de vivre dans un Kosovo albanais
indépendant. « L'expérience nous a appris à ne plus croire les
engagements, les promesses ni les garanties de la communauté
internationale. Les Albanais veulent un Kosovo ethniquement pur, et ils
l'obtiendront ». Il n'a pas de famille ni de projets en Serbie, mais il
est convaincu que son tour de partir arrivera vite. « Pourtant, même si
nous partons, nous emporterons le Kosovo dans nos cours », conclut-il.

"Commissariamento globale e preventivo"
nel PRC in vista del Congresso / 1: GRIMALDI SOSPESO


NOTA: Il Partito della Rifondazione Comunista (PRC) e' gia' entrato
nel vivo del suo dibattito interno relativo al prossimo Congresso, che
si terra' nella primavera 2005.
Come Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia (CNJ) seguiamo
ovviamente sempre con grande interesse il percorso di questo Partito,
come di altre organizzazioni e gruppi anti-imperialisti della sinistra
italiana ed estera. In passato abbiamo seguito e commentato le
posizioni del PRC e del suo quotidiano in politica estera, e molti
aderenti al nostro Coordinamento sono o sono stati iscritti al PRC.
Quest'ultimo e' il caso ad esempio di Fulvio Grimaldi, noto
giornalista, che dopo essere stato cacciato da "Liberazione" e' stato
protagonista della vicenda illustrata nel seguito.
Da parte nostra, cercheremo di seguire nei limiti del possibile il
percorso precongressuale del PRC, ovviamente auspicando l'affermazione,
al prossimo Congresso, di una linea limpidamente anti-imperialista
tanto nel Partito quanto nel suo giornale. CNJ


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From: "Autoconvocati" <autoconvocatiprc@...>
Date: Fri, 16 Jul 2004 11:37:25 +0200
Subject: GRIMALDI SOSPESO DAL PRC

Care compagne e cari compagni,

è stato recapitato al compagno Fulvio Grimaldi un provvedimento di
sospensione dal partito per nove mesi, motivato dal collegio di
garanzia romano con la sua partecipazione alla manifestazione di
dissenso nei confronti della “Sinistra Europea” e con
un’interpretazione arbitraria di un suo intervento diffuso da vari siti
di movimento.

Contemporaneamente – e con inaudita arroganza – il collegio di garanzia
romano ha “archiviato” la richiesta di intervento presentata dalle
compagne aggredite perché distribuivano un volantino degli
autoconvocati del PRC, sempre in merito alla “Sinistra Europea”;
l’incredibile motivazione dell’archiviazione consiste nel fatto che le
compagne aggredite e i compagni testimoni dell’accaduto (fra i quali
Fulvio Grimaldi) avevano chiesto di anticipare o posticipare la data
dell’audizione fissata dal collegio di garanzia, perché quel giorno (il
2 luglio) erano tutti impossibilitati a partecipare. Anziché fissare
una nuova data, il collegio di garanzia ha disposto l’archiviazione del
caso.

Contro tutti e due i provvedimenti della “garanzia” romana è stato già
proposto appello al Collegio Nazionale di Garanzia.

L’accanimento contro il compagno Grimaldi, già licenziato dal giornale
del partito, è l’ennesima dimostrazione dell’autoritarismo imperante
nel PRC; nell’approssimarsi di un decisivo congresso nazionale, è di
fondamentale importanza difendere la democrazia interna ed il
diritto/dovere all’espressione delle opinioni di ogni compagna ed ogni
compagno. Per questi motivi, e riservandoci ulteriori iniziative,
invitiamo le compagne e i compagni, del partito e del movimento, a far
pervenire da subito ad autoconvocatiprc@... i loro messaggi di
solidarietà, individuali e collettivi, che provvederemo ad inoltrare e
diffondere. Naturalmente, tutti i compagni e le compagne sono invitati
a dare la massima diffusione a questa vicenda ed a sollecitare il
dibattito.


Seguono il testo del provvedimento inviato al compagno Grimaldi e
quello del relativo ricorso al Collegio Nazionale di Garanzia.

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Al compagno Fulvio Grimaldi

Il Collegio di garanzia della Federazione di Roma, riunitosi il giorno
2 luglio 2004 nelle persone di Roberto Catalano, Franco Guerra, Silvio
Messinetti e Rosangela Mura, negli ambiti di competenza previsti
dall’art. 50 dello Statuto del Partito della Rifondazione Comunista,
visto e considerato che il Compagno Fulvio Grimaldi, membro del CPF di
Roma:

in data 7 maggio 2004, ha interrotto la conferenza stampa di
presentazione del congresso fondativi del Partito della Sinistra
Europea con mezzi e con atti, quali la distribuzione di volantini di
attacco al congresso, al Segretario nazionale e ai candidati alle
elezioni europee nonché lo rotolamento di uno striscione con la scritta
“Bertinot in my name” affiancato dal simbolo del PRC, che ha gravemente
nuociuto all’immagine pubblica del Partito, del suo simbolo, del suo
Segretario nazionale ed in piena violazione dello statuto ai sensi
dell’art. 4 comma 4;

in data 6 giugno 2004 ha pubblicato in rete e segnatamente sul sito
www.arcipelago.org un articolo dal titolo “Mondocane Fuorilinea” in
cui, con modi subdoli ed artifizi retorici di dubbio gusto, denigrando
la compagna Luisa Morgantini, candidata per il PRC alle Elezioni
Europee, ha dato implicita indicazione di voto per un candidato di
altra lista, nello specifico Bassam Saleh, mediante una comparazione
arbitraria tra i due, tutto ciò in aperta violazione dello statuto che,
all’art. 4 comma 1, statuisce l’obbligo di ogni iscritto al partito di
votare le liste elettorali;

DISPONE

La sospensione dal partito di Fulvio Grimaldi per la durata di 9 mesi.

Il provvedimento è deliberato all’unanimità dal Collegio di Garanzia e
come tale di immediata e provvisoria esecutività ai sensi dell’art. 52
comma 6.

Si allegano i seguenti documenti:

comunicato stampa del blitz degli autoconvocati del PRC con relativo
volantino;

copia dell’articolo “Mondocane Fuorilinea” del 6 giugno 2004.

2 luglio 2004

La Presidente del Collegio di Garanzia
Rosangela Mura

---
 
Al Collegio Nazionale di Garanzia
Partito della Rifondazione Comunista

Viale del Policlinico 131
00161 ROMA

p.c Rosangela Mura, Collegio Federale di Garanzia, Roma

ALL’ATTENZIONE DEL COMPAGNO FRANCESCO RICCI

Oggetto: ricorso avverso al provvedimento adottato dal Collegio di
Garanzia Federale di Roma nei confronti di Fulvio Grimaldi

Interpongo ricorso contro il provvedimento adottato e comunicato in
data 2 luglio 2004 dal Collegio di Garanzia Federale di Roma nei miei
confronti (in allegato).

Riservandomi di illustrare le ragioni per cui giudico tale
provvedimento iniquo, ingiustificato e in violazione dello Statuto del
partito, allego il mio scritto relativo a Luisa Morgantini, a
dimostrazione della totale infondatezza delle accuse mossemi,
trattandosi di fattuale descrizione di due personaggi, senza il benché
minimo riferimento a un’indicazione di voto (per il quale avrebbe
potuto in teoria risultare anche più accattivante il ritratto della
Morgantini), nonché il volantino distribuito, insieme alla
correttissima esibizione di uno striscione di contestazione del
segretario, in occasione della conferenza stampa di presentazione del
congresso fondativi alle elezioni europee.

A termini di Statuto è impossibile ravvisare la benché minima
violazione, tantomeno un danno all’immagine pubblica del partito ( a
meno che partito e segretario nazionale non siano sinonimi), al suo
simbolo (indebitamente e senza congresso modificato dallo stesso
segretario nazionale in violazione dello statuto, per la quale
violazione è stata inoltrata denuncia al Collegio) e al suo segretario
nazionale (sempre che l’opposizione al segretario nazionale, “anche
all’esterno del partito”, non venga considerata lesa maestà)

Il provvedimento della CGF di Roma è chiaramente un’aberrazione
giuridica e svela un’idea della giustizia interna da tribunale
speciale. Le accuse oltrechè senza fondamento, sono di carattere
paradossale alla luce delle numerosissime denigrazioni e dei ripetuti
danni all’immagine e patrimoniali nei miei confronti, operate dal
segretario nazionale, da dirigenti suoi collaboratori, dalla direzione
del giornale del partito “Liberazione”, episodi per ognuno dei quali è
in preparazione una dettagliata denuncia a codesto Collegio. Resta
infine da chiarire l’incongruenza di un provvedimento riservato
esclusivamente alla mia persona, quando l’intervento alla conferenza
stampa del segretario nazionale era stato compiuto da almeno sei
compagni, con il coinvolgimento di molti altri nella fase di
preparazione e allestimento e l’assunzione di responsabilità
dell’intero Movimento degli Autoconvocati del PCR.

Fulvio Grimaldi

Roma, 13/7/04