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LA FINE DEL PETROLIO / THE OIL CRUNCH


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La situazione del petrolio non sembra causare molta preoccupazione in
Italia. Eppure, da due giorni il petrolio è a oltre 39 dollari al
barile.
Allo stesso prezzo, nel 1973, cominciava la prima grande "crisi del
petrolio". Non sembra che la gente stia correndo a vendere le SUV e a
comprare generatori eolici. Neppure sembra che il giverno abbia qualche
timore che potremmo avere qualche problema a finanziare il beneamato
ponte
sullo stretto.

La mia impressione è che nel 1973 tutti sapevano che la crisi non era
dovuta a una questione di carenza di risorse, quella di oggi è molto
piu'
buia, nel senso che veramente stiamo vedendo una situazione in cui la
produzione sta declinando in modo irreversibile. Da questo vengono i
dinieghi e il girare la testa dall'altra parte.

Eppure non si puo' negare l'evidenza. Paul Krugman, economista
intelligente, ha detto proprio questo in un articolo che è appaso ieri
sul
New York Times, trovando anche il modo di far notare l'idiozia assoluta
di
quelli (tanti) che veramente pensavano che invadere l'Iraq era una buona
idea per avere il petrolio a buon mercato. Krugman cita Rupert Murdoch
fra
questi microcefali de-neuronati (oltretutto anche stronzi), io vi posso
raccontare di aver incontrato l'anno scorso, dopo l'invasione, un alto
funzionario della Commissione Europea che mi ha detto, tutto
preoccupato,
qualcosa come "adesso che abbiamo il petrolio Iracheno a buon mercato,
ci
sarà difficile spingere i nostri programmi di risparmio energetico".
Taccio
il nome di questo signore, per carità di patria.

Leggete l'articolo di Krugman. Dice che ci dovremo adattare. Ha
ragione, ma
non sarà ovvio.

Ugo Bardi



The Oil Crunch
By PAUL KRUGMAN

NY TIMES. Published: May 7, 2004

Before the start of the Iraq war his media empire did so much to
promote,
Rupert Murdoch explained the payoff: "The greatest thing to come out of
this for the world economy, if you could put it that way, would be $20 a
barrel for oil." Crude oil prices in New York rose to almost $40 a
barrel
yesterday, a 13-year high.

Those who expected big economic benefits from the war were, of course,
utterly wrong about how things would go in Iraq. But the disastrous
occupation is only part of the reason that oil is getting more
expensive;
the other, which will last even if we somehow find a way out of the
quagmire, is the intensifying competition for a limited world oil
supply.

Thanks to the mess in Iraq — including a continuing campaign of sabotage
against oil pipelines — oil exports have yet to recover to their prewar
level, let alone supply the millions of extra barrels each day the
optimists imagined. And the fallout from the war has spooked the
markets,
which now fear terrorist attacks on oil installations in Saudi Arabia,
and
are starting to worry about radicalization throughout the Middle East.
(It
has been interesting to watch people who lauded George Bush's
leadership in
the war on terror come to the belated realization that Mr. Bush has
given
Osama bin Laden exactly what he wanted.)

Even if things had gone well, however, Iraq couldn't have given us cheap
oil for more than a couple of years at most, because the United States
and
other advanced countries are now competing for oil with the surging
economies of Asia.

Oil is a resource in finite supply; no major oil fields have been found
since 1976, and experts suspect that there are no more to find. Some
analysts argue that world production is already at or near its peak,
although most say that technological progress, which allows the further
exploitation of known sources like the Canadian tar sands, will allow
output to rise for another decade or two. But the date of the physical
peak
in production isn't the really crucial question.

The question, instead, is when the trend in oil prices will turn
decisively
upward. That upward turn is inevitable as a growing world economy
confronts
a resource in limited supply. But when will it happen? Maybe it already
has.

I know, of course, that such predictions have been made before, during
the
energy crisis of the 1970's. But the end of that crisis has been widely
misunderstood: prices went down not because the world found new sources
of
oil, but because it found ways to make do with less.

During the 1980's, oil consumption dropped around the world as the
delayed
effects of the energy crisis led to the use of more fuel-efficient cars,
better insulation in homes and so on. Although economic growth led to a
gradual recovery, as late as 1993 world oil consumption was only
slightly
higher than it had been in 1979. In the United States, oil consumption
didn't regain its 1979 level until 1997.

Since then, however, world demand has grown rapidly: the daily world
consumption of oil is 12 million barrels higher than it was a decade
ago,
roughly equal to the combined production of Saudi Arabia and Iran. It
turns
out that America's love affair with gas guzzlers, shortsighted as it
is, is
not the main culprit: the big increases in demand have come from booming
developing countries. China, in particular, still consumes only 8
percent
of the world's oil — but it accounted for 37 percent of the growth in
world
oil consumption over the last four years.

The collision between rapidly growing world demand and a limited world
supply is the reason why the oil market is so vulnerable to jitters.
Maybe
we'll get through this bad patch, and oil will fall back toward $30 a
barrel. But if that happens, it will be only a temporary respite.

In a way it's ironic. Lately we've been hearing a lot about competition
from Chinese manufacturing and Indian call centers. But a different
kind of
competition — the scramble for oil and other resources — poses a much
bigger threat to our prosperity.

So what should we be doing? Here's a hint: We can neither drill nor
conquer
our way out of the problem. Whatever we do, oil prices are going up.
What
we have to do is adapt.

"UNA EUROPA COME PARADIGMA POST-STATUALE E POST-NAZIONALE, COME SPAZIO
IN CUI DOVREBBE ESSERE POSSIBILE REINVENTARE LA FORMA POLITICA SUL
MODELLO DELLA RETE"


Traduzione in lingua italiana: "Una Europa contro le sovranita'
nazionali e decomposta in gabbie etno-salariali, in cui il potere sia
autocratico e nello spettacolo mediatico l'individuo -- non piu'
cittadino -- abbia l'impressione di avere la facolta' di disobbedire
facendosi le seghe dinanzi alla webcam"

Ma, soprattutto, una Europa che sia allo stesso tempo anti-comunista ed
anti-socialdemocratica. Pare sia questo il progetto politico dei
Disobbedienti:


> Da: "luca" <lucacasarini@...>
> Data: Thu,  6 May 2004 15:22:59 +0200
> A: "mov\. movimento" <Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli.>
> Oggetto: [listadisobbedienti] Fwd:[Fwd: Bifo-Formenti_verdi europei]
>
> -------------------------- Messaggio originale
> ---------------------------
> Oggetto: Bifo-Formenti_verdi europei
> Da:      francesco raparelli <rifo78@...>
> Data:    Mar, 4 Maggio 2004, 6:42 pm
> A:       luca.casarini@...
> -----------------------------------------------------------------------
> ---
>
> una proposta di discussione
> franco berardi carlo formenti - Europa 29.04.2004
> Un'ipotesi verde-europea perché emerga anche a livello
> politico-elettorale
> un'alternativa sociale al regime della devastazione e della guerra.
>
> I. La lezione dei movimenti
>
> Ai movimenti sociali che hanno accompagnato il volgere di millennio in
> Occidente (pacifisti e new global in primis) dobbiamo fondamentali
> novità
> ideologiche, culturali e organizzative: il superamento del mito della
> violenza rivoluzionaria, la capacità di federare identità e soggetti
> collettivi portatori di radicali differenze reciproche, un
> mediattivismo
> che, grazie all'appropriazione di massa di Internet e delle nuove
> tecnologie di comunicazione, si è dimostrato capace di tenere testa ai
> media mainstream sul loro terreno, la creazione di una sfera di
> condivisione di conoscenze sofisticate tanto sul piano
> scientitico-tecnologico quanto su quello linguistico-comunicativo. In
> breve, i movimenti hanno elaborato una cultura assai più avanzata e
> raffinata di quella del ceto politico professionale. Al tempo stesso,
> si
> sono dimostrati incapaci di trasferire l'alternativa sociale e
> culturale
> sul terreno della politica. Non sono riusciti, cioè, a liberare la
> sinistra dal fardello di quel ceto burocratico che continua a tenere in
> pugno le redini dei partiti.
>
> La situazione italiana è, da questo punto di vista, esemplare: la
> sinistra
> è ostaggio dell'eredità culturale ed elettorale del PCI che, per quanto
> ridistribuita fra tre partiti (con la prospettiva tutt'altro che
> inverosimile che diventino quattro), riesce a imporre la continuità del
> paradigma novecentesco - lavoristae autoritario -, condiviso tanto
> dalle
> componenti che rivendicano un'identità resistenziale, quanto da quelle
> convertite al liberismo. Del resto, ampliando il punto di vista al
> panorama europeo, non si vedono scenari diversi: nei Paesi in cui le
> differenze fra partiti socialdemocratici e partiti post o neocomunisti
> sono più sfumate se non cancellate ci troviamo di fronte allo stesso
> miscuglio di resistenzialismo e subalternità, caratterizzato dalla
> paradossale, continua oscillazione (ritmata dalle scadenze elettorali)
> fra
> difesa delle ultime trincee del welfare (con un occhio di riguardo per
> gli
> interessi degli strati di classe autoctonie garantiti) ed esaltazione
> (vedi il caso Blair) del modello di sviluppo capitalistico americano.
> Finché non ci saremo sbarazzati di questo retaggio ideologico, non sarà
> possibile fondare una sinistra all'altezza delle sfide del XXI secolo
> (globalizzazione economica, integrazione planetaria dei flussi
> finanziari
> e comunicativi, catastrofi ecologiche, migrazioni di massa, stato di
> guerra permanente fra Nord e Sud del mondo). Sui movimenti grava dunque
> la responsabilità di far emergere una soluzione politica (da sviluppare
> sul piano elettorale non meno che su quello culturale) che si lasci
> alle
> spalle l'eredità del comunismo novecentesco.
>
>
> II. L'equivoco del neoliberismo
>
> A rendere arduo il compito, non sono solo le contraddizioni fra ala
> moderata-pacifista e ala radicale-antagonista dei movimenti, ma anche
> il
> persistere di certi equivoci terminologici. Primo fra tutti, quel
> riflesso
> condizionato che, in nome della necessità di opporsi al neoliberismo,
> spinge l'ala radicale a identificarsi - o almeno a stringere alleanza
> con
> le componenti resistenziali della sinistra tradizionale. In realtà,
> nulla
> appare meno adeguato dell'etichetta liberista (per tacere degli ideali
> liberaldemocratici e/o libertari, che a tale etichetta vengono
> impropriamente associati) per connotare la realtà del capitalismo
> globale
> all'inizio del terzo millennio. Linsieme di accordi, regole e procedure
> promossi e gestiti nellambito di organismi come il WTO, il FMI e la
> Banca
> Mondiale, il vertice non eletto della Comunità Europea, ecc. coincide
> infatti con una cultura inequivocabilmente protezionista, la quale,
> mentre
> sbandiera i principi del libero mercato, mira a difendere con qualsiasi
> mezzo gli interessi delle grandi corporation occidentali (e/o
> degli strati sociali che le garantiscono il consenso elettorale). Basti
> pensare all'introduzione di leggi sempre più restrittive in materia di
> proprietà intellettuale e al loro impatto (con conseguenze devastanti
> per
> l'innovazione tecnologica, i diritti dei consumatori, la salute delle
> popolazioni dei paesi poveri) in settori trainanti delleconomia
> (informatica, biotecnologie, industria culturale, telecomunicazioni,
> ecc.), o alla strenua resistenza opposta da Usa ed UE alla
> liberalizzazione dei mercati agricoli. Non ha dunque senso parlare di
> lotta contro il liberismo, laddove è sempre più urgente lottare per
> difendere le libertà individuali e collettive dalla cultura dirigista e
> tecnocratica del tardo capitalismo. Occorre piuttosto denunciare la
> totale discontinuità fra tradizione degli ideali liberaldemocratici (a
> destra) e liberisti (a sinistra) nei confronti di un liberismo che
> (anche
> sul piano economico!) non ha più nulla da spartire con quelle
> tradizioni.
> Ma soprattutto occorre avere il coraggio di superare certe dicotomie
> (pubblico-privato; deregulation-dirigismo statalista, ecc.),
> riconoscendo
> che oggi non è più su di esse che si fonda la contrapposizione
> destra-sinistra. Chiedere nuove regole o sostenere la deregulation,
> rivendicare il ruolo dellintervento pubblico o promuovere la
> sussidiarietà dell'iniziativa privata, non sono opzioni definibili
> apriori come di destra o di sinistra, ma assumono significati diversi
> in
> contesti diversi. La verità di questa affermazione si è manifestata
> chiaramente nel quadro del ciclo espansivo della Net Economy negli anni
> 90 e della successiva crisi, maturata all'inizio del nuovo millennio.
>
>
> III. Splendori e miserie della Net Economy
>
> La transizione verso un'economia della conoscenza che negli anni 90 è
> progredita con eccezionale rapidità, sull'onda della rivoluzione
> digitale
> e della fulminea espansione di Internet ha trasformato radicalmente
> identità e valori del mondo del lavoro. Alla vecchia composizione di
> classe resa omogenea dall'organizzazione produttiva dellimpresa
> fordista-taylorista è subentrato una sorta di Quinto Stato, un
> variegato
> blocco sociale che, attorno a un nucleo centrale di lavoratori della
> conoscenza (dotati di elevate competenze tecnologiche e comunicative),
> ha
> visto l'aggregazione di una galassia di soggetti professionisti
> freelance,
> microimprenditori, management di piccole e medie imprese
> tecnologicamente
> avanzate (startup), addetti del terzo settore e delle imprese sociali
> ecc.
> accomunati da una cultura profondamente innovativa:
>
> 1) etica hacker: abbandonata l'etica lavorista(il lavoro come
> giustificazione morale di una vita e come fonte esclusiva dei diritti
> di
> cittadinanza, a prescindere dal suo contenuto e dalla sua capacità di
> offrire soddisfazione) si è iniziato a pensare al lavoro come
> opportunità
> di tradurre relazioni sociali, competenze comunicative e interessi
> individuali in conoscenze, e di tradurre tali conoscenze in fonti di
> reddito
>
> 2) una paradossale miscela di individualismo e comunitarismo, di
> voglia di
> libertà individuale e di desiderio di comunità, di creatività
> personale e
> di saperi condivisi. Una miscela che era parsa in grado di superare la
> contrapposizione fra leggi del mercato e valori di solidarietà
> sociale, e
> che annunciava la fine del principio di scarsità. Economia di rete
> sembrava voler dire: tutti competono, tutti cooperano, tutti vincono.
> Una
> economia del dono incarnata dalla comunità del software free e open
> source, in cui la gara per essere i primi o i più bravi non è in
> conflitto
> con l'obiettivo di regalare condizioni di vita e di lavoro migliori a
> tutti, non solo ai più abili, aggressivi o fortunati.
>
> Questa visione è entrata in crisi con il crollo dei titoli tecnologici
> iniziato nella primavera del 2000, e successivamente è stata colpita
> con
> lucida e spietata ferocia dall'amministrazione Bush, che ha sfruttato
> l'onda emotiva degli attentati terroristici dell'11 settembre 2001. E'
> iniziato un attacco combinato: gli oligopoli dell'industria culturale e
> del settore high tech hanno usato l'arma del copyright per
> riconquistare
> il controllo assoluto del mercato, e scrollarsi di dosso la pressione
> competitiva dell'arcipelago di startup, professionisti e lavoratori
> della
> conoscenza che per un decennio erano stati i protagonisti
> dell'innovazione
> tecnologico-culturale e di una inedita globalizzazione dal basso. Il
> governo americano in nome della guerra al terrorismo ha militarizzato
> Internet, riducendo drasticamente i diritti di privacy e la libertà di
> comunicazione in rete ed ha così fatto compiere un enorme balzo
> indietro
> alle speranze rivoluzionarie del Quinto Stato.
>
> In questa situazione, il rischio è quello di appiattirsi sulla diagnosi
> neocomunista: l'illusione è finita, l'economia capitalista mostra il
> suo
> vero volto tentando, come aveva sempre fatto nel corso del secolo
> precedente, di risolvere la crisi con la guerra. Ma la verità è che
> nessuna crisi, dopo la rivoluzione culturale che ha messo le
> tecnologie di
> comunicazione e il linguaggio al centro del modo di produzione, potrà
> mai
> più essere risolta con la guerra. Lo conferma il permanente ristagno
> dell'economia europea, lo conferma la ripresa dell'economia americana
> incapace di recuperare i posti di lavoro perduti (e quindi
> costantemente è
> a rischio di risprofondare in una crisi di sottoconsumo). Lo conferma,
> infine, la tenace resistenza di centinaia di milioni di
> utenti-consumatori
> che continuano a scambiare conoscenze e informazioni gratuite, che si
> oppongono alle violazioni della propria privacy, che insistono
> nell'usare
> Internet per comunicare, socializzare e divertirsi invece che
> per comprare.
> Insomma: dalla crisi non si esce con il keynesismo di guerra
> dell'amministrazione Bush, bensì con un nuovo New Deal, evento che solo
> un radicale rinnovamento della sinistra può regalarci. Ma al di là
> delle
> innovazioni culturali introdotte dai movimenti, in quale direzione
> occorre cercare per trovare indizi di un simile rinnovamento?
>
>
> IV. L'alternativa ecologista
>
> Molti dei contenuti che consentono di prefigurare un'alternativa
> politica
> sono stati elaborati, negli ultimi vent'anni, da quel vasto e ricco
> filone
> di ricerca che coincide con l'area culturale ambientalista. La fine del
> paradigma della crescita illimitata costituisce l'orizzonte di un nuovo
> progetto sociale in cui la ricchezza non è più identificata con la
> quantità dei beni consumabili bensì con la qualità del tempo vissuto.
> Il
> che dischiude l'opportunità di collocare in una nuova prospettiva i
> sogni
> della Net Economy: da un lato, la transizione all'economia immateriale,
> pur conservando la promessa della fine del principio di scarsità, non
> verrebbe più identificata con illusioni di crescita infinita di
> un'economia non più limitata da vincoli materiali, dall'altro, l'etica
> hacker verrebbe liberata dal paradosso di una passione che si rivolge
> contro se stessa, generando la cancellazione fra tempo di vita e tempo
> di
> lavoro. L'ultimo aspetto è di rilievo decisivo per affrontare il
>   problema della sofferenza mentale del lavoro cognitivo, problema
> legato
> alle forme di proiezione dell'infosfera mediatica, alle modalità di
> organizzazione del lavoro comunicativo, alle condizioni di
> socializzazione della creatività individuale e dell'energia psichica,
> in
> una parola all'ecologia della mente. Il riferimento al pensiero di
> Gregory Bateson implicito nell'ultimo termine non è casuale: l'incontro
> fra cultura ecologista e tecnologie digitali è infatti un paradosso
> apparente, se pensiamo al ruolo che Bateson e gli altri padri fondatori
> della cibernetica hanno svolto nell'estendere i concetti di equilibrio
> e
> interazione sistemica dalla scienza dei computer agli altri campi della
> cultura contemporanea (ivi compreso quello politico). Su questo piano,
> l'unico che consenta di integrare il problema della felicità ai
> problemi
> dell'organizzazione sociale del lavoro e della comunicazione - si
> giocano
> la comprensione e il governo di una società complessa di fronte alla
> quale la vecchia cultura politica di sinistra come di destra si sta
> rivelando impotente. Dalla crisi non si esce con la riscoperta di
> politiche espansive sul genere di quelle che consentirono al
> capitalismo
> di superare la Grande Depressione degli anni Trenta. Il New Deal del
> futuro dovrà scommettere su scenari diversi: il decongestionamento, il
> rallentamento, la liberazione dallo stress del lavoro, lamicizia e la
> cooperazione fra diversi al posto della paranoia securitaria. Sono
> punti
> sui quali ha ben poco da dire il pensiero socialista novecentesco,
> nelle
> sue varianti rivoluzionarie e riformiste, nelle sue declinazioni
> stataliste o liberali. Solo nell'area politica europea che si è
> definita
> a partire dall'esperienza dei Grunen tedeschi chi desidera opporsi ai
> disegni di globalizzazione della guerra e dello sfruttamento può
> trovare
> lo spazio per avviare il progetto di costruzione di una sinistra
> all'altezza dei tempi. A partire dal superamento del mito della
> contrapposizione antagonista al modo di produzione capitalista e della
> fuoruscita rivoluzionaria dalla società su di esso fondata.
>
>
> V. Per proteggersi dalla seconda natura
>
> L'imprinting culturale storicista impedisce di capire al ceto politico
> post-comunista che il capitalismo non è, come sottintende la nozione
> marxista di modo di produzione, un sistema totalizzante, bensì uno
> strato
> di pratiche, valori, comportamenti, segni che si sovrappone a un
> complesso
> ambiente culturale e antropologico il quale conserva la propria
> dimensione
> plurima e resiste tenacemente a qualsiasi sovradeterminazione
> totalizzante. Contro le letture deterministe-economiciste del
> veteromarxismo, occorre riscoprire la lezione di Karl Polanyi, l'unico
> critico novecentesco del capitalismo che abbia saputo valorizzare
> l'irriducibile autonomia di società e cultura nei confronti del sistema
> economico. La cultura ambientalista ha le carte in regola per
> raccogliere
> l'eredità di questa lezione, grazie a una genealogia filosofica che è
> evoluzionista-sistemica piuttosto che storicista-dialettica. Genealogia
> che le consente di elaborare strategie di autonomia dal capitale senza
> evocare scenari di totalizzazione alternativa.
>
> Il capitalismo, in quanto marcatura semiotica della storia evolutiva
> della
> nostra specie, non è cancellabile. Ma ciò non significa che se ne
> debbano
> accettare passivamente le conseguente devastanti, né tanto meno
> significa
> che la società sia destinata a modellare i propri valori, desideri,
> bisogni e comportamenti sulle sue imposizioni ideologiche. Detto
> altrimenti: il fatto che il capitale operi, in una certa misura, come
> una
> sorta di seconda natura, non implica che occorra subire le sue leggi, e
> adeguarsi agli imperativi normativi che ne discendono. Così come il
> genere
> umano ha imparato a proteggersi dalla natura e dalla morte, pur
> sapendo di
> non potersene liberare, una cultura di sinistra fondata sulla filosofia
> ecologista potrebbe insegnare alla società a proteggersi dal capitale,
> pur
> sapendo di non potersene liberare.
>
> Lo spazio in cui un simile rovesciamento di tendenza può e deve
> avvenire è
> l'Europa. Non l'Europa intesa come potenza da contrapporre alle altre
> potenze, in primis quella americana. Non l'Europa come stato
> sopranazionale. Bensì l'Europa come paradigma post-statuale e
> post-nazionale, come spazio in cui dovrebbe essere possibile
> reinventare
> la forma della politica sul modello della rete. Di stato a rete parla,
> fra
> gli altri, Manuel Castells, analizzando la peculiarità di un processo
> di
> unificazione che si è sviluppato fra continue contraddizioni e
> incoerenze,
> contrassegnato dalla forbice che è venuta progressivamente aprendosi
> fra
> integrazione culturale agevolata dalla formazione di uno spazio
> audiovisuale europeo promosso dai processi di convergenza e
> integrazione
> fra media e reazioni localiste alle decisioni di una politica
> governata da
> vertici tecnocratici privi di legittimazione democratica. Tuttavia è
> proprio il deficit democratico di cui soffrono istituzioni come il
> Consiglio e la Commissione Europea che, paradossalmente, costringe
> il vertice a recuperare legittimità attraverso quel principio di
> sussidiarietà
> che delega alle istituzioni regionali e locali una quantità crescente
> di
> decisioni. Così le nuove tecnologie di comunicazione vengono usate, da
> un
> lato, per accentrare il flusso delle informazioni nelle mani del
> vertice,
> dall'altro per ridistribuire tale flusso a livello regionale,
> promovendo
> la partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche delle
> istituzioni locali. Lo stato a rete si configura dunque come
> condivisione
> di autorità da parte di una serie di nodi. E benché ognuno di essi
> appaia
> dotato di peso e dimensioni diverse, la stratificazione di poteri
> sovrapposti e in competizione reciproca genera legami di
> interdipendenza
> che ridimensionano il potere del centro. Castells definisce questa
> situazione una sorta di neo-mediavalismo istituzionale, ma la si
> potrebbe
> anche definire come un possibile primo passo verso nuove forme di
> partecipazione dal basso - di tipo postdemocratico? - alla politica.
>
> Un contesto in cui alle minoranze attive potrebbe essere offerta
> l'opportunità di contare in misura superiore al proprio peso
> elettorale.
> Un contesto in cui un processo di aggregazione federativa fra
> movimenti,
> partito ecologista europeo e culture del mediattivismo potrebbe dare un
> contributo decisivo per dirottare l'Europa dalla fallimentare rincorsa
> al
> modello americano in cui appare attualmente impegnata. Del resto,
> l'esperienza della piccola Finlandia e più in generale quella di molti
> Paesi del Nord Europa ha già dimostrato che non è affatto vero che
> rivoluzione digitale e sviluppo dell'economia di rete debbano essere
> necessariamente figlie della deregulation e dello smantellamento del
> welfare: il più garantista (e costoso) sistema di welfare europeo ha
> prodotto un'economia e una cultura capaci di generare il fenomeno
> Nokia e
> l'entusiasmante esperienza della comunità open source. Quanto alla
> cultura
> politica ecologista, nulla impedisce come dimostrano le efficaci
> battaglie
> condotte in Parlamento Europeo in opposizione alla brevettabilità del
> software e all'inasprimento delle sanzioni contro le violazioni della
> proprietà intellettuale di coniugare la tutela dell'ambiente, della
> cultura e del territorio locali con la cooperazione e la solidarietà
> generati dalle esperienze sociali deterritorializzate che si sviluppano
> in rete. Per svolgere un ruolo tanto ambizioso, i verdi europei
> dovranno
> tuttavia sbarazzarsi di ogni residua soggezione nei confronti dell'area
> politico-culturale socialdemocratica e postcomunista. Per progredire
> occorre rovesciare progressivamente, anche sul piano elettorale, il
> rapporto di forza fra componenti innovative e componenti novecentesche
> della sinistra europea. Una sinistra capace di indicare alla società la
> via del superamento della sofferenza mentale, dell'insicurezza, della
> paura nei confronti dell'altro, la via di uno sviluppo compatibile con
> l'ambiente naturale e con l'ecologia della mente, della valorizzazione
> di
> nuove forme di cooperazione e solidarietà sociale assieme (e non in
> alternativa!) alla tutela delle libertà individuali e (perché no?)
> delle
> stesse libertà economiche, avrebbe molta più forza di convinzione di
> una
> sinistra che difende valori storici ormai sconfitti o, peggio ancora,
> si
> adegua all'egemonia culturale dell'avversario.
>
>
> VI. Per concludere, due parole sullo scenario italiano
>
> L'Italia è il luogo in cui questa operazione di rinnovamento politico è
> più urgente, perché tutte le contraddizioni finora analizzate vi si
> presentano in forma esasperata: la cultura neoliberista smentisce in
> modo
> più paradossale che altrove il contenuto semantico della propria
> etichetta, incarnandosi in un regime illiberale fondato su un'inedita
> forma di populismo che sfrutta il controllo monopolistico sul sistema
> dei
> media; la sinistra post comunista oscilla in modo più evidente che
> altrove
> fra velleità neo-resistenziali e subordinazione culturale nei confronti
> dell'ideologia dell'avversario; i movimenti di alternativa e
> sperimentazione sociale che pure hanno qui raggiunto un massimo di
> intensità, potenza e ampiezza si sono rivelati meno capaci che altrove
> di
> configurare una vera alternativa politica; infine il partito verde
> appare
> oltre che numericamente ed elettoralmente più debole di omologhe
> formazioni europee, più esposto al rischio di ridursi ad appendice di
> un 
> centro-sinistra perdente o subalterno.
>
> Malgrado queste condizioni tutt'altro che favorevoli, non è escluso che
> analogamente a quanto è successo in Spagna, dove l'elettorato ha
> punito la
> politica di guerra e le menzogne del governo Aznar, e in Francia, dove
> l'elettorato ha respinto l'assalto alla spesa sociale, anche in Italia
> possa verificarsi una sconfitta elettorale del centro-destra alle
> prossime
> elezioni europee. Ma non ci sarebbe ugualmente da stare allegri, perché
> sull'orizzonte politico non si intravede alcuna reale alternativa. Non
> esiste un programma alternativo all'assolutismo del profitto
> monopolista,
> non esiste un progetto culturale capace di coniugare l'innovazione
> tecnologica ed economica con il benessere sociale. Così il fallimento
> del
> centro-destra sta maturando nel quadro di uno scenario inquietante:
> occupato a gestire gli interessi privati del suo leader e a garantire
> gli
> equilibri fra lobby di ogni tipo, il governo non ha fatto nulla per
> trovare vie d'uscita dal processo di disfacimento economico del
> paese. Il tessuto sociale, economico e culturale che si era costruito
> nei
> decenni precedenti si sta lacerando, scontando il tramonto di una
> competitività fondata quasi esclusivamente su flessibilità del lavoro e
> bassi salari. Oggi la globalizzazione sta facendo sentire i suoi
> effetti
> devastanti anche sui settori più dinamici, mentre l'Italia sembra avere
> perso qualsiasi capacità di innovazione culturale e tecnologica (in
> barba
> alle retoriche celebrazioni della nostra creatività, leggi arte di
> arrangiarsi). Il salario reale si è eroso in maniera impressionante
> mentre la politica di privatizzazione dei servizi ha reso il costo
> della
> vita insostenibile.
>
> In questa situazione, diventa sempre più probabile una esplosione
> sociale
> del resto preannunciata da segnali come gli scioperi selvaggi di
> autoferrotranviari e aeroportuali. Un'opposizione degna del nome
> avrebbe
> cercato di dare sbocco politico a queste agitazioni spontanee (così
> come
> ai girotondi che manifestano la propria indignazione per il degrado
> morale
> della vita nazionale e al movimento contro la guerra in Irak), ma ciò
> non
> è accaduto, anzi sembra probabile che un eventuale, futuro governo di
> centro-sinistra possa continuare alcune delle politiche antisociali
> dell'attuale governo di centro-destra. Il rischio è che, in una
> situazione
> del genere, quella stessa destra che non ha saputo governare si
> prepari a
> divenire una forza di opposizione eversiva, decisa a guidare esplosioni
> sociali di stampo populista da parte dei ceti medi impoveriti. Ecco
> perché
> il compito più urgente non è quello di accentuare una crisi del
> centro-destra che procede ormai per forza propria, ma semmai
> quello di investire energie e immaginazione politica dei movimenti
> sociali nella elaborazione di un programma alternativo e nella
> costruzione di un personale politico capace di gestirlo in modo
> spregiudicato, moderno, radicale. Uno scenario in cui l'area verde
> concepita in termini più ampi del partito che oggi la incarna è
> chiamata
> a svolgere un ruolo decisivo, a condizione che non si lasci ridurre ad
> appendice di un centro-sinistra perdente o subalterno, ma assuma i
> connotati di una forza indipendente impegnata a promuovere uno
> schieramento votato a trasformare radicalmente la vocazione governativa
> di un centro-sinistra rinnovato nella cultura e nellatteggiamento. Se
> riuscissimo ad andare in questa direzione, lItalia potrebbe
> rappresentare
> un segmento importante assieme agli altri paesi neolatini di un
> progetto
> di ridefinizione della prospettiva europea secondo linee di identità
> postnazionale e di costruzione di una alternativa all'egemonia
> politico-culturale del modello americano.
>
>
>
> il potere non è
> solo dove si prendono
> decisioni orrende
>     ma ovunque il discorso
> rimuove il corpo la rabbia
> l'urlo il gesto di vivere
>
>                    alice è il diavolo
>
> ---------------------------------

Da: ICDSM Italia
Data: Ven 7 Mag 2004 15:33:38 Europe/Rome
A: Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli.
Oggetto: [icdsm-italia] Artists' Appeal for Milosevic


[ Da piu' di due anni Milosevic, prigioniero in un ex carcere nazista,
subisce un processo-farsa, che viene gestito da una istituzione
illegittima e nel quale tutti i diritti e le procedure giuridiche
standard sono quotidianamente calpestati. Sono state finora accumulate
33mila pagine di verbali del dibattimento, che testimoniano quanto
sopra ma soprattutto testimoniano del fallimento totale della "Pubblica
Accusa", che non riesce a dimostrare alcuno dei capi di imputazione,
nonostante siano stati convocati sinora circa 300 "testimoni" nell'aula
dell'Aia.
D'altra parte, i responsabili di crimini di guerra ben documentati,
come quelli commessi dalla NATO nella primavera del 1999, godono
evidentemente di una garanzia di impunita' da parte dello stesso
"tribunale", visto che
quest'ultimo si e' ostinatamente rifiutato di aprire alcun procedimento
a loro carico, in spregio alle richieste formali ed alla documentazione
pervenuta.
Ciononostante, e nonostante le dimissioni dello stesso giudice May, che
ha addotto "motivi di salute" per gettare la spugna, le cancellerie
occidentali impongono che il "processo" continui, e che esso abbia
l'esito che e' stato scritto gia' prima dell'inizio della farsa:
Milosevic dovra' svolgere la funzione di capro espiatorio - non piu'
solo mediaticamente, ma anche formalmente - dell'efferato squartamento
della Jugoslavia, che dura oramai da 13 anni e non si puo' dire,
purtroppo, sia ancora terminato.
Intellettuali ed artisti di molti paesi diversi -- tra i quali il
maggiore drammaturgo inglese vivente, Harold Pinter, ed il piu' grande
scrittore di lingua tedesca contemporaneo, Peter Handke -- hanno
percio' diffuso un appello, che riportiamo di seguito, rivolto a tutte
le persone oneste, perche' si uniscano
alla nostra battaglia per la liberazione di Milosevic, lo scioglimento
dell'illegittimo "tribunale" dell'Aia, e per una vera indagine e
condanna dei crimini di guerra commessi in tutti questi anni contro la
Jugoslavia ed i suoi abitanti. (A cura di ICDSM-ITALIA) ]


***************************************************
Artists' Appeal for Milosevic
***************************************************

For over two years now, Slobodan Milosevic has been on trial before the
International Criminal Tribunal for former Yugoslavia - a Security
Council institution of dubious legality - charged with 66 counts of war
crimes, crimes against humanity and genocide. Over 500,000 pages of
documents and 5000 videocassettes have been filed as evidence by the
Prosecution. There have been some 300 trial days. More than 300
witnesses have testified. The trial transcript is near 33,000 pages.
Yet after all this time and effort, the Prosecution has failed to
present significant or compelling evidence of any criminal act or
intention of President Milosevic.

In fact, it has been revealed that some prosecution witnesses have been
coerced to lie under oath, others have committed perjury. Former NATO
commander Wesley Clark, was allowed, in violation of the principle of
an open trial, to give testimony in private, with Washington able to
apply for removal of any parts of his evidence from the public record
they deemed to be against US interests.

President Milosevic was indicted during the 78 day continuous
bombardment of Yugoslavia by US-led NATO forces, which used cluster
bombs and depleted uranium, attempted to assassinate Milosevic by
bombing his residence, killed thousands of civilians and caused
billions of dollars of damage to the country's infrastructure. This
illegal act of undeclared war is in clear violation of the NATO
Charter, the UN Charter, and International Law. Yet neither Wesley
Clark, nor the leaders of NATO countries have been indicted for the
crimes of which Slobodan Milosevic is accused.

The proceedings of the ICTY against Slobodan Milosevic, as a large and
growing number of international jurists has publicly stated, respect
neither the principles nor even the appearance of justice. According to
Ramsey Clark, the former Attorney-General of the United States, "the
spectacle of this huge onslaught by an enormous prosecution support
team with vast
resources pitted against a single man, defending himself, cut off from
all effective assistance, his supporters under attack everywhere and
his health slipping away from the constant strain, portrays the essence
of unfairness, of persecution". And now that presiding judge Richard
May has resigned his position for unspecified health reasons, it
appears inevitable, the issue prejudged, that the trial will
nevertheless continue, in spite of the virtual impossibility that a new
judge will be able to come to grips with the mountain of evidence
presented so far.

If justice is not just, if prosecution is persecution, if international
law is flaunted in order to "enforce international law", we are indeed
now living in the dystopian world of George Orwell's 1984. The
neighborhood bully has decided the world is his back yard. The
implications of this egregious use of "power politics" go beyond the
unjust trial of Slobodan Milosevic: the "new world order" now being
implemented is simply inhuman and intolerable. What can be done to
change this cruel and criminal state of affairs?

Let us remember that it was not long ago that 15 million people marched
on the same day in a gesture of international solidarity to say no to
the Bush junta's illegal war on Iraq. Now is the time for another such
gesture. For if this trial continues, the only triumphs will be those
of travesty over justice, power over principle, disinformation over
truth. And many feel that the sum total of these acts constitutes state
terrorism perpetrated on a virtually defenseless country and its
legally elected president.

As artists, our work is to broaden our horizons, to become more human
and to share that humanity. And to create. Destruction is intolerable
to us. It is intolerable that courts be used to justify the killing of
civilians, the destruction of a sovereign nation, and the demonization
and imprisonment of that nation's leader. Let us now create a massive
demonstration of our humanity. Now is the time to make ourselves heard
loud and clear, once again, by publicly denouncing this injustice. We
urge you to join your efforts to those of the International Committee
for the Defense of Slobodan Milosevic.

Robert Dickson, poet (winner of the Governor General's award for French
poetry 2002), Canada
Harold Pinter, playwright, UK
Peter Handke, writer, Austria/France
Alexander Zinoviev, writer, philosopher, Russian Federation
Valeri Ganichev, writer (President of the Writers' Union of Russia),
Russian Federation
Vyacheslav Klykov, sculptor (President of the International Fund for
Slavonic Literacy and Culture), Russian Federation
Dimitri Analis, poet, Greece/France
Valentin Rasputin, novelist, Russian Federation
Fulvio Grimaldi, filmmaker, journalist, Italy
Vladimir Kostrov, poet (winner of Tyutchev and Bunin awards), Russian
Federation
Nadja Tesich, novelist, Yugoslavia/US
Milos Raickovich, composer, Yugoslavia/US
Mick Collins, screenwriter, US/France
John Steppling, screenwriter, playwright, US/Poland
John Goodrich, playwright, US

March-April 2004
Montreal-New York-Moscow-Paris

*******************************************************

If you are an artist and you want to add your name to this Public
Appeal, please send and e-mail to slobodavk@... or to
info@... .

******************************************************************
TRUTH
OR SLAVERY, HUMILIATION AND DESTRUCTION OF SERBIAN NATION

http://www.icdsm.org/battle.htm

THE DECISIVE BATTLE FOR TRUTH NEEDS YOUR HELP NOW!

******************************************************************

SLOBODA urgently needs your donation.
Please find the detailed instructions at:
http://www.sloboda.org.yu/pomoc.htm

To join or help this struggle, visit:
http://www.sloboda.org.yu/ (Sloboda/Freedom association)
http://www.icdsm.org/ (the international committee to defend Slobodan
Milosevic)
http://www.free-slobo.de/ (German section of ICDSM)
http://www.icdsm-us.org/ (US section of ICDSM)
http://www.icdsmireland.org/ (ICDSM Ireland)
http://www.wpc-in.org/ (world peace council)
http://www.geocities.com/b_antinato/ (Balkan antiNATO center)



==========================
ICDSM - Sezione Italiana
c/o GAMADI, Via L. Da Vinci 27
00043 Ciampino (Roma)
tel/fax +39-06-4828957
email: icdsm-italia@...

Conto Corrente Postale numero 86557006
intestato ad Adolfo Amoroso, ROMA
causale: DIFESA MILOSEVIC

sito internet:
http://www.pasti.org/linkmilo.htm

Link Yahoo! Gruppi

Treuhandgebiet Kosovo


[ A proposito del ruolo dell'imperialismo tedesco nei Balcani: dopo
l'esplicito appoggio da parte di autorevoli esponenti
cristianodemocratici (vedi: Helmut Kohl successors continue war against
Yugoslavia --
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3403), il
progetto neonazista della "Grande Albania" si giova adesso anche della
posizione della FDP, che chiede la annessione del Kosovo alla Unione
Europea (sic). Una conseguenza di cio' sarebbe tra l'altro la
formalizzazione definitiva della espropriazione dei beni dello Stato
gia' jugoslavo (oggi SerbiaMontenegro). Consiglieri tedeschi,
stipendiati da fondazioni pseudo-nongovernative, sono gia' all'opera
per decidere come questi beni devono essere depredati e dati in pasto a
mafie locali e capitalisti stranieri, con uno di quei processi di
privatizzazione selvaggia che sono stati cosi' consueti nell'Europa
centro-orientale dal 1989 in poi... ]

http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1082704361.php

23.04.2004


Sonderwirtschaftszone


BERLIN/PRISTINA (Eigener Bericht) - In einem Parlamentsantrag fordert
die Berliner Oppositionspartei FDP den Anschluss des Kosovo an die EU.
Das zu Serbien gehörende Territorium solle Belgrad enteignet und
,,Europa" als ,,Treuhandgebiet" überlassen werden, heißt es in der
Bundestagsvorlage, die der FDP-Abgeordnete Rainer Stinner initiierte.
Stinner sagte in einem Pressegespräch mit dieser Redaktion, nach dem
Anschluss werde sich ,,ein europäischer Leiter" der ,,Außen- und
Verteidigungspolitik" des Kosovo annehmen. Bereits jetzt stellt die der
FDP nahestehende Friedrich-Naumann-Stiftung mehrere ,,Berater" des
Kosovo-Regionalparlaments, die in zentralen Wirtschaftsausschüssen
tätig sind.

In dem Berliner Parlamentsantrag heißt es wörtlich, ,,die Rückführung
des Kosovo unter serbische Souveränität ist für die albanische
Mehrheitsbevölkerung des Kosovo unannehmbar." ,,Die Souveränität des
Kosovo" habe ,,auf die EU über(zugehen)". In der Folge würden die
ausländischen ,,Treuhänder" sämtliche Hoheitsrechte für das
Polizeiwesen, die Justiz, die Innenverwaltung und die Außenpolitik
wahrnehmen, schreibt die FDP. ,,Die sukzessive Übertragung von
Kompetenzen an die politischen Organe des Kosovo" solle ,,mittelfristig
schrittweise" erfolgen, jedoch habe die Besetzung durch fremde Truppen
aufrecht erhalten zu werden.

Handel und Industrie

Wie der Bundestagsabgeordnete Stinner dieser Redaktion ergänzend
erklärte, sei die ,,Europäisierung" des Kosovo ,,die einzige Chance,
(...) Investoren anzuziehen" und ökonomische Fortschritte zu erreichen.
Stinner hält sich zugute, das regionale Kosovo-Parlament in
Wirtschaftsfragen beraten zu haben. Dabei stand ihm der ehemalige
Staatssekretär im Berliner Wirtschaftsministerium Klaus Bünger zur
Seite. Auch der frühere deutsche Wirtschaftsminister
Lambsdorff engagierte sich in Pristina, so dass deutsche Spezialisten
der Friedrich-Naumann-Stiftung anreisen konnten. Sie wurden den
Parlamentsausschüssen für Wirtschaft und Finanzen, Handel und Industrie
sowie dem Haushaltsausschuss beigestellt. Wie der Projektleiter
,,Südosteuropa III" der Friedrich-Naumann-Stiftung mitteilt, vermitteln
die deutschen Berater auch ,,Kontakte" mit den ,,zuständigen
Fachministern" des Kosovo.1)

Exterritoriale Integration

Die Unterstellung eroberter Territorialgebiete und die Einsetzung
abhängiger Regionalverwalter ist für die deutsche Politik nicht neu. So
imitierte das kaiserliche Berlin bei seinen verspäteten Eroberungszügen
die koloniale Praxis der Konkurrenten und gab sich als betreuende
Schutzmacht der Okkupierten aus. Gegenüber der offenen Annexion bietet
die treuhänderische Verwaltung den Vorteil, dass dem besetzten Gebiet
Pflichten auferlegt werden können, jedoch Rechtsansprüche der Gewährung
des Eroberers unterliegen. Dieser Zustand eignet sich insbesondere für
die Einrichtung von ,,Sonderwirtschaftszonen", in denen der Besatzer
exklusive Handelsprivilegien in Anspruch nehmen kann und das
Treuhandgebiet einer ,,exterritorialen Integration" unterwirft.


1) s. auch Nationbuilding
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1078874136.php%5d

s. auch Berliner Beute
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1058051536.php%5d
und Konsequenz des Krieges
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1080255602.php%5d
sowie Leitbild
[http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1080255601.php%5d


Für die Übersetzung kürzerer oder längerer Texte bitten wir Sie um
Unterstützung.
Informationen zur Deutschen Außenpolitik
© www.german-foreign-policy.com

[ Juergen Elsaesser e' l'autore di "MENZOGNE DI GUERRA -
Le bugie della NATO e le loro vittime nel conflitto per il Kosovo"
(Napoli, La città del sole, 2002), testo del quale e' appena uscita in
Germania una nuova edizione (la quinta!) aggiornatissima e quasi doppia
per numero di pagine.
All'inizio di aprile 2004 Elsaesser ha effettuato un nuovo giro di
conferenze in Italia -- vedi:
https://www.cnj.it/INIZIATIVE/elsaes2004.htm
-- di cui relazioneremo in un nostro prossimo messaggio. Alla pagina
http://www.juergen-elsaesser.de
si trovano invece tutti gli aggiornamenti sulle altre iniziative e sui
testi di questo autore. ]


Bundeswehr und albanischer Terrorismus

Jürgen Elsässer liest aus seinem neuen Buch „Kriegslügen. Vom
Kosovokonflikt zum Milosevic-Prozeß“ (Termine im Mai siehe unten)

Nach der Terrorwelle albanischer Terroristen gegen Serben und andere
Minderheiten Mitte März im Kosovo fand Bernhard Gertz, Sprecher des
Bundeswehrverbandes, klare Worte: »Die Unruhen wurden generalstabsmäßig
geplant und durchgeführt. Es muß also einen breiten Kreis von Mitwissern
gegeben haben ... Wer häufiger dort im Einsatz war, sieht doch, daß
sich nichts verbessert hat und das Land zur Zentrale der organisierten
Kriminalität in Europa geworden.«

Während Gertz sich noch wundert, daß »unsere Nachrichtendienste nichts
davon gewußt haben«, gibt es mittlerweile zahlreiche Hinweise, daß die
NATO-geführte Kosovo-Besatzungsmacht KFOR und ganz besonders die
Bundeswehr absichtlich weggeschaut haben, als die Pogrome
»generalstabsmäßig« vorbereitet und durchgeführt wurden.

»Nicht nur Serben, sondern auch UNO-Beamte, Soldaten anderer
Truppenkontingente, albanische Menschenrechtler und unabhängige
Journalisten werfen der Bundeswehr Versagen, ja Feigheit vor. In der
Bekämpfung der Ausschreitungen habe sie eine klägliche, wenn nicht die
blamabelste Rolle gespielt«, faßt der Spiegel in seiner Ausgabe vom 3.
Mai 2004 zusammen.

Warum das so kommen mußte, ergibt sich aus Jürgen Elsässers neuem Buch
„Kriegslügen. Vom Kosovokonflikt zum Milosevic-Prozeß“ (Verlag Kai
Homilius, Berlin). Heinz Loquai sagte bei der Buchpremiere in Berlin am
30. März 2004: „In Elsässers Buch werden die Lügengebäude im Detail
nachgezeichnet ... Es ist trotz oder gerade wegen seiner mit geradezu
kriminalistischer Akribie zusammengetragenen Details äußerst spannend.“
In der FAZ hieß es am 5. April 2004: Elsässer „hat sich als
unerbittlicher Ankläger der deutschen Jugoslawienpolitik seit 1991
hervorgetan, für ihn die bewußte Fortsetzung der Eroberungspolitik von
Kaiserreich und Nationalsozialismus.“ Die Wiener Tageszeitung „Die
Presse“ schrieb über das Buch: „Wenn Joschka Fischer zurücktreten muß,
dann hoffentlich deswegen.“


Der Autor liest und diskutiert mit dem Publikum:


09.05., Berlin, "Tacheles", Oranienburgerstraße, 18 Uhr

18.05., Münster, Gaststätte "Frauenstraße 24", Frauenstraße 24, 19.30
Uhr

19.05., Lübeck, "Otto-Passage-Saal", Große Burg Straße 51, 19.00 Uhr

23.05., Hamburg, serbisch-orthodoxe Kirche, Schellingstr. 7-9 (U-Bhf.
Ritterstraße), 12.30 Uhr (!)

18.06., Berlin, "Rotfuchs", Torstraße 203-205, 16.30 Uhr


Weitere Informationen zum Buch, aktuelle Texte und weitere
Veranstaltungen unter www.juergen-elsaesser.de .

Weitere Terminvereinbarungen sind möglich. Bitte mailen Sie an:
info@.... Darüber können Sie auch das Buch (auf Wunsch
signiert) bestellen - wenn Ihnen der Weg zur nächsten Buchhandlung zu
weit ist.

(italiano / english)

EU ENLARGMENT? YES,
JUST LIQUIDATE THE SERBS FIRST.


1. Ode alla UE (Ivan Istrijan)

2. Strbac: European Commission has a short memory

[ La Commissione Europea ha accettato la richiesta della Croazia di
essere messa in lista per aderire alla UE.
Si tratta dell'ennesima dimostrazione di spregio, da parte della UE,
nei confronti dei diritti umani, visto che questo "stato indipendente
di Croazia" e' stato edificato dai revanscisti ustascia tramite una
guerra fratricida e la pulizia etnica ai danni della popolazione serba
autoctona nella sua totalita'. D'altronde, la stessa "Europa" che oggi
consente l'adesione della Croazia insanguinata e' quella "Europa" che
ha appoggiato e continua a sostenere (vedi Kosmet) il progetto
neofascista delle secessioni su base etnica... ]

3. Balkans and the EU: The Leviathan Cometh (by Nebojsa Malic)

[ Benche' viziato, come tutti gli scritti dello stesso autore, da
posizioni pregiudiziali anticomuniste spesso paradossali, questo
articolo di Malic traccia opportunamente un quadro dei rapporti tra
repubblichette balcaniche ed Unione Europea... ]


=== 1 ===


ODE ALLA UNIONE EUROPEA

Da "Danas", quotidiano serbo finanziato da Soros, 4 marzo. 
In Irlanda, tanta allegria per l'allargamento della UE. "Benvenuti a
casa": questo il saluto ai nuovi entrati. A Dublino, scontri antiglobal
con la polizia.
Belgrado - Il presidente della Jugoslavia (pardon, Serbia-Montenegro)
Svetozar Marovic, oltre a parole di circostanza, auspica "che le
relazioni tra la Serbia-Montenegro e gli Stati, nuovi entrati a far
parte dell'UE, si svilupperanno nello spirito della comprensione e dei
processi d'integrazione in Europa".
Vuk Draskovic (ricordate quel barbone tanto coccolato dall'Occidente,
accerrimo rivale di Milosevic, organizzatore di una manifestazione
della "opposizione democratica" nella quale viene ucciso un poliziotto?
Quello per il quale la Signora Mitterand in persona si disse
"preoccupata" quando stava in galera? Ebbene costui oggi e'...) capo
della diplomazia serbomontenegrina, si felicita con i massimi esponenti
dei Paesi membri, ma poi lamenta: "Mi sento a pezzi. Tutti i paesi sono
entrati a far parte dell'UE, oppure sono sulla via di entrare, meno che
la Serbia e Montenegro".
Slovenia - Janez Drnovsek, attuale presidente della Slovenia (ex primo
ministro, ex membro della Presidenza della Repubblica Socialista
Federativa di Jugoslavia, e presidente di turno nel 1990, quando
incomincio' la tragedia): "Gli ex connazionali - quanto prima in
Europa".

Dal quotidiano "La Voce del Popolo" di Rijeka/Fiume:
Janez Jansa (leader "democratico", ex sottoufficiale di riserva
dell'Esercito jugoslavo, quello che spifferò negli ultimi anni Ottanta
segreti militari all'estero, e giustamente si fece qualche anno di
"patrie galere"... E che all'alba della secessione della Slovenia si
accanì, con i suoi "territoriali" sloveni, contro le caserme e le
giovani reclute - di ogni etnia !!! - dell'Esercito Jugoslavo... Nei
scontri questi "democratici" ammazzarono una trentina di giovani
reclute, che non potevano sparare per difendersi...): "Dipenderà
soltanto da noi, dalle nostre capacità di essere uniti, di riconoscerci
nei valori che ci uniscono (sic!) e non in quelli che ci dividono...."
(All'epoca - 1990-1991 -circolava lo slogan: "Meglio ultimi in Europa
che primi in Jugoslavia").
Berlino - Gerhard Schroeder: "L'allargamento renderà la Germania più
ricca" (Eureka! Intende dire materialmente, certo!).
Montenegro - Il ministro degli Esteri, Dragisa Burzan: "Per il
Montenegro indipendente sarà adesso più facile entrare a far parte
dell'UE".
Belgrado - Il ministro degli Esteri dell'Estonia (paese in cui vige la
discriminazione razziale contro gli slavi), Kristina Ojuland, dichiara:
"L'Estonia dividerà con piacere con la Serbia-Montenegro la sua
esperienza del processo di integrazione all'UE", sottolineando che:
"Questa federazione (non quella socialista, naturalmente, che c'e'
voluta tanta fatica per massacrarla) ha una chiara prospettiva europea".

Meno entusiasti i presidenti, quello della Repubblica Ceca e quello
della Slovacchia.
Quello della Slovacchia non ha nemmeno ufficialmente partecipato alla
manifestazione.
Il presidente ceco, Vaclav Klaus, ha detto invece: "Tutti noi sappiamo
che tra poche ore il nostro stato cesserà di esistere in quanto entità
indipendente e sovrano". Dichiarazione, in occasione dell'annessione
del suo Paese alla UE, rilasciata a "Mlada Fronta" il 22 aprile.


A cura di Ivan Istrijan,
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia
e radiotrasmissione "Voce jugoslava" su Radio Citta' Aperta


=== 2 ===


www.srna.co.yu

Serbian Press Agency SRNA, Republika Srpska
April 23, 2004

Strbac: European Commission has a short memory

BANJA LUKA - The head of the Veritas Center for Documentation and
Information Savo Strbac said he was surprised by the positive opinion
of the European Commission with regard to the candidature of Croatia
for ascension to the European Union, taking into account the fact that
no one is mentioning the preconditions Croatia must first fulfill
anymore,
including Serb returns, the reform of the justice system and the
extradition of Hague indictee Ante Gotovina.

"Instead of fulfillment of previous European Commission conditions, it
appears that the international community is satisfied with the
declarative promises of the Croatian authorities, which have not been
of any benefit to Serbs from Croatia in the past," emphasized Strbac at
a press conference in Banja Luka.

He emphasized that the Croatian authorities are continuing to arrest
Serb returnees, those who remained in Croatia or who are transiting
through the territory of that country with the goal of preventing Serb
returns and the restoration of their property.

"In order to effectively protect themselves from Serb returns, Croatian
officials have tried 4,600 Serbs in absentia indicted for supposedly
committing war crimes and, in Veritas' estimate, this has directly
prevented the return of more than 100,000 Serbs, primarily younger
people, to Croatia," claimed Strbac.

He said that 15 Serbs were arrested outside the territory of the former
Yugoslavia on the basis of Interpol warrants but fortunately such
arrests seem to have stopped lately because many foreign states are
aware that they are based on fabrications by the Croatian justice
system.

Strbac said that in the current year there have been 12 Serbs arrested
in Croatia while there are still 500 wanted by Interpol for war crimes
in Croatia.

In the Croatian prison of Lepoglava there are 53 persons of Serb
nationality, 40 of whom were sentenced for war crimes, while the
remainder were sentenced for other crimes.

Strbac emphasized that since January of this year, the Croatian justice
ministry has failed to respond and is obstructing requests by
appropriate Serbia-Montenegro officials and Serb prisoners in Lepoglava
to allow them to be transferred to Serbia-Montenegro to serve the
remainder of their prison sentence in accordance with European
conventions.

According to Strbac, Croatian authorities are also obstructing and
delaying the process of exhuming the bodies of approximately 1,000
Serbs killed during Operations Flash and Storm in Krajina.

He expressed the hope that concrete plans in this regard will be agreed
upon at the beginning of May at a meeting of the Croatian office for
the search for the missing and the Serbia-Montenegro commission for
humanitarian issues and missing persons.

According to official Croatian statistics, Strbac said that so far in
Zagreb 15,000 Serbs have been forced to accept Croatian nationality,
while 20,000 Serb children primarily of pre-school and elementary
school age have been forcibly converted to Roman Catholicism.

He said that according to the Croatian census of 1991, there were
formerly 582,000 Serbs or 12.2 percent of the total population with
Serb statistics indicating that the figure was actually over 600,000
Serbs or 17 percent.

"After Operations Flash and Storm, more than 400,000 Serbs were
expelled from Croatia and the former Republic of Serb Krajina, and
approximately 7,000 Serbs went missing or were killed in those
operations," said Strbac.

http://groups.yahoo.com/group/decani/message/81495


=== 3 ===


[ Note: We reproduce this article here, because it contains very
interesting information, although Malic's fierce anticommunism is often
recognizable as the source of absurd paradoxes. CNJ ]


http://www.antiwar.com/malic/?articleid=2433
Antiwar.com - April 29, 2004

Balkans and the EU

The Leviathan Cometh

by Nebojsa Malic

In a day or two, the European Union is set to accept 10 new member
countries, many of which were once dominated by another Union – Soviet.
One of the ten is the former Yugoslav republic of Slovenia. On the
occasion, the London-based supporter of Empire (and EU, unsurprisingly)
IWPR published a series of articles analyzing the "progress" of Balkans
states towards the EU. It makes for interesting – if sordid – reading,
reiterating the misconceptions, fallacies and errors that have riddled
Western understanding of the Balkans for the previous 15 years, and
likely even longer.

A Devouring Beast

Framing the issue are three articles: a pep talk by Javier Solana, an
analysis of obstacles by a lecturer on EU enlargement, and a call for a
"bolder" Balkans policy (without actually saying what it might be). The
less said about the first two, the better. What saves the third from
worthlessness is a quote by Heather Grabbe, deputy director of the
London-based Centre for European Reform:

"The union will suffer a lengthy digestion period after it absorbs the
first ten [countries]," said Grabbe. "It may have little appetite for
another round."

A gigantic beast, devouring entire nations and "digesting" them: quite
an apt metaphor for the EU. Of course, the inevitable result of the
digestion is not mentioned, but the digested will feel it nonetheless.

Fortunately, only one of Yugoslavia's successor states will be joining
the EU in two days' time. Croatia just received a green light to begin
the accession process, and is being aggressively sponsored by Ireland
(!), Germany, and Austria. But for others, there is still hope.

Macedonia: Bureaucracy Now

According to IWPR's correspondents, Macedonia is beset with problems
that have "arrested its development" towards the EU. By that they don't
mean the terrorist-coddling Ohrid Agreement, with its system of ethnic
quotas and corrosive political patronage. No, they blame first and
foremost the "stifling centralisation of power, which makes local
government impotent and leaves ordinary people feeling alienated from
an unresponsive bureaucracy."

Brussels, anyone?

Too much corruption, too much politics, too big of a state sector –
these are all "issues" identified by IWPR and analysts it has chosen to
interview. No one mentions how the problems, though existent before,
are now closely bound to the Ohrid agreement and the need to politicize
everything when it comes to the Albanian minority. Nor does anyone note
that bloated
bureaucracy, politicizing of everything and widespread "corruption" (in
this instance, conflict of interest) are salient characteristics of the
– EU!

Still, Macedonians see entry into the EU and NATO as the only way out
of their present economic predicament and the ongoing threat to their
national existence. It is to be expected that any government in Skopje
in the foreseeable future will be working towards compliance with EU
dictates in hope of one day being devoured by the Leviathan.

Bosnia: Unity or Bust

Not surprisingly, IWPR's Bosnia correspondent harps on a theme that it
is the forced-together country's lack of a strong centralized
government that hampers its efforts to become the kind of state the EU
would want. Just look at some of the language in the article:

"overarching institutions in the country, which are capable of speaking
for both entities, need to be strengthened […] demonstrate the country
was truly unified and able to speak with one voice […] Bosnia's current
administrative system is far too complex and cumbersome […] long way
from having an
efficient and functioning state…"

By now the point should be obvious: Bosnia really ought to become a
centralized state. But wasn't that a problem in Macedonia? Well, there
is no room for logic in these matters. And never mind that the desire
for centralization was in good part behind the bloody civil war of the
early 1990s. There is nothing a more powerful government can't fix, or
so the dogma goes.

In keeping with that, Bosnia is said to need some 45 new laws and 25
new institutions, plus:

"compliance with existing international obligations, more effective
governance, a more effective public administration, more effective
human rights provisions, judicial reform, a drive against organised
crime, more effective management of asylum and migration, customs and
tax reform, budget legislation, the production of reliable statistics,
a more consistent trade policy, the creation of an integrated energy
market, the creation of a single economic space and reforms to public
broadcasting…"

Again not surprisingly, most of these measures are aiming for the
abolition of the Bosnian Serb Republic, even though the real
"inefficiency" is engendered in the 10-canton Muslim-Croat Federation.
The Dayton system, which has enabled Bosnia's survival as a country for
the past eight years, has been continually eroded by both the locals
and the succession of
Imperial viceroys. Now it seems set for final demolition, in the name
of "joining Europe." But the only thing Bosnians will join if they
scrap their peace treaty/Constitution will be a new round of ethnic
conflict.

Serbia and Montenegro: Amputation Treatment

When it comes to Serbia and Montenegro, IWPR follows ICG's lead and
advocates their divorce. While Montenegro's current leadership is so
committed to "democracy" that it plans an independence referendum in
order to avoid an election it might lose, IWPR has no trouble with
this. Serbia, on the other hand, they say "lacks a political consensus
about its European destiny and widespread resentment about the
indictment of war criminals feeds strong anti-European sentiment."

Say, aren't "war criminals" people actually convicted of war crimes in
a real court, as opposed to people merely accused by a fake one?
Irrespective of this deliberate semantic lapse, such an assessment
would actually be wonderful, if true. But it isn't – accusations by
Imperial apologists notwithstanding. Why would a government that is
supposedly "restoring the Milosevic regime" (as the aforementioned
apologist alleges) appoint Vuk
Draskovic, an outspoken Milosevic foe, to be Serbia-Montenegro's
foreign minister? Draskovic, whose English leaves much to be desired,
wasted no time in declaring Serbia's absolute commitment to Europe, and
even full obedience to the Hague Inquisition. His coalition partner,
Prime Minister Vojislav Kostunica, pledged devotion to Europe back in
February, even before he officially took office.

One gets the impression that it's not Serbia that fears and hates
Europe, but the other way around. Serbia is the largest of Yugoslavia's
successor states. Supposedly, it is also the least easily controlled,
at least in the minds of Western policymakers whose views are expressed
by ICG, IWPR and other outlets. Their preferred method of controlling
Serbia is through
amputations – first of Kosovo and Montenegro, then Vojvodina, Raska
("Sandzak") and maybe other areas as well. Only thus crippled will
Serbia be "safe" enough to re-educate in the virtues of self-denial and
multi-cultural diversity, Europe's ideology of choice.

The Folly That Is Europe

To see EU accession as a panacea for all the political and economic
ills afflicting the Balkans today is sheer folly. If anything, these
problems will become exacerbated as a result of increased statism even
trying to join the EU brings. This view also reveals a major character
flaw, most likely occasioned by a century of violence and decades of
Communism: only people
with a massive inferiority complex see prosperity as only possible
through attaching themselves to someone wealthier and more powerful.

The EU stands for welfare state, one that is increasingly determined to
stamp out individual liberty and establish omnipresent governmental
control – all in the name of "human rights," of course. So why would
anyone embrace it, least of all so eagerly? Well, a lot of EU hopefuls
in the former Eastern Europe may be seeking a replacement for their
broken Communist dreams, and see the European (as opposed to Soviet)
Union as a vision of what Marxism failed to deliver.

One indicator of this is the constant talk of massive economic
subsidies joining the EU would bring. Few are aware that they would be
funding those subsidies themselves. The EU is not an economic
powerhouse, except in state statistics. Its population is aging and
shrinking, its economy is stagnant and over-regulated, and its workers
are straining under an enormous tax burden necessary to support the
massive welfare state. Hordes of third-world immigrants imported to
lower the price of labor and fill menial jobs (as well as destroy
cultural particularities and promote dependency on government) find it
hard to fit into host societies, creating friction and conflict. One is
definitely tempted to see the eastward expansion as a drive to acquire
more productive economies in order to prop up the failing welfare
system. But as the newcomers find themselves mired in the same morass
of tyrannical regulations, saddled with a huge bureaucracy and forced
to enact the same bizarre and wasteful policies that have proven such a
drag on older EU members, their economies become welfare-oriented as
well, and their productivity drops.

Philosophy of Destruction

Europe's economic and social policies are not the only thing that is
bankrupt. Its underlying philosophy is corrupt as well. Symptomatic in
this regard are the rants of Bernard Henry-Levy, a Frenchman whom the
BBC called "one of the foremost living philosophers in the Western
world." He thinks that Bosnia, with its ethnic mix, is "something to
which all Europe should aspire." This delusion about Bosnia's
multi-cultism does not even remotely correspond to the violent and
divided reality of that forcibly maintained "nation." Following Levy's
prescription would lead Europe in short order into a spectacularly
violent orgy of self-destruction, one that would make the Bosnian War
seem romantic in comparison.

Henry-Levy's madness does not end here. He regards the EU primarily as
a tool for destruction of national particularities, believing that "All
that allows us to bypass nationalism is good." Also evident in his BBC
interview is Levy's fundamental commitment to multi-cultist policies of
guilt. In addition, he champions social engineering and humanitarian
intervention (he was an outspoken partisan of the Izetbegovic regime in
Bosnia).

Yet Europe's greatest strength has always been its heterogeneity, the
fragmentation of its political and cultural landscape that drove
competition and innovation as well as conflict, and enabled the
European (now called "Western") civilization to make such an imprint on
the rest of the world, for good or ill. Such a divided Europe advanced
both the philosophies of free market and socialism, individual liberty
and omnipotent government, universalism and nationalism. Levy's vision
is but one extreme of European civilization, composed of legacies that
are morally dubious and empirically
violent.

He wants to make Europe resemble Bosnia, and the BBC – along with many
others – praises him for it. What more proof does one need that the
West has truly fallen?

One More Thing To Lose

That the Balkans countries see their future in the EU is the best
indicator of how dire their current predicament is. While it may seem
that they have everything to gain and nothing to lose by joining the
EU, this perception is fundamentally wrong. They do have one more thing
to lose, the most precious of all: freedom to create a future of their
own, for good or ill. If that, too, is gone the way everything else has
disappeared over the past decade, the triumph of despair will indeed be
complete.

Is that the future any of these people really want? Surely not.

BARI
venerdì 7 maggio ore 20:30


Unione degli studenti - UDU (unione degli universitari) - mutua
studentesca
- RETE STUDENTESCA BARI -

presenta

PIU' SAPERE, PIU' PACE
>>> per l'accesso al sapere per tutti
>>> per il diritto all'informazione
>>> contro tutte le guerre

venerdì 7 maggio ore 20:30

Centro Servizi Zona Franka
via Marchese di Montrone 80

LE ALTRE VERITA' DEL KOSOVO

proiezione documentario inedito di Pasquale Giordano

Dibattito con

Andrea Catone
(Associazione Most Za Beograd - Un ponte per Belgrado in terra di Bari)

Onofrio Romano
(dipartimento Sociologia, Università di Bari)

------------------------------------------------------------------------
"PIU' SAPERE, PIU' PACE" è un'iniziativa realizzata a sostegno della
campagna "FARE FUTURO". Durante gli incontri saranno raccolti fondi per
la ricostruzione di due scuole superiori a Bagdad e materiale
scolastico per gli studenti iracheni
------------------------------------------------------------------------


Most za Beograd - Un ponte per Belgrado in terra di Bari
Associazione culturale di solidarietà con la popolazione jugoslava
via Abbrescia 97, 70121 BARI
tel/fax 0805562663
most.za.beograd@...
conto corrente postale 13087754

Nell’ambito della settimana d’informazione e mobilitazione

 promossa dal “Comitato fiorentino fermiamo la guerra”

 

Mercoledì 12 maggio 2004 - ore 21.00

Circolo ARCI Isolotto,

Via Maccari, 104 Firenze

 

Sui sentieri della guerra infinita…

dalla guerra “umanitaria” alla pulizia etnica

 

proiezione del film/documentario

“I dannati del Kosovo”

di M. Collon e V. Stoijlkovic

 

Un filo rosso di sangue e nero di petrolio lega le guerre in Kosovo e
Iraq.

I dannati del Kosovo sono le vittime delle pulizie etniche perpetrate
dell'UCK sotto lo sguardo, spesso compiacente, di NATO e ONU.

Sono Serbi, Rom, Goranci, Askaljia, turchi... una ricchezza incredibile
di lingue e culture per un paese, che era multietnico, il Kosovo.

 

Molti di questi profughi, i “dannati del Kosovo”, vivono nella nostra
città, accanto a noi, ma sembrano invisibili come la guerra che li ha
fatti fuggire e che fu chiamata “umanitaria”. Una vergogna troppo
spesso taciuta.

 

Una serata per capire quali sentieri portano da Pristina a Baghdad

Una serata per vedere che i “dannati del Kosovo” sono nella nostra
città.

Una serata per incontrare chi ha subito la guerra e le pulizie etniche.

Una serata per accorgersi che anche Firenze è una retrovia della guerra
infinita.

 

Intervengono:

 

Ivan Pavičevac -- Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia

Orsola Casagrande -- giornalista del Manifesto

Sandro Targetti -- Casa dei Diritti Sociali

 

Venerdì 14 maggio - ore 17,30 - manifestazione

per il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq

 

Per informazioni:
347.1380980 – 338.3092948   
e-mail: ristori@...




[Sono state eliminare la parti non di testo del messaggio]

UNA PROVOCAZIONE BELLA E BUONA


La Giornata Mondiale della Liberta' di Stampa e' stata celebrata il 3
maggio a Belgrado dall'UNESCO.

Per la sua celebrazione l'UNESCO ha dunque scelto il contesto
serbomontenegrino, nel quale pero' di fatto da circa tre anni la stampa
e' sostanzialmente imbavagliata.

Infatti fino al 2001 a Belgrado coesistevano da una parte i media di
Stato e vicini alle sinistre di governo, critici verso l'Occidente, e
dall'altra i media "indipendenti", pagati da fondazioni e governi
occidentali e critici verso il governo.

Oggi, viceversa, tutti i media a Belgrado sono vicini al governo, alla
NATO ed alla UE, ed anche i principali sono stati privatizzati e
venduti all'Occidente (ad es. "Politika" e' stato acquistato dai
tedeschi della Westdeutsche Allgemeine Zeitung).

L'UNESCO, da statuto, non dovrebbe occuparsi piuttosto della
salvaguardia del patrimonio storico-artistico della SerbiaMontenegro,
patrimonio che la NATO sta devastando per mano dei suoi alleati
neonazisti dell'UCK nella provincia del Kosmet?

(Italo Slavo)


Unesco Celebrates World Press Freedom Day in Belgrade


[Aps 3/5/04] Paris - Unesco celebrates World Press Freedom Day (May
3rd) in Belgrade, where a conference on the situation of journalists in
conflict zones is scheduled.
Unesco Director General Matsuura Koichiro considered that "this year's
chosen theme is tragically fitting in view of the fatalities and
injuries suffered by media professionals reporting on armed conflicts"
where "each year a number of journalists lose their lives in the course
of pursuing their profession."
He also stressed on the importance of a "free and pluralistic media"
for "building inclusive societies, securing respect for human rights,
empowering civil society and promoting development."
In another message, Unesco Director General, commenting the reports of
professional organizations, expressed his strong concern about the
number of journalists killed in 2003, "in the course of pursuing their
profession," was the highest since 1995.
These reports estimate that 36 to 42 journalists on a mission were
killed worldwide last year. Some 14 to 19 journalists died in Iraq,
five in Philippines and three in Colombia.
To celebrate World Press Freedom Day, Unesco has launched a web site
providing information on the events organised worldwide.

http://www.aps.dz/an/pageview.asp?ID=62118


IRAQ = JUGOSLAVIJA / 11:

Sull'Onu e le ragioni della resistenza

Dai compagni di RED LINK riceviamo e giriamo:
-----------

Lo scopo principale dell’Onu è sancito dall’art. 1 della sua Carta:
“mantenere la pace e la sicurezza internazionale e a tal fine
adottare efficaci misure collettive per la prevenzione e la
rimozione delle minacce alla pace.”

 “Il tenore di vita degli americani non si negozia” :
Ronald Reagan

 
L’ONU DAL MITO ALLA SURREALTA’

 
ROSSANA ROSSANDA: “come era verde la mia vallata!”

Sul Manifesto del 15.4 Rossana Rossanda, pur in un articolo che voleva
essere di opposizione all’occupazione dell’Iraq, assumeva lo scontro
che ivi (e in situazioni simili) si sta svolgendo come una regressione
complessiva dei rapporti umani. Regressione da parte delle potenze
occidentali rispetto ai progressi compiuti con la nascita dell’Onu e
del relativo diritto internazionale: “I rapporti internazionali stanno
arretrando a quattro secoli fa, a prima del trattato di Westfalia che
segnava la fine dell’Impero e metteva qualche regola ai rapporti tra
gli stati.” Regressione da parte degli oppressi: “ l’inatteso
risollevarsi contro di essa (la superpotenza Usa) –in mancanza di
quella idea civilizzatrice del conflitto che era stata il socialismo-
di resistenze arcaiche, nazionaliste, etniche, furenti e disastrose.”

Come al solito, le parole sono calibrate con accorata misura. Al di là
della loro specifica suggestione, ripetono però un leit motiv che, sia
pure con i diversi arredi di ciascuna scuola, attraversa gran parte
della sinistra, anche di quella che è o si auto-rappresenta la più
antagonista. Non è più un mistero infatti che quanto maggiore è la
nobiltà dell’internazionalismo comunista di alcuni compagni tanto
maggiore è l’esecrazione per i popoli che si ribellano alle aggressioni
imperialiste: sarebbero reazionari per i loro obiettivi, sarebbero
barbari per i loro metodi di lotta, per il loro disprezzo della vita
umana a cominciare dalla propria, nel migliore dei casi non avrebbero
programmi.

Siamo comunisti e, ovviamente, avremmo preferito che in campo ci fosse
una bella e grande internazionale, anche migliore dell’abborracciata
“terza” prodottasi per distacco da una socialdemocrazia che le lasciò
alcuni dei suoi virus. Tuttavia, non condividiamo il “solito”
pessimismo della Rossanda sull’ora presente; né condividiamo il suo
ottimismo sul passato con l’ormai immancabile sospiro sulla sua
gioventù.

MA L’ONU FU UN PROGRESSO?

Cominciamo dall’Onu “originario” e dal diritto internazionale contenuto
nella sua Carta o che direttamente e indirettamente si è venuto a
formare intorno a questo organismo. Cominciamo dall’Onu, perché i bei
tempi di una volta, per Rossanda, non sono soltanto quelli westfaliani,
ma quelli del secondo dopoguerra. Si dice e si ripete: i fondatori
dell’Onu, sotto la spinta di un’umanità progredita, hanno finalmente
sancito il ripudio della guerra, recepito anche dalla Costituzione
italiana con il famoso art. 11. In buona sostanza –e anche formalmente
con una serie di successive norme e dichiarazioni- il diritto
internazionale onusiano ha azzerato, dopo i primi tentativi della
Società delle Nazioni, lo ius ad bellum, il diritto di fare la guerra,
 riconosciuto a seguito della pace di Westfalia del 1648.

Al tempo, però: il diritto alla guerra non era negato prima di
Westfalia, ma, come mettono in evidenza numerosi studiosi, era solo
negato a chiunque non fosse titolare dell’Impero. Per essere più
precisi, non solo l’Impero era l’unico soggetto legittimato alla
guerra, ma questa guerra assumeva i connotati religiosi dello iustum
bellum. La guerra santa o sacra, per di più, si giustificava non per le
sue ragioni, ma per il titolare che l’attivava, mentre chi vi resisteva
era trattato alla stregua non di un normale nemico: questi era abietto,
un fuorilegge, un bandito, un peccatore irredimibile, un infedele. Con
il trasferimento invece ad ogni Stato del diritto alla guerra,
qualunque potesse esserne il motivo (che se indagato unilateralmente o
dal vincitore portava alle aberrazioni della guerra santa), tutti gli
eventuali belligeranti venivano, per così dire, umanizzati, con una
conseguenza molto importante: le parti in guerra, i nemici, diventavano
reciprocamente iusti hostes, nemici “giusti”, con l’obbligo di
osservanza di alcune regole di correttezza, nella conduzione delle
ostilità, compendiate nello ius in bello. La più importante di queste
regole era il divieto di coinvolgere le popolazioni civili, che invece,
in base alla filosofia della guerra santa, che comportava il totale
disprezzo del nemico fino a concepirlo disumano, venivano
tranquillamente massacrate, anzi erano oggetto di doveroso massacro in
nome di dio.

Non ci sfugge che il nazionalismo rivoluzionario (perché
anti-assolutista) sul finire dell’ottocento e soprattutto con la prima
metà del novecento cambia di segno nel nuovo contesto della
competizione capitalistica e imperialistica. Utilizzato sempre di più
in chiave sciovinistica all’esterno e anti-proletaria all’interno,
diventa lo strumento ideologico per scontri bellici, che, dotati ormai
di armi terrificanti capaci di estinguere la specie umana, sono sempre
più programmaticamente iper-distruttivi. Il marxismo ha ben messo in
evidenza e denunciato il carattere reazionario delle guerre prodotte
dalla competizione inter-capitalistica. Non a caso, già a seguito della
guerra franco-prussiana del 1871, la consegna è quella di contrastare
qualsiasi guerra tra gli stati capitalistici e di fare disfattismo
all’interno del proprio paese. Diverso continuò ad essere invece il
discorso sulla guerra di liberazione nazionale. In ogni caso, la ferma
opposizione alla guerra tra paesi capitalistici nulla ha a che vedere
con il pacifismo assoluto o giuridico, che continua disinvoltamente a
sorvolare sulle cause della guerra e anzi, sulle orme di Kant, si
ostina a indicare come rimedio della stessa quello sviluppo del
commercio mondiale che è invece a tutta evidenza un acceleratore di
contese. Come pure nulla ha a che vedere con la pretesa di voler
superare l’anarchia mondiale, dovuta alla esclusiva potestà degli
stati, con il governo mondiale, cioè con una prospettiva in parte
utopica e in parte apologetica della super-potenza di turno. Agli stati
come unici soggetti del diritto internazionale, il marxismo oppose la
soggettività del movimento proletario internazionale.

Ciò precisato, una prima considerazione sul presunto progresso del
diritto onusiano si impone a partire dalle sue fonti e dal contesto. E’
noto che l’Onu –per quanto fosse ispirato alla filosofia germanica,
idealista e pacifista, di Kant e di Kelsen- fu fortemente voluta da
quella che Gordon Poole ha definito “la nazione guerriera”, in
particolare dai molto pragmatici pacifisti dello stampo di Roosevelt e
Truman. Ebbero come collaboratori anche Churchill e Stalin, ma siffatta
collaborazione, sia per la qualità dei soggetti sia per gli interessi
da loro rappresentati, non apportò variazioni al tema suonato dagli
usamericani. L’unica modifica che i “padri fondatori” accettarono –e
non certo per l’insistenza inglese- fu quella relativa
all’ammissibilità della guerra per legittima difesa (art. 51): al
riguardo bisognerebbe chiedersi perché il sodalizio che andò a formare
il Consiglio di Sicurezza era così intransigentemente pacifista da non
aver previsto in un primo momento neppure il diritto alla legittima
difesa, per non parlare del diritto alla resistenza o della legittimità
della guerra di liberazione anticoloniale (quest’ultima decisamente
negata dagli inglesi).

Certo, la scuola di Rossanda, non potendo rinnegare del tutto il
proprio passato ed in particolare l’alleanza “comunista” con la Casa
Bianca per battere il nazifascismo, non concorderà mai con il nostro
sprezzante giudizio sull’imperialismo finanziario –quello democratico-
che prende le mosse da Wilson. Tuttavia, ci concederà la legittima
suspicione sul pacifismo e l’umanitarismo (superiore addirittura a
quello dei westfaliani) di siffatte fonti soggettive; tanto più ce lo
deve concedere, se –nell’ottica dell’etica della responsabilità- vorrà
realisticamente valutare le conseguenze reali venutesi a determinare,
con notevole regolarità, nonostante le belle intenzioni. Rossanda non è
una banale stalinista che crede ancora che il superimperialismo
statunitense (e il regime democristiano in Italia) siano il frutto di
una deviazione storica, di un accidente o di un tradimento, che si
sarebbero sovrapposti all’etica delle convinzioni.

Andiamo poi oltre il sospetto, se teniamo bene in mente le gesta dei
pacifisti cosmopoliti made in Usa a ridosso della nascita dell’Onu.
Hiroshisma – ribatte ostinatamente Bertinotti - non è commensurabile ad
Auschwiz: la prima sarebbe stata teatro di un’ordinaria strage
criminale con limiti di tempo e di spazio, quindi senza finalità di
genocidio; la seconda avrebbe visto proprio un genocidio programmato
che preludeva, ove non contrastato, allo sterminio anche dei popoli
inferiori dell’Est e di qualsiasi razza impura nel cuore dell’Impero.
Si tralascia però, nel voler enfatizzare troppo la singolarità del male
nazista, che la ripetizione della strage a Nagasaki, unitamente alla
prima “prova” atomica, andava ben oltre i limiti di tempo del 6 e del
9 agosto 1945 e ben oltre lo spazio delle due annientate città. O
dobbiamo ancora una volta ricordare cosa significano le radiazioni
atomiche?

Arriviamo infine alla certezza, se non ci dimentichiamo che la White
supremacy del Nord America ha sterminato 50 milioni di nativi (per
potersi espandere ad Ovest) e ha deliziato, in piena modernità, tutti i
reazionari del mondo con una “eccezionalità”, questa sì davvero
incomparabile, esplicitamente invidiata dai nazisti: la schiavitù.
L’hanno abolita con la guerra civile, mentre continuavano a sterminare
i pochi “indiani” rimasti vivi, per sostituirla con l’apartheid.
Sostituita quest’ultima con i ghetti e quell’universo carcerario che
oggi include (per la gioia pure degli imprenditori affamati di lavoro
“nero”) circa di 7 milioni di persone. Per non parlare di
Guantanamo.Tutto ciò ovviamente ancora non appare orrendo e
incomparabile a Bertinotti, perché la gestione dei mass media sta tutta
nelle mani dei carnefici; ma proviamo a immaginare come apparirebbero
le cose, se gli Usa venissero sconfitti da qualche loro concorrente.
Sull’argomento saremmo tentati di richiamare le documentate denunce di
Losurdo, se non fossero inficiate dal tentativo di proporre un’altra
union sacrée contro il nuovo Male Assoluto.

In tali presupposti, non ci sembra azzardato dire che il grande
vincitore (il plurale non cambia molto la sostanza) della II guerra
mondiale, superando le indecisioni –di fatto e di diritto- della
Società delle Nazioni, ancora determinate dal diritto westfaliano,
amasse proclamarsi pacifista universale a tutti i costi, per difendere
i suoi fini particolari. Avendo stabilito il suo dominio (unilaterale,
sicuramente a livello finanziario ed economico), aveva tutto
l’interesse alla pace, cioè a quella che qualcuno ha chiamato la
“stabilità gerarchica”. D’ora in avanti chiunque farà la guerra non
sarà un semplice nemico, ma un nemico dell’umanità, un criminale.
Seguendo l’etica delle convinzioni, è bello a leggersi…e a credere che
il principio sarebbe valso anche contro “i potenti”. Magari si dubiterà
della buona fede di taluni guardiani della pace; ma si spiegherà a se
stessi che questi guardiani sono stati costretti dall’umanità o dalla
lotta di classe a recepire questo pacifismo assoluto: si tratta dunque
solo di vigilare sulle trasgressioni…magari anche di quelle commesse
dai più forti.

Questo ottimismo non ha tentennato neppure di fronte all’ovvia
considerazione che le fonti di produzione del diritto internazionale
hanno un rapporto alquanto diverso con quella pressione popolare, che
le dovrebbe in qualche modo influenzare, dal rapporto che si stabilisce
nei momenti delle rivoluzioni nazionali o demo-borghesi. Viceversa, per
darsi forza persuasiva, si è impegnato ad elaborare concetti quali “la
società civile mondiale”, “l’opinione pubblica mondiale”, per assumerli
per di più come analoghi a quello già equivoco della “società civile”
nazionale. Si sa anche quanto sia controverso il giudizio sulla misura
e sugli effetti che la pressione popolare o la lotta di classe può
avere sulla domestic juridiction (Costituzione, leggi ordinarie,
diritto del lavoro). Non siamo anarchici e ammettiamo anche noi con
Marx che alcune lotte e più in generale i rapporti di forza tra le
classi possono temporaneamente cristallizzarsi in leggi ufficiali
(esemplare quella sulla riduzione della giornata lavorativa); non
trascuriamo, però, neanche la capacità del capitalismo di fagocitare
leggi strappate dalla lotta proletaria nei suoi meccanismi e nei suoi
disegni antiproletari.

In ogni caso, le leggi e le Costituzioni borghesi “avanzate” si sono
date in contesti, in base a presupposti e con finalità assolutamente
assenti nel caso del diritto internazionale. Le nazioni che nacquero
nel sette/ottocento, detto con estrema concisione, avevano due
connotati rivoluzionari: lo scopo di liberarsi dall’assolutismo e la
grande mobilitazione popolare, in alcuni casi veemente e molto corposa
(livellatori in Inghilterra, sanculotti in Francia).
Significativamente, in tali contesti i rivoluzionari borghesi
arrivarono a riconoscere anche normativamente la legittimità di
resistenze e insurrezioni, che invece era negata da quei settori
liberali moderati e già preoccupati dagli eccessi plebei: tra questi
ultimi c’è proprio e molto significativamente il “pacifista assoluto”
Kant. Anche le successive democratizzazioni (eliminazione del voto
censitario, riconoscimento dei sindacati, voto alle donne, legislazione
lavorista) si sono date con la spinta di massa, sebbene –bisogna
aggiungere- queste democratizzazioni siano state neutralizzate dalla
sovrapposizione di istituzioni sempre più centralizzate ed autoritarie,
per così dire, fuori controllo.

Nel caso, invece, del diritto internazionale abbiamo come unici
protagonisti gli Stati o, per essere più precisi, solo i membri dei
loro esecutivi o comunque della diplomazia non eletta. Quanto poi al
diritto onusiano (che supera quello westfaliano), non si può sfuggire
al fatto che gli unici protagonisti non furono nemmeno tutti gli Stati
che si riunirono nell’aprile del 1945 a San Francisco. Ogni virgola,
anche statutaria, fu decisa e scritta dai vincitori della seconda
guerra mondiale ed, in particolare dagli Usa, non solo per il loro
strapotere economico/finanziario (non scalfito in patria neppure da una
bomba a mano), ma anche perché erano gli unici detentori dell’atomica.
Anche il semplice supporre che all’assemblea di San Francisco sia
arrivata, magari tramite i rappresentanti dei piccoli paesi poveri,
l’eco della pressione popolare mondiale, di novelli livellatori o di
sanculotti, magari anche adulterata nelle norme universali scritte dai
potenti, è privo di qualsiasi plausibilità sotto il profilo logico,
storico e sistematico: c’est du cinema!

Ma, il ripudio della guerra non si era sedimentato anche nella
coscienza di massa mondiale a fronte delle mega-distruzioni già
verificatesi e di armi ormai capaci di desertificare l’intero globo
terracqueo? Sicuramente, ma questa coscienza o, se vogliamo, questa
pressione fa solo da sfondo generico e “debole” agli enunciati delle
classi dominanti. Se avesse avuto una rilevanza “forte” e diretta sulla
nuova normativa onusiana del ripudio della guerra, avrebbe dovuto
quanto meno impedire lo sganciamento delle due bombe atomiche. Si
faccia invece di nuovo attenzione alla successione temporale: i “padri
fondatori”, preoccupati –secondo certi pacifisti- per se stessi e per
la pressione della nuova umanità, delle enorme potere distruttivo delle
armi, propongono il 25 aprile 1945 il ripudio della guerra; ad agosto
dello stesso anno (…forse per confermare che le armi erano veramente
distruttive e quindi avevano avuto ragione a proporre il rifiuto della
guerra?) annientano due grandi città proprio con quelle armi capaci di
distruggere l’umanità intera. Non solo, ma negli anni successivi,
mentre cresceva la paura dell’umanità per la guerra, si sono impegnati
freneticamente ad aumentare i loro potenziali atomici.

Se ce la vogliamo dire tutta, nonostante Stalin all’Onu, il senso
comune del popolo di sinistra si rifaceva ancora alla liquidazione
leninista del consesso mondiale: “è un covo di briganti!”

D’altra parte, l’Onu ha dato le prime prove di sé immediatamente,
avallando la nascita dello Stato di Israele nel 1947 e dopo qualche
anno la guerra usamericana di Corea. Ma furono trasgressioni, direbbe
l’idealista normativo o il pacifista giuridico che si ispira a Kant e
Kelsen. Sia pure. Ma non furono percepiti come una trasgressione i
Tribunali di Norimberga e di Tokyo per condannare i criminali di
guerra, a parte qualche critica per salvare la faccia….e salvo stupirsi
oggi del Tribunale speciale per l’ex Jugoslavia, nonostante la sua
straordinaria somiglianza con quei primi due.

Al riguardo, diciamo subito che non mettiamo in dubbio la legittimità
di eliminare un nemico in una guerra o nel corso di una rivoluzione. La
logica che presiedeva quei Tribunali andava però molto oltre. Tanto per
cominciare non erano Tribunali neanche nel peggior senso borghese del
termine. Un Tribunale –come è noto soprattutto agli ultra retorici
democratici- è un organo terzo tra gli accusatori e gli imputati;
ammette il diritto di difesa; non è speciale, se deve giudicare della
violazione di diritti fondamentali ed universali. Quelli di Norimberga
e di Tokyo furono invece costituiti dai soli vincitori; violarono
–anche secondo Kelsen- gravemente il diritto di difesa; erano speciali.
Inoltre, partirono dall’assunto che gli imputati erano criminali (di
guerra), non che erano accusati di crimini di guerra.

Partiamo da quest’ultima circostanza. Se si riteneva che i gerarchi
nazisti e nipponici erano già colpevoli ed erano colpevoli di quei
crimini, bisognava fucilarli subito, a botta calda, senza processo. Ma
perché si ha bisogno di un lungo e spettacolare rito processuale, e per
la prima volta, secondo il nuovo diritto internazionale ispirato dai
principi onusiani, perché si sente il bisogno, a seguito di una guerra,
di condannare delle persone fisiche? Le spiegazioni sono molteplici: il
rito vittimario del capro espiatorio, la vendetta, la necessità di
mettere in scena il trionfo dei vincitori, il contentino alle vittime
del nazifascismo. Sono tutte valide, anche se noi riteniamo che il
motivo più importante –oggettivo e sistemico- sia stato quello di
processare solo le persone fisiche per assolvere il capitalismo:
insomma la guerra sarebbe stata voluta dai pazzi e dai criminali.

Sia quello che sia, pochi capirono all’epoca che quei processi,
giustificandosi con imputati particolarmente odiosi, erano il segnale
di una regressione le cui matrici stavano inscritte proprio nel nuovo
diritto internazionale ultrapacifista a senso unico. Tanto più
avrebbero dovuto capirlo, quando fu rifiutata all’Etiopia la richiesta
di poter organizzare un Tribunale ad hoc per processare Graziani e
Badoglio per i crimini commessi nel Corno d’Africa, nell’ingenua
convinzione che le nuove norme avessero davvero carattere universale.

Successivamente, una serie di avvenimenti limitarono la portata
dell’Onu, facendo ancora valere le regole westfaliane. Come è noto,
infatti, il “glorioso trentennio” del boom economico e del
superimperialismo, fu anche il periodo di incessanti movimenti
antimperialisti nella cornice della guerra fredda. Ma, tutto ciò
avvenne nonostante e contro l’Onu.

Difficile farlo capire ad un antifascista di maniera o a chi
dell’antifascismo ha fatto un affare, ma la colta e pacata Rossanda
dovrebbe cominciare a rifletterci, a tutto voler concedere ai suoi
legami emotivi con il togliattismo.

LA PRIMA AGGRESSIONE ALL’IRAQ E’ FIGLIA DELLA VERA ONU

Soprattutto, questa riflessione sarebbe stata doverosa in occasione
della prima guerra del Golfo nel 1991. Avevano ragione allora i
filosofi e giuristi (Habermas, Bobbio, Cassese), sostenitori
entusiasti della grande coalizione contro Saddam: per la prima volta
l’Onu era se stesso, stava applicando alla grande i suoi principi,
stava manifestando la sua vocazione originaria. Patetici, goffi e
impacciati erano invece quelli, che richiamandosi alla vera Onu,
denunciavano la violazione del diritto internazionale.

Cosa successe allora sul piano formale? Saddam aggredì e invase il
Kuwait. Prima dell’Onu, Saddam avrebbe dovuto aspettarsi che qualcun
altro o anche una coalizione reagisse e lo scacciasse dal Kuwait.
Avrebbe potuto aspettarsi anche l’invasione. Fu invece definito
criminale, fu disumanizzato, aggettivato come nemico dell’umanità,
paragonato a Hitler, contro il quale era giusto mettere su una grande
crociata.

I pacifisti “veri” possono obiettarci che si sono opposti alla
crociata, tuttavia –e pur sapendo che i motivi reali della stessa erano
imperialistici- hanno accettato le regole, il linguaggio e i valori
della guerra santa. Proprio perché riteniamo che molti di loro erano
coraggiosi e disposti a grandi sacrifici, quella accettazione si poteva
spiegare solo con la condivisione della filosofia e della dottrina che
sorreggevano la “grande coalizione” contro Saddam. Da qui ne derivava
coerentemente che la loro opposizione si compendiava nel concetto
“contro la guerra, contro il sanguinario Saddam”. Saddam non veniva mai
additato –neppure dai pacifisti- solo con il suo nome, ma sempre con un
epiteto molto infamante, che in un modo o nell’altro lo mettesse fuori
dall’umanità. Saddam doveva essere e veniva indicato come repellente,
odioso, infernale. Non ci si avvedeva o non ci si voleva avvedere che i
suoi nemici avrebbero meritato mille volte di più simili appellativi.
Neppure quando qualcuno di noi “cinici” faceva notare che la “zoommata”
sui crimini di Saddam serviva solo a far diventare irrilevanti i
crimini commessi con metodi industriali commessi dall’Occidente.
L’unica giustificazione che i pacifisti sapevano dare, affettando
grande indignazione morale, era la qualità del crimine, con le sue
pulsioni barbariche: quindi, non aveva alcuna importanza che Saddam, a
confronto, avesse ucciso mille volte meno di quanto gli venisse
attribuito e comunque mille volte meno dei presidenti statunitensi.

D’altra parte, che i pacifisti avessero introiettato la filosofia
regressiva del diritto internazionale del secondo dopoguerra veniva ben
chiarito da un altro ben noto loro teorema: “la guerra non è uno
strumento efficace per sconfiggere le dittature (poi si aggiunse: e il
terrorismo)”. E’ il caso di spiegare il significato di questo teorema,
non perché sia oscuro, ma perché circolano ancora alcuni imbecilli (non
stiamo parlando di D’Alema) che lo sbandierano come il non plus ultra
dell’opposizione alla guerra.

Punto numero uno: la guerra non viene aggettivata in modo infamante, è
solo una guerra. Punto numero due: i nemici sono le dittature o i
terroristi o i fanatici…per lo più dislocati fuori dal primo mondo;
quindi, quelli che fanno la guerra, dalla cui parte noi stiamo sia pure
criticamente, sbagliano soltanto. Naturalmente, qualche volta e
qualcuno dei pacifisti osava aggettivare anche la coalizione, ma era
chiaro a chiunque che il concetto ordinatore del tutto era: qui ci sono
gli occidentali che sbagliano, dall’altra parte ci sono i criminali, le
belve.

Ma la campagna mediatica ottenne un altro grande risultato e l’ottenne,
non già solo per la possanza delle nuove tecniche, ma proprio perché vi
era condivisione sulla disumanizzazione dell’efferato dittatore che
aveva osato aggredire l’innocente regime del Kuwait: in base al
principio informatore dell’Onu, secondo cui chi inizia una guerra è
nemico dell’umanità. E questa convinzione, al di là di chi pensa di
gestirla a suo modo, produce le conseguenze che abbiamo visto: nel
mondo reale, cioè nel mondo in cui gli unici a poter fare rispettare le
regole sono le grandi potenze ed in particolare una. Il risultato fu la
più ampia discrezionalità e la più completa impunibilità nella
conduzione della guerra: ristabilito il bellum iustum, viene
“giustamente” abolito lo ius in bello. Solo contro Saddam e la sua
cerchia? Neanche per idea. Come nelle crociate, vanno colpiti tutti gli
iracheni. Si cominciò con le popolazioni civili, sul modello Dresda
1945, giacché erano colpevoli di non rovesciare Saddam. Si finì sui
soldati in ritirata nel deserto, che furono perfino sepolti vivi dai
carri armati. E come corollario di questa filosofia si ritenne normale
disquisire in massa e nelle trasmissioni tv sul tiro a segno, di cui fu
fatto oggetto l’Iraq praticamente impotente contro gli eroici piloti
della coalizione. Ci si vantò perfino della guerra immacolata…per noi.
E a rimarcare l’asimmetria dei valori umani si entrò in angoscia per le
sorti di (un solo) Coccolone.

Pare che quei bombardamenti causarono circa 200 mila morti iracheni,
molti dei quali vecchi, donne e bambini. Immaginiamo l’effetto
commovente che avrebbero fatto le interviste a tutti i loro parenti e
amici, facendo soffermare gli schermi sulle lacrime e su ogni piega dei
loro sentimenti. Furono –è vero- più volte denunciati dai pacifisti, ma
sempre con la doverosa premessa di essere nemici del sanguinario
Saddam. Perfino quando si dovettero condannare i successivi scempi
dell’Onu in Somalia, qualcuno non mancava –proprio come un disco
stonato- di condannare prima l’orribile Saddam. L’Onu benedì poi anche
l’intervento francese in Ruanda nell’indifferenza generale per una
“roba” di normale amministrazione, anzi quasi inesistente perché non
inquadrata dalle tv.

QUINDI, LA BOSNIA

E veniamo alla Bosnia/Erzegovina ancora parte della federazione
jugoslava, di cui la Rossanda dovrebbe avere viva memoria. Qui fa
ingresso un altro grande nemico dell’umanità. Per carità, non si tratta
del Fondo Usuraio Internazionale, che “strozza” e impone aggiustamenti
strutturali con le ben note conseguenze: questi è solo censurabile,
diamine è anonimo e asettico, non è l’uomo del banco dei pegni con le
mani sudate. Non si tratta neppure della Germania e del Vaticano che
aizzarono Slovenia e Croazia a staccarsi dalla Jugoslavia: questi
avevano solo commesso un errore. Si tratta invece dei serbi
specializzati, per il loro oscuro passato, in stupro e pulizia etnica:
come al solito e molto en passant, talvolta, ci si ricordava che del
vizietto erano affetti anche i croati e i musulmani bosniaci.

Ora – e con monotona ripetizione - ci accorgiamo tutti che l’ingerenza
occidentale in quella regione non aveva affatto lo scopo di mettere
fine alla pulizia etnica e ci siamo anche resi conto che questo crimine
è stato molto gonfiato. Qualcuno ha constatato pure che a 9 anni dalla
fine degli scontri in Bosnia/Erzegovina c’è ancora il protettorato
occidentale che protegge i suoi affari dati in gestione alla mafia.
Allora però erano in molti ad essere angosciati, fino allo strazio, per
i diritti fondamentali umani calpestati dalle milizie serbe
soprattutto. Quindi come cittadini del mondo dovevamo, in ossequio alla
dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo, intervenire per
aiutare altri cittadini del mondo. A ciò non poteva fare più da
ostacolo la desueta e pretestuosa sovranità di un stato. Naturalmente
non mancavano dotte analisi ed allusioni sui veri motivi della smania
occidentale ad intervenire. Ma la circostanza diventava irrilevante,
poiché veniva a coincidere con uno scopo umanitario. Si arrivò perfino
a dire: meglio il rischio di una gestione affaristica che assistere
passivi allo scempio umano (sempre accreditato per vero quello
propinato dai mass-media) che si consumava nella regione balcanica.

Decise di intervenire la Nato, su delega dell’Onu. Mio dio, che orrore
-si blaterò per qualche giorno. Poi anche Rossana Rossanda accettò, con
una stretta nel cuore (se ben ricordiamo, scrisse proprio così),
l’intervento della ben nota organizzazione umanitaria. E ancora una
volta è evidente che ha ragione lei –e noi torto- se si accetta come un
progresso il nuovo diritto internazionale, anzi il nuovo diritto
cosmopolita. Rossanda ci spiegherà, sempre accoratamente, che è certo
vero che viene strumentalizzato, ma bisogna tenerlo per fermo come
valore fondamentale: in altri termini, meglio applicato male che non
applicato affatto.

La sua tesi idealistica –che dopo tante e dure repliche della storia ci
verrebbe da definire come l’idealismo dello gnorri- non vuole
sospettare neppure minimamente che l’ingerenza umanitaria

a)- non sfonderà mai i confini di uno Stato forte neppure se vengono
perpetrati le efferatezze di un Gengis Khan;

b)- viene invece utilizzata proprio dagli Stati forti, per i loro fini
nient’affatto umanitari, con la possibilità di manipolare, attraverso
il monopolio di possenti media, anche i popoli di sinistra se sono già
ben “lavorati” dai suoi ideologi del buonismo;

c)- sfonda quindi, con rigorosa selezione a senso unico, proprio le
barriere degli gli Stati deboli i cui territori devono essere asserviti
alle esigenze della rapina imperialista;

d)- che il pacifismo cosmopolita, anche di sinistra, con il suo codazzo
di ong, è la protesi filantropica delle aggressioni imperialiste.

Queste non sono supposizioni o, come diceva quel “genio” di Habermas,
illazioni suggerite dalla “esegesi del sospetto”. Secondo questo
signore evidentemente la realtà è proprio quella selezionata e messa a
fuoco della rappresentazione mediatica o quella delle dichiarazioni o
delle leggi. Essendo il noumeno (economico-finanziario) davvero
inesistente, i marxisti o le persone serie, che cercano di capire le
cause e i motivi di una guerra o di un’aggressione, sono semplicemente
persone sospettose…forse all’unico scopo di discreditare le brave
persone. Habermas, con le sue elucubrazioni filosofiche di
“superficie”, ci ha riportato alle scuole elementari, ove i mediocri
maestrini democristiani ci spiegavano che la prima guerra mondiale
scoppiò a causa dell’attentato all’arciduca d’Austria. Prima della
nostra generazione, spiegavano –contro i sospettosi di allora- che
Mussolini aveva inviato nel Corno d’Africa si suoi gloriosi soldati per
liberare le faccette nere dalla schiavitù in cui li teneva il Negus.

Queste sono a tutta evidenza descrizioni di quanto è successo che solo
un intronato come Bush (che però ha l’attenuante di non essere un
filosofo) si affanna a coprire con una retorica da osteria.

ORA PERO’ L’ONU VIENE EMARGINATO E IL SUO DIRITTO TRASGREDITO

Naturalmente, le risorse della sinistra irretita nella “democrazia
diffusa”, come le vie del signore, sono infinite. Dalla guerra del
Kossovo in poi il diritto internazionale è stato sempre più violato
dagli Usa e soci; nel contempo l’Onu è stato emarginato e di esso si
chiede una controriforma. Dunque, piatto ricco mi ci ficco. Togliatti
docet: dobbiamo raccogliere le bandiere che la borghesia ha gettato nel
fango. E la giustezza della tesi aveva una certa auto-evidenza. Solo
che, mentre Togliatti poteva giocare destramente (anche nel senso di
“con destrezza”) contro l’involuzione autoritaria della borghesia,
opponendo qualcosa che era stato borghesemente rivoluzionario, quelli
che oggi vogliono sollevare dal fango le bandiere dell’Onu non hanno la
stessa possibilità di destreggiamento. Non esiste infatti un’Onu
originaria progressiva: sia per le sue fonti di produzione, sia per le
sue strutture, sia per il suo effettivo funzionamento, l’Onu –quando ha
funzionato- è stato uno strumento delle potenze imperialiste (in
particolare degli Usa) per aggredire i paesi deboli che accennavano ad
un minimo di ribellione.

Non c’è allora che richiedere la riforma dell’Onu, incalza la sinistra
“di mezzo”. Ma questo argomento lo tratteremo a parte, perché qui ci
interessava dimostrare che l’Onu, con il suo corredo normativo e i suoi
presupposti filosofici, non è stato un progresso rispetto alle
relazioni internazionali stabilite ai tempi eroici della borghesia: è
anzi –come ha detto Ian Clark- è il compimento del percorso iniziato
dalla Santa Alleanza. Ne consegue che la violazione del diritto
internazionale onusiano non ci sprofonda nel medioevo, giacché
l’involuzione era già avvenuta con l’Onu, ma una necessità
dell’imperialismo egemone di venire allo scoperto per fronteggiare le
grandi turbolenze che lo mettono in discussione. 

Non stiamo qui a riportare le tesi – cui aderiamo - sul declino degli
Usa. Ora, si può opinare sulla irreversibilità di siffatto declino, ma
non si può disconoscere che gli Usa, con il suo sodalizio variabile,
sono costretti a venire allo scoperto e per farlo hanno bisogno di
infrangere le regole precedenti del gioco. Così facendo devono mettere
da parte la loro ipocrisia portando sul fronte anche tutti i filosofi,
ideologi e giuristi che l’avevano sorretto. A tal riguardo, non è di
poco conto che i Bobbio, gli Habermas, i Cassese hanno dovuto
giustificare – proprio loro che avevano ispirato il pacifismo
cosmopolita e indirettamente anche il pacifismo militante di base - la
svolta, buttando a mare la loro fiducia illimitata nel diritto
internazionale quale strumento di riduzione o di regolazione della
violenza. Quando infatti è stata aggredita la Serbia, dovendo convenire
che con tale atto si violava la Carta dell’Onu, hanno così sintetizzato
il loro improvviso realismo: la guerra è sì illegittima ma è però
giusta dal punto di vista sostanziale, spiegando che la giustizia non
può essere fermata dalle leggi. Come dire: la legge segue la forza... e
perché no? – come dicevano i nostri pratici antenati - “ex iniuria
oritur ius”, le leggi sorgono dalle violazioni delle leggi.

Cosa ha prodotto questo nuovo comportamento con il suo neo-realismo
giuridico? Sempre più gente è scesa in piazza disincantata e sempre
meno gente è rimasta a casa a invocare le virtù salvifiche del diritto.
Con un imperatore così nudo diventa perfino patetico un ministro come
Frattini che a “Porta a Porta” deve suggerire a destra e a manca ai
giornalisti le parole che devono dire e le parole che devono evitare.
Non usate la parola occupazione, evitate la parola resistenza, tutt’al
più parlate di guerriglia, ma è meglio continuare a dire terrorismo,
meglio ancora orribile terrorismo; fate sapere che i civili italiani
non sono mercenari, spiegate che si tratta di lavoratori, gente che
vuol fare un po’ di soldi per sposarsi.

Ora possiamo capire che la situazione sta diventando pericolosa, che
questa situazione ci chiama alla necessità di uno scontro sempre più
duro. Ma dire che tutto ciò è un regresso, o, più precisamente, dire
che è un regresso lo sbriciolarsi della mistificazione dell’Onu e della
sua bolsa retorica, francamente, non riusciamo a capirlo da un punto di
vista comunista o anche semplicemente dal punto di vista di chi
vorrebbe migliorare realmente il mondo.

E’ UN REGRESSO L’ATTUALE RIVOLTA?

Ma è anche difficile considerare un regresso la rivolta attuale di
alcuni popoli. Qui non stiamo a discutere sui limiti ideologici di
queste rivolte e della possibilità/necessità che i comunisti le
appoggino direttamente. Ci limitiamo al confronto con il passato.

Orbene, noi sappiamo che è facile screditare queste rivolte valutando i
loro (non)programmi e i loro valori, confrontando il loro
particolarismo con l’universalismo astratto delle rivoluzioni
demo-borghesi, in primis quella francese. Anche su questo aspetto –in
particolare sull’ostilità alla democrazia occidentale- ci sarebbe molto
da discutere, tuttavia, se non vogliamo essere ipocriti, dobbiamo
ammettere che il vero orrore è provocato dalle forme di lotta
utilizzate in queste rivolte, forme sempre opportunamente selezionate
ed enfatizzate dagli eserciti mass-mediatici, che non si limitano ai
giornalisti embedded, ma abbracciano anche a quelli che una
superficiale e auto-illusionista opinione di sinistra accredita come
critici: al riguardo, è il caso di citare la “rossa” (di capelli) Lilli
Gruber che in un primo collegamento a “Porta a Porta” si lascia
scappare un paio di volte la parola resistenza; rimproverata
dall’impettito Frattini che l’invitava a usare la parola “terrorismo”,
nel secondo collegamento adotta senza alcun ritegno, con servile
accondiscendenza, il vocabolario suggeritole.

E dobbiamo anche ammettere che la sostanza della vertenza, che vede
come protagonisti da una parte gli invasori e dall’altra i popoli
arabi-musulmani, viene ampiamente trascurata quando si tratta di
valutare se la “resistenza” abbia natura regressiva o progressiva.

   Cominciamo allora – per valutare la fondatezza del pessimismo di
Rossanda - dall’oggetto del contendere, che certamente si avvale anche
della forma religiosa ma che tuttavia è l’elemento prevalente. D’altra
parte, è ben singolare – nelle discussioni vere - che per gli
aggressori valga la sostanza e per gli aggrediti (forse perché
stupidi?) debba valere la forma. Ve la spieghiamo prima con
un’esperienza fatta in Tunisia due anni fa.

Con chiunque parlavamo i valori islamici erano al primo posto, tant’è
che ci si doleva del fatto che il governo filo-occidentale faceva di
tutto per scoraggiare perfino la frequentazione delle moschee: anche
con pedinamenti, perquisizioni e fermi, se qualche musulmano si
azzardava ad una frequentazione assidua. Veniva anche fuori che i due
personaggi più amati erano “tranquillamente” Bin Laden e Saddam
Hussein. A quel punto, ritenendo di beccare in fallo i nostri
interlocutori, facevamo presente che il loro islamismo era alquanto
strano se veniva affidato ad un profeta come Saddam, notoriamente laico
o comunque non musulmano. Per niente turbati, però, ci rispondevano che
essi erano realisti in politica quanto noi: Saddam era –per loro- il
simbolo del petrolio arabo, quindi della possibilità del loro
miglioramento economico/sociale, perciò era anche il loro profeta.

Tornando a noi, la vexata quaestio è ben messa in evidenza da articolo
di Eugenio Scalari datato 11 aprile: “In Iraq, in Iran, in Arabia,
negli Emirati, giacciono nel sottosuolo gli otto decimi (do you
understand, guagliò: 8/10?) delle riserve petrolifere mondiali. La
maggioranza povera, l’esercito dei dannati, ha individuato un capro
espiatorio e un tesoro inestimabile che in qualche modo gli appartiene.
Ma è pur vero che lasciarlo in quelle mani equivarrebbe a una
rivoluzione planetaria dei rapporti di forza. La trappola irachena è
questa: non ci si può restare impigliati né uscirne. Non è il Vietnam,
è molto peggio del Vietnam.”

Gli usamericani si trovano in una situazione più difficile di quella in
cui si trovarono in Vietnam, dove andando via persero solo la faccia e
il prestigio. In Iraq (e dintorni) non si tratta più del solo prestigio
o di perdere un territorio; essi – come del resto anche noi europei -
non possono assolutamente lasciare nelle mani degli iracheni il
petrolio. Non solo per l’importanza dei suoi pozzi, ma perché una
ritirata in Iraq darebbe la stura ad un movimento alluvionale in tutti
i paesi dell’Opec. In estrema sintesi, l’Occidente dipende dalle fonti
di energia dei paesi poveri, quindi devono essere – in un modo o
nell’altro - presenti – come padroni - in questi paesi. Nulla di nuovo,
ovviamente, anche se ogni tanto anche a sinistra si parla d’altro o si
pensa che del nocciolo della questione gli arabi siano ignari,
essendosi scatenati solo per fanatismo religioso o per pruriti
etnico-tribali.

Noi vogliamo sottolineare che di tanto è consapevole anche il più
analfabeta degli iracheni. La preziosa materia liquida, o gassosa che
sia, informa anche il loro spiritualismo come informa il
fondamentalismo religioso nordamericano.

Stabilito questo, va fatta un’altra piccola precisazione: la contesa
non vede due concorrenti alla pari che cercano di ripartirsi la torta,
ma un imperialismo, che ha sempre rapinato il petrolio del medio
oriente (e non solo), e gli arabi che non vogliono farselo più
rapinare, tanto più se si considera (altra questione sostanziale) che
la rapina passa attraverso l’occupazione militare e un umiliante
protettorato. Il rifiuto di non farselo rapinare non è una questione di
dettaglio, perché il petrolio per loro è vitale: senza il petrolio si
muore di fame, con il petrolio si può aspirare ad una vita dignitosa.
Detto questo, farebbero meglio a seguire un partito comunista, perché
oggi ogni borghesia, diversamente da quando era impegnata
prevalentemente contro l’assolutismo, è “reazionaria” contro il proprio
proletariato. Non lo fanno e probabilmente ciò non dipende solo dai
pessimi “comunisti” che si aggirano per quei luoghi…ma anche dagli
evanescenti e indifferenti comunisti che vivacchiano nel primo mondo.
Ad ogni modo, va ripetuto che essi non stanno lottando per imporre la
loro rapina, stanno lottando per non subirla; e va ripetuto, perché ci
sono comunisti chez nous che ancora si servono del perfido alibi,
secondo cui quella sul petrolio è una contesa inter-borghese, con il
sottinteso messaggio subliminale che, se vince la borghesia araba, essa
diventerà a sua volta rapinatrice a danno dell’Occidente.

In altri termini, non vediamo da un punto di vista “programmatico”
(ancorché per un comunista insufficiente ai fini del medesimo appoggio
che si dava nelle rivoluzioni contro il semi-feudalesimo) cosa ci sia
di regressivo nella rivolta degli arabi. Tanto più non ci sembra
regressiva la rivolta, sotto questo profilo, se si considera il termine
di paragone della scuola di Rossanda, cioè la resistenza italiana.
Questa è vero che vide protagonisti numerosi comunisti di diverse
correnti e sfumature, possiamo sostenere che essi furono anche
l’elemento prevalente e più attivo, ma ci pare di ricordare che
finirono per accettare un programma niente affatto esaltante o più
avanzato di una pretesa borghese sia pure democratica…in un paese in
cui –si diceva- c’erano tutte le condizioni oggettive per il
socialismo. Come ripete Gabriele Polo sul Manifesto del 22 aprile, “La
resistenza da noi ha un significato preciso, si accompagna ai valori
costitutivi di una democrazia rappresentativa che ha affondato le
proprie radici nell’onda lunga del 1789 francese. In Iraq sappiamo
contro cosa si resiste ma non per cosa”.

In altri termini, il risultato della lotta resistenziale fu la cacciata
di un esercito nazista e di un regime fascista, comunque già agli
sgoccioli per i colpi subiti dagli Alleati; la sostituzione del
fascismo con il regime democristiano che impose una feroce
ricostruzione cui si subordinò il movimento operaio; la presenza di
basi militari statunitensi. Certo, non siamo ancora alla logica della
Castellina sulla sua dichiarazione di voto per Kerry contro Bush che “è
meglio zero che niente”.

Ad ogni modo, anche a voler accettare un’interpretazione più
ottimistica della resistenza italiana , è innegabile che non fu neppure
una resistenza anti-imperialista, per due evidenti motivi: primo,
l’Italia era esso stesso un paese imperialista; secondo, finì per
sostenere (da alleato o da valletto, poco importa) l’imperialismo
americano, poi riconosciuto il peggiore di tutti. Almeno gli iracheni
–bisogna riconoscerlo- si stanno non solo battendo come leoni contro un
imperialismo possente e senza neppure ricevere l’aiuto di qualche altro
imperialista…a meno che non si voglia farneticare teoria e considerare
già imperialista un signore con 2 miliardi di dollari (ammesso che li
abbia ancora e ammesso che sia bene accetto dall’attuale resistenza)
alla guida di un migliaia di soldati di dio.

Veniamo infine al punto più delicato: le forme di lotta, il terrorismo,
i kamikaze. Marco D’Eramo qualche mese fa spiegava in modo magistrale,
in un articolo sul Manifesto (e quindi la Rossanda l’avrà sicuramente
letto) che il terrorismo moderno non è una malattia dell’anima che si
contrae in certe terre per ataviche predisposizioni; dipende invece
dall’assoluta asimmetria dei mezzi militari venuta ad accentuarsi
proprio negli ultimi decenni. Con ciò non vogliamo dire che si possa
vincere l’iper-potenza degli eserciti imperialisti solo con il
terrorismo o prevalentemente con il terrorismo; anzi, già oggi, con
buona pace di Ingrao/Revelli/Bertinotti, l’insurrezione irachena di
aprile, per quanto ancora disorganizzata, sta dimostrando di poter
mettere in seria difficoltà l’armata imperiale. Intendiamo solo dire
che certe forme di lotta, per quanto siano sbagliate quando diventano
sistematiche, indiscriminate e assorbenti, non sono regressive, né si
diffondono per l’assenza di una forza comunista umanizzante. Per essere
più chiari, anche un partito comunista forte e organizzato non potrebbe
facilmente schivare, in Palestina o in Iraq, certe forme di lotta. In
Algeria se ne fece uso; in Vietnam (che Rossanda non vorrà mettere
minimamente in discussione) se ne fece uso.

Sicuramente, poi, non sono regressive, sempre se il termine di
paragone, sotto il profilo delle forme di lotta, è la resistenza
italiana. E ci sentiamo di affermarlo anche di fronte al massimo
dell’orrore provocato dallo scempio dei cadaveri dei quattro mercenari
americani a Falluja. E’ vero: un comunista non fa e non può lasciar
fare di queste cose. Però, ad un gruppo di pacifisti inglesi è venuto
subito in mente il paragone con piazzale Loreto ed ha mandato su
Internet le foto accostate dei 4 americani deturpati appesi ai fili
della corrente elettrica e del duce a testa in giù.

A noi è venuta in mente qualche considerazione in più. Se parlate in
termini di valori umani, entrambi gli scempi non dovrebbero avere
giustificazioni del tipo: Mussolini si era reso colpevole di centinaia
di migliaia di assassinati dai bombardamenti americani, i mercenari
erano l’emblema dei nord-americani colpevoli dell’assassinio di un
milione e mezzo di esseri umani solo in Iraq con in più la beffa di
voler democratizzare a tutti i costi e rapinare a più non posso.
Nessuna giustificazione, dunque! Però c’è una differenza tra i due
scempi, visto che Rossanda insiste sulla diversa e più umana violenza
laddove sono presenti i comunisti o i valori universali.

Lo scempio di Falluja si verifica a botta calda ad opera di una folla
adirata, che peraltro continua a subire la violenta e devastatrice
intromissione in casa propria da parte di ladri armati che non sono
disposti a scappare di fronte alla reazione del padrone di casa: anche
la scienza giuridica moderna e razionale considera questo crimine meno
grave di quello commesso a freddo e con premeditazione. Mussolini,
invece, fu prima ucciso alla frontiera da partigiani che avevano
lucidamente e giustamente deciso di ucciderlo; poi con ragionato
calcolo politico, dopo qualche giorno, il suo cadavere fu portato a
Milano e con tutta calma…inglese… fu esposto al disprezzo della folla
che, naturalmente, non gli risparmiò l’arabo trattamento. O no?

 
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ESSE e ACCA (una storia europea)

Ogni individuo ha diritto alla libert� di movimento e di residenza
entro i confini di ogni stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare
qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.
Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potr�
essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, n� del diritto
di mutare cittadinanza.
[Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo]

Le frontiere mi hanno sempre messa in ansia, innervosita: i territori,
i paesi, i villaggi non terminano, semplicemente si diluiscono l'uno
dentro l'altro, e le frontiere sono impedimenti innaturali. Mi sono
chiesta spesso come si vive in una citt� di frontiera, ancor di pi�
come possa essere la vita in quei minuscoli villaggi spezzati in due da
una sottile striscia di terra di nessuno: uno stato a destra, uno a
sinistra. E' indubbio che gli abitanti si percepiscano come un unico
corpo sociale, che tutto si sia mescolato - la lingua, i sapori del
cibo, i colori del paesaggio, le amicizie, gli amori - e che la
frontiera stia l� a far da frattura forzata in un luogo che non
accetterebbe spaccature naturali. Mi sono sempre chiesta perch� non
abolirle, le frontiere. Perch� non lasciar libera la gente di andare
dove vuole. Perch� non dare a tutti il diritto ad essere cittadini
dello stesso mondo. Tornando dai Balcani mi � capitato spesso di dover
scegliere fra lo sportello Schengen e quello non-Schengen, ai posti di
frontiera. Io sono una persona di tipo "Schengen", che mi piaccia o no.
Mi � capitato spesso di dovermi separare fisicamente dagli amici con i
quali viaggiavo, che erano persone di tipo "non Schengen". L'ho
vissuta, questa separazione, come un'umiliazione. Molte pagine dei miei
taccuini raccontano l'orrore delle frontiere e dei posti di blocco, e
l'ipocrisia dell'Europa che si dice 'unione di uomini' e altro non �
che traffico di merci, ciclopico ipermercato dove i containers vanno
senza intoppi e dove gli uomini vengono respinti, rigettati, fermati,
incasellati. Ci sono aspetti dell'Europa che mi fanno ribrezzo: il
concetto di "clandestino", i centri di "accoglienza" per forestieri, la
logica dei bastioni. Un continente chiuso, un continente che respinge
il nomade o il viandante � un continente destinato a una morte lenta.
Ancor pi� paradossale � l'idea che questa abbottonatura, questa
selezione e questa chiusura siano la nuova logica di un luogo
geografico come il Mediterraneo, che � la culla della civilt� proprio
perch� � un mare aperto. Se Bossi e Fini avessero avuto avi
somiglianti, oggi non possederemmo n� la filosofia ateniese n�
l'architettura veneziana. Chiss� se gliene frega qualcosa, agli uomini
che fanno le leggi sull'immigrazione. La storia di Esse e di suo
fratello Acca mi ha colpita molto per questa semplice ragione: � la
prova di un'Europa che non c'�, che non sappiamo costruire, che
lasciamo precipitare nelle mani viscide delle burocrazie o delle
polizie (o degli isterismi nazionali?) e sottraiamo agli uomini. La
storia di Esse, che sto per raccontarvi, � una storia vera. Ho
conosciuto Esse grazie ad un'amica comune, ci siamo scritti alcune
lettere nelle quali lui mi ha raccontato, nei dettagli, quanto �
accaduto alla sua famiglia. Gli ho chiesto il permesso di narrare
daccapo la sua storia con parole mie, e spero di riuscire nell'intento:
mi piacerebbe che provaste un po' di sana paura, leggendola. Qualcosa
di vagamente kafkiano, quell'inquietudine che ti fa riporre il libro
per pensare: potrebbe accadere benissimo anche a me.

Al principio, la storia � lineare: Esse vive in una citt� del nord
Italia, diremo Milano per comodit�, con il fratello Acca, che ha una
moglie e due bambini ancora piccoli. Esse e Acca appartengono ad una
famiglia di Rom Khorakhan�, il cui luogo di origine � il Kosovo. E' una
famiglia ampia, la loro, allargata, come spesso accade nelle famiglie
d'origine nomade. Esse � nato "per puro caso" a Zagabria, ed � entrato
in Italia da bambino, molti anni fa: da clandestino, attraverso i
boschi. in Italia � cresciuto, si � diplomato, vive e lavora, ed � -
naturalmente - cittadino italiano. Suo fratello Acca, invece, � ancora
cittadino serbo: lo ha raggiunto pi� recentemente, e vive e lavora a
Milano - come moltissimi - grazie a un permesso di soggiorno che, con
pazienza, potr� un giorno diventare una cittadinanza. I tempi, per chi
si sposta in quest'Europa poco confortevole, sono lunghi, e la
burocrazia � insensibile alle esistenze (e spesso anche ai diritti). La
burocrazia gioca con cifre, sigle, calcoli: basta pochissimo per
trovarsi avviluppati nel filo spinato dei pubblici ufficiali, dei
colletti bianchi, delle dogane. Basta una serata storta. La serata
storta di Acca accade a Gorizia, a fine ottobre: Acca � stato a una
festa ospite di amici; Gorizia non la conosce affatto, ed � gi� stanco.
Lo aspettano a Milano la moglie ed i bambini e suo fratello Esse,
sicch� Acca si mette in macchina di buona lena e si avvia verso
l'autostrada. Capita a tutti di sbagliare, di confondere un luogo per
un altro, basta una distrazione. Quando Acca nota la segnaletica in
un'altra lingua si rende conto d'essere in Slovenia, quel piccolo paese
che da ieri � parte dell'Europa schengeniana. Ma siamo nell'ottobre del
2003, e Acca ha di fatto ha passato un confine incustodito. Chiss�
dov'era il doganiere: a bersi un buon caff�, probabilmente. Acca si
rende conto in fretta del guaio in cui potrebbe essersi cacciato:
inversione a U e torna immediatamente indietro. Purtroppo per lui, il
caff� del doganiere era un caff� ristretto, perch� al suo passaggio
scende la sbarra e al nostro Acca vengono chiesti i documenti.
"Favorisca il passaporto": la frase d'ordinanza che siamo abituati a
sentire. Ma Acca il passaporto (serbo) non ce l'ha, l'ha lasciato a
Milano, a casa. Ha la carta d'identit� italiana, con s�. "Favorisca il
permesso di soggiorno", insiste il doganiere. Acca prende dal
portafogli la denuncia di smarrimento del permesso di soggiorno, perch�
Acca il permesso di soggiorno l'ha perduto nel mese di agosto, e
l'ufficio competente gliene ha promesso uno nuovo per il 24 di
novembre: tempi lunghi, quelli dei burocrati. Naturalmente, a rigor di
logica, � tutto perfettamente regolare: la denuncia di smarrimento,
scrupolosamente emessa da una questura italiana, sostituisce il foglio
rubato a tutti gli effetti. Non dovrebbe esserci problema, pensa Acca:
invece il problema c'�. Il doganiere probabilmente non si fida,
vorrebbe il passaporto, la legge � legge, e senza chiedersi qual � la
storia personale di un uomo che ha commesso, ahi ahi, il gravissimo
errore di sbagliare strada in una buia cittadina di confine e di aver
lasciato a Milano il suo stramaledetto passaporto, il doganiere gli
intima di tornarsene in Slovenia. Dieci metri pi� in l�, nella terra di
nessuno. Dieci metri pi� in l� non viene accolto con ricchi premi e
cotillions, il nostro Acca: la legge � legge anche in Slovenia, Acca �
cittadino serbo senza passaporto, dei documenti italiani gli sloveni
non sanno che farsene, sicch� viene dichiarato, su due piedi,
clandestino. Guardate: clandestino � una parola agghiacciante.
Letteralmente significa "di nascosto", in pratica significa "privato
dei diritti". Il clandestino, canta Manu Chao, � anche un desaparecido.
E' uno scomparso, un numero che rischia di non apparire sul quadrante
della storia. E' cos� che, in meno di un'ora, Acca passa da una festa
con amici in quel di Gorizia a un centro di "accoglienza per stranieri"
in Slovenia. Il nostro sistema politico, lo sapete, modifica il
linguaggio, lo adatta alle esigenze del potere. Io i centri di
"accoglienza" li ho visti da vicino (chi si ricorda Via Corelli?), e
l'accoglienza � un paradosso. I centri di "accoglienza" sono carceri
speciali: carceri per innocenti. Fa freddo, si mangia poco, si ha
diritto a trenta minuti di visite, a qualche telefonata (chi ha gli
spiccioli), e si annega nella solitudine, nelle domande (che fare per
uscire di qui, io non ho fatto niente): puniti per essere di un altro
luogo, puniti per un timbro che manca (e spesso manca per negligenza
dell'apparato, che dei destini individuali se ne frega), puniti per un
foglio firmato di sghembo, o - come accade a Acca - per un passaporto
lasciato a casa nel cassetto d'un comodino.

Acca comunque � ottimista: basta una telefonata, basta che suo fratello
Esse faccia una volata a Gorizia, poco dopo il confine, e gli porti
quel passaporto: poche ore e tutto va a posto. Cos� crede Acca, e cos�
crede anche Esse, che da Milano in fretta e furia lo raggiunge. E si
porta appresso, da uomo previdente, tutti i documenti che provano
l'esistenza di Acca, i suoi diritti: ha un lavoro, suo fratello, con un
contratto regolare; ha una casa in affitto, suo fratello, con un
contratto regolare; ha un codice fiscale, un tesserino sanitario, un
certificato di residenza. E' ovvio che si tratti di un errore: � ovvio
per la storia degli uomini, ma le segreterie e gli uffici l'errore non
lo calcolano, n� sanno comprendere il malinteso, la svista. I documenti
che Esse porta a suo fratello Acca non bastano, c'� un piccolo
dettaglio che non quadra: il passaporto di Acca � scaduto. D'accordo,
ma i tempi tecnici di rinnovo sono di sei mesi, accidenti: entro sei
mesi l'avrebbe rinnovato, che fretta c'�, la legge lo prevede. Sono
discorsi a cui i burocrati sono sordi: Acca � gi� caduto nella trappola
della clandestinit�, e da questo punto in poi il percorso si fa
labirintico; troppe coincidenze, troppi dettagli di cui tenere conto.
Acca � un rinchiuso, ormai. I giorni naturalmente passano, e lui deve
affidarsi a suo fratello Esse, che smuove mari e monti: avvocati (si
pagano, e si pagano cari), associazioni varie, chiunque possa aiutare
un ipotetico clandestino - che clandestino non � - a ritornarsene a
casa sua e lasciarsi alle spalle un episodio tanto kafkiano. Le
soluzioni, legalmente parlando, sembrano due: domandare alle autorit�
slovene d'inoltrare alle autorit� italiane una richiesta di rimpatrio,
e attendere la risposta italiana, oppure domandare di essere trasferito
in Serbia da cittadino serbo: in Serbia Acca potrebbe rinnovare il
passaporto, far richiesta di ingresso in Italia nuovamente, e ripartire
da zero. Gi�, come la fanno facile, i nostri burocrati: ogni timbro �
denaro, ogni spostamento � denaro, ogni giorno perso � denaro sprecato,
e come ben sapete non tutti i portatori di permesso di soggiorno hanno
la rendita del nostro audace Cavaliere. Perch� i documenti si paghino,
poi, nessuno se l'� mai domandato? E si pagano carissimi: ogni
frontiera ingoia soldi, ogni ufficio estorce marche da bollo. E ogni
viaggio che Esse � costretto a fare per raggiungere suo fratello Acca
in Slovenia costa soldi, fatica, frustrazioni. Gli sloveni, per
facilitare i due, d'ufficio prendono Acca e lo sbattono in un secondo
centro di "accoglienza": al confine con l'Ungheria, stavolta.
Chissenefrega? Questioni logistiche, normale ridistribuzione degli
"accolti" sul territorio nazionale. Nessuno sa che i viaggi di Esse -
avanti e indietro per tirar fuori suo fratello da quel dedalo di timbri
e pile di cartacce - raddoppiano il chilometraggio. Dieci ore di
viaggio per trenta minuti di colloquio. Avanti e indietro. E i giorni
passano, le settimane passano.

Dovendo scegliere fra burocrazia serba e burocrazia italiana, voi a chi
affidereste la vostra misera sorte? E' un bel dilemma. Quella italiana
a Esse e Acca sembra pi� affidabile: dopotutto, gli sloveni hanno
assicurato che una richiesta di rimpatrio viene evasa in minimo due
giorni, massimo due settimane. Di certo, per�, non ci pu� essere
niente. Chiss� se i segretari che smistano i fascicoli con i nostri
nomi sanno che attaccato ad ogni nome-e-cognome c'� un individuo:
probabilmente no, vista la negligenza. Ai primi di dicembre, della
risposta italiana alla richiesta slovena ancora non c'� traccia: Acca �
ancora incastrato l�, destino in bilico, sbattuto in un buco sloveno ai
margini dell'Ungheria. Mangia quello che c'�, dorme quando pu�. Ma come
diavolo funziona una procedura di richiesta di rimpatrio? Mentre Acca
si deprime, Esse si mette in contatto con chiunque possa dargli una
risposta decente, e scopre il complesso di ingranaggi: la Slovenia
chiede formalmente il rimpatrio al Ministero degli Interni italiano, il
quale gira la domanda alla Questura di competenza; quindi la Questura,
in caso di risposta affermativa, invia il nullaosta al Ministero degli
Interni a Roma, il quale provvede a rigirarlo al Ministero degli
Interni sloveno affinch� venga comunicato al centro d'accoglienza.
Itinerario di un incubo. La richiesta di Acca � ferma su una scrivania
da settimane. Esse, con l'aiuto di un'associazione, sollecita la
pratica: in Italia si pu� dimenticare un cittadino? Certo che si pu�. E
un cittadino, imparatelo ora, pu� avere anche una data di scadenza: il
termine massimo di permanenza per un clandestino in Slovenia � di
sessanta giorni, trascorsi i quali scatta l'espatrio: se Roma non d�
risposta entro il 27 di dicembre, Ljubljana espelle Acca, direzione
Belgrado. Quanto hanno sperato, Acca e suo fratello Esse, di farcela in
tempo? Forse domani, forse fra due giorni, forse dopodomani. I carteggi
fra ministeri e questure non computano mai le giornate di lavoro perso,
le bollette del telefono che Esse paga e ripaga per coprire le tante,
troppe telefonate internazionali (attenda in linea! Ma lo sanno, quelli
che ci parcheggiano l� con le loro musichette, che dietro una
telefonata a un consolato, a un'associazione, pu� esserci qualcuno che
non avr� i soldi per pagare la telefonata e che ha bisogno di quella
dannata informazione?)� E le questure e i ministeri non tengono conto
dei bambini di Acca che chiedono dov'� pap�, perch� non torna a casa
per il mio compleanno, ma non torna nemmeno per Natale? Sperano invano,
Esse e Acca: le autorit� slovene consigliano di non sperare pi�, e di
far richiesta di espatrio prima che scatti il decreto di espulsione. E'
una storia brutta, il decreto di espulsione, e se Acca ne ricevesse uno
potrebbe mettere una bella croce sopra la Slovenia per sempre: niente
transito, niente turismo. Meglio domandare d'essere mandati a Belgrado
spontaneamente, prima che l'orologio dei clandestini batta il suo
sessantesimo giorno. Il pomeriggio del 22 dicembre, Acca viene caricato
sull'aereo che lo scaricher� a Belgrado.

In Serbia, Esse e Acca hanno l'anziano padre. I rapporti non sono
granch�, ma meglio di niente: pu� dare un supporto logistico, vive a
Nis, e poi Acca almeno � libero. Pu� camminare per la strada, pu�
muoversi, pu� esistere. Acca si fionda all'ambasciata serba, dove conta
di rinnovare il passaporto: dopotutto � solo un timbro, o cos� crede.
"Serve la carta d'identit� serba", gli spiega l'impiegato. Ma quale
carta d'identit� serba? Acca se n'� andato dalla Serbia che era un
ragazzino, la carta d'identit� nemmeno l'ha mai avuta, ha quella
italiana, vive in Italia, che dovrebbe mai farsene d'una licna karta?
"La legge � legge", spiega l'impiegato: anche in Serbia. Per ottenere
una carta d'identit�, dopotutto, basta soltanto procurarsi certificato
di nascita e di cittadinanza. Lei dov'� nato?, domanda l'impiegato. A
Vucitrn, risponde Acca, sono nato a Vucitrn. Chi di voi ha familiarit�
con la geografia jugoslava � gi� rabbrividito, perch� Vucitrn di fatto
vuol dire: Kosovo i Metohija, laggi�, nel territorio stile far west
amministrato malamente da Onu e Nato. Dio, com'� facile venir
scaraventati da una festa con amici a Gorizia fin nel profondo buco
nero delle guerre� Al nostro Acca tocca andare a fino a Vucitrn, dove
probabilmente l'impiegato di servizio, nel suo gabbiotto scrostato, lo
fissa sconsolato: c'� stata una guerra, molte guerriglie, i documenti
vanno persi, si spostano, bruciano, scompaiono: e Acca � serbo, e i
serbi in Kosovo non hanno pi� un'esistenza. I documenti Acca deve
andare a Kraljevo a domandarli. Kraljevo, pi� su, in Serbia. Immaginate
Acca che per due settimane transita da Nis a Belgrado, da Belgrado a
Nis, da Nis a Vucitrn, da Vucitrn a Nis, da Nis a Kraljevo, da Kraljevo
a Nis. Fino alla prefettura, dove esibisce, finalmente, tutti i suoi
incartamenti regolari e freschi di timbratura. "Ma lei � un serbo
kosovaro�", sospira l'impiegato della prefettura, lasciando presagire
il peggio. In questo frammento di vita di Acca c'� tutta la tragedia di
un pezzo di popolo che nessuno vuole pi�: i serbi del Kosovo hanno
perduto il Kosovo, cacciati, e non sono mai veramente divenuti serbi.
Cos�: uomini sospesi nella storia che ha giocato loro un brutto tiro.
Hai voglia a discutere se la colpa sia stata di Milosevic o di Thaci:
ma che ne sanno, Thaci e Milosevic, dei tanti poveri cristi fatti
dondolare da un territorio a un altro, gli albanesi in fuga in Albania,
i serbi in fuga in Serbia, e se non hai i documenti non lavori, e se
non lavori non mangi, e se non hai i documenti non transiti, non passi,
torni indietro, ma indietro dove? Non ho pi� niente, indietro, la
guerra s'� divorata tutto: quante volte ho letto, ho sentito, ho
trascritto queste piccole frasi. Acca sospira: dove devo andare, in
Kosovo, per rinnovare questo passaporto? Chiss�. Il Kosovo, signori
miei, � un casino. A Vucitrn, dove Acca � nato? Pare di no: Vucitrn �
un posto piccolo piccolo, mica ci sar� una prefettura. Forse a
Pristina, ecco, s�, a Pristina, che � il capoluogo. No, nemmeno
Pristina va bene, ormai � albanese: i documenti serbi a Pristina non si
fanno pi�. Bisogna andare a Mitrovica, quella Mitrovica divisa in due,
dove - qualche mese dopo - bruceranno le case e gli ospedali. A
Mitrovica Acca scopre di essere caduto dentro un pozzo: per cominciare,
perch� non ha portato il modulo di richiesta del rinvio del servizio
militare? Perch� nessuno mi ha detto che era indispensabile, risponde
Acca� E poi, perch� il suo nome � ACCA I e qui c'� scritto ACCA U?
Naturalmente un errore. Un errore? Eh gi�, l'alfabeto cirillico: la I
che sembra una U latina, scritta in corsivo. Chi ha trascritto il nome
di Acca il cirillico probabilmente non lo sa: � facile che accada, in
Kosovo. Questi dettagli - una dimenticanza, una trascrizione frettolosa
- costano a Acca quattro settimane di attesa: avanti e indietro, da Nis
a Mitrovica, da Mitrovica a Nis. Siamo a met� marzo, e Acca deve fare
in fretta: il suo permesso di soggiorno (s�, quello smarrito, che deve
essere rifatto e rinnovato in Italia) scade il 19 aprile. Se Acca non
torna � fuori dall'Italia: ci sono i suoi due bambini, in Italia, c'�
sua moglie, che non vede da una buia sera di ottobre in cui, a Gorizia,
ha soltanto sbagliato strada.

Questa storia � finita quasi bene: c'� voluta ancora una buona dose di
fatica, altre telefonate per affrettare le pratiche dell'ambasciata, il
nullaosta di Roma, altri giorni di attesa e su e gi� fra Belgrado e
Nis, ma in aprile Acca � tornato a casa. Adesso attende che gli
rinnovino il permesso di soggiorno, senza il quale non pu� lavorare: "a
corollario di quanto � successo", mi scrive oggi suo fratello Esse, "ti
posso solo dire che proprio oggi dopo sette giorni di tentativi siamo
riusciti a contattare il numero telefonico messo a disposizione dalla
questura per prenotare l'appuntamento per il rinnovo del permesso di
soggiorno: ce l'hanno fissato per il 15 settembre! E quello � solo il
giorno in cui si va a consegnare la modulistica. Dopo dovr� passare
almeno un altro mese affinch� il permesso sia pronto. Questo significa
che mio fratello non potr� lavorare in regola fino a met� ottobre 2004.
Il tutto perch� una sera di ottobre 2003, un doganiere non era al suo
posto e mio fratello ha sbagliato strada�"

La storia di Esse e di Acca � vera: l'ho raccontata a modo mio, ma non
ho aggiunto nulla. Ho solo omesso alcuni particolari burocratici, il
nome della citt� italiana in cui vivono - che non � Milano - e i loro
nomi reali, e l'ho commentata lasciando scivolare qua e l� i miei
pensieri malinconici. Esse e io siamo in contatto, e se lasciate un
messaggio lo legger�. La storia di Esse e Acca � una storia che
dovrebbe stare nelle pagine di storia dell'Europa, alla voce: come si
sopravviveva nel 2004 nella gabbia di Schengen. Invece, nei libri di
storia ci entreranno i discorsi solenni tenuti nelle capitali della
nuova Europa allargata l'altroieri notte, i discorsi solenni del
Continente Unito: il continente dove un ragazzo serbo che ha
dimenticato il passaporto a casa e sbagliato strada in una sera buia
pu� essere tenuto lontano dalla sua famiglia sei mesi, costretto in
carcere senza aver commesso alcun reato, sparato da una citt� all'altra
come una pallina dentro un flipper.

P.S. In questa storia ho voluto lasciare le maiuscole, perch� spero che
molti la riportino su altri siti. In genere non amo farmi notare e non
cerco visibilit�, ma mi auguro, questa volta, che la storia di Esse e
di Acca faccia il giro del web e insegni qualcosa ai cittadini del
continente-Europa. Volevo dir grazie a Esse, per tutto.


by babsi jones, www.exju.com
3.05.2004


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http://www.exju.org/archivio/esse_e_acca_una_storia_europea.html%5d




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