Informazione


... dà fastidio anche a Diego Zandel e alla lobby europeista di Osservatorio Balcani Caucaso:
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Dubravka Ugresic

Europa in seppia

  • traduzione: Olja Perišić Aršić, Silvia Minetti
  • pagine: 352 - 14X20
  • ISBN: 9788874525997
  • Data Pubblicazione: 18/03/2016
  • collana: cronache

Come si sopravvive in un mondo dove non esistono piú le cabine telefoniche, l’effigie di Tito è stampata su calzini-souvenir e si costruiscono musei sul domani per salvarsi dall’oggi? Dubravka Ugrešić ci mostra l’Europa del primo secolo del nuovo millennio attraverso una galleria di scatti, di foto d’epoca color seppia: raccontando che cosa è rimasto di un Est che, puntato sull’orologio socialista, ha creduto al progresso e ormai non ha piú neanche il tempo per sognare; e di un Ovest che, convinto di dettare il passo al futuro, moltiplica le connessioni e si barrica nei propri confini. Cartoline da aeroporti, alberghi, festival, istantanee di paure e ossessioni, una flotta di corrosivi messaggi in bottiglia lanciati da un’irriducibile contestataria.


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Una trappola chiamata jugonostalgia

di Dubravka Ugrešić, La Repubblica, 23 marzo 2016
Anticipiamo un brano dal nuovo libro della scrittrice croata Dubravka Ugrešic, Europa in seppia (nottetempo, pagg. 352, euro 18,50).

Un invito dell'Oberlin College in Ohio a tenere una lezione sul tema "Il ricordo del comunismo: poetica e politica della nostalgia", aveva risollevato la mia ammaccata autostima di veterana, che quasi subito però si era sgonfiata. Dopo vent'anni a scavare fra le rovine, che cosa avrei potuto dire ancora sulla jugonostalgia?! Davanti a me si innalzava un'irriducibile mole di scritti e di testi non ancora scritti, poi libri, film, memorie, simboli e souvenir, insomma, un enorme ripostiglio, un archivio caotico in cui avevo accumulato roba di ogni genere; da fondamentali testi teorici (il libro di Svetlana Boym, "The Future of Nostalgia"), a film di successo ("Good Bye Lenin" del regista Wolfgang Becker), a progetti nostalgici di seconda
o di terza categoria, fino a oggetti smarriti che non sembravano avere alcuna attinenza con il resto. Ma chi sarà l'arbitro supremo capace di dire quali sono gli oggetti attinenti e quali quelli non attinenti? (...) C'è stato un tempo in cui internet non aveva ancora raggiunto un utilizzo di massa. Oggi ogni postjugoslavo ha modo di soddisfare il proprio appetito jugonostalgico: si trovano siti con vecchi film jugoslavi, le serie televisive più popolari, cantanti pop, vecchie pubblicità di prodotti jugoslavi, le sedie su cui ci sedevamo, le cucine in cui cucinavamo, le mode che seguivamo. Oggi vengono inaugurate mostre jugonostalgiche, si possono acquistare calzini-souvenir con l'effigie di Tito, libri di cucina con le ricette dei suoi piatti preferiti. Oggi nei teatri si tengono rappresentazioni dal contenuto jugonostalgico, si girano documentari nei quali gli intervistati manifestano apertamente la propria pulsione jugonostalgica. Senonché la jugonostalgia ha perso la sua carica sovversiva, non è più un movimento di resistenza personale, è un prodotto di consumo: nel frattempo è diventata un supermercato mentale, un elenco di simboli morti, un semplice promemoria privo di immaginazione emozionale.
Oggi, cioè, il capitalismo predatorio postjugoslavo può permettersi di tollerare la presenza sul mercato ideologico di souvenir jugonostalgici. La jugonostalgia non fa altro che rafforzare la propria posizione. E come?! Al posto di essere la chiave per una migliore comprensione del socialismo jugoslavo, per una resa dei conti reale e a lungo termine tra il vecchio e il nuovo, al posto di essere il generatore di una memoria produttiva, se non addirittura di un futuro migliore - la jugonostalgia oggi si è trasformata nel suo opposto, in un'efficace strategia di conciliazione e oblio. Acquistando i calzini-souvenir di Tito, il postjugoslavo simbolicamente abbatte un divieto ventennale e cancella lo stigma del suo passato socialista. Qui la nostalgia muta radicalmente di significato e non sta più a indicare la protesta contro l'oblio, la polemica contro il sistema vigente o il desiderio di una vita passata (se mai ha avuto questo significato), ma un'accettazione senza riserve della situazione attuale.
Eppure, le profonde frustrazioni suscitate dal solo nominare la parola jugonostalgija (Jugoslavia, jugoslavo, socialismo, comunismo e cosi via), non sono ancora sopite, il che dimostra semplicemente che i cittadini della ex Jugoslavia - diventati croati, serbi, sloveni e via dicendo - non si sono emancipati dal passato jugoslavo. E di conseguenza, per esempio, i personaggi pubblici, che si tratti di politici, letterati, artisti, filosofi, accanto alla parola jugonostalgia aggiungono sempre una nota in calce per segnalare che il loro menzionare la Jugoslavia non significa che la rimpiangano, né per carità, che rimpiangano il comunismo. La mostra «Socialismo e modernità» a Zagabria, inaugurata alla fine del 2011, non fa che confermare e alimentare la frustrazione che in Croazia è stata latente per vent'anni.
Un visitatore può vedere esposta la prima automobile di produzione jugoslava, il primo apparecchio radiofonico, spezzoni di trasmissioni televisive, mobili, manifesti e progetti architettonici, ma il contesto storico è del tutto insignificante. La Jugoslavia, il comunismo o il socialismo vengono a malapena citati, quindi sembra quasi che la modernità degli anni '50 e '60 fosse esclusivamente croata e che avesse i colori della dissidenza, anche se risulta poco chiaro contro cosa il dissenso avrebbe dovuto rivolgersi. I curatori della mostra erano spaventati dal fatto che a quel tempo la Croazia fosse una repubblica jugoslava, come anche dal fatto che fosse stato il socialismo jugoslavo il motore della modernità. Il socialismo e la modernità a quel tempo procedevano di pari passo in un'armoniosa coppia ideologica.
Anche il capitalismo americano sfrutta la nostalgia, sebbene in modo più abile e attraente. L'esempio della campagna pubblicitaria della Levi's ( Go Forth; Go Work) mostra come il capitalismo realizzi un re- branding per difendere se stesso. Sfruttando l'estetica degli spazi postcapitalistici in rovina (capannoni di fabbriche abbandonate a Pittsburgh e Detroit) e servendosi di dilettanti invece che di modelli professionisti, le immagini della pubblicità della Levi's evocano la nostalgia per i valori di una volta, come l'individualismo, la forza, l'onestà, il lavoro, l'autostima, il coraggio, o, in altre parole, la nostalgia per i tempi dei pionieri americani. Ad accompagnare le immagini, frasi come per esempio Things got broken here assolvono da ogni responsabilità i veri colpevoli della crisi economica, equiparando così la crisi a una semplice calamità naturale, che colpisce tutti senza distinzione. La breve frase We need to fix it invita le persone, i lavoratori della classe operaia (!), a rimboccarsi le maniche, a prendere le cose nelle proprie mani e cambiare la propria vita ( Your life is your life!). E, ovviamente, a risolvere la propria vita nessuno ci va con il culo di fuori. Per questo è necessario un minimo investimento iniziale, un paio di Levi's.

© nottetempo, 2016.
Traduzione di Olja Perišic Arsic e Silvia Minetti

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“Caro vecchio Continente senza più un fremito morale”

La scrittrice croata Dubravka Ugrešic racconta in Europa in seppia la disillusione dell’Est dopo la sbornia iniziale di libertà e mercato

23.3.2016
MICHELA TAMBURRINO
ROMA

Il calzino-souvenir con l’effigie di Tito stampata sopra. Una cabina telefonica fuori uso. L’Europa che non ride più. Sono foto dell’anima che la scrittrice croata Dubravka Ugrešic si è trovata a scattare traendo luce dalle mancanze, aprendo il grandangolo del paradosso. Crudeli, ironiche, accorate.  
 
Europa in seppia (Nottetempo, collana cronache) è un album di scatti raccontati, un mondo che non c’è più si impone, l’odierno, mentre esiste è già dimenticabile. Cartoline lanciate come messaggi in bottiglia, da alberghi, aeroporti, convegni. Rassicuranti non sono ma ci si ride sopra. E persino la solida nostalgia di cui la massiccia Dubravka si ciba con famelico altruismo è diventato prodotto usa e getta. La saggista e romanziera, amata per la sua mancanza di conformismo, tradotta in venti lingue, in esilio in Olanda, «mette in posa un’epoca per un impietoso selfie». 
 
Lei scrive che l’Europa non ama più la vita.  
«L’Europa ha perso le coordinate, non funge più da concetto. L’unica cosa certa di ogni singolo Stato europeo è la moneta unica. Umberto Eco diceva che la cultura incontra un problema quando la si paragona alla valuta, in un mondo globale proprio la cultura dovrebbe garantire da difesa identitaria. Per me è un motivo di disperazione. Vedo l’Europa in una luce cupa, soffro la mancanza di un progetto morale per il futuro, non mi sento parte di una comunità, siamo testimoni del proliferare di tanti fascismi diversi, in tanti luoghi diversi, ma noi non li vediamo come tali. Colgo l’incapacità di leggere tanti segni e questo mi preoccupa». 
 
Da qui la nostalgia per il suo mondo fatto a blocchi? 
«La nostalgia in sé ha un grande potenziale di vendita e di guadagno. Oramai la maneggiano tutti, la usano i commercianti e i politici. Prolifera lì dove manca un progetto per il futuro, ma noi viviamo in un tempo in cui nessuno parla più del futuro. Io sono cresciuta in un’epoca di forte progettualità. Pensavo che avrei comprato un biglietto per la Luna. Nessuno lo dice più. La medicina e la tecnologia sono gli unici campi ad indicare il domani. Vivremo tutti una lunghissima vecchiaia contornati da macchine tutto fare. Nessuno però ci dice come staremo in questo mondo, sanissimi, vecchi e sostituiti dai robot. In tanta incertezza fiorisce la nostalgia cattiva ed ecco che allo stadio di Spalato tra il manto in erba, dal cielo si vede una svastica». 
 
C’è anche tanta paura tra le pieghe del suo libro. 
«Viviamo in un mondo che è stato allattato con la paura e la più grande è quella del cambiamento. Il regime comunista organizzava sogni e desideri. Miope pensare che il socialismo in Jugoslavia sia stato abbattuto per uccidere una figura materna. In realtà è stato sostituito da una figura ancora più materna: il nazionalismo. Peggiore perché mancante del piglio ideologico, criminale perché si basa sull’etnia e sul gruppo sanguigno». 
 
Lei parla di Zagabria come farebbe un’amante tradita 
«Ai Padiglioni della Fiera di Zagabria ho accompagnato un mio amico scivolato nella povertà a prendere pacchi destinati ai “casi sociali”. Vent’anni fa in un analogo padiglione vennero torturati i concittadini serbi». 
 
Lei partecipa a molti festival letterari, eppure li descrive di grande pochezza. 
«Il sistema letterario ha perso appeal. Sgretolato il sostegno dato dalle università e dalla critica, i festival sono entrati a far parte del mercato. L’idea guida è pubblicizzare pur non essendo certi della bontà del prodotto. C’è una manifestazione inglese nella quale si dava spazio agli scrittori. Oggi chiedono agli autori una performance, purché sia divertente. Finiremo tutti come Elena Ferrante e non ci mostreremo più». 
 
Lei adora il Museo del Cinema di Torino (oggi sarà al Circolo dei Lettori nell’ambito del Festival Slavika) perché il cinema è il prodotto più potente ed emozionante della nostra epoca. 
«Sì, è il posto più bello al mondo, sensuale, illuminato da energia onirica. Stesa su quelle poltrone ho visto scene di ballo tratte dai film. Ecco, il mio messaggio per il futuro sarebbe il ballo, gente normale che balla come stelle in cielo».

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Europa in seppia 

Diego Zandel, 20 giugno 2016

E' l'ultimo libro uscito in Italia per la casa editrice Nottetempo della scrittrice Dubravka Ugrešić. Una riflessione sull'Europa del Novecento, in particolare quella dell'est. Recensione
Dubravka Ugrešić è una delle scrittrici croate più tradotte in Italia. Nel tempo, Garzanti prima, quindi Bompiani ed ora Nottetempo hanno pubblicato i suoi libri più significativi. Eppure è, o meglio sarebbe dire, è stata una delle scrittrici più odiate in patria al tempo della cosiddetta “Guerra patriottica” e del regime di Tuđman, tanto da costringersi a una sorta di auto esilio, scegliendo poi di vivere in Olanda.
L’ultimo ad essere pubblicato in Italia da Nottetempo, ed è ben il terzo libro per i tipi di questa bella casa editrice, è una raccolta di articoli e saggi di attualità, piuttosto recenti, dal titolo “Europa in seppia” (pag,349, €. 18,50, traduzione di Olja Perišić Arsić e Silvia Minetti). Perché in seppia? Perché guarda a quell’Europa del Novecento che non c’è più. O, meglio, c’è, ma è l’Europa di oggi, in particolare quella dell’est, che si volta indietro e scopre un continente invecchiato nei suoi miti, ridotti per lo più a icone consumistiche. L’esempio più significativo per una croata, spesso accusata di jugonostalgia, è quello di Tito, la cui immagine, che un tempo si vedeva esposta in ogni luogo pubblico, si ritrova stampata su calzini-souvenir oppure, con la memoria del fatto che era un bon viveur, in libri di cucina con le ricette dei suoi piatti preferiti. La Ugrešić, proprio con riferimento alla jugonostalgia, critica severamente questo atteggiamento come una resa al capitalismo: “Oggi, cioè” scrive “il capitalismo predatorio postjugoslavo può permettersi di tollerare la presenza sul mercato ideologico di souvenir jugonostalgici. La jugonostalgia non fa altro che rafforzare la propria posizione.”
Può sembrare una critica alla jugonostalgia, ma in realtà il suo è un fastidio per una storia, la storia del paese sotto il quale è nata e cresciuta, ridotta a questi espedienti consumistici che ne riducono l’importanza e allontanano da una vera riflessione su ciò che è stata la Jugoslavia di Tito. Scrive infatti l’autrice che questo tipo di jugonostalgia: “al posto di essere la chiave per un’indagine seria, per una migliore comprensione del socialismo jugoslavo, per una resa dei conti reale e a lungo termine tra il vecchio e il nuovo, al posto di essere il generatore di una memoria produttiva, se non addirittura di un futuro migliore, la jugonostalgia oggi si è trasformata nel suo opposto, in un’efficace strategia di conciliazione e oblio”.
Con ciò, però, secondo me, confermando la tesi di chi sostiene il suo essere jugonostalgica, di una Jugoslavia però vista con altri occhi, quelli di un rimpianto per un paese che non c’è più e che, se non portato alla distruzione, avrebbe potuto essere. Una posizione, la sua, che per altro ben emerge soprattutto nel suo romanzo “Il ministero del dolore”, edito in Italia da Garzanti in cui racconta la storia di una insegnante di serbo-croato autoesiliatasi da Zagabria, come la Ugrešić, che insegna letteratura a giovani ex jugoslavi, ora croati, serbi, bosniaci, montenegrini, figli o parenti di criminali di guerra alla sbarra al tribunale dell’Aia. Con essi nasce un gioco della memoria: cercare di ricordare tutto ciò che era riconducibile alla ex Jugoslavia, compresa la lingua, della quale la protagonista sottolinea l’assurda distinzione tra serbo e croato che conta su una diversità di non più di 50 parole. L’intento, quello di alimentare nei giovani allievi una comune identità jugoslava che cancelli i nazionalismi esacerbati dalla guerra interetnica, che era poi il motivo profondo del romanzo stesso.
Questa visione, che è quella di una donna di cuore comunista, rappresenta un po’ tutta la chiave degli articoli e dei saggi raccolti in “Europa in seppia”, in particolare quando l’autrice, ospite in questo o quel paese europeo soprattutto per convegni e presentazioni, si trova in quelli dell’est, ex comunisti, dove non manca di criticare la volontà dei nuovi governi di cancellare, fin nei nomi, i retaggi nel passato comunista. Gran parte del libro è assorbito da questa discussione e non a caso il libro si apre con il ricordo di quando Dubravka Ugrešić fu invitata all’Oberlin College, nell’Ohio, che aveva organizzato una serie di lezioni sul tema Il ricordo del comunismo: poetica e politica della nostalgia, che è poi il tema di questo libro, scritto con acume e un po’ di acredine.
E’ pur vero che il libro non parla solo di questo, pur ritornandoci spesso, ed è interessante il punto di vista dell’autrice anche su altri aspetti della realtà europea, che lei vive ormai anche come cittadina olandese e viaggiatrice culturale per essere spesso chiamata a festival, rassegne, conferenze, eventi culturali (è stata anche a Torino e Roma, per presentare questo ultimo libro). Il timore però è che l’invito sia rivolto alla dissidente più che alla brava scrittrice che la Ugrešić è, facendole ricoprire un ruolo che ormai dovrebbe scrollarsi di dosso, credo con una profonda riflessione sui passi in avanti compiuti dalla Repubblica di Croazia dai tempi di Tuđman che, perseguitando lei ed altri scrittori critici, mostrava il volto becero di un regime. Magari partendo dalla semplice considerazione che l’attuale Repubblica di Croazia non solo contribuisce economicamente, attraverso il ministero della Cultura, alla traduzione dei suoi libri all’estero, ma anche a qualcuno dei suoi viaggi di lavoro come, ad esempio, l’ultimo nel nostro paese per la presentazione proprio di questo libro a Torino e a Roma.

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Altri link consigliati:
Quando l'esilio è una scelta di vita, una conversazione con Dubravka Ugreŝić (Pagina 99, sezione Arti, pag. 39 - 30 aprile 2016 - di Gabriele Santoro)





Missili terra-aria italiani al confine siriano

1) I MISSILI TERRA-ARIA ITALIANI AL CONFINE SIRIANO (di Gianandrea Gaiani)
2) L’ITALIA ALLA GUERRA IN SIRIA A FIANCO DI ERDOGAN (di Antonio Mazzeo)


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EDITORIALE

I MISSILI TERRA-ARIA ITALIANI AL CONFINE SIRIANO


di Gianandrea Gaiani
13 giugno 2016, pubblicato in Editoriale

L’Esercito italiano ha schierato una batteria di missili terra aria SAMP/T in Turchia, nell’ambito dell’impegno assunto dalla Nato per rispondere alla richiesta di aiuto di Ankara per la protezione del suo spazio aereo dal rischio di sconfinamenti provenienti dalla Siria.
La notizia era attesa da tempo ed era stata anticipata il mese scorso da Analisi Difesa. In realtà la missione degli uomini e dei missili MBDA Aster 30 era nell’aria già da tempo e negli ultimi tre anni sono state inviate nel sud della Turchia batterie di missili Patriot statunitensi, tedeschi, olandesi e spagnoli.
Il 18 maggio scorso, in un articolo dedicato al rinnovo delle missioni italiane oltremare, evidenziammo l’imminente partenza della batteria missilistica del 4° reggimento artiglieria contraerea “Peschiera”, non ancora annunciata ma deducibile dallo stanziamento di 7 milioni di euro per la partecipazione italiana all’operazione NATO “Active Fence”.
Le conferme dell’arrivo in Turchia dei militari e dei mezzi dell’Esercito Italiano sono state fornite dalla stampa turca e dall’agenzia di Stato Anadolu che il 7 giugno hanno pubblicato le foto della colonna militare (una decina di autocarri) sbarcata nel porto di Iskenderun e diretta nella zona di Kahramanras nei pressi del confine siriano.
Il giornale Daily Sabah ha riferito del dispiegamento del “sistema di difesa aerea avanzato italiano per combattere lo Stato Islamico” che però notoriamente non dispone né di velivoli né di missili balistici. Lo stesso giornale riportò inoltre la presenza di 25 militari italiani, numero che appare molto limitato ma che indicherebbe come logistica e sicurezza del contingente siano garantiti dalle forze turche.
Come ha sottolineato Guido Olimpio sul Corriere della Sera “per i media locali l’Italia ha inviato un apparato che può contrastare aerei, missili da crociera e tattici. Una minaccia potenziale che può arrivare da russi o siriani”.
La nuova missione militare italiana, oltre alle implicazioni legate al conflitto siriano, non può non venire contestualizzata nella crescenti tensioni tra NATO e Russia.
La batteria missilistica è infatti schierata a due passi da un’area conflittuale complessa dove le truppe turche colpiscono in Siria le milizie dello Stato Islamico e quelle curde, sostengono altre milizie islamiste come quelle di al-Qaeda (Fronte al-Nusra) e combattono sul territorio turco e in Iraq le forze curde del PKK.
Lo stesso territorio turco viene colpito da attentati e attacchi condotti dall’Isis e dal PKK mentre nei cieli lungo il confine operano gli aerei statunitensi, della Coalizione e quelli delle forze siriane e russe: queste ultime inoltre schierano a Latakya batterie di missili terra–aria a lungo raggio S-400 che di fatto inibiscono le operazioni dei caccia di Ankara nello spazio aereo di frontiera.
Anche alla luce di queste valutazioni stupisce l’assenza di un dibattito politico in Italia circa l’opportunità o meno di inviare nostre truppe e mezzi in quell’area con un compito che rischia di coinvolgerci nel confronto in atto tra Ankara e l’asse Damasco/Mosca, specie dopo l’abbattimento da parte di un F-16 turco di un Sukhoi 24 russo del 24 novembre scorso, episodio che rappresenta il più eclatante tentativo della Turchia di coinvolgere la Nato nel conflitto siriano e nel braccio di ferro con  Mosca.
Il governo italiano ha mantenuto un basso profilo anche su questa missione senza annunciare la partenza della batteria missilistica fino al  7 giugno, quando i ministri Roberta Pinotti (nella foto a sinistra) e Paolo Gentiloni hanno comunicato la partecipazione delle forze italiane all’operazione “Active Fence” alle commissioni Esteri e Difesa, senza che nessun domanda o richiesta di chiarimenti sia stata posta dai (pochi) parlamentari presenti.
Eppure le perplessità su questa missione non mancano di certo. La missione Nato di supporto al controllo dello spazio aereo turco ai confini siriani include anche la presenza di velivoli radar Awacs ma, come sottolinea Gianluca De Feo su Repubblica, “le regole di ingaggio per l’impiego dei missili italiani sono top secret”.
Come è normale che siano: la catena di comando e controllo di “Active Fence” è Nato ma non è chiaro chi deciderebbe un eventuale lancio di missili italiani contro aerei siriani o russi che dovessero sconfinare in Turchia, né se Roma abbia posto “caveat” nazionali che condizionino il comando alleato nell’impiego dei missili italiani.
Difficile non notare che dopo l’abbattimento del bombardiere russo tutti i partner NATO hanno ritirato le loro batterie di missili terra-aria (presenti dal 2013) dal sud della Turchia mentre gli italiani si schierano in quella polveriera nel momento più critico col rischio di coinvolgimento diretto in uno scontro con la Russia in un momento in cui diversi alleati (statunitensi in testa) sembrano voler soffiare sul fuoco di una nuova guerra fredda.
Quali contropartite ha chiesto (ammesso che ne abbia chieste) e ottenuto l’Italia per schierare truppe e mezzi lungo il confine più caldo del pianeta?
In fondo è la stessa domanda che ci ponemmo poche settimane or sono in occasione dello schieramento (anch’esso poco pubblicizzato) dei primi bersaglieri del contingente del 6° reggimento presso la Diga di Mosul, in Iraq, a pochi chilometri dalle linee dello Stato Islamico.
Sul piano strategico varrebbe la pena discutere il senso di una missione a tutela della Turchia, nominalmente nostro alleato nella NATO ma la cui politica interventista nel conflitto siriano ha danneggiato l’Italia e l’Europa favorendo le forze jihadiste e speculando brutalmente sui flussi di profughi e immigrati clandestini.
Insomma, siamo davvero convinti che i turchi siano nostri “amici” e russi e siriani “nemici” oppure questa missione rappresenta l’ennesimo obolo pagato agli statunitensi?
Resta invece fuori discussione l’importanza operativa e industriale di schierare per la prima volta in un contesto reale il SAMP/T realizzato dal consorzio italo-francese Eurosam (MBDA e Thales), sia in termini di esperienza del personale militare e di valutazione sul campo del sistema sia per favorirne l’export anche in vista dello sviluppo della versione aggiornata Block 1NT (Nuova Tecnologia) con spiccate capacità contro i missili balistici a medio raggio.
Proprio i turchi sembravano voler acquisire il sistema SAMP/T nell’ambito del programma T-Loramids poi cancellato perché Ankara preferisce cercare partner internazionali per sviluppare un sistema nazionale antimissile.
Foto: MBDA, NATO, US DoD, Difesa.it e Corriere.it


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L’Italia alla guerra in Siria a fianco di Erdogan


di Antonio Mazzeo, mercoledì 15 giugno 2016


Operazione top secret dell’Esercito italiano al confine turco-siriano. Il 6 giugno, una batteria di missili terra-aria SAMP/T e una trentina di militari italiani sono stati schierati nella zona di Kahramanras, a nord di Gaziantep (Turchia meridionale), nell’ambito dell’impegno assunto dalla NATO a protezione dello spazio aereo turco dal “rischio di sconfinamenti provenienti dalla Siria”. La notizia è stata pubblicata dai maggiori quotidiani turchi e dall’agenzia di Stato “Anadolu”. I mezzi militari italiani sono sbarcati nel porto di Iskenderun per dirigersi poi nella zona di Kahramanras, nei pressi del confine siriano. Sempre secondo i media turchi, il sistema missilistico messo a disposizione dal nostro paese “avrà esclusivamente il compito di contrastare aerei, missili da crociera e tattici e non sarà impiegato nell’imposizione di una no-fly zone”.

La batteria SAMP/T sostituirà il sistema “Patriot” che le forze armate della Germania avevano schierato a sud della Turchia circa tre anni fa. La decisione del cambio negli assetti missilistici NATO a “protezione” delle forze armate di Erdogan che operano al confine e in territorio siriano è stata assunta all’ultimo vertice dei ministri degli esteri dei paesi del’Alleanza tenutosi a Bruxelles. Oltre alla batteria dei SAMP/T italiani, a luglio la NATO fornirà alla Turchia il supporto di un altro velivolo radar AWACS (Airborne Warning and Control System).

Il sistema antiaereo e antimissile a medio raggio SAMP/T è stato sviluppato dal consorzio europeo “Eurosam” formato dalle aziende MBDA Italia (gruppo Leonardo-Finmeccanica) e Thales (Francia). Basato sul missile intercettore “Aster 30” con un raggio sino a 100 km e una velocità massima di 1.400 m/s, il nuovo sistema sarebbe in grado di intercettare e abbattere anche in maniera del tutta automatica aerei, elicotteri, droni, missili di crociera, missili teleguidati, ecc.. Ogni batteria SAMP/T è costituita da lanciatori con un numero variabile di missili da 8 a 48 che possono ingaggiare fino a 10 bersagli contemporaneamente. Il costo del sistema è elevatissimo: nel 2008 l’Esercito italiano, dopo i test effettuati in Francia e nel poligono di Salto di Quirra in Sardegna ha deciso di acquistare 6 batterie di lanciatori con una prima tranche di spesa di 246,1 milioni di euro.

Il trasferimento in Turchia di una batteria missilistica SAMP/T del 4° reggimento artiglieria contraerea “Peschiera” era stato anticipato il 18 maggio scorso da un articolo di Analisi Difesache analizzava il decreto di rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero. In esso, infatti, era stato previsto uno stanziamento di 7 milioni di euro per la partecipazione all’operazione NATO “Active Fence” al confine turco-siriano. La missione italiana nell’ambito di “Acrive Fence” era stata confermata il 7 giugno in Parlamento dai ministri Roberta Pinotti e Paolo Gentiloni, ma senza che ne fossero specificate le modalità o i tempi.

“La nuova missione militare, oltre alle implicazioni legate al conflitto siriano, non può non venire contestualizzata nella crescenti tensioni tra NATO e Russia”, scrive l’analista Gianandrea Gaiani. “La batteria missilistica è infatti schierata a due passi da un’area conflittuale complessa dove le truppe turche colpiscono in Siria le milizie dello Stato Islamico e quelle curde, sostengono altre milizie islamiste come quelle di al-Qaeda (Fronte al-Nusra) e combattono sul territorio turco e in Iraq le forze curde del PKK”. 
“Alla luce di queste valutazioni stupisce l’assenza di un dibattito politico in Italia circa l’opportunità o meno di inviare nostre truppe e mezzi in quell’area con un compito che rischia di coinvolgerci nel confronto in atto tra Ankara e l’asse Damasco/Mosca”, aggiunge Gaiani. “Difficile non notare che dopo l’abbattimento da parte di un F-16 turco di un bombardiere russo il 24 novembre scorso, tutti i partner NATO hanno ritirato le loro batterie di missili terra-aria dal sud della Turchia mentre gli italiani si schierano in quella polveriera nel momento in cui diversi alleati (statunitensi in testa) sembrano voler soffiare sul fuoco di una nuova guerra fredda”. Ma, si sa, Renzi, Pinotti e Gentioni non brillano certamente per lungimiranza politica e militare…





Sulla questione del revisionismo promosso dalla Unione Europea e dallo Stato italiano si vedano anche

– il servizio di PandoraTV del 9 giugno scorso "Arriva in Italia l’ambiguo reato di negazionismo"

– Tosi come Poroshenko: il nostro volantino 
distribuito in occasione del presidio tenuto a Verona contro la proposta di cittadinanza onoraria per il golpista ucraino Porošenko
https://www.facebook.com/events/1594026064222467/

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Inizio messaggio inoltrato:
Da: Gherush92 <gherush92 @ gmail.com>
Oggetto: Negazionismo di Stato
Data: 17 giugno 2016 12:09:03 CEST



Gherush92 Committee for Human Rights 

E’ NEGAZIONISMO DI STATO
LA DEPORTAZIONE DEL MEMORIALE ITALIANO DA AUSCHWITZ

 

Il recente decreto  sul negazionismo (demagogico e giustizialista), tanto sbagliato quanto inefficace, dispone l'applicazione della pena "da due a sei anni se la propaganda, ovvero l'istigazione e l'incitamento commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah, o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale".

Il decreto è sbagliato visto che il testo esplicitamente cita solo la Shoah, senza elencare altri avvenuti crimini contro lo stesso popolo ebraico e contro altri popoli.  E’ inapplicabile non entrando nel merito di cosa sia il negazionismo e di cosa si può e cosa non si può, secondo la legge, citare, dire, diffondere. E’ inefficace visto che l’intrinseca indeterminatezza ed ambiguità del decreto non tutela dal pericolo del diffondersi di falsità e verità storiche “di stato” e dal rischio di ricadute di tipo inquisitoriale.

Se è vero che il negazionismo della Shoah esiste, è anche vero che si tratta di un fenomeno circoscritto e minoritario che richiede una risposta documentata ed articolata, ma non certo una legge specifica che non serve ad inibire qualche miserabile o qualche “illustre” accademico ma solo a far demagogia a proprio uso e consumo.

Una legge contro l’antisemitismo è doverosa, purché l’obiettivo non sia quello di colpire unicamente qualche decina di esponenti negazionisti, ma il sistema culturale che propugna negazionismo e antisemitismo. Gherush92 in quest’ambito ha già proposto nelle sedi opportune le linee guida per una Convenzione Europea contro l’Antisemitismo e contro l'Antiromanì.

I negazionismi sono mille: esiste chi nega la Shoah e lo sterminio degli Ebrei, chi nega lo sterminio dei Rom, degli Indiani d’America, chi nega la deportazione e il massacro degli Africani, il genocidio dei Curdi, degli Armeni, lo sterminio dei Tutsi, e così via. Esiste chi nega i pogrom, le crociate, i ghetti, persino l’Inquisizione, o attribuisce a questi fatti storici un significato parziale e li giustifica riducendone la portata distruttiva in termine di vite umane e di devastazione culturale e ambientale. Nonostante le conseguenze di questi crimini efferati  arrivino fino ad oggi  esiste chi celebra la propria segregazione nel ghetto. I negazionismi sono mille, la gran parte sono la negazione di stermini avvenuti per opera dell'occidente cristiano.

Anche le forme del negazionismo sono mille.

Esiste chi nega le implicazioni di Pio XII nella Shoah e intercede per la sua beatificazione. Esiste chi appoggia e sostiene la beatificazione di Isabella di Castiglia e manipola fatti, nasconde leggi, bolle papali, tutte prove delle sue responsabilità nelle persecuzioni di Ebrei, Mori, Rom e Indios. Anche questo è negazionismo.

Esiste chi nega la pedofilia nella chiesa o la nasconde con omertà. Esiste chi, a bella posta, confonde nazismo con comunismo. Esiste chi vuole imporre un falso per legge, che l’Europa abbia origini giudaico-cristiane. Esiste chi giustifica la deportazione dei Rom. Anche questo è negazionismo.

Esiste chi nega che la Shoah, avvenuta nell’Europa cristiana, è il frutto di secoli di persecuzioni. Anche questo è negazionismo, negare che la Shoah, organizzata ed eseguita dai nazi-fascisti, è l'apice e la chiara conclusione di un processo discriminatorio e persecutorio verso gli Ebrei in Europa per opera dell'occidente cristiano.

Esiste, infine, il Governo che, nonostante ripetuti interventi, appelli, interrogazioni parlamentari in difesa della conservazione del Memoriale Italiano ad Auschwitz, ne ha decretato la deportazione dal  Blocco 21 del campo di sterminio. Con quello sciagurato atto si è voluto rimuovere da Auschwitz l'effige della falce e martello, il simbolo dei liberatori. E' bene ricordare che la Shoah include vittime, carnefici e liberatori, fra cui i soldati dell’Armata Rossa che, combattendo contro i nazifascisti, hanno liberato il campo e l'Europa. Anche questo è negazionismo.

Attenzione, però. Questa volta si potrebbe trattare di Negazionismo di Stato, di gran lunga la forma più subdola e pericolosa, reato che anche il recente decreto, sbagliato ed inadeguato, punisce con la reclusione.

Valentina Sereni, Delfina Piu, Stefano Mannacio
Gherush92 Committee for Human Rights



(français / srpskohrvatski / italiano)

Il Montenegro tra psicopatia e ricatti


Una operazione editoriale demenziale, frutto degli ingenti finanziamenti elargiti dalla cattiva politica: parliamo della stampa del primo dizionario della "lingua montenegrina" mai esistito. Mai esistito e che mai sarebbe dovuto esistere, perché codifica l'invenzione di una lingua inesistente, a solo uso e consumo degli interessi separatisti delle cricche anti-jugoslave che hanno preso d'ostaggio la repubblichetta. Tra queste cricche, una – quella revanscista pan-albanese – contesta l'operazione solo perché qualche voce del dizionario è irrispettosa nei suoi confronti; un'altra – quella della NATO – spinge il paese verso la annessione alla stessa Alleanza militare che appena 17 anni fa lo bombardò, per rovinare i rapporti con i popoli alleati storici e contro il volere della maggioranza degli abitanti; un'altra ancora – quella dei camorristi al potere – si gongola tra invenzioni identitarie e ricevimenti nei salotti di lusso dell'imperialismo euro-atlantico. "Niente di buono ... finché Dzelaludin comanda", scriveva l'attualissimo Ivo Andrić. (a cura di Italo Slavo)


LINK CONSIGLIATI:

« L’AFFAIRE DU DICTIONNAIRE » DÉCHIRE LE MONTÉNÉGRO
Radio Slobodna Evropa | Traduit par Chloé Billon | mercredi 15 juin 2016
La parution du premier dictionnaire de la langue monténégrine devait être un événement scientifique, mais le scandale l’a emporté. En cause, quelques définitions outrageantes pour les Albanais et les Bosniaques du Monténégro. Certains se demandent néanmoins si le DPS n’a pas cherché à entretenir la polémique, pour raviver, une fois de plus, la carte des tensions ethniques...
http://www.courrierdesbalkans.fr/articles/montenegro-le-dictionnaire-de-la-discorde.html

ORIG.: Bunt zbog rječnika: Albanci su autohtoni, a ne agresori
maj/svibanj 24, 2016 – Lela Šćepanović
... Početkom aprila Crnogorska akademija nauka i umjetnosti (CANU) objavila je prvi dio Rječnika crnogorskog narodnog i književnog jezika, kao "skroman poklon narodu uoči deset godina nezavisnosti". Na nešto više od 500 stranica popisano je više od 12.000 riječi koje počinju slovima A, B i V zajedno sa informacijama o njihovom izgovoru, značenju i upotrebi...
http://www.slobodnaevropa.org/a/bunt-zbog-rjecnika-albanci-su-autohtoni-a-ne-agresori/27754715.html

Sulla situazione in Montenegro:

Sulla questione linguistica serbo-croata:


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Le Monténégro victime de l’appétit insatiable de l’OTAN



L’OTAN a invité le Monténégro à entamer des négociations d’adhésion à son organisation. Ainsi, probablement en 2018, après achèvement de ces pourparlers et ratification de l’accord conclu par les parlements nationaux, l’appartenance de ce petit pays balkanique à la plus grande alliance militaire de la planète sera effective.

Si le Monténégro possède un port important sur l’Adriatique, il ne risque pas, en raison de sa taille et de sa population (650.000 habitants), de devenir un poids-lourd de l’organisation atlantiste. Mais ce nouvel élargissement, à un 29ème membre, appelle diverses remarques et questions.

Cependant, en avalant le Monténégro, l’OTAN contrôlera directement tout le nord et le nord-est de la Méditerranée, du détroit de Gibraltar à la frontière syrienne, tandis qu’Israël et la plupart des pays arabes du pourtour méditerranéen entretiennent déjà divers types de partenariats avec cette organisation.

D’autre part, bien que son Secrétaire général, Jens Stoltenberg, ait loué son « engagement inébranlable à nos valeurs communes », le Monténégro a bien du mal à ressembler à une démocratie dans le sens habituel du terme. Le pays est dirigé, depuis plus d’un quart de siècle, par le même homme, Milo Djukanovic, qui alterne les postes de premier ministre et de président afin de donner l’illusion d’un respect de la constitution. Devenu tour à tour allié puis ennemi du dirigeant serbe, Slobodan Milosevic, renversé en 2000, il a ensuite eu des relations difficiles avec les gouvernements pro-européens qui se sont succédés à Belgrade. En 2006, il a enfoncé le dernier clou du cercueil de la fédération yougoslave en proclamant l’indépendance de sa république. Une indépendance plutôt formelle puisque la monnaie officielle y était, depuis 1999, le deutsche mark puis l’euro. 

Pendant des années, Djukanovic a été un des animateurs principaux de la contrebande européenne de cigarettes, de cheville avec la Sacra Corona Unita, une des mafias italiennes. Sa longévité au pouvoir et son immunité en tant que chef d’Etat lui ont permis d’échapper à un mandat d’arrêt de la justice italienne. Mais il n’est dès lors pas étonnant que le Monténégro demeure un havre de la corruption et du crime organisé et le centre de nombreux trafics, de la drogue à la prostitution. Paradis des mafieux, le pays ne l’est pas pour la liberté de la presse, les journalistes les plus gênants connaissant souvent une fin tragique. 

Protestations massives

Mais il semble que le règne de Djukanovic et de son Parti démocratique socialiste touche à leur fin : depuis plusieurs semaines, des manifestations massives et parfois violentes se tiennent dans la capitale du pays, Podgorica. Si nombre de manifestants sont révoltés par la pauvreté et la stagnation de leur économie, l’opposition à l’OTAN a été aussi un des moteurs des mobilisations. En décembre 2015,  plusieurs milliers de personnes ont manifesté contre cette adhésion et en faveur d’un référendum sur la question, certaines d’entre elles déclarant que, dans le cas contraire, l’adhésion à l’OTAN serait considérée comme une « occupation étrangère » et le signal d’une « insurrection armée ».

Pourtant, il est à craindre que ces avertissements ne suffiront pas à imposer un référendum : tous les sondages ont montré qu’une majorité de citoyens dirait « non à l’OTAN », notamment parce qu’ils n’ont pas oublié qu’en 1999 le pays a subi les frappes atlantistes. Même si les bombardements y ont été plus légers qu’en Serbie, ils ont quand même occasionné leur lot de victimes civiles. D’autre part, une grande partie de la population monténégrine se dit « ethniquement » serbe et partage, avec une écrasante majorité de leurs « frères » de Serbie, une même aversion pour l’OTAN.

Par ailleurs, même si les autorités vendent l’appartenance à l’OTAN comme un pas vers l’Union européenne et donc une illusoire amélioration de leur qualité de vie, les Monténégrins n’ont pas grand-chose à attendre de cette adhésion. Jusqu’à présent, ce que cela leur a apporté est surtout une brouille historique avec la Russie, peu contente de voir un allié de longue date (plus de trois siècles de relations étroites !) tomber dans l’escarcelle otanienne. Moscou – qui a qualifié l’invitation de l’OTAN de « conflictuelle » – a annoncé des mesures de rétorsion, qui pourraient prendre la forme d’un désinvestissement massif, alors que des milliers de touristes russes viennent chaque année passer leurs vacances sur la côte monténégrine, dont de vastes portions ont été achetées par des spéculateurs et autres mafieux, également russes. 

Reste à voir si, en cas de victoire de l’opposition aux prochaines législatives, prévues en octobre 2016, le nouveau gouvernement aura le courage de stopper le processus d’adhésion et rejoindre la ligne de neutralité militaire, encore actuellement prônée par la Serbie, dans la tradition de l’ancienne fédération yougoslave.

Source: Le Drapeau Rouge





La storia gloriosa e scomoda del calcio jugoslavo

1) Calcio jugoslavo, una storia gloriosa (Giuliano Geri)
2) La "Kosova", squadra di uno "Stato" non riconosciuto da 82 membri dell'ONU, viene fatta entrare manu militari nella UEFA e nella FIFA


Per una selezione di altri materiali sulla storia dello sport jugoslavo e della sua devastazione, cui continuano a contribuire anche FIFA e UEFA con le loro scelte determinate politicamente, si veda la nostra pagina: https://www.cnj.it/documentazione/sportecultura.htm 


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Calcio jugoslavo, una storia gloriosa

Giuliano Geri  
1 giugno 2016

Se il calcio è lo specchio di un popolo, quello jugoslavo ha regalato immagini di grandezza, classe finissima e miseria umana, sempre in bilico tra il mito dolce-amaro di trionfi sempre vicini e quasi mai raggiunti
Quando gli fu chiesto di designare un’avversaria per la sua partita d’addio con la nazionale, lui non ebbe alcuna esitazione. Nemmeno davanti allo stupore dei dirigenti della Federazione calcistica brasiliana, che le provarono tutte pur di convincerlo a procrastinare l’evento, o almeno a selezionare uno sparring partner più blasonato. Niente da fare, la decisione era presa. E la scelta era caduta sulla compagine che per storia e natura più si avvicinava alla sua idea di calcio, al “suo” Brasile. L’incontro amichevole si tenne, come previsto, il 18 luglio 1971, di fronte a duecentomila spettatori, in un Maracanà che traboccava lacrime di orgoglio e di rimpianto. Lui si chiamava Edson Arantes do Nascimento. Per i non intenditori: Pelè. La squadra che scese in campo quel giorno contro i verdeoro era la Jugoslavia. Per i tassonomici: finì 2-2.
Tra gli amanti della disciplina si è soliti dire, o dare per scontato, che il calcio, inteso come espressione estetica che diventa fenomeno popolare, sia lo specchio di un paese, che traduca in un linguaggio universale attitudini e stilemi di un’intera comunità nazionale, mettendone a nudo le componenti ataviche, vere o presunte, sacre o pagane. Che nel calcio si proiettino non soltanto vocabolari emotivi e aspettative più o meno legittime o razionali, ma anche criteri di appartenenza, istanze identitarie, archetipi condivisi. E tuttavia, quando simboli e destini di una nazione paiono seguire le traiettorie di una sfera di cuoio, finiscono talvolta per evidenziare contenuti paradossali, riservando esiti inattesi. In questo senso la storia calcistica della Jugoslavia non fa eccezione, anzi, diventa vicenda paradigmatica. Con un dettaglio tutt’altro che trascurabile: già in epoca non sospetta la macchina del football preconizza l’epilogo tragico di un’esperienza collettiva a metà strada tra la realtà e l’utopia, al culmine della quale, però, quella stessa macchina si rifiuta di assecondare il disegno della Storia – o di chi ne fa arbitrariamente le veci ‑, prova a sottrarsi fino all’ultimo al suo abbraccio mortale.
Per il suo essere stata una regione tra due mondi, per la sua composizione multiforme e frammentaria, per il particolarissimo mosaico sociale e culturale che ha saputo configurare, la Jugoslavia ha potuto annoverare, tra le tante specificità, una scuola calcistica autoctona rivelatasi un serbatoio inesauribile di talenti. Un modello distante anni luce dall’organizzazione tattica militaresca e dall’atletismo spinto delle compagini del blocco socialista, ma anche dalla predominanza muscolare dei tedeschi, dall’inveterato difensivismo italico, dal classico giropalla iberico (di cui il recente tiki-taka è solo una più scientifica messa a punto), e soprattutto alieno dalle varie elaborazioni del modulo Chapman, o dalla concezione “totale” dell’Olanda anni settanta.

Un calcio unico

Il calcio jugoslavo ha rappresentato un unicum, un’inedita combinazione di geometria e fantasia, un ordinato componimento da spartito intervallato da improvvise jam session. Un calcio pulito ed elegante, sofisticato e incostante, votato alle giocate di pregio e alla tecnica individuale, dalle trame ipnotiche e dalle fulminee verticalizzazioni, che ha dato spazio a straordinari quanto fragili solisti inquadrati in un’orchestra dai ritmi compassati e dall’insana abitudine allo sperpero. Un certo virtuosismo mitteleuropeo, che tracima in un lezioso senso di superiorità, si è fuso con l’estro malinconico e l’anarchia dissipatrice che caratterizzano il verace spirito balcanico.
Da questo connubio ha preso forma il futebol bailado d’Europa, e non è un caso, né solo il frutto di un’ironica e sfrontata emulazione, che gli stadi di Rio de Janeiro e Belgrado portino lo stesso nome. A questo intreccio di affinità elettive, due dettagli decisivi hanno distinto i campioni slavi dai loro cugini d’arte brasiliani. Il primo è condensato nel verbo nadmudrivati, di per sé intraducibile, che denota un “giocare con astuzia”, un prendere atto della supremazia naturale dell’avversario superandolo con furbizie e malizie degne dell’eroe omerico, e in cui però la pervicace volontà di rimirarsi può diventare il preludio di un’imminente quanto inevitabile disfatta. Il secondo è molto più semplice e attinge a un dizionario comprensibile a tutti: arrestarsi sempre a un passo dalla vittoria, trasformare l’epos in melodramma e inchinarsi così alla dura legge di Eupalla. Come se prima del salto finale verso l’Eden cedesse puntualmente la pedana; come se la genialità non potesse mai smarcarsi da amnesie e ingenuità.
È questa la chiave di lettura che offrono del calcio jugoslavo due recenti pubblicazioni, entrambe dai titoli emblematici: A un passo dal Paradiso. Il calcio slavo, gli artisti dei Balcani rivali della Storia di Fabrizio Tanzilli (Ultrasport, pp. 144, € 15,00)Il Brasile d’Europa. Il calcio nella ex Jugoslavia tra utopia e fragilità di Paolo Carelli (Urbone Publishing, pp. 128, € 12,00). Due volumi agili quanto pregevoli, che puntano i riflettori su uno dei fenomeni sportivi più eclettici e interessanti del Novecento.
Il libro di Tanzilli è una puntuale ricognizione storica sul movimento calcistico jugoslavo con particolare attenzione alle vicende della Nazionale e alle due società che di questo movimento hanno lasciato traccia indelebile sulla scena internazionale, il Partizan e la Stella Rossa. Il saggio di Carelli, invece, si sofferma maggiormente sulle vicende interne, sullo stretto legame tra i club più rappresentativi e le città di appartenenza (Spalato e l’Hajduk, Sarajevo divisa tra la borghese FK e il proletario Željezničar, e Belgrado tra il Partizan dell’Armata popolare e la Zvezda dei quartieri popolari, quindi Mostar e il Velež, Novi Sad e il Vojvodina ‑ Zagabria purtroppo non pervenuta), sui talenti duraturi ma anche su qualche bizzarra meteora, con contrappunti extra-sportivi che fanno da necessaria cornice storica e sociale.

Tra Kant e il "Maradona dei Balcani"

Ne emerge un quadro a tinte vivide, un tableau vivant di assi del pallone sacrificati non solo ai bilanci societari, ma a una vera e propria congiura degli eventi. Calciatori "incoscienti e pragmatici, lucidi avventurieri costretti a cambiare continuamente latitudine per rinnovare la propria missione", ma anche uomini-simbolo che hanno legato a doppio filo la propria carriera a una maglia, come le celebri Zvezdine zvezde (le Stelle della Stella), portabandiera della Stella Rossa, tra cui spiccano gli immortali Dragoslav “Šeki” Šekularac, Dragan Džajić e Dragan “Piksi” Stojković, il “Maradona dei Balcani”. Autentici artisti del pallone, per i quali Tanzilli scomoda addirittura Kant, chiamando in causa quel "libero gioco di intelletto e immaginazione produttiva" da cui ha origine il sentimento del bello. Interpreti fuori dai canoni abituali che duellano in punta di fioretto, anteponendo il genio alla forza bruta o all’esecuzione schematica, condannati però al ruolo di romantiche vittime di una Storia che maledettamente si ripete, di una perenne precarietà imposta da un destino crudelmente beffardo.
Va detto che per il calcio jugoslavo la Storia non ha inizio nel 1945, con l’avvento ufficiale del socialismo e del nuovo assetto federale dello stato, e con la nascita delle polisportive volute dal regime. Come raccontato da un recente film di successo, per la regia di Dragan Bjelogrlić, Montevideo, Bog te video (2010), già ai primi Campionati mondiali del 1930 in Uruguay, quella che da soltanto un anno può fregiarsi della denominazione di Jugoslavia, con appuntata sul petto l’ingombrante aquila bicipite dei Karadjordjević, dà del filo da torcere alle migliori formazioni. Una squadra sorprendente, un dream team che gioca con disarmante naturalezza e tra cui spicca Blagoje “Moša” Marjanović, attaccante del BSK Belgrado (antenata dell’odierna OFK) e futuro allenatore in Italia negli anni cinquanta. Un drappello di audaci che nonostante il boicottaggio dei croati (una storia che si ripeterà sessantun anni più tardi) riesce ad arrivare in semifinale contro i padroni di casa, sconfitto, più che dall’ambiente ostile e da un avversario di caratura non certo inferiore, da discutibili scelte arbitrali. Il terzo posto finale rimarrà il miglior risultato mai raggiunto dalla nazionale maggiore alle competizioni mondiali.

Sfida al Destino

Da quel momento in poi prende vita un sentimento tipico di chi sa di poter vincere ‑ ma anche perdere ‑ contro chiunque, e si culla nel narcisismo autoconsolatorio e languidamente vittimista di colui che si crede destinato a vestire i panni di "coprotagonista di una leggenda in corso d’opera", nonché perseguitato da sfortuna e altri fattori più genuinamente umani: il vero contendente comincia a essere il Destino, che riserva ogni volta l’avversario sbagliato al momento sbagliato nel posto sbagliato. La Svezia del mitico tridente Gre-No-Li alle Olimpiadi di Londra del 1948, i brasiliani al Mondiale del 1950, spensierati e ignari di ciò che li attenderà di lì a poco nel celebre maracanaço. O ancora la gloriosa Aranycsapat guidata da Gustav Sebes ai Giochi Olimpici di Helsinki del 1952: i plavi resisteranno oltre settanta minuti, prima che Ferenc Puskás e Zoltán Czibor pongano fine al sogno. La Jugoslavia arriva sempre e immancabilmente seconda, dopo cavalcate irresistibili e avversari spazzati via con disinvoltura e sfoggio di preziosismi. È il mito di Davide contro Golia con il finale rinviato a data da destinarsi. Un mito che si nutre di un capitolo speciale, quello delle sfide contro l’Unione Sovietica, che si ammantano di inevitabili significati extra-calcistici e si portano dietro la rottura tra Tito e Stalin, l’uscita della Jugoslavia dal Cominform e l’orgogliosa e coraggiosa scelta dell’Autogestione interna e del non allineamento in politica estera. Partite sentitissime e combattutissime (indimenticabile il 5-5 di Tampere nel 1952), con il consueto epilogo su cui, da un certo momento in poi, distende inevitabilmente la sua ombra il Ragno Nero, al secolo Lev Jašin.
Gli anni d’oro del calcio nazionale jugoslavo sono senz’altro i cinquanta e i sessanta. Sono gli anni di Rajko Mitić e Stjepan Bobek, di Miloš Milutinović e dell’indimenticato “filosofo” Vujadin Boškov, di Milan Galić e di un Partizan che arriva a disputare la finale della prima edizione della Coppa dei Campioni contro il Real Madrid (anno 1966, anche qui il solito refrain). Il sipario si chiude a Roma nel 1968, quando il Destino prenderà le sembianze di Riva e Anastasi nella ripetizione della finale dell’Europeo. Nel primo round, finito in pareggio, la Jugoslavia domina in lungo e in largo, va in vantaggio con l’ala sinistra Džajić e sfiorano più volte il colpo del ko, raggelando il pubblico dell’Olimpico nonostante la torrida serata di giugno, prima di essere raggiunti nel finale da una punizione (assai dubbia) di Domenghini: la solita esuberanza priva di sostanza, la solita recidiva irresolutezza, la solita apoteosi soltanto accarezzata. I settanta saranno anni di evanescenza e scarsi risultati.

Calcio su, Jugoslavia giù

La analisi di Tanzilli e Carelli sembrano confluire su una tesi difficilmente confutabile, per quanto in apparenza paradossale. Il vero boom del calcio jugoslavo coincide con il lento dissolversi della Repubblica federale e del suo tessuto istituzionale, minato all’interno dalla crisi economica e dal risorgere dei nazionalismi. Già nel 1979, un anno prima della morte di Tito, la Stella Rossa raggiunge la finale di UEFA, sconfitta, manco a dirlo, dal Borussia Moenchengladbach. Da lì in poi sarà un progressivo salire alla ribalta nazionale e internazionale di talentuosi virgulti del pallone, ma anche dei primi rigurgiti separatisti, che troveranno negli spalti degli stadi una potente cassa di risonanza e un corredo simbolico in grado di modellare il nuovo immaginario collettivo. Il linguaggio delle cronache sportive, circonfuso di retorica neorevanscista e palesemente ancillare a ben più strategici piani di manipolazione delle masse, fa il resto: le tifoserie organizzate diventano l’avanguardia della disgregazione politica, prima di trasformarsi, all’apice del tracollo, in luoghi di reclutamento per milizie paramilitari e di selezione di fresca carne da cannone. Illuminante su questo tema è la raccolta di saggi dell’antropologo belgradese Ivan Čolović dal titolo Campo di calcio, campo di battaglia (traduzione di Silvio Ferrari, Mesogea 1999), cui fa da aggiornamento il recente Dio, Calcio e Milizia. Il Comandante Arkan, le curve da stadio e la guerra in Jugoslavia di Diego Mariottini (Bradipo Libri, 2015, pp. 184).
Di questo fenomeno sempre meno strisciante il pubblico italiano fa conoscenza diretta il 31 marzo 1988. Allo stadio Poljud di Spalato va in scena l’amichevole Jugoslavia-Italia, trasmessa in diretta senza la consueta telecronaca per uno sciopero dei cronisti sportivi Rai (ce ne fossero più spesso oggigiorno...). Ebbene, i fischi assordanti dei tifosi di casa non sono rivolti agli avversari, ma ai giocatori serbi ogniqualvolta entrano in possesso del pallone. Preludio di un altro, chiarissimo sintomo dell’incombente dissoluzione, che si palesa agli occhi degli italiani nell’esordio della Jugoslavia ai Campionati mondiali del 1990 contro la corazzata Germania Ovest. Un mese prima, il 13 maggio, il Maksimir di Zagabria è stato teatro di cruenti scontri tra tifosi serbi della Stella Rossa e croati della Dinamo, preambolo di altri scontri, stavolta armati, che avranno luogo un anno più tardi in Slavonia. San Siro è gremito in ogni ordine di posto e nonostante il dinaro ipersvalutato nutritissima è la rappresentanza jugoslava sugli spalti. Sono presenti i maggiori gruppi organizzati (la Torcida dell’Hajduk, i Bad Blue Boys di Zagabria, l’Horde Zla di Sarajevo, i Delije belgradesi e altri), ciascuno con il proprio striscione e ciascuno con i vessilli jugoslavi (forse in un ultimo, contraddittorio sussulto di Fratellanza e Unità), ma separati chirurgicamente e distribuiti a chiazza di leopardo.

Ultimo capitolo

E qui si apre il capitolo conclusivo di questa gloriosa e mesta storia, fatalmente ostaggio dell’inesorabile gioco delle possibilità negate, così diffuso al di là dell’Adriatico. L’ipotetica dell’irrealtà si nutre al solito della scontata domanda inevasa: che cosa sarebbe potuto accadere se...? Già, cosa sarebbe potuto accadere se Faruk Hadžibegić, roccioso difensore bosniaco, avesse insaccato l’ultimo rigore contro l’Argentina, anziché gettare il pallone tra le braccia di Goycochea? Cosa sarebbe successo se quella compatta e armonica Nazionale ("molto migliore del paese che rappresentava" affermò più tardi il tecnico Ivica Osim) avesse proseguito il cammino nei Mondiali italiani, raggiungendo magari la finale? "Le cose nel nostro paese sarebbero andate diversamente" giurano alcuni; "saremmo comunque arrivati secondi", chiosano altri con un sorriso amaro. E se a quella generazione irripetibile di fuoriclasse ‑ laureatisi, giovanissimi, campioni mondiali Under 20 in Cile nel 1988 ‑ fosse stato concesso il futuro che si meritava? Se il Destino non avesse disperso in mille rivoli un patrimonio di inventiva e di intelligenza calcistica? Se, insomma, ai Boban, Prosinečki, Šuker, Boksić, che spinsero la Croazia fino all’incredibile terzo posto al torneo mondiale del 1998, si fossero potuti affiancare gli Stojković, Savicević, Mihajlović, Mijatović? E se provassimo a stilare una formazione jugoslava oggi, alla vigilia degli Europei in Francia, mescolando calciatori serbi, croati, sloveni e bosniaci? "Saremmo diventati – o diventeremmo ‑ finalmente, e a pieno titolo, il Brasile d’Europa" scommettono (quasi) tutti.
La realtà, si sa, è un cimitero di sogni, una fabbrica di nostalgie; pone un solido argine alle sterili fantasie e alle iperboli dell’immaginazione, le relega nell’alveo dell’illusione. Ma la realtà dice che il 29 maggio 1991 la mitobiografia di una nazione ebbe il suo congruo epilogo, che Davide riuscì finalmente a uccidere Golia. Quel giorno, a Bari, la Stella Rossa salì sul tetto d’Europa e vinse la sua prima e sinora unica Coppa dei Campioni. Un mese più tardi il pallone venne schiacciato dai cingolati e quelle emozioni uniche e irripetibili che solo "il gioco senza fine bello" sa regalare furono barbaramente soffocate. Ma questa è un’altra storia. Una brutta storia.


2 Commenti

Marko • 12 giorni fa
Bell'articolo. Va ricordato per completezza la vicenda degli europei 92 in cui la Jugoslavija si classificò prima nel suo girone, ma in seguito delle sanzioni ONU fu estromessa e fu richiamata la seconda del girone, la Danimarca che vinse gli europei; certo nel calcio 2+2 non fa sempre 4 (la nazionale che vi avrebbe partecipato sarebbe stata orfana dei croati e forse anche di bosniaci) ma chissà ci piace pensare che...
Giusto menzionare Stojkovic, giocatore che ha seminato molto e raccolto poco (basti pensare che nella finale di Bari 91 lui giocava dall'altra parte!). A Italia 90 ricordo bene, almeno per la mia esperienza, noi serbi tifavamo tutta la squadra e non solo per in nostri, come si diceva allora.

Franco Balestrieriopinionista • 14 giorni fa
NEL 1976 LA JUGOSLAVIA PER TROPPA PRESUNZIONE BUTTò AL VENTO GLI EUROPEI CASALINGHI.


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Il Kosovo entra nell'Uefa: sconfitta la Serbia

Con 28 voti a favore e 24 contrari, la Federcalcio kosovara (FFK) entra ufficialmente a far parte della Confederazione calcistica europea. La nazione balcanica spera ora nel sì della Fifa, per poter partecipare alle qualificazioni a Russia 2018



03 maggio 2016

BUDAPEST - Anche il Kosovo entra ufficialmente a far parte dell'Uefa: a deciderlo è stato il 40/o Congresso Ordinario, riunitosi a Budapest. Il nuvoo ingresso è stato deciso con maggioranza semplice, ricevendo 28 voti a favore e 24 contrari (due i voti non validi), con la Serbia a guidare il fronte del 'no' contro la sua ex provincia. Tra le Nazioni Unite, 111 su 193 paesi hanno già riconosciuto lo stato kosovaro, Italia compresa.

IL KOSOVO ORA ASPETTA LA FIFA - La FFK, la Federcalcio kosovara, è il 55/o membro della Confederazione che sovrintende al calcio europeo e segue Gibiliterra, ultima accolta in seno all'Uefa, nel 2013. Adesso il Kosovo spera in un provvedimento analogo da parte della Fifa, in modo da debuttare ufficialmente in occasione delle qualificazioni ai Mondiali di Russia, già nel prossimo settembre.



Anche la Fifa dice sì al Kosovo, la Serbia ricorre al Tas

Il congresso della Federazione internazionale calcistica ha approvato con 141 voti favorevoli e 23 contrari l'ingresso tra gli stati membri del Paese balcanico. Indignato il ministro serbo Vanja Udovicic: "Decisione che avrà conseguenza imprevedibili". Riconosciuta anche Gibilterra



14 maggio 2016

CITTA' DEL MESSICO - Dopo l'Uefa anche la Fifa dà il proprio placet. Il Kosovo è diventato il 210/o Paese membro della Fifa, decisione accolta con sdegno e rabbia in Serbia, che a sua volta ha già annunciato di ricorrere al Tribunale per l'arbitrato dello sport, a Losanna. Belgrado, appoggiata da Russia e Cina e in compagnia anche di cinque Paesi Ue (Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro), non riconosce l'indipendenza proclamata unilateralmente dalla sua ex provincia il 17 febbraio 2008 e si oppone all'adesione di Pristina a organizzazioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite. Ma con 141 voti a 23, il congresso della Federazione internazionale calcistica a Città del Messico ha detto sì all'ingresso del Kosovo.
LO SDEGNO DELLA SERBIA - All'esultanza della dirigenza kosovara, che ha parlato di "giornata storica" per il giovane Paese balcanico, ha fatto eco la dura protesta della Serbia, che ha denunciato una sfacciata ingerenza della politica nello sport. Il ministro serbo Vanja Udovicic ha detto che questa
decisione, di natura "politica", rappresenta una "sconfitta per il calcio" e potrà avere "conseguenze imprevedibili". "Come reagiranno i Paesi che non riconoscono il Kosovo? Come si organizzeranno gli incontri, con quale protocollo e contrassegni distintivi?", si è chiesto Udovicic. Il Kosovo, intanto, potrà partecipare alle qualificazioni per i Mondiali del 2018 in Russia, così come Gibilterra anch'essa ammessa dalla Fifa.






Sul radicalismo islamico armato, fomentato da un quarto di secolo in Bosnia e nel resto dei Balcani per gli interessi della NATO, si veda anche la nostra pagina dedicata: https://www.cnj.it/documentazione/bih.htm

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Jean Toschi Marazzani Visconti

LA PORTA D'INGRESSO DELL'ISLAM
Bosnia Erzegovina: un Paese ingovernabile

prefazione di Paolo Borgognone, postfazione di Manlio Dinucci
Frankfurt: Zambon, 2016
Formato: 14x20,5 cm – 240 pagine – 18,00 € – ISBN 978 88 98582 32 7
zambon@...www.zambon.net

Il 14 dicembre 2015 compiva vent’anni il Trattato di Dayton, firmato a Parigi nel 1995 alla presenza dei massimi rappresentanti delle potenze occidentali. L’accordo metteva così fine a tre anni e mezzo di feroce guerra civile in Bosnia-Erzegovina. L’amministrazione Clinton considerava un grande successo aver fermato il conflitto e creato una nazione composta di tre etnie divise in due entità: la Federazione Croata - musulmana e la Republika Srpska. Però aveva distrutto il multiculturalismo in favore del nazionalismo. 
Oggi la Bosnia Erzegovina è nello stesso stato d’allora, congelata dalla costituzione imposta a Dayton, in uno stato di caos contenuto e di odio. Nel corso degli anni si sono alternati Alti Commissari europei al controllo del paese, ma anche altre nazioni sono intervenute nel delicato equilibrio. La Turchia ha una forte presenza. Ricchi finanziamenti giungono da Iran e Arabia Saudita per costruire moschee e scuole islamiche. Dalle parole di diversi protagonisti della politica locale e internazionale intervistati in queste pagine esce un'imbarazzante realtà.
Un’importante geopolitico francese, il Generale Pierre Marie Gallois, esaminando nel 1997 la politica statunitense in Bosnia-Erzegovina, aveva commentato che era stata aperta all’Islam la porta d’Europa, un paese a tre ore e mezzo d’autostrada da Trieste.

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LA PORTA D’INGRESSO DELL’ISLAM

Recensione al libro edito da Zambon e scritto da Jean Toschi Marazzani Visconti
di David Lifodi
La porta d’ingresso dell’Islam, il libro edito da Zambon e scritto da Jean Toschi Marazzani Visconti (già collaboratrice del manifesto e della rivista di geopolitica Limes), è assai esplicito fin dal suo sottotitolo: Bosnia Erzegovina: un paese ingovernabile. È infatti dalla Bosnia, definito più volte come uno stato artificiale, che è partito un altissimo numero di combattenti arruolati sotto le bandiere nere dell’Isis e, sempre in Bosnia, sono in crescita villaggi trasformatisi in una sorta di comuni dove si vive secondo i più rigidi dettami islamici.
Il viaggio dell’autrice nella polveriera balcanica, caratterizzato da dati, interviste ai principali protagonisti della politica nei territori della ex Jugoslavia e approfondimenti legati al ruolo della Nato, degli Stati Uniti e dell’Occidente nello sfaldamento di quello che una volta era un unico paese multietnico, parte dalla distruzione della Bosnia Erzegovina e della Federazione jugoslava per far posto all’Islam politico. Jean Toschi Marazzani Visconti indica nella nascita di partiti nazionalisti in funzione secessionista anti-jugoslava prima e anti-serba poi lo sgretolamento della Jugoslavia. La tesi esposta nel libro è supportata dalla prefazione di Paolo Borgognone, che evidenzia come gli Stati Uniti avessero elaborato un piano per lo smantellamento politico, economico e sociale della Jugoslavia fin dal 1982, all’epoca della presidenza Reagan. Gli Stati Uniti, e lo stesso Occidente pro-atlantista, prima lavorarono per disgregare la Jugoslavia e poi favorirono la nascita di stati indipendenti incentrati sul più estremo nazionalismo, ad esempio riuscendo a rinverdire quella Grande Croazia indipendente di Ante Pavelić costituita dai nazisti nel 1941. In questo contesto, gli Stati Uniti riconoscevano la Bosnia-Erzegovina allo scopo di trasformarla in protettorato occidentale, nota ancora Borgognone nella prefazione, favorendo così le mire di Alija Izetbegović per la nascita di uno stato musulmano. Sono queste le premesse da cui deriva la penetrazione islamista nei Balcani, rafforzata, secondo il geopolitico serbo Dragoš Kalajić, dal desiderio di Washington di creare una rete di stati islamici dal Golfo Persico al Mar Adriatico in funzione antislava e antirussa. Di conseguenza, spiega Jean Toschi Marazzani Visconti, “non si può parlare di Bosnia Erzegovina senza considerare la storia della nascita e fine della Federazione delle Repubbliche Socialiste di Jugoslavia”. La nuova Federazione jugoslava, composta esclusivamente da Serbia e Montenegro a seguito del dissolvimento (pilotato da Stati Uniti e Occidente) della Jugoslavia socialista, sperava comunque di salvare la Jugoslavia in qualità di confederazione di stati, ma la Dichiarazione islamica di Alija  Izetbegović, che auspicava appunto una “grande Federazione islamica dal Marocco all’Indonesia”, faceva capire quale avrebbe dovuto essere il futuro della Bosnia Erzegovina. “La sua dichiarazione”, osserva Jean Toschi Marazzani Visconti, “alla luce dei programmi del Califfato, assume il valore di una profezia o di un piano prestabilito in corso di attuazione”. Oggi la Bosnia Erzegovina, la cui configurazione attuale deriva dai controversi accordi di Dayton (1995), è suddivisa nella Republika Srpska (ad ampia maggioranza serba) e nella Federazione di Bosnia Erzegovina, a prevalenza musulmana. È proprio qui, secondo l’autrice, che nei cantoni della Federazione a prevalenza musulmana, si registrano cospicue infiltrazioni islamiche soprattutto attraverso le ong, secondo quanto testimonia Giorgio Blais, generale degli Alpini in congedo  e direttore del Centro regionale di Banja Luka  nella missione Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Intervistato da Jean Toschi Marazzani Visconti, il generale precisa: “Le ong disponevano di cospicui finanziamenti e sostenevano la ricostruzione delle moschee distrutte  durante la guerra e la costruzione di madrase, le scuole islamiche per l’insegnamento del Corano. Prima del mio arrivo in Bosnia, sotto la copertura di ong, veniva effettuata attività di reclutamento e addestramento per terroristi. Mentre l’addestramento non viene più praticato, non posso escludere che il reclutamento venga ancora effettuato”. Tutti gli attori sociali e politici intervistati dall’autrice, compresi i rappresentanti delle principali religioni, concordano su un aspetto, quello della convivenza pacifica, prima dello scoppio della guerra civile. Sono indicative, a questo proposito, le parole del vescovo cattolico Franjo Komarca. “Questa non è stata una guerra domestica, ma voluta a livello internazionale. Era il seguito della prima e della seconda guerra mondiale fra Oriente e Occidente. Le popolazioni hanno subito. Tutto è stato deciso a Washington, Bruxelles e Bonn. Quest’area è stata selezionata come poligono per una sporchissima operazione”. Komarca insiste: “La Bosnia Erzegovina è un semi protettorato. Gli amministratori sembrano avere tutti i diritti, ma non i doveri”. Del resto, nelle tante interviste raccolte da  Jean Toschi Marazzani Visconti, ricorrono le dichiarazioni in cui si accusa l’Occidente di aver distrutto quella coesistenza e quella fratellanza tra le etnie che si era creata durante l’epoca della Jugoslavia socialista.
Il viaggio dell’autrice in Bosnia Erzegovina è all’insegna del disincanto. Rispetto a venti anni fa, all’epoca della guerra civile, le strade non sono più coperte di bossoli e pallottole, la maggior parte dei ponti e dei palazzi non è sbrecciata o distrutta, ma, spiega  Jean Toschi Marazzani Visconti, basta parlare con le persone per capire che la normalità è solo apparente, il rancore è tangibile e che ci sono degli abissi tra gli abitanti del paese nonostante si possa passare senza problemi da un territorio all’altro. Fino ad ora non è stata promossa alcuna politica pacificatrice né è stato fatto niente per ricostruire una cultura multietnica: “C’è la pace”, conclude l’autrice, “ma non nella popolazione, dalla scenografia elegiaca del paese potrebbero scaturire nuovamente, per una sciocchezza qualsiasi, l’odio e la rabbia che covano”.





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Spoleto (PG), venerdì 17 giugno 2016
alle ore 18 presso la Libreria Aurora, Via dell'Anfiteatro 12


A 72 anni dalla liberazione di Spoleto il FGC – Fronte della Gioventù Comunista dell'Umbria – presenta il libro

Il Territorio Libero di Norcia e Cascia 
a 70 anni dalla proclamazione 1944-2014

a cura di Andrea Martocchia
prefazione di Francesco Innamorati
introduzione di Costantino Di Sante
Roma: Odradek Edizioni, 2014

... un territorio come l'Umbria, che nel 1944 contava all'attivo 18000 partigiani (il 24% di quelli sparsi sul territorio nazionale) è stato sicuramente una delle punte di diamante della Resistenza italiana contro il nemico e traditore nazi-fascista. La Resistenza umbra che contava il maggior numero di combattenti per la libertà, in larga parte comunisti, subisce, contemporaneamente all'alzata di testa dei gruppi neofascisti, un tentativo di oscurantismo non indifferente da parte di quei partiti che opportunisticamente, fino a ieri, ne rivendicavano l'esperienza. La lotta di liberazione, l'apporto anche di partigiani iugoslavi per la vittoria, vive principalmente qui un relegamento ad una scolastica ed inefficace "favola inattuale" ...

All'iniziativa interverrà il Curatore del libro. E' prevista inoltre la proiezione di un video con interviste inedite, d'epoca e recenti, ai partigiani della bgt. Gramsci, dei battaglioni Tito e della bgt. Melis.

 
=== * ===  I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA Storie e memorie di una vicenda ignorata   Roma, Odradek, 2011 pp.348 - euro 23,00   Per informazioni sul libro si vedano: Il sito internet: http://www.partigianijugoslavi.it La scheda del libro sul sito di Odradek: http://www.odradek.it/Schedelibri/partigianijugoslavi.html La pagina Facebook: http://www.facebook.com/partigianijugoslavi.it   Ordina il libro: http://www.odradek.it/html/ordinazione.html   === * ===

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[Un profilo del generale che ha tradito entrambe le sue patrie: Blagoje Grahovac]


У СЛУЖБИ НАТО: Генерал који је издао све своје отаџбине (ВИДЕО) 

18.07.2015.

О књизи генерала Благоја Граховца Гласови из глуве собе (Лагуна, Београд 2015).

На самом почетку треба бити јасан: књига пензионисаног генерала Благоја Граховца (на слици изнад) Гласови из глуве собе (Лагуна, Београд 2015) је, војнички речено, стратегијски задатак. Она је део пропагандне активности НАТО у Србији. Пажљиво су биране и питко изложене њене основне тезе, једнако пажљиво је одабран тренутак њеног издавања, а сам тираж и медијска кампања, којом је праћена, личе на „поплаву“, која би требало да учествује у преокретању или бар корекцији јавног мнења у Србији, које је изразито неповољно кад је НАТО у питању.

Генерал се латио тешког задатка да ретушира и улепша слику НАТО у нашим очима и омогући сврставање Србије на западну страну у глобалном односу снага. Зато је ова књига и штампана у за наше услове фантастичном тиражу од 20.000 примерака, док је ниска цена гаранција да ће стићи до читалаца. Да се акција одвија по плану, видљиво је и по томе што се убрзано припремају нова издања, док генерал даје интервјуе новинама и учествује у најгледанијим ТВ емисијама. Није, наравно, Граховац случајно одабран за тако сложен стретагијски задатак.

ДВА ГЕНЕРАЛА – ДВА ПУТА

Својевремено смо радили заједно у Команди ратног ваздухопловства у Земуну; он у одељењу за ваздухопловну подршку, а ја у одељењу безбедности. Тако знам да се ради о ванредно интелигентном и способном официру и пилоту. Уосталом, двојица наjинтелигентнијих и најсвестранијих официра у то време – то смо сви ми остали официри знали – били су Љубиша Величковић (на слици испод) и Благоје Граховац. Генерал Љубиша Величковић часно је 1999. године положио живот за своју земљу на ватреном положају ракетне бригаде, када је покушао да се супроствави авионима НАТО, који су нас бомбардовали. С њим сам својевремено радио у 204. ловачком авијацијском пуку, где је био начелник штаба, а ја начелник безбедности.

Генерал Благоје Граховац определио се за други пут, срљајући из издаје у издају и тражећи менторе по свету. Уместо да је своје неспорне интелектуалне способности и знање употребио у корист и за интересе своје земље и народа, он све време ради против итереса Србије, наносећи јој велику штету. Можда би било боље да је мање интелигентан и способан јер би тако и штета по Србију била мања.

На први поглед, биографија и војна каријера генерала Граховца изгледају беспрекорно. Рођен је 1949. године у Невесињу (БиХ), завршавајући све школе на време, ваздухопловну војну академију у Задру као први у рангу, све до оне потребне за чин генерала. Био је одличан пилот и инструктор летења, обављајући војне дужности на свим нивоима, све до помоћника начелника Генералштаба за РВ И ПВО. Али службена биографија не открива ни приближну слика о њему.

Као официр безбедности, 80-тих година био сам задужен за безбедносну заштиту Команде РВ и ПВО и по томе знам да су његови претпостављени веома рано уочили његове људске мане, пре свега препотентност, каријеризам и подцењивачки однос према колегама. По томе и није био предвиђен за високе функције у војсци јер су оне подразумевале комплетну личност, која, сем врхунског знања и образовања, има и људске карактеристике на високом нивоу.

Његово вртоглаво напредовање догодило се тек после обрачуна у војсци 90-тих, кад је цела руководећа гарнитура старешина у РВ и ПВО смењена или пензионисана. У војсци је остао упамћен као један од ретких официра који је одбио да 90-тих брани своју родну груду и као врхунски пилот који нема ниједан борбени лет. Сада то правда својом далековидошћу, али официре не може да завара. Сви смо ми тада имали стотине разлога да не идемо у рат и само један да идемо. Реч је о одбрани српског народа, коме су претили погром и физичко уништење. Шта је превагнуло код Граховца, то само он зна.

После пензионисања генерал Граховац био је саветник највиших политичара Црне Горе, један од кључних у време њеног разлаза са Србијом. Слушајући његове тадашње изјаве против Србије и Срба, био сам сигуран да се потпуно определио и преселио у Црну Гору. Али био сам не мало изненађен када сам сазнао да је он све време Београђанин и да је такве изјаве писао из Београда.

Наравно да су наши непријатељи све то знали и да су одлучили да искористе способности генерала Граховца. Спорно је само то што су оне уперене против Срба и Србије, и редовно у корист некога ван Србије.

ЗА РАСПАД СФРЈ КРИВИ СРБИ И КГБ!?

И тако све до последњег задатка, у коме генерал учествује у реализацији планова ширења НАТО на Исток, што подразумева и улазак Србије у ову војну алијансу. Да би наша јавност прихватила НАТО као спас и једини излаз из кризе, полазна основа пропаганде је замена теза.

Управо зато у својој књизи за ратове и остало зло које нас је снашло генерал Граховац криви оне који су покушали да то спрече, док стварне кривце приказује као добротворе и миротворце. По њему, грађански рат у Југославији нису изазвали сепаратисти потпомогнути са Запада, него „злогласни и подмукли“ КГБ и Руси преко својих агената међу хрватским политичарима.

По њему, САД и НАТО апсолутно нису криви ни за ратове који су вођени, па ни за бомбардовање Србије, јер, каже, нису то желели. Били су на то принуђени јер је руководство Србије смишљено, намерно, дуготрајно и упорно провоцирало да нас бомбардују, будући да је Милошевићу агресија НАТО одговарала како би учврстио власт и остварио хегемонистичке планове?

Дакле, за генерала Граховца Срби су сами криви за све што их је снашло, док посебан значај у садашњој геополитичкој ситуацији (пошто је он стручњак за геополитику) има његова теза да су Руси криви за грађански рат на Балкану.

Након такве замене теза генерал Граховац креира и предлаже елементе „нове политике”, коју би Србија требало да води. Основни елементи те „нове политике”, по њему, су: „Србија у НАТО без алтернативе” и „признавање државе Косово под одређеним условима” (ти услови су да Срби на Косову и Метохији добију културну аутономију).

За улазак Србије у НАТО генерал наводи пет „јаких” разлога, а ниједан против (бомбардовање и невине жртве и не помиње).

Тврди да, ако га послушамо, хладно можемо да смањимо војску још три пута, јер ће о нашој безбедности бринути НАТО. Иако Граховац тврди да је то нека „нова политика”, она је одавно позната и може да се дефинише једном реченицом: увек буди на страни јачег, добро слушај и одмах изврши све што се од тебе тражи, и тако ћеш добити мрвице са стола. Како би онај ко то предлаже могао да разуме зашто Срби то не прихватају?

glasoviГенерал Граховац често сам за себе поносно говори да је „непокоран и непокорен генерал“? Зашто има потребу да то непрестано понавља, можда одговор лежи у оној народној – „ко о чему…“. Према његовим закључцима и препорукама, јасно се види да је одавно и покорен и сврстан. Своје писање и комплетну акцију жели да прикаже као борбу против криминала и васкрслог фашизма. За криминал највише оптужује црногорско руководство, као да они нису били у томе када је и он био у њиховом тиму, али му то тада није сметало.


[SLIKA: Генерал, српски херој, Љубиша Величковић ]

У СЛУЖБИ НАТО

Суштина Граховчевог писања и пропаганде коју шири јесте промоција НАТО. Његова фасцинација пактом толика је да у целој књизи не само да није у стању да критички сагледа НАТО нити зло које производи већ ни да му пронађе једну једину ману. Такође није у стању да сакрије своју нетрпељивост према Русији, која у књизи поприма размере параноје. Тако каже: „Срби су опседнути руском митоманијом“. Отуда је за њега сврставање Србије у антируски блок сасвим природна и нормална ствар, и чудом се чуди како то већина Срба не схвата. Уствари, чудна је само чињеница да Граховац, иако Србин, о Србима ништа не зна.

Граховац се у књизи олако одлучује на дрзак, подцењивачки и увредљив став према својим бившим колегама. Вређа их, назива „подрепашима“, „бандитосима“, „четницима“, „фашистима“ и пришива им увредљиве надимке. Заборавља само да помене надимак који је носио он – колеге су га, изврћући његово име, звали „Лагоје Натовац“. Уосталом, генерал Граховац је био десна рука у решавању „стратешких“ проблема некадашњег начелника Генералштаба генерала Момчила Перишића, коме се тренутно суди због предаје поверљивх података шефу CIA за Балкан Џону Нејбору.

АКЦИЈА „ПРЕПАРИРАЊА“ ПЕРИШИЋА

Сад се генерал Граховац хвали оним чега би се свако други стидео: да је први тајни контакт генерала Перишића са генералима и функционерима НАТО организовао он лично у договору са тадашњим начелником Управе безбедности генералом Александаром Димитријевићем. Уз логистику коју им је дало црногорско руководство, пребацили су Перишића хеликоптером полиције на амерички носач авиона у Јадрану, одакле се вратио „препариран“. Наравно, све је урађено тајно, без знања државног и војног врха земље (сем ако нису сматрали да су њих тројица врх). Зато не чуди што су сва ова тројица генерала касније често помињана по својим тајним везама са НАТО. С тим што се данас генерал Граховац једини тиме хвали, што значи да никада није схватио шта је уствари учинио и да је сваки самовољни тајни контакт са супростављеном страном недопустив и раван издаји. У исто време се чуди што га је војна служба безбедности једно време држала под надзором.

Граховац бесрамно приповеда о проблемима тадашњег војног врха са генералом Љубишом Величковићем приликом потписивања „споразума“ по коме су официри НАТО били смештени у наше војне објекте, који су касније бомбардовани. Величковић је тада рекао „ја и НАТО никада заједно“, а да није остао на речима, показало се кад је, као доказ свог патриотизма, положио живот. Како се, међутим, зове оно што су учинили Граховац и њему слични? Они су нам у највише команде довели официре НАТО, да би, у складу са припремама за рат који су већ планирали, прецизно означили циљеве које ће бомбардовати.

Граховац много тога зна, али не зна шта је патриотизам, шта је издаја, шта је официрска част, а шта је срамота. Тврдећи у књизи да га је Слободан Милошевић презирао, заборавља да га је он увео у генералски кор и дао му не једну, већ две генералске звездице. Пошто га је Милошевић одбацио под сумњом да је страни шпијун, прихватило га је црногорско руководство Мила Ђукановића. Био је прихваћен због заслуга јер их је тајно извештавао о активностима и дешавањима у војсци (мимо официјелне линије извештавања).

Ако генерал не зна како се то зове, неко ће морати да му каже: био је обична „кртица“ црногорског руководства, које је тада бринуо став војске према њиховим сепаратистичким намерама. После тога био им је значајан саветник и извор података у време осамостаљења и затегнутих односа са Србијом. Са својим „тајнама из глуве собе“ добро им је дошао и нема дилема да је у то време нанео велику штету Србији. Нормализацијом односа између Београда и Подгорице његова улога је постала минорна и реметилачка. На крају је, видевши да му је истекао рок трајања, окренуо леђа и црногорској власти, и сада и на њих, као и на Милошевића својевремено, сипа дрвље и камење.

ГРАХОВЧЕВО ХРВАТСКО СТАНОВИШТЕ

Проучавајући психолошке комплексе других генерала, генерал Граховац не види свој комплекс више вредности. Поред тога, како сам каже, не подноси ни један национализам, а посебно српски. Зашто посебно српски? У његовој књизи јасно је да се ради о комплексу инфериорности, будући да сопствени народ гледа очима његових непријатеља, тврдећи да су „Срби и Србија затровани српским национализмом и великосрпским хегемонизмом“. Штавише, он српски национализам аутоматски изједначава са фашизмом и сматра га за јединог кривца за сва зла на просторима бивше Југославије. Стварне разбијаче Југославије и креаторе зла није ни поменуо а камоли окривио?

А и како то да уради када је своје ставове делио са бившим хрватским председником Стјепаном Месићем, и кључним хрватским генералима Антоном Тусом и Имром Аготићем, са којима се у време грађанског рата виђао и консултовао. Граховац себе приказује као великог борца за очување Југославије, истовремено не скривајући фасциниацију према Месићу, који је својевремено, одлазећи са места у Председништву СФРЈ, рекао: „Мој посао је завршен, Југославије више нема“. Тешко је отети се закључку да је Граховац, описујући догађаје из преломних година свог народа, према њима усвојио хрватско гледиште и аргументацију.

То и непознавање ситуације били су јасни и по томе што је уочи сукоба на Косову и Метохији, као се у књизи сам хвали, предлагао да се оружје не дели тамошњим Србима како би сачували живу главу, него „нормалним“ Албанцима, који би оружјем чували Србе? Такву бесмислицу могао је само да изрекне онај ко није желео да зна о чему се на Косову ради, јер Албанци су већ имали оружје. Али зна генерал Граховац шта ради: таквим причама он само покушава да Србе оптужи за рат на Косову, који је ваљда био изазван непотребним наоружавањем српског становништва.

Своју хрватску визуру Граховац не напушта кроз целу књигу. Наиме, и сам сам се дуго питао како то да су Црногорцима постали ближи Хрватска и Хрвати, него Србија и Срби. Одговор у књизи нуди генерал Граховац, тврдећи да је био први који је саветовао Ђукановића да Црна Гора треба да се осамостали, потпуно дистанцира од Србије и повеже се са Хрватском. Дословно му је, каже, рекао:

„Врата Црне Горе у свијет нису преко Београда, него преко Дебелог бријега“ (граница Црне Горе са Хрватском).

На крају, вредело би рећи и ово: генерал Граховац је осетио све привилегије официрског заната, али никад његову тежину, опасности, жртвовање и патње (највише је патио када су га изместили из Генералштаба у кабинет у Кнез Михаиловој улици). Иако се у књизи размеће бројем својих истомишљеника међу официрима, они су огорчени због његових поступака и писања. Подршку за своје тезе до сада је налазио искључиво у иностранству и међу онима који Србији и Србима не мисле добро.

Зато Граховац – који иначе зна све одговоре на сва питања – не може да одговори на једно питање, које се поставља деци у обданишту. Која је то његова држава, шта је његова отаџбина и ко је његов народ? Да ли је то Србија, у којој лагодно живи у елитном београдском кварту, или Црна Гора, коју је преусмеравао према Хрватској, или је пак Република Српска, у којој је рођен, где су му родна кућа и родбина и за коју је одбио да се бори. Када тврди да је његов став „светски и наднационалан“, можда је његова отаџбина „свет“, с тим да, када он каже „свет“, мисли на Запад. Иако га сам не зна, књига Благоја Граховца нуди одговор: његова Отаџбина је свуда где се ради против његовог народа.


[VIDEO: General Blagoje Grahovac - Milošević je namerno izazvao bombardovanje Srbije zbog Kosova i CG! (Dokumentarne Emisije Balkan, 25 apr 2015)
ARHIVSKI SNIMAK: Gost novinarke Divne Tanasković na SKY SAT televiziji bio je general avijacije u penziji i analitičar geopolitike Blagoje Grahovac.]

О АУТОРУ

Љубан Каран је је потпуковник војне Контраобавештајне службе (КОС) у пензији.




La NATO scalpita / 2

1) Si alla Pace! No alla NATO! La campagna internazionale del Consiglio Mondiale della Pace
2) Nelle spire dell’Anaconda (Manlio Dinucci, 7.6.2016)


Si veda anche: La NATO scalpita / 1
- Die NATO wächst (GFP 25.05.2016)
- Il Consiglio Mondiale della Pace si prepara alla mobilitazione in vista del vertice NATO a Varsavia
- La strategia golpista di Washington, dal Brasile al Venezuela (di Manlio Dinucci, 24/5/2016)


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Si alla Pace! No alla NATO! La campagna internazionale del Consiglio Mondiale della Pace

9 Giugno 2016 - da cebrapaz.org.br | Traduzione di Marx21.it

La protesta contro il Vertice della Nato.

Il vertice della NATO del 2016 si svolgerà a Varsavia l'8 e 9 luglio. In previsione di questa scadenza il Consiglio Mondiale della Pace sta organizzando mobilitazioni in diversi paesi, allo scopo di costruire una campagna globale contro la NATO, con la parola d'ordine Si alla Pace! No alla NATO!

La Nato: un nemico della pace e dei popoli

Dal momento della sua creazione, nel 1949, la NATO è il braccio militare dell'imperialismo. E' la maggiore e più pericolosa organizzazione militare del mondo, profondamente connessa alle politiche estere ed economiche sia degli Stati Uniti che dell'Unione Europea.

Dagli anni 1990, la Nato ha allargato il numero dei suoi membri e il teatro delle operazioni. La NATO ha attualmente 28 Stati membri in America del Nord e in Europa. Altri 22 paesi sono impegnati nel Consiglio della Partnership Euro-Atlantica (EAPC). Più di 19 paesi sono partner della NATO attraverso programmi come la cosiddetta “Partnership per la Pace”, il “Dialogo Mediterraneo”, “Iniziativa di Cooperazione di Istanbul” e i “Partner nel Mondo”.

Solo questa espansione già rivela lo scopo fondamentale della NATO: essere uno strumento essenziale della dominazione imperialista del pianeta.

Negli ultimi due decenni, la NATO e i suoi affiliati hanno attaccato la Jugoslavia (e la sua provincia del Kosovo), l'Afghanistan, l'Iraq, la Libia e la Siria, con l'obiettivo evidente di rovesciare i governi di questi paesi. Nella maggior parte dei casi, il governo è diventato bersaglio della NATO perché si era rifiutato di accettare i dettami delle politiche estere di USA e UE. In nessuno di questi casi l'obiettivo o il risultato sono stati la democrazia e la pace – l'unica conseguenza è stata la morte delle persone, la distruzione insieme a un maggior potere e controllo sulle risorse e i profitti da parte degli Stati della NATO.

La Nato esercita pressione sui suoi membri perché aumentino i loro bilanci militari nazionali nello stesso momento in cui creano austerità per i programmi sociali, perché rafforzino ancora di più le proprie forze armate e destinino fondi a un maggiore sviluppo bellico, comprese le armi nucleari. La cooperazione e il coordinamento con l'UE è stata normata da vari trattati dell'UE e attraverso la creazione dell'Esercito dell'UE.

Nel 2014, gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno provocato il rovesciamento violento del governo dell'Ucraina – in parte, organizzando, armando ed equipaggiando le unità armate neo-naziste – e lo hanno sostituito con un regime cliente dell'UE e degli USA, usato per dominare l'Ucraina politicamente ed economicamente e per la loro strategia contro la Federazione Russa. Di fronte alla violenza e al fascismo, il popolo dell'est e del sud dell'Ucraina ha preso misure a protezione delle proprie vite, culture, comunità e interessi, con l'appoggio russo. La NATO ha usato ciò come pretesto per intensificare le proprie attività militari ed espandere le sue basi a tutti i paesi dell'est dell'Europa e all'Artico, fino alle frontiere della Russia. Allo stesso tempo, tutti i governi dell'UE hanno imposto e mantengono sanzioni economiche e politiche contro la Federazione Russa.

Le azioni della NATO, come strumento militare preferito dell'imperialismo degli USA e dell'UE, hanno portato all'attuale clima di confronto tra grandi Stati detentori delle armi nucleari. Tali provocazioni generano, inevitabilmente, tensioni e la minaccia reale di uno scontro nucleare e di una guerra generalizzata che inevitabilmente distruggerebbe tutte le civiltà del pianeta.

Per una campagna più solida e coinvolgente:

Il Consiglio Mondiale della Pace ha promosso la campagna in corso – Si alla Pace! No alla NATO! - che ha prodotto e appoggiato grandi conferenze, proteste popolari di massa e campagne permanenti in molti paesi. Attraverso questa campagna, il CMP ha lavorato con numerose forze di pace europee e nordamericane che pure si oppongono all'aggressione e all'esistenza della NATO. La campagna Si alla Pace! No alla NATO! esige lo scioglimento della NATO a livello globale, appoggia la lotta contro la NATO in ognuno dei suoi Stati membri e promuove il diritto dei popoli di ogni paese a ritirarsi unilateralmente dall'alleanza militare della NATO.

La lotta per la pace e contro la guerra è parte integrante e condizione necessaria per il progresso e la giustizia sociale.

Nello sforzo per costruire ed espandere questa campagna nel prossimo periodo, il Consiglio Mondiale della Pace si impegna a operare nel modo seguente:

1. Lavorando con le sue organizzazioni affiliate e con i coordinatori regionali, a organizzare e mobilitare giornate mondiali di azione per esigere lo scioglimento della NATO. Il CMP lavorerà per organizzare queste azioni annualmente. Nello sforzo per costruire proteste di massa e pubbliche contro la NATO, il CMP contatterà forze internazionali di pace, del lavoro e progressiste che concordino sul fatto che la NATO deve essere sciolta. Il CMP incoraggerà le sue organizzazioni affiliate a fare sforzi per realizzare contatti simili, se possibile, a livello nazionale.

2. Lavorando con le sue organizzazioni affiliate, il CMP organizzerà conferenze internazionali per  descrivere le operazioni della NATO, per informare le forze amanti della pace e il pubblico in generale sulle azioni della NATO e sulle iniziative dei popoli per sbarrare a queste la strada, e per promuovere proposte per nuove e creative forme di mobilitazione, in particolare negli Stati membri della NATO, allo scopo di smascherare la sua natura imperialista, di denunciare la responsabilità dei governi di ciascun Stato membro e di esigere lo scioglimento della NATO.

3. Il CMP intensificherà il suo lavoro con i membri affiliati negli Stati della NATO per appoggiare e incoraggiare le campagne nazionali contro la NATO. A questo scopo, il CMP continuerà a promuovere il diritto di ogni popolo a ritirarsi unilateralmente dalla NATO, come atto concreto per indebolire l'alleanza militare.

4. Il CMP lavorerà con i membri affiliati per incoraggiare e promuovere risoluzioni, appelli e azioni dei governi nelle Nazioni Unite e in altre organizzazioni internazionali di rilievo, che facciano appello allo scioglimento della NATO. E' un obiettivo particolare per i membri affiliati nei paesi del Movimento dei Non Allineati.

5. Per sviluppare e realizzare queste proposte, il CMP presenterà un rapporto sui progressi ottenuti in ogni Riunione della Segreteria, del Comitato Esecutivo e dell'Assemblea Mondiale della Pace.

Giornata di Azione Globale contro la NATO: 8 e 9 luglio 2016

In preparazione del Vertice di Varsavia, il Consiglio Mondiale della Pace mette in evidenza la crescente minaccia globale rappresentata dalla NATO – per la sua crescente belligeranza, le dimensioni e la portata geografica senza limiti. Il CMP afferma che aumenterà la mobilitazione nelle strade delle città e dei paesi per mobilitare il popolo nella lotta contro la NATO e per il suo scioglimento completo, convocando una mobilitazione globale di azione contro la NATO l'8 e 9 luglio 2016.

Il CMP e i suoi affiliati chiedono ai movimenti della pace e solidarietà di organizzare proteste nel luogo del Vertice di Varsavia. La presenza diretta sul posto è un messaggio potente a tutti in merito al fatto che la NATO è il nemico dei popoli del mondo ed è attivamente respinto da loro, ed esige:

- Lo scioglimento della NATO;
- Il ritiro di tutte le forze della NATO coinvolte in aggressioni militari;
- Lo smantellamento del sistema antimissili degli USA e della NATO;
- Il disarmo generalizzato e l'abolizione delle armi nucleari e delle armi di distruzione di massa;
- Il rispetto dei principi della carta di fondazione dell'ONU e della sovranità e uguaglianza tra popoli e Stati.

E' anche necessario mobilitare, in ogni paese, attraverso azioni multiformi e proteste, conferenze ed eventi educativi, materiali stampati e digitali. Ciò è particolarmente importante nei paesi che sono membri della NATO, dove il CMP sta denunciando il ruolo di quei governi che appoggiano e si fanno carico di tutti i piani e le azioni della NATO. 

Chiediamo di informare il CMP, nel tempo più breve possibile, sugli eventi dei diversi paesi e regioni e di inviare copia del materiale diffuso.

L'8 e 9 luglio, i popoli del mondo diranno
Si alla Pace! No alla NATO!


=== 2 ===



Nelle spire dell’Anaconda

di Manlio Dinucci 
su Il Manifesto del 07.06.2016

Inizia oggi in Polonia la Anakonda 16, «la più grande esercitazione alleata di quest’anno»: vi partecipano oltre 25 mila uomini di 19 paesi Nato (Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e altri) e di 6 partner: Georgia, Ucraina e Kosovo (riconosciuto come stato), di fatto già nella Nato sotto comando Usa; Macedonia, che non è ancora nella Nato solo per l’opposizione della Grecia sulla questione del nome (lo stesso di una sua provincia, che la Macedonia potrebbe rivendicare); Svezia e Finlandia, che si stanno avvicinando sempre più alla Nato (hanno partecipato in maggio alla riunione dei ministri degli esteri dell’Alleanza). Formalmente l’esercitazione è a guida polacca (da qui la «k» nel nome), per soddisfare l’orgoglio nazionale di Varsavia. In realtà è al comando dello U.S. Army Europe che, con un’«area di responsabilità» comprendente 51 paesi (compresa l’intera Russia), ha la missione ufficiale di «promuovere gli interessi strategici americani in Europa ed Eurasia». Ogni anno effettua oltre 1000 operazioni militari in oltre 40 paesi dell’area.

Lo U.S. Army Europe partecipa all’esercitazione con 18 sue unità, tra cui la 173a Brigata aerotrasportata di Vicenza. L’Anakonda 16, che si svolge fino al 17 giugno, è chiaramente diretta contro la Russia. Essa prevede «missioni di assalto di forze multinazionali aerotrasportate» e altre anche nell’area baltica a ridosso del territorio russo. Alla vigilia dell’Anakonda 16, Varsavia ha annunciato che nel 2017 espanderà le forze armate polacche da 100 a 150 mila uomini, costituendo una forza paramilitare di 35 mila uomini denominata «forza di difesa territoriale». Distribuita in tutte le province a cominciare da quelle orientali, essa avrà il compito di «impedire alla Russia di impadronirsi del territorio polacco, come ha fatto in Ucraina».

I membri della nuova forza, che riceveranno un salario mensile, saranno addestrati, a cominciare da settembre, da istruttori Usa e Nato sul modello adottato in Ucraina, dove essi addestrano la Guardia nazionale comprendente i battaglioni neonazisti. L’associazione paramilitare polacca Strzelec, che con oltre 10 mila uomini costituirà il nerbo della nuova forza, ha già iniziato l’addestramento partecipando all’Anakonda 16. La costituzione della forza paramilitare, che sul piano interno fornisce al presidente Andrzej Duda un nuovo strumento per reprimere l’opposizione, rientra nel potenziamento militare della Polonia, con un costo previsto di 34 miliardi di dollari entro il 2022, incoraggiato da Usa e Nato in funzione anti-russa.

Sono già iniziati i lavori per installare in Polonia una batteria missilistica terrestre del sistema statunitense Aegis, analoga a quella già in funzione in Romania, che può lanciare sia missili intercettori che missili da attacco nucleare. In attesa del summit Nato di Varsavia (8-9 luglio), che ufficializzerà l’escalation anti-Russia, il Pentagono si prepara a dislocare in Europa una brigata da combattimento di 5 mila uomini che roterà tra Polonia e paesi baltici.

Si intensificano allo stesso tempo le esercitazioni Usa/Nato dirette contro la Russia: il 5 giugno, due giorni prima dell’Anakonda 16, è iniziata nel Mar Baltico la Baltops 16, con 6100 militari, 45 navi e 60 aerei da guerra di 17 paesi (Italia compresa) sotto comando Usa. Vi partecipano anche bombardieri strategici Usa B-52. A circa 100 miglia dal territorio russo di Kaliningrad. Una ulteriore escalation della strategia della tensione, che spinge l’Europa a un confronto non meno pericoloso di quello della guerra fredda. Sotto la cappa del silenzio politico-mediatico delle «grandi democrazie» occidentali.



(deutsch / italiano)

La NATO scalpita

1) Die NATO wächst (GFP 25.05.2016)
... Die Vereinbarungen, die bereits vor der Eskalation des Machtkampfs gegen Moskau initiiert wurden, setzen die schwedisch-finnische Annäherung an die NATO fort, die bereits in den 1990er Jahren eingeleitet wurde... Zusätzlich zur Annäherung Schwedens und Finnlands hat die NATO in der vergangenen Woche beschlossen, Montenegro aufzunehmen - gegen massive Proteste in der montenegrinischen Bevölkerung...
2) Il Consiglio Mondiale della Pace si prepara alla mobilitazione in vista del vertice NATO a Varsavia
La Segreteria del Consiglio Mondiale della Pace (CMP) si è riunita nella capitale greca, Atene, il 27 e 28 maggio, per discutere della situazione politica internazionale e della sua agenda di lavoro, delle sue campagne e azioni e della preparazione dell'Assemblea, che si svolgerà in novembre, in Brasile...
3) La strategia golpista di Washington, dal Brasile al Venezuela (di Manlio Dinucci, 24/5/2016)
Quale collegamento c’è tra società geograficamente, storicamente e culturalmente distanti, dal Kosovo alla Libia e alla Siria, dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Ucraina al Brasile e al Venezuela?


Raccomandiamo anche la visione dell'intervento di Giulietto Chiesa:

Il cuore nero dell'Europa (PandoraTV, 5 giu 2016)
L'editoriale di Giulietto Chiesa direttamente dal convegno "Le 3 crisi europee". << ... Nel Parlamento europeo c'è una lobby di grossomodo 75-76 deputati che lavorano a tempo pieno solo per creare una situazione di tensione, la massima possibile, nei confronti della Russia... >>


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Die NATO wächst
 
25.05.2016
BERLIN/STOCKHOLM/PODGORICA
 
(Eigener Bericht) - Die von Berlin befürwortete engere Anbindung Schwedens an die NATO stößt zunehmend auf Protest. Tausende sind am Wochenende in Stockholm auf die Straße gegangen, um gegen ein "Host Nation Support"-Abkommen mit dem Kriegsbündnis zu demonstrieren, das der schwedische Reichstag am heutigen Mittwoch endgültig ratifizieren will. Möglicherweise wird die Verabschiedung im Parlament sogar verzögert. Das Abkommen ermöglicht es NATO-Einheiten, darunter auch deutschen, im Rahmen von Manövern oder Militäreinsätzen schwedisches Territorium umfassender als bisher zu nutzen. Ein identisches Abkommen mit Finnland öffnet den Weg für NATO-Operationen unmittelbar an der Grenze zu Russland. Die Vereinbarungen, die bereits vor der Eskalation des Machtkampfs gegen Moskau initiiert wurden, setzen die schwedisch-finnische Annäherung an die NATO fort, die bereits in den 1990er Jahren eingeleitet wurde. Die NATO-Aktivitäten des offiziell neutralen Schweden beinhalteten Berichten zufolge auch die Beteiligung an Entscheidungen über illegale Exekutionen von Aufständischen in Afghanistan - an der Seite der Bundeswehr. Zusätzlich zur Annäherung Schwedens und Finnlands hat die NATO in der vergangenen Woche beschlossen, Montenegro aufzunehmen - gegen massive Proteste in der montenegrinischen Bevölkerung.
Einkreisung im Norden
Für den heutigen Mittwoch kündigt der schwedische Reichstag eine Beschlussfassung über die Ratifizierung des "Host Nation Support"-Abkommens mit der NATO an. Das Abkommen, das Schweden am 4. September 2014 am Rande des damaligen NATO-Gipfels im britischen Newport unterzeichnet hat - es hat damals auch die Zustimmung der Bundesregierung gefunden -, sichert dem Kriegsbündnis neue Rechte zur Nutzung schwedischen Territoriums bei Manövern und bei Truppenbewegungen im Rahmen von Militäreinsätzen zu. Stockholm verspricht sich seinerseits von der Übereinkunft deutlich intensivere Beziehungen zur NATO. Eine identische Vereinbarung hat am 4. September 2014 auch Finnland unterzeichnet. Helsinki ermöglicht der NATO damit faktisch den Ausbau ihrer Präsenz unmittelbar an der Grenze zu Russland und treibt so dessen Einkreisung im Norden voran.
Seit den 1990ern
Während es offiziell heißt, mit dem "Host Nation Support"-Abkommen reagierten Schweden und Finnland auf eine angebliche russische Aggression, folgt die Vereinbarung tatsächlich einer bereits in den 1990er Jahren eingeschlagenen Strategie der kontinuierlichen Annäherung beider Länder an die NATO. Diese Strategie führte im Jahr 1994 zunächst zur Aufnahme Stockholms und Helsinkis in die NATO-"Partnership for Peace" (PfP), 1995 dann darüber hinaus zur Einbindung in den "PfP Planning and Review Process" (PARP), der die militärischen Fähigkeiten der teilnehmenden Staaten stärken sowie ihre Interoperabilität mit der NATO verbessern soll. Seit 1996 nehmen Schweden und Finnland ungeachtet ihrer offiziellen Neutralität an NATO-geführten Militäreinsätzen teil, zunächst in Bosnien-Herzegowina, ab 1999 im Kosovo, dann ab 2002 (Finnland) respektive 2003 (Schweden) in Afghanistan. Schweden hat sich 2011 sogar mit acht Gripen-Kampfflugzeugen am Libyen-Krieg der NATO beteiligt. 2012 (Finnland) beziehungsweise 2013 (Schweden) haben die beiden Länder ihre Truppen zudem in die NATO Response Force (NRF) integriert. Öffentlich bekannt wurde die Absicht ihrer Regierungen, ein "Host Nation Support"-Abkommen mit dem westlichen Kriegsbündnis zu schließen, bereits am 20. November 2013, also noch vor dem Beginn der Majdan-Proteste und der auf diese folgenden Eskalation des westlichen Machtkampfs gegen Moskau. Die Bestrebungen, Russland auch im Norden einzukreisen, gehen also auf ältere Strategieplanungen zurück.[1]
"Wie bei Gladiatoren"
Schon die bisherigen NATO-Aktivitäten Schwedens beinhalteten laut einem Bericht der New York Times vom vergangenen September die Beteiligung an Entscheidungen über illegale Hinrichtungen von Aufständischen in Afghanistan - übrigens an der Seite deutscher Soldaten. Demnach waren schwedische und deutsche Militärs zumindest zeitweise im Combined Joint Operations Center (CJOC) in Kabul präsent, wo über meist mittels Drohnen geführte Exekutionsangriffe auf tatsächliche oder angebliche Aufständische entschieden wird. Wie die New York Times im vergangenen September schilderte, befinden sich in den Räumlichkeiten des CJOC Bildschirme, auf denen die Zielerfassung der Drohnen zu sehen ist. Mit ihrer Hilfe soll sichergestellt werden, dass bei den Angriffen unschuldige Zivilisten nicht getroffen werden. Die illegalen Hinrichtungen mittels Drohnen werden aus den verschiedensten Gründen seit langer Zeit international massiv kritisiert, unter anderem auch, weil eine Unterscheidung von tatsächlichen oder angeblichen Aufständischen und Zivilisten in aller Regel nicht zuverlässig möglich ist. Im CJOC hätten US-Soldaten immer wieder deutsche und schwedische Kameraden aufgefordert, sich an der Entscheidung über Leben und Tod der ins Visier geratenen Personen zu beteiligen, hieß es in der New York Times, die einen US-Behördenmitarbeiter mit der Aussage zitierte: "Sie saßen da herum und streckten ihre Daumen nach oben oder nach unten, wie bei Gladiatoren in einer Arena."[2] Offiziell wird die Darstellung in Stockholm und Berlin bestritten. Die US-Zeitung hält an ihrem Bericht fest.
Proteste (I)
Gegen die Absicht der schwedischen Regierung, eine engere Bindung an die NATO herbeizuführen und das "Host Nation Support"-Abkommen am heutigen Mittwoch im Reichstag endgültig ratifizieren zu lassen, haben am Wochenende Tausende in Stockholm demonstriert. Möglicherweise muss die Verabschiedung des Abkommens sogar verschoben werden: Bestimmte Beschlüsse lassen sich in Schweden mit einer qualifizierten Parlamentsminderheit verzögern. Diese Option wäre voraussichtlich gegeben, wenn sowohl die sozialistische Linkspartei wie auch die extrem rechten Schwedendemokraten sich für eine Aussetzung des Beschlussverfahrens aussprechen. Damit würde die Ratifizierung um ein Jahr ausgesetzt.[3]
Ums Prinzip
Unabhängig davon hat die NATO in der vergangenen Woche in aller Form die Aufnahme Montenegros beschlossen. Das Land ist im Dezember 2006, nur ein halbes Jahr nach seiner Abspaltung von Serbien, der "Partnership for Peace" beigetreten und hat schon bald begonnen, sich um den Beitritt zum Bündnis zu bemühen. Montenegros militärischen Kapazitäten wird eine geringe Bedeutung zugeschrieben: Das Land unterhält Streitkräfte von knapp 2.000 Militärs und beteiligt sich am Afghanistan-Einsatz der NATO mit derzeit exakt 17 Soldaten. Als Hauptgrund für seine Aufnahme werden entsprechend nicht militärische, sondern taktische Erwägungen genannt. "Zwar ist der Beitrag, den Montenegro zur NATO leisten kann, verschwindend gering", bestätigte im vergangenen Jahr Karl-Heinz Kamp, Präsident der Bundesakademie für Sicherheitspolitik (BAKS), des außen- und militärpolitischen Strategiezentrums der Bundesregierung: Doch sei der NATO-Beitritt des Landes "vor allem ein politisches Signal auch gegenüber Russland, dass man an der Politik der offenen Tür festhält und kein russisches Veto gegenüber dem Prinzip der freien Bündniswahl akzeptiert".[4] Kamp bezog sich damit auf Proteste aus Russland gegen eine Verschiebung der strategischen Kräfteverhältnisse per Ausdehnung des NATO-Bündnisgebiets. Zuletzt hat Moskau vor der weiteren Intensivierung der NATO-Beziehungen zu Schweden und Finnland gewarnt.
Proteste (II)
Montenegros NATO-Beitritt stößt in der Bevölkerung des Landes auf noch massivere Proteste als das "Host Nation Support"-Abkommen in Schweden. Bereits im Herbst und im Winter 2015 waren in dem kleinen Staat, der kaum mehr als 600.000 Einwohner hat, Tausende auf die Straßen gegangen, um gegen das Kriegsbündnis zu demonstrieren. Noch 1999 hatten NATO-Kampfjets im Kosovo-Krieg auch montenegrinisches Territorium bombardiert. Rund 55.000 Montenegriner sollen unlängst eine Petition unterzeichnet haben, die zumindest ein Referendum über den NATO-Beitritt des Landes verlangt; Umfragen zeigen, dass eine Mehrheit für den Schritt alles andere als sicher ist. Bei den Abstimmungen im Rahmen der NATO über Montenegros Beitritt hat dessen ungeachtet auch die Bundesregierung für die Aufnahme des Landes votiert.

[1] S. dazu Die NATO-Norderweiterung.
[2] Rod Nordland: Germany and Sweden Are Said to Help Make Afghan "Kill Decisions". www.nytimes.com 04.09.2015.
[3] Why Sweden's NATO deal could be delayed for a year. www.thelocal.se 23.05.2016.
[4] Karl-Heinz Kamp: Die Agenda des NATO-Gipfels von Warschau. Arbeitspapier Sicherheitspolitik Nr. 9/2015. S. dazu Die Artikel-5-Welt.


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Il Consiglio Mondiale della Pace si prepara alla mobilitazione in vista del vertice NATO a Varsavia

da cebrapaz.org.br

Traduzione di Marx21.it – 6 Giugno 2016


Il 27 e 28 maggio in Grecia, la segreteria del Consiglio Mondiale della Pace (CMP) ha discusso delle prossime iniziative di mobilitazione.

La Segreteria del Consiglio Mondiale della Pace (CMP) si è riunita nella capitale greca, Atene, il 27 e 28 maggio, per discutere della situazione politica internazionale e della sua agenda di lavoro, delle sue campagne e azioni e della preparazione dell'Assemblea, che si svolgerà in novembre, in Brasile.

Quasi la totalità dei membri della Segreteria, composta da 13 entità, ha partecipato: Il Comitato Greco per la Distensione e la Pace Internazionale (che ha ospitato la riunione), il Centro Brasiliano di Solidarietà ai Popoli e di Lotta per la Pace (Cebrapaz), il Consiglio Portoghese per la Pace e la Cooperazione, il Movimento Cubano per la Pace e la Sovranità dei Popoli (MovPaz), il Comitato Palestinese per la Pace e la Solidarietà, il Consiglio della Pace degli USA, l'Iniziativa Sudafricana per la Pace, l'Organizzazione Indiana della Pace e della Solidarietà (Aipso), il Consiglio del Nepal per la Pace e la Solidarietà, il Consiglio Nazionale Siriano per la Pace, il Consiglio della Pace di Cipro e il Comitato della Pace del Congo (Repubblica Democratica). Come invitati, hanno partecipato anche rappresentanti dei movimenti della pace di Polonia, Israele e Turchia.

La riunione si è svolta nella sede della Confederazione Generale dei Lavoratori Greci, con l'introduzione dei rappresentanti della Confederazione e del Comitato Greco per la Distensione e la Pace Internazionale, che hanno trattato della situazione dei lavoratori e del popolo greco di fronte alla crisi internazionale, con riflessi globali.

Nel suo discorso di apertura della riunione della Segreteria, la presidente del Consiglio Mondiale della Pace, Socorro Gomes, ha delineato i punti principali dell'agenda del movimento internazionale antimperialista, che cerca di rafforzarsi per fronteggiare la guerra, l'oppressione e la dominazione dei popoli. Per questo, centrale nelle discussioni della riunione è stata la campagna per lo scioglimento dell'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), che svolgerà il proprio vertice nella capitale polacca, Varsavia, l'8 e 9 luglio.

“Il CMP ha lanciato una campagna globale di azione e denuncia del ruolo devastante della NATO, che sta rafforzando la logica delle minacce bellicose e la corsa agli armamenti che continua a trascinare i popoli in eventi tragici. Mentre ci mobilitiamo in difesa dei nostri diritti e conquiste sociali, per lo sviluppo e il progresso comuni, per la protezione dell'ambiente, per la fine della povertà e della fame e per un mondo più giusto, quali aspirazioni dei popoli, le potenze continuano a impegnarsi nella loro preparazione della guerra”, ha affermato Socorro.

La militarizzazione del pianeta che si riflette nelle spese militari, nella modernizzazione degli arsenali nucleari, nella disseminazione di basi militari straniere (anche con l'annuncio in marzo dei presidenti argentino Mauricio Macri e statunitense Barack Obama dell'installazione di due nuove basi in territorio argentino, di cui una alla frontiera con il Paraguay e il Brasile), ed anche nella continua presenza di flotte navali statunitensi in America del Sud (Quarta Flotta, del Comando Sud) e in Africa (Africom, Comando Africa), è stata evidenziata nel discorso della presidente. Socorro ha rilevato, per esempio, che, nel 2015, secondo un rapporto dell'Istituto Internazionale di Stoccolma di Ricerche per la Pace (Sipri), il 2,3% del PIL mondiale è stato speso nel settore militare, vale a dire 1.700 miliardi di dollari.

La situazione nel Medio Oriente, in America Latina e in Africa è stata evidenziata dalla presidente, dal segretario generale Thanassis Pafilis e da altri partecipanti. L'aggressività della scalata imperialista degli Stati Uniti, muniti della NATO e delle loro alleanze con élites e oligarchie reazionarie locali, come nel caso dell'America Latina, è stata sottolineata dagli oratori. La loro reazione alle alternative progressiste e di affermazione sovrana è stata quella delle invasioni e aggressioni, come nel caso della Siria, e del sostegno meno evidente, ma comunque sempre rilevante, ad élites reazionarie in paesi dove il golpe è nuovamente lo strumento (anche se in veste diversa da quella che avevamo già visto nei decenni 1950, 1960 e 1970 in America Latina).

Cipro, in parte occupato dalla Turchia; la Palestina, che recentemente ha celebrato il 68° anniversario della Nakba (la catastrofe), sotto l'occupazione sionista; la situazione del Sahara Occidentale, ancora occupato dal Marocco; anche la situazione di Porto Rico, ancora sotto la colonizzazione statunitense, e quella delle Isole Malvine argentine, occupate dal Regno Unito, sono state evidenziate dai movimenti della pace, mobilitati in solidarietà con i popoli che resistono all'occupazione, al colonialismo, alle guerre e alle aggressioni, in Siria, in Iraq, in Afghanistan, nello Yemen, in Libia, tra gli altri. Oltre a ciò, la situazione dei rifugiati, principalmente quelli che arrivano in Europa cercando di fuggire dalla violenza del terrorismo e delle aggressioni contro i loro paesi, ma che sono accolti da calcoli burocratici e da crescente xenofobia, è stato un tema importante della riunione, con campagne già elaborate da parte dei membri del CMP.

Nelle valutazioni dei partecipanti sull'aggressività della reazione e dell'avanzata imperialista, della militarizzazione del pianeta, del ruolo di minaccia e costrizione esercitato dalla NATO, del persistere del colonialismo e delle guerre, i delegati dei 12 paesi riuniti ad Atene hanno discusso in merito alle forme del rafforzamento del CMP, alle campagne e azioni coordinate (come la campagna per lo scioglimento della NATO e l'evento parallelo al suo vertice a Varsavia), ed anche della collaborazione con altri movimenti sociali, della gioventù, dei lavoratori, delle donne, e così via, nella lotta comune contro l'imperialismo, per la giustizia sociale, la sovranità e la pace, e per rafforzare la solidarietà internazionale.

Per questo, il tema dell'Assemblea del CMP, che si svolgerà dal 17 al 19 novembre a São Luís, Maranhão (con il Cebrapaz in qualità di ospitante) sarà: “Rafforzare la solidarietà tra i popoli, nella lotta per la pace, contro l'imperialismo”.

I membri del CMP hanno visitato anche il memoriale di Kaisariani, località dove 200 resistenti  furono massacrati dalle truppe naziste di occupazione, il 1° maggio 1944 (adolescenti, nella gran parte), con l'appoggio del regime greco dittatoriale e anticomunista. Inoltre, i delegati hanno partecipato alla commemorazione dei 40 anni della Federazione delle Donne Greche, mentre il Comitato Greco per la Distensione e la Pace Internazionale ha realizzato una manifestazione aperta al pubblico, in cui la presidente, il segretario generale e i coordinatori regionali del CMP hanno pronunciato brevi discorsi.


=== 3 ===


Versione video: La Notizia di Manlio Dinucci su Pandora TV del 24/5/2016
http://www.pandoratv.it/?p=7956


La strategia golpista di Washington, dal Brasile al Venezuela


di  Manlio Dinucci
RETE VOLTAIRE | ROMA (ITALIA)  | 24 MAGGIO 2016  

Quale collegamento c’è tra società geograficamente, storicamente e culturalmente distanti, dal Kosovo alla Libia e alla Siria, dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Ucraina al Brasile e al Venezuela? Quello di essere coinvolte nella strategia globale degli Stati uniti, esemplificata dalla «geografia» del Pentagono.
Il mondo intero viene diviso in «aree di responsabilità», ciascuna affidata a uno dei sei «comandi combattenti unificati» degli Stati uniti: il Comando Nord copre il Nordamerica, il Comando Sud il Sudamerica, il Comando Europeo la regione comprendente Europa e Russia, il Comando Africa il continente africano, il Comando Centrale Medioriente e Asia Centrale, il Comando Pacifico la regione Asia/Pacifico.
Ai 6 comandi geografici se ne aggiungono 3 operativi su scala globale: il Comando strategico (responsabile delle forze nucleari), il Comando per le operazioni speciali, il Comando per il trasporto. A capo del Comando Europeo c’è un generale o ammiraglio nominato dal presidente degli Stati uniti, che assume automaticamente la carica di Comandante supremo alleato in Europa.
La Nato è quindi inserita nella catena di comando del Pentagono, opera cioè fondamentalmente in funzione della strategia statunitense. Essa consiste nell’eliminare qualsiasi Stato o movimento politico/sociale minacci gli interessi politici, economici e militari degli Stati uniti che, pur essendo ancora la maggiore potenza mondiale, stanno perdendo terreno di fronte all’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali.
Gli strumenti di tale strategia sono molteplici: dalla guerra aperta – vedi gli attacchi aeronavali e terrestri in Iugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia – alle operazioni coperte condotte sia in questi che in altri paesi, ultimamente in Siria e Ucraina. Per tali operazioni il Pentagono dispone delle forze speciali, circa 70000 specialisti che «ogni giorno operano in oltre 80 paesi su scala mondiale». Dispone inoltre di un esercito ombra di contractors (mercenari): in Afghanistan, documenta Foreign Policy [1], i mercenari del Pentagono sono circa 29.000, ossia tre per ogni soldato Usa; in Iraq circa 8.000, due per ogni soldato Usa.
Ai mercenari del Pentagono si aggiungono quelli della tentacolare Comunità di intelligence comprendente, oltre la Cia, altre 15 agenzie federali.
I mercenari sono doppiamente utili: possono assassinare e torturare, senza che ciò sia attribuito agli Usa, e quando sono uccisi i loro nomi non compaiono nella lista dei caduti. Inoltre il Pentagono e i servizi segreti dispongono dei gruppi che essi armano e addestrano, tipo quelli islamici usati per attaccare dall’interno la Libia e la Siria, e quelli neonazisti usati per il colpo di stato in Ucraina.
Altro strumento della stessa strategia sono quelle «organizzazioni non-governative» che, dotate di ingenti mezzi, vengono usate dalla Cia e dal Dipartimento di stato per azioni di destabilizzazione interna in nome della «difesa dei diritti dei cittadini».
Nello stesso quadro rientra l’azione del gruppo Bilderberg [2] — che il magistrato Ferdinando Imposimato denuncia come «uno dei responsabili della strategia della tensione e delle stragi» in Italia [3] — e quella della Open Society dell’«investitore e filantropo George Soros», artefice delle «rivoluzioni colorate».
Nel mirino della strategia golpista di Washington vi sono oggi il Brasile, per minare dall’interno i Brics, e il Venezuela per minare l’Alleanza Bolivariana per le Americhe. Per destabiizzare il Venezuela — indica il Comando Sud in un documento venuto alla luce [4] — si deve provocare «uno scenario di tensione che permetta di combinare azioni di strada con l’impiego dosato della violenza armata».

[1] “Mercenaries Are the Silent Majority of Obama’s Military”, Micah Zenko, Foreign Policy, May 18th, 2016.

[2] “Quel che non sapete del Gruppo Bilderberg”, di Thierry Meyssan, Rete Voltaire, 10 aprile 2011.

[3] “Terrorismo: il giudice Imposimato accusa il Bilderberg”, Traduzione Alessandro Lattanzio, Rete Voltaire, 1 febbraio 2013.

[4] «Operación Venezuela Freedom-2», Red Voltaire , 22 de mayo de 2016.





(hrvatskosrpski / italiano)

IN ONORE DI ŽIVOJIN RADENKOVIĆ "ŽIKA", 1925–2016

SRP (Partito Socialista dei Lavoratori di Croazia), 22 maggio 2016

A Pola mercoledì 18 maggio di quest’anno è morto all’età di 90 anni Živojin Radenković "Žika", uno dei fondatori dell’associazione „Josip Broz Tito“ a Pola e del Partito Socialista dei Lavoratori di Croazia (Socijalistička radnička partija Hrvatske).
Živojin nasce nel 1925 a Strelci, paese nei pressi di  Babušnica, non lontano dal confine con la Bulgaria e dal Parco naturale Stara Planina.
Nel 1943 entra nella Lotta di Liberazione (NOB) dove come combattente dell’Esercito di Liberazione (NOV) della Jugoslavia partecipa alle operazioni militari finali per la liberazione del Paese, inseguendo i traditori interni, contro i quali la lotta è continuata per una settimana intera dopo la capitolazione dei loro alleati e mandanti, le unità degli occupanti nazisti.
Dopo la Liberazione, Živojin a causa della sua modestia rinuncia alla possibilità di entrare nell’Accademia militare in Unione Sovietica, e con ciò anche alla possibilità di costruirsi la carriera, ma resta mobilitato nelle file dell'Esercito Popolare di Liberazione (JNA), esprimendo, nel suo particolare modo, l’impegno a difendere i risultati  ottenuti durante la guerra di Liberazione.
Inizia la sua carriera militare all’aeroporto di Kovin. Qui incontra la futura moglie Milka, con cui si sposa nel 1950. Dal matrimonio nascono tre figli, di cui uno muore quasi subito dopo la nascita.
 
In seguito lavora all’aeroporto di Lubiana, e nel 1953 è inviato a Pola, dove conclude gli studi di Economia. Fino alla pensione nel 1975 lavora all’aeroporto come tecnico.
 
Il suo impegno non è passato inosservato e per i suoi meriti e contributi ha ottenuto i seguenti riconoscimenti:
- Ordine al Merito Militare con spada d'argento.
- Medaglia al Merito Militare
- Medaglia al merito per il Popolo, 2 volte
- Medaglia per il decimo anniversario dell'Esercito Popolare di Jugoslavia.
 
Gli sconvolgenti processi politici degli anni '90 che hanno spazzato via tutti i valori alla cui realizzazione Živojin ha contribuito, partecipando alla creazione di una vita degna dell’essere umano, lo hanno scosso, ma non hanno scardinato  le convinzioni che egli coltivava fin dalla tenera età. Profondamente consapevole della necessità di superare la situazione del momento, e nelle nuove condizioni, negli scontri con chi aveva  punti di vista opposti ha dimostrato una fermezza eccezionale, una capacità elevata di argomentazione e un incredibile coraggio, in tempi e situazioni che avrebbero potuto rivelarsi veramente pericolose per lui.
 
Fedele alla sua visione, a cui ha aderito per tutta la vita, dopo che la Lega dei Comunisti ha tradito il suo ruolo storico e la sua identità di classe – respingendo due dei tre pilastri su cui poggiava, il socialismo come sistema sociale e la Jugoslavia come sistema statale, mantenendo solo l’identità antifascista, trasformandosi in classica organizzazione politica socialdemocratica –, Žika lascia il partito che non rappresentava più modello dei valori cui apparteneva, e passa alla appena costituitasi Lega dei Comunisti - Movimento per la Jugoslavia, in cui è molto attivo.
 
A metà degli anni '90 del secolo scorso con il resto dei suoi compagni lavora all’individuazione di una soluzione per formare una entità politica esplicitamente di classe, conforme ai nuovi criteri di legalità, che si ottiene con l'istituzione del Partito Socialista dei Lavoratori di Croazia, alla cui creazione partecipa attivamente. Con manifesto entusiasmo è anche  coinvolto nel lavoro che precede la costituzione dell'Associazione "Josip Broz Tito" a Pola.
 
Živojin Radenkovic proveniva da una ambiente  modesto e ha mantenuto tale modestia fino alla fine della sua straordinaria vita. Era dotato di uno speciale, oggi così necessario, senso naturale per l’onestà e la  giustizia. I suoi ideali gli facevano superare i sentimenti negativi. Pertanto, non conosceva  il senso di scoraggiamento, di paura, delusione e abbandono. Emanava ottimismo con vivacità e sincerità. Nei suoi ultimi anni, ha dato forza a persone molto più giovani e fisicamente più forti, e le sue motivazioni di principio e rivoluzionarie, le sue argomentazioni  e il suo non essere disponibile ai compromessi, risultavano convincenti e accettabili, sicché  con le sue posizioni originali, la sua concezione della vita e la sua tenacia, ha potuto essere un modello per i più giovani. Perciò è stato per noi un onore averlo avuto nelle nostre file.
 
Onore e gratitudine per Živojin Radenković!


=== ORIG.:


IN MEMORIAM: Radenković Živojin – Žika 1925.-2016.


U Puli je u srijedu 18. svibnja o.g., u 91-oj godini života, preminuo Živojin Radenković – Žika, jedan od osnivača Društva „Josip Broz Tito“ u Puli i Socijalističke radničke partije Hrvatske.

Živojin je rođen 1925. godine u selu Strelcu kod Babušnice, nedaleko bugarske granice i Parka prirode Stara Planina.

1943. godine stupa u NOB gdje kao borac u jedinicama NOV Jugoslavije učestvuje u završnim operacijama za oslobođenje zemlje, goneći domaće izdajnike, s kojima je borba trajala još punih tjedan dana nakon kapitulacije njihovih saveznika i nalogodavaca, okupatorskih nacističkih jedinica.

Nakon oslobođenja, Živojin zbog svoje skromnosti odbija mogućnost odlaska na vojnu akademiju u Sovjetski Savez i gradnju vlastite karijere, ali ostaje mobiliziran u redovima JNA, izrazivši, na njemu svojstven način, opredjeljenje da brani tekovine izborene u NOB-u.

Vojnu službu započinje na aerodromu u Kovinu. Tu upoznaje svoju buduću suprugu Milku s kojom zasniva brak 1950. godine. U braku dobivaju troje djece od kojih jedno gube u najranijoj životnoj dobi.

Sljedeće službovanje mu je na aerodromu u Ljubljani, a 1953. godine biva prekomandiran u Pulu gdje završava Višu ekonomsku školu. Do umirovljenja 1975. godine, službuje na vojnom aerodromu u tehničkoj službi.

Njegova pregnuća nisu ostala nezapažena pa je tako za svoje zasluge i doprinos odlikovan:

-         Ordenom za vojne zasluge sa srebrnim mačevima.

-         Medaljom za vojne zasluge

-         Medaljom zasluge za narod, 2 puta

-         Medaljom za 10. godišnjicu Jugoslavenske Narodne Armije.

Tektonski politički procesi 90-ih koji ruše sve one vrijednosti u čijem stvaranju je i Živojin dao svoj doprinos izgrađujući život dostojan čovjeka, potresli su i njega, ali ga nisu pokolebali niti poljuljali u uvjerenjima koje je gajio od najranije mladosti. Duboko svjestan o potrebi prevazilaženja nastale situacije, a u novonastalim okolnostima, prilikom konfrontacije s pripadnicima suprotnog svjetonazora ispoljavao je vrhunsku nepokolebljivost, korištenje argumenata i zadivljujuću razinu hrabrosti u vremenima i situacijama kad je to moglo biti za njega pogibeljno.

Vjeran opredjeljenjima kojima je pripadao cijelog života, nakon što je Savez komunista izdao svoju povijesnu ulogu i svoj klasni identitet odbacivši dva od tri noseća stupa, socijalizam kao društveno uređenje i Jugoslavenstvo kao državno, zadržavši samo antifašistički identitet transformiravši se u klasičnu socijaldemokratsku političku organizaciju građanske provenijencije, napušta stranku koja više ne zastupa vrijednosni model kojemu on pripada i pristupa novoosnovanom Savezu komunista – Pokretu za Jugoslaviju u kojemu je bio vrlo aktivan.

Sredinom 90-ih godina prošlog stoljeća, s ostalim svojim drugovima radi na iznalaženju rješenja za formiranje političkog subjekta eksplicitno klasno profiliranog koji bi udovoljavao novonastalim kriterijima legalnosti, što je postignuto osnivanjem Socijalističke radničke partije u čijem je stvaranju aktivno učestvovao. S neskrivenim entuzijazmom uključio se u aktivnosti koje su prethodile osnivanju ogranka Društva „Josip Broz Tito“ u Puli.

Živojin Radenković je poticao iz skromne sredine i tu skromnost je zadržao do samog kraja svog osebujnog života. Bio je obdaren posebnim, danas toliko potrebnim, prirodnim osjećajem za poštenje i pravdu. Njegovi ideali nadvisivali su u njemu negativne emocije. Zato on nije poznavao osjećaj malodušnosti, straha, razočaranja i odustajanja. Živo i uvjerljivo emitirao je optimizam. I u svojim poznim godinama, davao je snagu mnogo mlađima i fizičko jačima, a njegove inače principijelne i revolucionarne zahtjeve, argumentacija i beskompromisnost činile su uvjerljivima i prihvatljivima tako da bi sa svojim originalnim stavovima, promišljanjem života i upornošću, mogao biti uzor i mnogo mlađim generacijama. Stoga nam je čast što smo ga imali u našim redovima.

 

Slava i hvala Živojinu Radenkoviću!



(deutsch / english / italiano)

The Era of Revisionism / I: Ukraine

(in ordine cronologico inverso)
1) In Ucraina si riscrive la storia / Die Ära des Revisionismus / The Era of Revisionism (10/5/2016)
2) In Ucraina si scatena la guerra alla memoria dei combattenti contro il nazifascismo (PCU, 24/5/2016)
3) Ucraina: da Vladimir Lenin a John Lennon (FP, 3 Marzo 2016) 
4) Il 14 ottobre ucraino: giornata patriottica con bandiere naziste (F. Poggi, 16/10/2015)


See also / Vedi anche / Auch zu sehen:

[Anche il Museo del Muro di Berlino è impegnato nella propaganda diretta a favore del regime golpista di Kiev e nella raccolta di fondi per le truppe nazieuropeiste che conducono la guerra contro le popolazioni del Donbass]
BITTE TEILEN! HISTORISCHES MAUER-MUSEUM SAMMELT GELD FÜR MÖRDER DER KINDER UND FRAUEN IN DONBASS!! WIR PROTESTIEREN!! (Quelle: FB-Seite von Olga Scholz, March 21 2015)
Wir laden alle für unsere Zivilcourage, für einen Protest gegen die Geldsammelaktion für die ukrainische Armee, die gegen ihr eigenes Volk auf brutalste Weise einen Bürgerkrieg führt, ein! 
Die Protestaktion findet am 23.03. und am 24.03.2015 von 15.00 bis 17.00 Uhr am Berliner Mauermuseum (Haus am Checkpoint Charlie) an der Friedrichstrasse 43-45, Berlin statt. 
Die Chefin des Mauer-Museums, Alexandra Hildebrandt, ist eine Ex-Ukrainerin aus Kiew, hat am 23. und 24. März 2015 „Wohltätigkeitsauktion“ unter dem Deckmantel des Maidans und dem Motto "God Save Ukraine" angekündigt.  https://www.facebook.com/magic.icon.od?fref=photo
Aus der Annonce:
„Am 23. März wird im Berliner Mauermuseum eine Ausstellung und Wohltätigkeitsauktion bzgl. der Gemälde aus der Kollektion „God Save Ukraine“ eröffnet. Die Ausstellung ist den revolutionären Ereignissen auf dem Maidan gewidmet. Die am 24. März durch die Auktion eingenommenen Erlöse werden als finanzielle Hilfe an die ATO-Kämpfer geschickt.
Begleiten Sie uns!“
Zudem sollte man wissen, dass Alexandra Hildebrandt mit Rainer Hildebrandt bis zu seinem Tode verheiratet war. Er war ein Historiker und Publizist, Widerstandskämpfer gegen den Nationalsozialismus, Mitgründer der Kampfgruppe gegen Unmenschlichkeit sowie Gründer des Mauermuseums.
Zur Person Alexandra Hildebrandt 
- http://goo.gl/HzXVvT
Zur Person Rainer Hildebrandt
- http://de.wikipedia.org/wiki/Rainer_Hildebrandt
https://www.facebook.com/olga.scholz/posts/950083231698317

L’UCRAINA REVISIONISTA (Askanews)
Il confronto con la memoria e l’elaborazione dei nodi critici del ‘900 riflettono le spaccature del paese, e hanno ricadute anche sul dialogo con la Polonia...

THE DESTRUCTION OF HISTORY (May 4, 2015 by Andrey Panevin)
... From Ukraine to Berlin the calls to remove Soviet war and historical memorials are growing louder every day. In Ukraine the calls have turned to misguided action as statues of Lenin and those honoring the dead of WWII are being shot at, pulled down and defaced...
http://thebarricade.co/2015/05/04/the-destruction-of-history/

BRITISH EMBASSY FUNDS BANDERA IDEOLOGICAL CLASSES IN THE UKRAINE (StalinLivesTV, 1 gen 2016)
In Krasnoarmesk teachers from the Ukrainian Peacebuilding School funded by the Bristish Embassy in Kiev lead Ukraine Army Officers in an ideological lecture about Ukrainian Nazi collaborator Stepan Bandera.
The event was an evening dedicated to the honouring the memory of Stepan Bandera, reported in the 93rd Separate Mechanized Brigade of the armed forces of Ukraine from Kharkiv and stationed in Krasnoarmesk the capital of Ukrainian Donetsk.
To the meeting also came local teachers and librarians with the guest speaker at the meeting coming from "The Committee of State Ideology" an organisation run by the Executive Committee of the Ukraine Rada.
Krasnoarmeysk is located 50 kilometers from the contact line in the forces of the Donetsk People’s Republic who have been waging a 2 year struggle against the Neo-Nazi Junta in Kiev. In May 2015, Ukrainian President Petro Poroshenko has signed the law of decommunisation in which Ukraine’s largest political party the Communist Party has been banned and the Soviet history of Ukraine is being replaced by a history based on the ideology of Nazi collaborator Stepan Bandera.
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=qenUpMrrPp4

[Fiaccolata nel compleanno di Stepan Bandera a Slavijansk / A torch-lit procession devoted to Stepan Bandera's birthday]
В Славянске день рождения Бандеры отметили факельным шествием (Общественное ТВ Донбасса, 1 gen 2016)
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=FoAmT2vQ-zg


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Sullo stesso tema:
IN UCRAINA SI RISCRIVE LA STORIA (PTV news 10 maggio 2016)

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Die Ära des Revisionismus (I)
 

10.05.2016

KIEW/BERLIN
 
(Eigener Bericht) - Zum 71. Jahrestag der Befreiung Europas von der NS-Terrorherrschaft streitet der ranghöchste Geschichtspolitiker der prowestlich gewendeten Ukraine die NS-Kollaboration der führenden ukrainischen Nationalistenvereinigungen und ihre Beteiligung am Holocaust ab. Die Aussage, die Organisation Ukrainischer Nationalisten (OUN) sowie die Ukrainische Aufstandsarmee (UPA) hätten mit den NS-Aggressoren kollaboriert, sei "Xenophobie"; die Feststellung, sie seien am Holocaust beteiligt gewesen und hätten einen Massenmord an der polnischen Bevölkerung begangen, sei "charakteristisch für sowjetische Propaganda", schreibt der Leiter des "Ukrainischen Instituts für Nationales Gedenken", Wolodimir Wjatrowitsch, in einer aktuellen Stellungnahme. Hintergrund ist scharfe Kritik der US-Zeitschrift "Foreign Policy" an dem zunehmenden Revisionismus in der Ukraine, der bereits während der Amtszeit des prowestlichen Präsidenten Wiktor Juschtschenko regierungsamtlich gefördert und nach dem prowestlichen Umsturz vom Februar 2014 verschärft wurde. "Foreign Policy", bisher stets loyal auf der Seite der Kiewer Umsturzregierung, warnt, die Ukraine könne "auf eine neue und erschreckende Ära der Zensur hinsteuern".
Kiewer Gedenken
Zum 71. Jahrestag der Befreiung Europas von der NS-Terrorherrschaft entbrennt zum wiederholten Male eine harte Auseinandersetzung um die Reinwaschung und Verherrlichung ukrainischer NS-Kollaborateure durch höchste staatliche Stellen in Kiew. Angestoßen hat die Debatte ein Beitrag in der US-Zeitschrift "Foreign Policy", dessen Autor massive Kritik am derzeitigen Leiter des "Ukrainischen Instituts für Nationales Gedenken", Wolodimir Wjatrowitsch, übt. Der Historiker, der als zentrale Gestalt in der aktuellen Kiewer Geschichtspolitik gilt, ruft mit seinen Positionen bereits seit Jahren empörten Protest prominenter Fachkollegen hervor.
Reingewaschen
Wjatrowitsch, geboren 1977, hat sich erstmals im Jahr 2002 als Mitgründer und Leiter des "Zentrums für das Studium der Befreiungsbewegung" im westukrainischen Lwiw einen Namen gemacht. Das Zentrum gilt als Vorfeldorganisation der Organisation Ukrainischer Nationalisten (OUN) im Exil, von der es "finanziert und geführt" wird, wie der Historiker Per Anders Rudling im Gespräch mit german-foreign-policy.com berichtete.[1] Die OUN war der bedeutendste Zusammenschluss der ukrainischen NS-Kollaboration; sie und die ihr nahestehende Ukrainische Aufstandsarmee (UPA) beteiligten sich am Massenmord an den Jüdinnen und Juden auf dem Gebiet der Sowjetunion und massakrierten - mit dem Ziel, eine "ethnisch reine" Ukraine zu erkämpfen - weit über 90.000 Polinnen und Polen.[2] Viele ihrer Mitglieder gingen nach Kriegsende in die Bundesrepublik, in die USA oder nach Kanada ins Exil und setzten dort ihre politischen Aktivitäten, bis 1991 gerichtet gegen die Sowjetunion, fort.[3] Wjatrowitsch publizierte 2006 als Leiter des OUN-"Studienzentrums" in Lwiw ein Buch über "Die Haltung der OUN gegenüber den Juden", in dem er - laut renommierten Historikern gestützt auf krasse Fälschungen - die ukrainische NS-Kollaboration vom Vorwurf des Antisemitismus reinzuwaschen suchte.[4] Im Jahr 2011 erweiterte er seine Revision um eine Schrift, in der er den Massenmord ukrainischer NS-Kollaborateure an der polnischen Bevölkerung als "zweiten polnisch-ukrainischen Krieg" verharmloste.[5]
Gefälscht
Wjatrowitsch hat bereits in der Amtszeit des prowestlichen Präsidenten Wiktor Juschtschenko eine herausragende Rolle in der Kiewer Geschichtspolitik gespielt. Im Jahr 2008 wurde er zum Leiter des ukrainischen Geheimdienstarchivs ernannt, in dem sich eine Vielzahl an Dokumenten über OUN und UPA befinden. Bereits damals hätten er und seine Kollegen gravierende Fälschungen vorgenommen, heißt es nun in der US-Zeitschrift "Foreign Policy"; so hätten sie in ihren Publikationen Wörter, Sätze oder ganze Passagen aus den Quellen ausgelassen, die OUN und UPA belasteten. Neben mehreren weiteren Historikern bestätigt dies Jeffrey Burds, Professor für russische, ukrainische und sowjetische Geschichte an der Bostoner Northeastern University, der die Fälschungen anhand von Kopien der Originale nachweisen kann.[6] "Foreign Policy" scheibt Wjatrowitsch unter anderem Einfluss auf die Neuerstellung von Geschichtsbüchern für die Schulen in der Ukraine zu, die jüngst in deutschen Fachkreisen eine gewisse Aufmerksamkeit fanden. Einer Analyse zufolge stellen drei Schulbücher, die kurz nach dem Ende von Wjatrowitschs Amtszeit als Leiter des Geheimdienstarchivs (2010) fertiggestellt wurden, die OUN, deren Anführer Stepan Bandera und die UPA positiv "als Kämpfer für die ukrainische Unabhängigkeit" dar.[7] Als "Feind" der Ukraine im Zweiten Weltkrieg werde dagegen nicht nur das Deutsche Reich, sondern auch die Sowjetunion bezeichnet. Dies entspricht der Ehrung für die OUN und die UPA, die insbesondere gegen Moskau kämpften.
Geehrt
Vor diesem Hintergrund können sowohl Wjatrowitschs Entlassung beim Geheimdienstarchiv durch den 2010 an die Macht gelangten Präsidenten Wiktor Janukowitsch als auch seine Ernennung zum Leiter des Ukrainischen Instituts für Nationales Gedenken am 25. März 2014 - nur wenige Wochen nach dem prowestlichen Umsturz in Kiew - als programmatische Entscheidungen gelten. In der Tat hat Wjatrowitsch seit 2014 wieder spürbaren Einfluss auf die Geschichtspolitik der ukrainischen Regierung genommen. Diese hat beispielsweise den 14. Oktober zum "Tag des Verteidigers der Ukraine" erklärt; am 14. Oktober gedenkt die ukrainische Rechte traditionell der Gründung der UPA. Neben dem 9. Mai, dem herkömmlichen Feiertag zur Erinnerung an die Befreiung vom NS-Terror, hat sie den 8. Mai zum "Tag der Erinnerung und Versöhnung" gemacht, um, wie es in einer Analyse der ukrainischen Gedenkpolitik heißt, auch "den Befreiungskampf der UPA während und nach dem deutsch-sowjetischen Krieg in das Kriegsnarrativ aufzunehmen".[8] Im April 2015 stufte das Parlament zudem OUN und UPA offiziell als "Kämpfer für die ukrainische Unabhängigkeit" ein; seitdem ist es nicht mehr zulässig, die "Legitimität" ihres "Kampfes für die Unabhängigkeit der Ukraine" abzustreiten. Im Juni 2015 hat das Bildungsministerium eine Direktive erlassen, in der Schullehrer aufgefordert werden, "den Patriotismus und die hohe Moral der Aktivisten der Befreiungsbewegung zu betonen"; dazu gehöre auch, die UPA als ein "Symbol für Patriotismus und Opfergeist" zu ehren und OUN-Führer Stepan Bandera als "herausragenden Repräsentanten" der ukrainischen Bevölkerung hochzuhalten.[9] Die Beispiele ließen sich vermehren.
"Russische Geheimdienste"
Scharfe Kritik kommt nun von der renommierten US-Zeitschrift "Foreign Policy". Wjatrowitschs Bestrebungen, "die moderne Geschichte des Landes neu zu zeichnen, um die Verstrickung ukrainischer Nationalistenorganisationen in den Holocaust und in massenhafte ethnische Säuberungen an Polen während des Zweiten Weltkriegs weißzuwaschen", zeitigten Erfolg, resümiert das Blatt.[10] Mehr noch: Wissenschaftler fürchteten inzwischen "Vergeltung", sollten sie der offiziellen Linie in Sachen OUN und UPA nicht folgen. Unter Wjatrowitschs Einfluss "könnte das Land auf eine neue und erschreckende Ära der Zensur hinsteuern", schreibt der Autor, der darauf verweist, dass ein von rund 70 renommierten Historikern unterzeichneter Protestbrief, der sich im April 2015 gegen die Erklärung von OUN- und UPA-Milizionären zu "Kämpfern für die ukrainische Unabhängigkeit" aussprach, umgehend als Produkt "russischer Geheimdienste" diffamiert wurde und vollkommen wirkungslos verpuffte. Die Kritik von "Foreign Policy" ist umso bemerkenswerter, als die Zeitschrift den prowestlichen Umsturz in Kiew ohne Abstriche verteidigt.
"Sowjetische Propaganda"
In einer wütenden Antwort hat nun Wjatrowitsch selbst zu den Vorwürfen Stellung genommen - und sie dabei ausdrücklich bestätigt. So behauptet er, OUN und UPA hätten "nicht mit den Deutschen kollaboriert". "Anschuldigungen", sie hätten dies getan, seien bloße "Xenophobie"; die Feststellung, sie hätten sich am Holocaust sowie an "ethnischen Säuberungen" - gemeint ist die Ermordung von über 90.000 Polen und Polinnen - beteiligt, seien "charakteristisch für sowjetische Propaganda". Wjatrowitsch fährt fort, es gebe "keine OUN-Dokumente", welche die Beteiligung der Organisation am Massenmord an der jüdischen Bevölkerung Lwiws nach dem Einmarsch der Deutschen Ende Juni 1941 belegten; abgesehen davon sei "die genaue Anzahl" der Juden, die die Ukrainer "während des Holocaust" umgebracht hätten, "immer noch ungeklärt und sicherlich nicht größer" als die Anzahl der Juden, die "andere Nationalitäten" in Kollaboration mit den Deutschen ermordet hätten.[11]
Die Ukraine ist nicht das einzige Land im deutsch dominierten Europa, in dem NS-Kollaborateure von staatlichen Stellen geehrt werden. german-foreign-policy.com berichtet in Kürze.
[1] S. dazu "Wissenschaftliche Nationalisten".
[2] S. dazu Zwischen Moskau und Berlin (IV) und Geehrte Kollaborateure.
[3] S. dazu "Ein Sammelpunkt der OUN".
[4] Per Anders Rudling: The OUN, the UPA and the Holocaust: A Study in the Manufacturing of Historical Myths. The Carl Beck Papers in Russian and East European Studies No. 2107. Pittsburgh, November 2011.
[5] John-Paul Himka: Legislating Historical Truth: Ukraine's Laws of 9 April 2015. net.abimperio.net 21.04.2015.
[6] Josh Cohen: The Historian Whitewashing Ukraine's Past. foreignpolicy.com 02.05.2016.
[7] Lina Klymenko: Historische Narrative und nationale Identität: Der Zweite Weltkrieg in russischen und ukrainischen Geschichtslehrbüchern. In: Ukraine-Analysen Nr. 162, 27.01.2016. S. 13-16.
[8] Dmytro Myeshkov: Die Geschichtspolitik in der Ukraine seit dem Machtwechsel im Frühjahr 2014. In: Ukraine-Analysen Nr. 149, 15.04.2015. S. 17-21.
[9], [10] Josh Cohen: The Historian Whitewashing Ukraine's Past. foreignpolicy.com 02.05.2016.
[11] Volodymyr Viatrovych: Real and fictional history in Ukraine's archives. www.kyivpost.com 09.05.2016.



The Era of Revisionism (I)
 

2016/05/10

KIEV/BERLIN
 
(Own report) - On the 71st Anniversary of Europe's liberation from the Nazi's reign of terror, currently pro-western Ukraine's leading historian - responsible for the official narrative on history - denies that principal Ukrainian nationalist organizations were collaborating with the Nazis and participated in the Holocaust. In a recent commentary, Volodymyr Viatrovych, Director of the "Ukrainian Institute of National Remembrance" calls accusations of the Organization of Ukrainian Nationalists (OUN) and the Ukrainian Insurgent Army (UPA) having collaborated with the Nazi-aggressors, "xenophobia," and the allegation that they had participated in the Holocaust and committed mass murder among the Polish population, "characteristic of Soviet propaganda." The Ukrainian historian wrote his commentary in response to an article published in the US magazine "Foreign Policy." The article sharply criticized Ukraine's growing revisionism - a revisionism that had already been promoted during pro-western President Viktor Yushchenko's term of office and further accentuated in the aftermath of the pro-western coup in 2014. "Foreign Policy," which has always been loyal to Kiev's putschist regime, now warns that Ukraine "could be headed for a new, and frightening, era of censorship."
Kiev's Commemoration
On the 71st Anniversary of Europe's liberation from the Nazi reign of terror, Kiev's top government officials have ignited a new round of sharp controversy over their whitewashing and glorification of Ukrainian Nazi collaborators. A current article in the US magazine "Foreign Policy" started the dispute with its strong criticism of the Director of the "Ukrainian Institute of National Remembrance," Volodymyr Viatrovych. The historian is considered a central figure in Kiev's official policy on history. For years, his standpoints have been provoking indignant protests by prominent historians.
Whitewashed
Viatrovych (born in 1977) first made a name for himself as the co-founder and director of the "Center for Research of Liberation Movement" in Lviv, western Ukraine. The Center is considered to serve as a front for the Organization of Ukrainian Nationalists (OUN) in exile. The center is funded and run by the émigré OUN, as the historian Per Anders Rudling confirmed in an interview with german-foreign-policy.com.[1] The OUN was the most important organization of the Ukrainian Nazi collaborators. Along with the Ukrainian Insurgent Army (UPA), the OUN participated in the mass murder of Jews on Soviet territory and the massacre of more than 90,000 Poles - with the objective of creating an "ethnically pure" Ukraine.[2] Following the war, many OUN members fled into exile to the Federal Repubilc of Germany, the USA or Canada, where they continued their political activities - until 1991, against the Soviet Union.[3] As director of the OUN "Center for Research", Viatrovych published the book "The OUN's position towards the Jews" (in Lviv, 2006), wherein he seeks to whitewash - using blatant forgeries, according to renowned historians - the Ukrainian Nazi-collaboration of its Anti-Semitism stigma.[4] In 2011, he amplified his revisionism with a second book, relativizing the Ukrainian Nazi collaborators' mass murder of Poles as "the second Polish-Ukrainian war."[5]
Falsified
Already during the incumbency of pro-western President Viktor Yushchenko, Viatrovych had played a prominent role in Kiev's historical policies. In 2008, he was appointed to head Ukraine's Intelligence Services Archives, which had contained a large number of documents concerning the OUN and the UPA. Back then, he and his colleagues had committed serious forgeries, according to the US journal "Foreign Policy." In the archive's publications words, sentences, entire paragraphs implicating the OUN and UPA had been removed. Along with other historians, Jeffrey Burds, professor for Russian, Ukrainian and Soviet History at the Northeastern University in Boston, could confirm these forgeries using copies of the original documents.[6] "Foreign Policy" attributes Viatrovych with also having exercised influence in the re-writing of history books for Ukraine's schools, which have recently come to the attention of German historians. According to one analysis, three schoolbooks, published soon after Viatrovych stepped down as head of the Intelligence Service Archives (2010), favorably depicted the OUN, its leader Stepan Bandera and the UPA "as combatants for Ukrainian independence."[7] Not only the German Reich, but also the Soviet Union are presented as Ukraine's "enemies" during World War Two. This corresponds to the commemoration of the OUN and the UPA, who were particularly fighting Moscow.
Honored
In this context, both Viktor Yanukovych's dismissal of Viatrovych from the Intelligence Service Archives - Yanukovych was elected in 2010 - and Viatrovych's appointment as head of the Ukrainian Institute of National Remembrance, March 25, 2014 - just weeks after the pro-western coup in Kiev - can be seen as programmatic decisions. In fact, since 2014, Viatrovych has had considerable influence on the Ukrainian government's historical policy. For example, October 14 has been declared the "Day of the Defenders of Ukraine." This is the same day that Ukrainian fascists traditionally celebrate the founding of the UPA. Alongside the traditional holiday on May 9, in memory of the liberation from Nazi terror, May 8 has been named the "Day of Remembrance and Reconciliation," to also "include the UPA's liberation struggle, during and since the German-Soviet War, into the war narrative," according to an analysis of Ukraine's commemoration policies.[8] In April 2015, the parliament officially designated the OUN and UPA to be "combatants for Ukrainian independence." Since then, it is prohibited to dispute the "legitimacy" of their "struggle for the independence of Ukraine." In June 2015, the Ministry of Education handed down a directive calling upon teachers to accentuate "the patriotism and morality of the activists of the liberation movement," including honoring the UPA as a "symbol of patriotism and sacrificial spirit" and revere the OUN Leader, Stepan Bandera as an "outstanding representative" of the Ukrainian people.[9] There are numerous other examples.
"Russian Intelligence Services"
The renowned US journal "Foreign Policy" has sharply criticized this development. Viatrovych attempts "to redraft the country’s modern history to whitewash Ukrainian nationalist groups’ involvement in the Holocaust and mass ethnic cleansing of Poles during World War II" - and right now, he’s winning, writes the author.[10] Even worse, scholars are beginning to fear "reprisals," should they not uphold the official line on OUN and UPA. Under Viatrovych’s reign, "the country could be headed for a new, and frightening, era of censorship," predicts the author, pointing out that an open letter protesting the April 2015 declaration of the OUN-UPA militias to "combatants for Ukraine's independence," signed by seventy prominent historians fizzled out without effect after it was immediately defamed as a product of "Russian intelligence services." Criticism of "Foreign Policy" is all the more remarkable in that this journal unequivocally supports the pro-western putsch in Kiev.
"Soviet Propaganda"
In a furious response, Viatrovych has now responded to the criticisms - and explicitly confirmed the accusations. He alleges, for example, the OUN and UPA "did not collaborate with the Germans." The "accusations" that they had, is "xenophobia," the assessment that they had participated in the Holocaust and "ethnic cleansing" - referring to the murder of more than 90,000 Poles is "characteristic of Soviet propaganda." Viatrovych continues, "there are no OUN documents" to suggest an active participation in the 1941 Jewish pogrom in Lvov following the late June 1941 German invasion. Besides, "the exact number" of the Jews, Ukrainians killed during the Holocaust "is still unidentified and is certainly no greater" than the number "other nationalities" had killed, who also collaborated in the Holocaust with the Germans.[11]
Ukraine is not the only country in a Germany-dominated Europe, where Nazi collaborators are today being honored officially. german-foreign-policy.com will soon report on other cases.
[1] See "Scientific Nationalists".
[2] See Between Moscow and Berlin (IV) and Honoring Collaborators.
[3] See "Ein Sammelpunkt der OUN".
[4] Per Anders Rudling: The OUN, the UPA and the Holocaust: A Study in the Manufacturing of Historical Myths. The Carl Beck Papers in Russian and East European Studies No. 2107. Pittsburgh, November 2011.
[5] John-Paul Himka: Legislating Historical Truth: Ukraine's Laws of 9 April 2015. net.abimperio.net 21.04.2015.
[6] Josh Cohen: The Historian Whitewashing Ukraine's Past. foreignpolicy.com 02.05.2016.
[7] Lina Klymenko: Historische Narrative und nationale Identität: Der Zweite Weltkrieg in russischen und ukrainischen Geschichtslehrbüchern. In: Ukraine-Analysen Nr. 162, 27.01.2016. S. 13-16.
[8] Dmytro Myeshkov: Die Geschichtspolitik in der Ukraine seit dem Machtwechsel im Frühjahr 2014. In: Ukraine-Analysen Nr. 149, 15.04.2015. S. 17-21.
[9], [10] Josh Cohen: The Historian Whitewashing Ukraine's Past. foreignpolicy.com 02.05.2016.
[11] Volodymyr Viatrovych: Real and fictional history in Ukraine's archives. www.kyivpost.com 09.05.2016.


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In Ucraina si scatena la guerra alla memoria dei combattenti contro il nazifascismo

24 Aprile 2016

Dichiarazione del Partito Comunista di Ucraina
da www.solidnet.org

Traduzione di Marx21.it

In occasione dell'anniversario della Liberazione del nostro paese, intendiamo richiamare l'attenzione dei nostri lettori, dei militanti antifascisti e delle loro organizzazioni, a cominciare dalla gloriosa ANPI alla vigilia del suo Congresso, sull'appello lanciato dal Partito Comunista di Ucraina in difesa della memoria antifascista, in un paese del continente europeo guidato oggi da una giunta nazionalista-oligarchica - arrivata al potere con un colpo di stato appoggiato da USA, UE e NATO e dal baccano dell'apparato mediatico dominante in Occidente -, i cui dirigenti non esitano ad ispirarsi alla peggiore eredità del collaborazionismo con gli aggressori hitleriani, offrendo spazio e copertura alle azioni criminali di bande nazi-fasciste che agiscono nell'impunità, scatenando la violenza più brutale non solo contro gli oppositori politici del regime, ma anche contro gli stessi simboli dell'eroismo antifascista.

Il Partito Comunista di Ucraina rileva che in un certo numero di località del nostro paese criminali nazionalisti radicali, incoraggiati dal regime nazionalista-oligarchico che è salito al potere dopo il colpo incostituzionale del febbraio 2014, è stata scatenata una guerra contro i monumenti ai soldati sovietici, i partigiani e i combattenti nella clandestinità uccisi durante la Seconda Guerra Mondiale. Ciò è in contrasto con le risoluzioni delle Nazioni Unite che condannano la profanazione dei monumenti ai combattenti contro il fascismo, è in contrasto con la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio architettonico d'Europa, firmata dalla maggior parte dei paesi europei, ignora il giudizio prevalente dell'opinione pubblica, le opinioni dei cittadini.

Quasi 450 memoriali sono stati oltraggiati negli ultimi anni. I casi più eclatanti: l'incisione della svastica sul monumento all'Esercito Sovietico a Chervonohrad (regione di Lviv), la profanazione di un Memoriale a un assassinato dai nazisti a Baby Yar, la distruzione della targa commemorativa all'Eroe dell'Unione Sovietica, il pilota Fyor Dudnik, nella regione di Sumy, la distruzione del monumento a trentadue soldati liberatori a Hlynyani nel distretto Zolochiv (regione di Lviv), la ripetuta profanazione del Memoriale delle Vittime dell'Olocausto a Novomoskovsk (regione di Dnepropetrovsk), la distruzione del monumento ai Soldati nella città di Sukhoi Liman (regione di Odessa) e della targa commemorativa all'Eroe dell'Unione Sovietica Vasilevsky Peter a Kharkiv. Il Vialetto degli Eroi a Chernihiv resta distrutto a metà dai vandali. Il Monumento agli Eroi dell'Unione Sovietica nella strada Chopin a Lutsk è tuttora devastato. Il luogo di sepoltura degli Eroi dell'Unione Sovietica a Nikolayev è stato sommerso da olio combustibile. Le tombe dei soldati sovietici sono profanate nel cimitero Smolyansky a Zhitomir. E molti, molti altri simili casi.

Particolare preoccupazione suscitano i discorsi di insegnanti e politici nazionalisti che distorcono la storia della Seconda Guerra Mondiale per giustificare i crimini degli aggressori nazisti e in tal modo  creare le condizioni per la profanazione dei monumenti ai Soldati Sovietici Liberatori. La dichiarazione dell'ex primo ministro Yatsenyuk sull' “invasione sovietica” dell'Ucraina e della Germania o quella del ministro degli Esteri polacco Grzegorz Schetyna in merito alla liberazione di Autschwitz da parte degli “Ucraini” ma non da parte dei soldati dell'Armata Rossa sono disgustose! E che dire poi degli appelli dei deputati del Consiglio Cittadino di Kiev a distruggere il monumento all'Eroe dell'Unione Sovietica, Generale dell'Esercito Nikolay Vatutin, e i simboli sovietici sullo scudo della maestosa scultura monumentale “Madre Patria” a Kiev!

Il Partito Comunista di Ucraina esprime la sua energica protesta contro la profanazione dei monumenti ai soldati sovietici liberatori dalla schiavitù fascista. Richiamiamo l'attenzione di tutti i nostri compagni e amici sulle violazioni della legislazione dell'Ucraina, compresa la Legge dell'Ucraina “sulla memoria perenne della vittoria sul nazismo nella Seconda Guerra Mondiale 1939-1945” che recita: “La profanazione dei monumenti della Seconda Guerra Mondiale del 1939-1945, la loro distruzione o demolizione comporta la responsabilità di fronte alla legge”. Chiediamo l'immediata cessazione della profanazione dei monumenti ai soldati dell'Esercito Sovietico, ai partigiani, ai combattenti nella clandestinità uccisi durante la Grande Guerra Patriottica e la consegna alla giustizia di tutte le personalità ufficiali, compreso il Presidente dell'Ucraina, che attualmente incoraggiano gli estremisti a commettere atti di vandalismo, sostenendo gruppi e attivisti neo-nazisti.

Il Partito Comunista di Ucraina rivolge un appello al popolo dell'Ucraina perché impedisca la revisione degli esiti della Seconda Guerra Mondiale, la falsificazione della storia, la glorificazione del nazismo e dei suoi collaboratori; perché fermi i tentativi di calunniare i soldati sovietici liberatori, perché preservi la memoria riconoscente dell'eroismo immortale del popolo sovietico, vincitore del fascismo.


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Ucraina: da Vladimir Lenin a John Lennon 

(FP, 3 Marzo 2016) Se la Russia non è più Russia, ma Moscovia, allora la sua capitale dovrebbe cambiare nome. Della questione se ne occupano, al solito, a Kiev; così che presto, secondo le Izvestija, il Moskovskij prospekt della capitale ucraina, pardon, dell'antica Rus di Kiev, non si chiamerà più così, bensì prospekt Stepan Bandera. Ne prendano atto alla Duma cittadina della capitale della Moscovia! 
L'idea, come di consueto, viene dall'Istituto ucraino per la memoria nazionale e sembra sia già stata accolta dalla municipalità di Kiev, guidata, ci si passi l'espressione, da Vitalij Kličko. 
Il paradosso, per non parlar d'altro, è che la proposta rientra nel quadro della legge approvata nell'aprile 2015 per la proibizione delle simbologie comunista e nazista, secondo cui, entro il prossimo novembre, quasi 1.000 città e villaggi ucraini dovranno abolire la propria denominazione, che possa in qualche modo ricordare il periodo sovietico, a favore di nomi “neutrali”. Stepan Bandera, appunto: l'eroe la cui data di nascita è oggi festa nazionale in Ucraina; i cui ritratti, circondati da croci uncinate, denti di lupo, tridenti nazionalisti, vengono fatti sfilare per le strade di Kiev nelle marce dei battaglioni neonazisti. Quel Stepan Bandera a capo dell'UPA-UNO che, durante la Seconda guerra mondiale, a fianco dei nazisti tedeschi, guidò le SS ucraine nello sterminio di comunisti sovietici, polacchi, ebrei, tsigani e ucraini.
Più “creativo” il governatore della Transcarpatia, quel Ghennadij Moskal che, quando rappresentava la junta golpista nella parte del Donbass occupata dalle truppe ucraine, per ricatto alla popolazione locale, accusata di simpatizzare per le milizie popolari, adottò il metodo di Bandera, erogando alternativamente “luce al mattino e acqua alla sera”. Ora, sempre in base alla legge sulla “decomunistizzazione”, Moskal ha decretato la ridenominazione delle strade di alcuni villaggi della regione – finora via Kalinin, oppure Kolkhoznaja, o Ščors (eroe della guerra civile) – con nomi di “eroi” dei battaglioni neonazisti morti nel Donbass, scrittori e artisti rumeni e finanche col primo presidente cecoslovacco Masarik. Ma l'apoteosi dell'antipodo linguistico, il banderista Moskal l'ha raggiunta cambiando via Lenin in via John Lennon. Che il rock britannico gliene renda merito!


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Il 14 ottobre ucraino: giornata patriottica con bandiere naziste

•  Venerdì, 16 Ottobre 2015 16:54 
•  Fabrizio Poggi

La famosa foglia di fico, con cui i nostri lontani progenitori, stando alla Genesi, si sarebbero coperti le pudenda uscendo dall'area naturista del paradiso terrestre, esiste per davvero. A volte ne fanno uso gli stessi soggetti interessati; altre volte, vi ricorrono quei misericordiosi che intendono coprire troppo sfacciate uscite dei loro beniamini. Ecco dunque la compassionevole trovata di un media nostrano che, lo scorso 14 ottobre, ha pensato di sfoggiare un Petro Porošenko in panni da aviatore “a bordo di un caccia bombardiere, nella Giornata patriottica che in Ucraina ricorda l'annessione della Crimea alla Russia”. Troppo impresentabile deve esser sembrata, ai nostri, la vera occasione di quel travestimento presidenziale, e così hanno coperto le vergogne come meglio hanno potuto, assestando nel contempo un altro colpetto alla madre di tutti i mali più recenti dell'orbe terraqueo, la Russia.
Peccato che la Russia non c'entri per nulla. Il 14 ottobre, nell'Ucraina golpista, è festa nazionale sì, e anche patriottica – per l'esattezza: Giornata dei difensori della Patria - ma l'unica annessione che possa ricordarsi è quella per cui, nel 1941, '42 e fino al 1944, i nazionalisti, i resti delle bande fasciste e quanto rimaneva dagli anni '20 degli anarco-banditi di Nestor Makhno giubilarono all'arrivo delle truppe naziste, di cui prontamente si misero al servizio, sparando sui soldati dell'Armata Rossa in ritirata e dando poi vita anche alla divisione SS “Galizia”. I nostri devono essersi detti: non è possibile che un paese diventato democratico da più di un anno e mezzo, che ha lottato democraticamente con pistole, carabine e molotov a majdan per entrare nella democratica Unione Europea, uccidendo democraticamente chi vi si opponeva, non è possibile che, il 14 ottobre, volesse “ricordare” altro se non “l'annessione della Crimea alla Russia”. Purtroppo per loro, nemmeno la Crimea c'entra: già da diversi mesi, la democratica Rada ucraina, in cui le questioni si risolvono a mani nude (tra quei democratici, i guantoni li usa solo uno, per giunta sul ring), aveva elevato a festa patriottica nazionale proprio il 14 ottobre, “a ricordo” della fondazione dell'UPA, l'Esercito insurrezionale ucraino, il braccio armato dell'OUN, l'Organizzazione dei nazionalisti ucraini al servizio delle SS, il cui artefice, Stepan Bandera, è oggi “eroe sacro” dell'Ucraina. A dispetto anche di altri media, sempre nostrani, che hanno avuto parole di sincera commozione per quel giovane galiziano, cresciuto “nel primo dopoguerra, subendo in prima persona” sia “le discriminazioni dei polacchi verso gli ucraini”, che l'oppressione dei nefasti bolscevichi, è il caso di ricordare che proprio lui, Stepan Bandera, è stato il capo indiscusso di quelle SS ucraine che l'aviatore Porošenko chiama oggi “difensori della Patria”, che volevano “liberare” l'Ucraina da ebrei e comunisti, sopprimendoli già in tenera età. 
“L'Ucraina sta precipitosamente eroicizzando i fascisti e gli assassini dell'UPA”, scriveva proprio oggi Vesti.ru, in riferimento alla nuova strategia di educazione nazional-patriottica della gioventù fino al 2020, il cui ukaz il cacciabombardiere Porošenko ha firmato alla vigilia del 14 ottobre, esortando a riscrivere i testi di storia per gli studenti. Testi da cui scompariranno, scrive Vesti.ru, gli oltre 60mila polacchi della Volinia massacrati dall'UPA nel 1943, allorché i boia filonazisti “appesero agli alberi corone di bambini assassinati, tracciando in tal modo la strada, come dissero, all'Ucraina indipendente”; mentre faranno la loro comparsa, in veste di eroi, i reparti nazionalisti e collaborazionisti della Karpatskaja Seč e dell'UPA, responsabili dell'uccisione di quasi un milione di persone, civili e militari. E nessuno spiegherà più ai giovani ucraini che la principale parola d'Ordine di majdan “gloria all'Ucraina”, discende dal saluto dell'UPA, copiato sul modello nazista “Heil Hitler”.
Proprio con quelle parole d'ordine, “gloria all'Ucraina”, “ai martiri di majdan” (ma da chi furono presi a fucilate?), “agli eroi dell'Operazione AntiTerrorismo” nel Donbass (ma chi ha fatto il vero terrorismo, massacrando civili, donne e vecchi?) alcune migliaia di neonazisti di Svoboda e Pravyj sektor hanno organizzato anche quest'anno la “marcia degli eroi” nel centro di Kiev, il 14 ottobre, inscenando anche teatrali colpi di petardo tra le proprie file e quelle della polizia, sbandierando vessilli giallo-celesti di Svoboda e rosso-nere di Pravyj sektor, portando ritratti di Stepan Bandera e scandendo slogan come “Bandera è il nostro eroe”.
E la pressione propagandistica e ideologica dei golpisti è tale per cui, secondo le statistiche, se appena due anni fa solo il 27% degli intervisti parlava dell'UPA come di combattenti per l'indipendenza, oggi il numero è quasi raddoppiato; mentre è calata al 38% degli intervistati (era il 52% nel 2013) la percentuale di chi ha un'atteggiamento negativo nei confronti dei combattenti filonazisti.
Davvero una “giornata patriottica”, quella del 14 ottobre; ne prendano atto tutti coloro che plaudono alla “liberazione” dell'Ucraina dai “terroristi” del Donbass, dai sindacalisti bruciati vivi a Odessa; dai deputati e dai giornalisti freddati sulla soglia di casa, dai comunisti messi fuori legge e bastonati.