Informazione


Femmine in vendita

Siamo stati abituati negli ultimi anni alla strumentalizzazione del sentimento femminista a fini di propaganda bellica: basti pensare alle notizie false sugli stupri di massa pianificati, o "etnici", in Bosnia, fatte circolare dall'allora Ministro degli Esteri bosniaco-musulmano Haris Silajdzic per sabotare la Conferenza di Pace di Ginevra (1993). La più recente versione del "femminismo di guerra" è la prostituzione delle FEMEN, gruppo di donne ucraine che si spogliano davanti agli obiettivi delle agenzie di stampa occidentali esibendo messaggi di odio. Due casi dovrebbero destare più sconcerto degli altri: (1) a Odessa il 2 maggio scorso, una di queste mercenarie si è fatta immortalare in aria di sfida mentre alle sue spalle i suoi camerati bruciavano vive decine di persone dentro la Casa dei Sindacati ( http://donneinrosso.wordpress.com/2014/05/18/femen-un-travestimento-firmato-imperialismo/ ); (2) al Museo delle Cere di Parigi il 5 giugno scorso la statua di cera di Vladimir Putin è stata accoltellata con goduria da una signora seminuda che non gradiva la presenza del presidente russo alle celebrazioni per il D-Day ( http://www.krone.at/Welt/Femen-Aktivistin_attackiert_Putin-Wachsfigur-Barbusiger_Anschlag-Story-407097 ). Gli articoli di seguito consentono maggiori approfondimenti su questo fenomeno per nulla spontaneo delle "spogliarelliste con l'elmetto". (a cura di Italo Slavo)

1) Femen: un travestimento firmato imperialismo (18/5/2014)
2) Il Pdci sul documentario sulle Femen presentato al Biografilm Festival (7/6/2014)
3) Com'è che le ragazze a seno nudo di Femen prendono mille euro al dì? (15/3/2013)
4) Femen: rivelazioni veramente scandalose (22/9/2012)


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http://donneinrosso.wordpress.com/2014/05/18/femen-un-travestimento-firmato-imperialismo/

Femen: un travestimento firmato imperialismo

Pubblicato su  18 maggio 2014 da Donne in rosso

di Milena Fiore

Nei mesi scorsi il gruppo Femen, accreditato in Occidente come gruppo femminista all’avanguardia della lotta contro il patriarcato e il fascismo (sono servite a legittimarle alcune azioni dimostrative contro il Fronte nazionale in Francia), è stato parte attiva del movimento contro il governo ucraino, sfociato nel colpo di Stato fascistoide di piazza Majdan. Altrettanto mediatiche sono state le loro performance contro l’immagine del presidente Jankovic: performance caratterizzate non solo da una volgarità estrema ma da un vero e proprio imbarbarimento della lotta politica, segnate da quella umiliazione del nemico che abbiamo già visto nelle foto – certo più drammatiche – di Guantanamo e Abu Ghraib  (per vedere le immagini clicca qui…). Si tratta di metodi e forme di lotta che sono lontani anni luce dalle pratiche del movimento delle donne e che condanniamo sia come femministe che come antifasciste.

A questo proposito. particolare ribrezzo suscita la foto di una componente del gruppo in posa a Odessa, davanti alla sede del sindacato in fiamme, mentre decine di antifascisti venivano arsi vivi e massacrati.

Pensiamo che davanti a queste finte realtà “radical”, che servono ad accreditare a sinistra gruppi apertamente al servizio dell’imperialismo, occorra tenere sveglio il senso critico e denunciare appropriazioni indebite del patrimonio del femminismo e dell’antifascismo da parte di chi ne fa un uso solo strumentale finalizzato a ben altri scopi.

Dalla pagina facebook Premio Goebbels per la disinformazione (https://www.facebook.com/premiogoebbels):

“Le #Femen vengono dipinte in occidente come un gruppo di femministe coraggiose che sfoggiano le loro forme per combattere il maschilismo e l’oppressione patriarcale. In Francia e in altri paesi UE si sono spacciate anche per “antifasciste”, dopo aver protestato contro alcuni raduni del Fronte Nazionale e di altri gruppi di estrema destra. In realtà, in Ucraina, il loro paese d’origine, sono forti e provati i contatti che legano il gruppo fondatore delle Femen ai gruppi neonazisti Svoboda e Right Sector. La foto in alto è stata scattata ad Odessa, durante il rogo nazista contro la Casa dei Sindacati, in cui hanno perso la vita decine, forse centinaia, di persone. Quelle in basso, invece, ritraggono le Femen accanto ad esponenti di Svoboda.”

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http://pdcibologna.blogspot.it/2014/06/il-pdci-sul-documentario-sulle-femen.html

sabato 7 giugno 2014

Il Pdci sul documentario sulle Femen presentato al Biografilm Festival

Arriva oggi a Bologna, all'interno del Biografilm Festival, il film sulle Femen, un collettivo femminista ucraino, molto pubblicizzato da tutti i media.
Il Pdci mette in guardia lavoratori e studenti da questo mezzo di propaganda politica al servizio di interessi euro-atlantici.

Il curriculum delle Femen mostra ormai anche ai più disinformati di  quali sostegni internazionali disponga questo gruppo. Solo un silenzio colpevole dei grandi media impedisce che queste informazioni siano rese disponibili al grande pubblico.
 
Come documenta il sito Marx 21 (di cui alleghiamo i link alla fine) queste attiviste vengono pagate1'000 euro al mese (il triplo di quello che prende un lavoratore ucraino), organizzano proteste a Parigi che costano 1'000 euro al giorno a testa. I finanziamenti sembrano arrivare dal miliardario tedesco Helmut Geier, dall’imprenditrice tedesca Beate Schober e dall’uomo d'affari americano Jed Sunden.
 
Negli ultimi mesi si sono caratterizzate per il sostegno al colpo di stato in Ucraina messo in atto dai nazi-fascisti presenti in Piazza Maydan e dalla loro presenza a Odessa, dove i nazisti hanno bruciato vive decine di persone dentro la Casa dei Sindacati (dopo aver struprato le donne).
 
Ci permettiamo un'ultima osservazione. Il documentario si intitola "L'Ucraina non è un bordello". Non possiamo che osservare che l'Ucraina lo è diventata quando le conquiste del socialismo sono state gettate via dai nuovi padroni di Kiev, i grandi capitalisti, per i quali tutto è una merce da vendere e da comprare, compreso il corpo e la dignità di donne gettate sul lastrico dalla contro rivoluzione dell''89.



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http://www.marx21.it/internazionale/area-ex-urss/21943-come-che-le-ragazze-a-seno-nudo-di-femen-prendono-mille-euro-al-di.html

Com'è che le ragazze a seno nudo di Femen prendono mille euro al dì?

di Luigi De Biase | da il Foglio
del 15 marzo 2013

L’ultima azione è stata martedì all’ingresso di San Pietro e c’è voluta la polizia per fermare le ragazze di Femen, il gruppo che protesta ormai da tempo senza vestiti in ogni grande città d’Europa. In Vaticano erano in due, si sono tolte le magliette, hanno mostrato la scritta “No more Pope” stampata sulla pancia e si sono messe a sventolare un fumogeno color porpora: un vigile ha cercato di coprirle con il giaccone e lo sforzo è stato vano, così è servito qualche agente per convincerle a salire su una camionetta con maniere un po’ meno galanti. Non è la prima volta che le Femen si spogliano a Roma, lo hanno fatto nel 2011 per chiedere la fine del governo Berlusconi e sono tornate adesso che il Conclave si riunisce per eleggere il Papa, insomma, non si può dire che siano a corto di senso della notizia. A Parigi, la città che ospita il loro “centro d’addestramento”, le ragazze sono trattate come le celebrità, come una piccola avanguardia del femminismo chic, e forse è per questo che il proprietario di un teatro nel quartiere del Goutte d’Or ha deciso di ospitarle senza chiedere un euro d’affitto (Goutte d’Or non è il posto in cui passare un weekend romantico, ma è sempre meglio di niente).
In Ucraina, il paese in cui le Femen sono nate, hanno un’opinione diversa. Lo scorso autunno una reporter del canale tv 1+1 s’è arruolata nel gruppetto per un mese e ha trovato notizie interessanti (per farlo s’è dovuta immedesimare, ha anche partecipato a qualche azione senza reggiseno, come ha poi raccontato alle telecamere). Una riguarda gli interessi del gruppo: a quanto sembra l’attività delle Femen è ben retribuita, ogni dimostrante ha uno stipendio di mille euro al mese e chi lavora nella sede di Kiev arriva a 2.500 (il salario medio in Ucraina non supera i 500 euro). Le spese a Parigi sarebbero più alte, si parla di mille euro al giorno per ogni ragazza, e la reporter di 1+1 dice di avere le idee chiare anche sull’origine di quella fortuna: Femen avrebbe rapporti solidi con un uomo d’affari americano con molti interessi a Kiev, un certo Jed Sunden, e con due ricconi tedeschi.

In effetti il gruppo è ben organizzato, ha punti d’appoggio in tutta Europa e si pensa che presto ne avrà anche in Canada, negli Stati Uniti, in Brasile e in Israele. La prima protesta è stata nel 2008 ed era contro la prostituzione giovanile, ma in poco tempo le Femen hanno cominciato a occuparsi di politica, di fede e persino di economia, prima in Ucraina e poi all’estero. Il problema è che nessuno ha mai capito bene quale sia il punto delle loro azioni (una volta hanno rincorso il patriarca russo sulla pista dell’aeroporto di Kiev). A volte i loro annunci somigliano un po’ ai messaggi dei ribelli ceceni: cinque anni fa c’erano soltanto tre studentesse ucraine, Anna, Oksana e Inna, nel giro di due anni le attiviste sono diventate 320, “venti in topless e trecento completamente vestite”, come diceva una nota del gruppo, ma lo scorso autunno le tre ambasciatrici hanno annunciato di avere un esercito con oltre cento militanti pronte a togliersi i vestiti da Londra a Roma in nome della libertà. E’ così che Femen è diventato il club femminista più influente d’Europa, almeno sul piano dell’immagine. La loro società ha una pagina Facebook con migliaia di contatti, un account su Twitter, un sito internet in tre lingue diverse: lì si trovano filmati, interviste, magliette (25 euro), colori per il corpo (un kit 70 euro), felpe, tazze e cappelli (dai 20 ai 60 euro). Il 7 marzo, alla vigilia della giornata delle donne, un libro con la storia di Femen è arrivato sugli scaffali delle librerie francesi e ci sono state feste e brindisi al teatro di Goutte d’Or. Naturalmente esistono anche i problemi, gli arresti, le denunce e le minacce, soprattutto per le proteste in Ucraina, in Russia e in Bielorussia. Ma quando le cose si mettono male, c’è sempre qualcuno pronto a chiamarle “dissidenti”.

© - FOGLIO QUOTIDIANO


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http://italian.ruvr.ru/2012_09_22/FEMEN-rivelazioni-veramente-scandalose/

FEMEN: rivelazioni veramente scandalose

Vladimir Sinelnikov

22 settembre 2012

Una giornalista di un canale televisivo ucraino è riuscita ad infiltrarsi nel controverso movimento femminista FEMEN.

La ragazza è entrata a far parte dell'organizzazione, dichiarandosi convinta sostenitrice delle loro idee e partecipava personalmente alle azioni di protesta in topless, registrando il tutto con una telecamera nascosta. Si è scoperto che dietro gli ideali di emancipazione femminile in realtà ci sono finanziatori dell’Europa e degli Stati Uniti.
Per smascherare FEMEN la giovane giornalista si è dovuta “sacrificare” partecipando alle loro azioni in topless. Per settimane era stata addestrata per come tenere un comportamento aggressivo e come attrarre l'attenzione dei giornalisti fingendo di essere una vittima innocente del “sistema sessista”. Cosa più importante le è stato insegnato come mostrare davanti la telecamera il suo seno.
Il debutto in topless della giornalista è avvenuto a Parigi dove FEMEN aveva recentemente aperto un nuovo ufficio di rappresentanza. Alcune attiviste hanno organizzato una manifestazione nel loro stile mostrando il seno davanti il centro culturale islamico parigino. La giornalista era terrorizzata, respirava l’odio della gente che sentiva derisa la propria fede:
L'azione dimostrativa si sta svolgendo presso un centro culturale islamico e riteniamo che la folla sia pronta ad assalirci, ci salvano solo le telecamere dei giornalisti.
Il viaggio a Parigi è stato pagato direttamente dal movimento FEMEN alla giornalista. I biglietti d’aereo, le camere d'albergo, il taxi e i pasti erano stati quantificati in 1.000 euro al giorno, a parte ma sempre a “costo zero” le spese per gli estetisti e la cosmetica.
Inoltre si è scoperto che le attiviste di FEMEN sono pagate almeno un migliaio di dollari al mese, quasi tre volte il salario medio ucraino. Inoltre il personale a Kiev guadagna circa 2.000 dollari al mese mentre quello della sede parigina diverse migliaia di euro al mese.
Chi così generosamente finanzia questo movimento e quale sia lo sponsor che pubblicizzano le ragazze mostrando il loro seno, rimane avvolto nella nebbia, come si suol dire “mistero della fede”. Si possono solo fare delle ipotesi. La giornalista suggerisce che alcune note persone si sono incontrate con le leader del movimento. Si tratta del miliardario tedesco Helmut Geier, l’imprenditrice tedesca Beate Schober e l’uomo d'affari americano Jed Sunden. L’ultimo sponsor delle FEMEN forse è Wikipedia.




Débarquement en Normandie

1) Le débarquement du 6 juin 1944 du mythe d’aujourd’hui à la réalité historique (Annie Lacroix-Riz)
2) 6 juin 44 : ce qu’on ne vous dira pas (Michel Collon)


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Le débarquement du 6 juin 1944 du mythe d’aujourd’hui à la réalité historique

Par Annie Lacroix-Riz, historienne

Le triomphe du mythe de la libération américaine de l’Europe

En juin 2004, lors du 60e anniversaire (et premier décennal célébré au XXIe siècle) du « débarquement allié » en Normandie, à la question« Quelle est, selon vous, la nation qui a le plus contribué à la défaite de l’Allemagne » l’Ifop afficha une réponse strictement inverse de celle collectée en mai 1945 : soit respectivement pour les États-Unis, 58 et 20%, et pour l’URSS, 20 et 57% [1]. Du printemps à l’été 2004 avait été martelé que les soldats américains avaient, du 6 juin 1944 au 8 mai 1945, sillonné l’Europe « occidentale » pour lui rendre l’indépendance et la liberté que lui avait ravies l’occupant allemand et que menaçait l’avancée de l’armée rouge vers l’Ouest. Du rôle de l’URSS, victime de cette « très spectaculaire [inversion des pourcentages] avec le temps » [2], il ne fut pas question. Le (70e) cru 2014 promet pire sur la présentation respective des « Alliés » de Deuxième Guerre mondiale, sur fond d’invectives contre l’annexionnisme russe en Ukraine et ailleurs [3].

La légende a progressé avec l’expansion américaine sur le continent européen planifiée à Washington depuis 1942 et mise en œuvre avec l’aide du Vatican, tuteur des zones catholiques et administrateur, avant, pendant et après la Deuxième Guerre mondiale de la « sphère d’influence “occidentale” » [4]. Conduite en compagnie de et en concurrence avec la RFA (puis l’Allemagne réunifiée), cette poussée vers l’Est a pris un rythme effréné depuis la « chute du Mur de Berlin » (1989) : elle a pulvérisé les « buts de guerre » que Moscou avait revendiqués en juillet 1941 et atteints en 1944 (récupération du territoire de 1939-1940) et 1945 (acquisition d’une sphère d’influence recouvrant l’ancien « cordon sanitaire » d’Europe centrale et orientale, vieille voie germanique d’invasion de la Russie) [5]. Le projet américain avançait si vite qu’Armand Bérard, diplomate en poste à Vichy et, après la Libération, conseiller d’ambassade à Washington (décembre 1944) puis à Bonn (août 1949), prédit en février 1952 : « les collaborateurs du Chancelier [Adenauer] considèrent en général que le jour où l’Amérique sera en mesure de mettre en ligne une force supérieure, l’URSS se prêtera à un règlement dans lequel elle abandonnera les territoires d’Europe Centrale et Orientale qu’elle domine actuellement. » [6] Les prémonitions, alors effarantes, de Bérard-Cassandre, sont en mai-juin 2014 dépassées : l’ancienne URSS, réduite à la Russie depuis 1991, est menacée à sa porte ukrainienne.

L’hégémonie idéologique « occidentale » accompagnant ce Drang nach Osten a été secondée par le temps écoulé depuis la Deuxième Guerre mondiale. Avant la Débâcle, « l’opinion française » s’était fait « dindonn[er] par les campagnes “idéologiques” » transformant l’URSS en loup et le Reich en agneau. La grande presse, propriété du capital financier, l’avait persuadée que l’abandon de l’alliée tchécoslovaque lui vaudrait préservation durable de la paix. « Une telle annexion sera et ne peut être qu’une préface à une guerre qui deviendra inévitable, et au bout des horreurs de laquelle la France courra le plus grand risque de connaître la défaite, le démembrement et la vassalisation de ce qui subsistera du territoire national comme État en apparence indépendant », avait averti, deux semaines avant Munich, une autre Cassandre du haut État-major de l’armée [7]. Trompée et trahie par ses élites, « la France » connut le destin prévu mais ses ouvriers et employés, subissant 50% de baisse des salaires réels et perdant 10-12 kg entre 1940 et 1944, se laissèrent moins« dindonn[er] par les campagnes “idéologiques” ».

Ils perçurent certes les réalités militaires plus tard que « les milieux bien informés », mais, en nombre croissant au fil des mois, ils suivirent sur les atlas ou les cartes de la presse collaborationniste l’évolution du « front de l’Est ». Ils comprirent que l’URSS, qui réclamait en vain depuis juillet 1941 l’ouverture, à l’Ouest, d’un « second front » allégeant son martyre, portait seule le poids de la guerre. L’« enthousiasme » que suscita en eux la nouvelle du débarquement anglo-américain en Afrique du Nord (8 novembre 1942) était « éteint » au printemps suivant : « Aujourd’hui tous les espoirs sont tournés vers la Russie dont les succès remplissent de joie la population tout entière […] Toute propagande du parti communiste est devenue inutile […] la comparaison trop facile entre l’inaction inexplicable des uns et l’héroïque activité des autres prépare des jours pénibles à ceux qui s’inquiètent du péril bolchevique », trancha un rapport d’avril 1943 destiné au BCRA gaulliste [8].

Si duper les générations qui avaient conservé le souvenir du conflit était délicat, l’exercice est aujourd’hui devenu aisé. À la disparition progressive de ses témoins et acteurs s’est ajouté l’effondrement du mouvement ouvrier radical. Le PCF, « parti des fusillés », a longtemps informé largement, bien au-delà de ses rangs, sur les réalités de cette guerre. Ce qui en demeure en traite moins volontiers dans sa presse, elle-même en voie de disparition, voire bat sa coulpe sur le passé « stalinien » contemporain de sa Résistance. L’idéologie dominante, débarrassée d’un sérieux obstacle, a conquis l’hégémonie sur ce terrain comme sur les autres. La sphère académique n’oppose plus rien (voire s’associe) à l’intoxication déchaînée dans la presse écrite et audiovisuelle ou le cinéma [9]. Or, les préparatifs et objectifs du 6 juin 1944 ne sont éclairés ni par le film Il faut sauver le soldat Ryan ni par le long documentaire Apocalypse.

La Pax Americana vue par Armand Bérard en juillet 1941

C’est bien avant le « tournant » de Stalingrad (janvier-février 1943) que les élites françaises saisirent les conséquences américaines de la situation militaire née de la « résistance […] farouche du soldat russe ». En témoigne le rapport daté de la mi-juillet 1941 que le général Paul Doyen, président de la délégation française à la Commission allemande d’armistice de Wiesbaden, fit rédiger par son collaborateur diplomatique Armand Bérard [10] :

1° Le Blitzkrieg était mort. « Le tour pris par les opérations » contredisait le pronostic des « dirigeants [du] IIIème Reich [qui…] n’avaient pas prévu une résistance aussi farouche du soldat russe, un fanatisme aussi passionné de la population, une guérilla aussi épuisante sur les arrières, des pertes aussi sérieuses, un vide aussi complet devant l’envahisseur, des difficultés aussi considérables de ravitaillement et de communications.

Les batailles gigantesques de tanks et d’avions, la nécessité, en l’absence de wagons à écartement convenable, d’assurer par des routes défoncées des transports de plusieurs centaines de kilomètres entraînent, pour l’Armée allemande, une usure de matériel et une dépense d’essence qui risquent de diminuer dangereusement ses stocks irremplaçables de carburants et de caoutchouc. Nous savons que l’État-Major allemand a constitué trois mois de réserves d’essence. II faut qu’une campagne de trois mois lui permette de réduire à merci le communisme soviétique, de rétablir l’ordre en Russie sous un régime nouveau, de remettre en exploitation toutes les richesses naturelles du pays et en particulier les gisements, du Caucase. Cependant, sans souci de sa nourriture de demain, le Russe incendie au lance-flamme ses récoltes, fait sauter ses villages, détruit son matériel roulant, sabote ses exploitations ».

2° Le risque d’une défaite allemande (longuement détaillé par Bérard) contraignait les maîtres de la France à rallier un autre protecteur que l’impérialisme « continental » choisi depuis la « Réconciliation » des années 1920. Un tel tournant s’avérant impossible « dans les mois à venir », on passerait avec doigté de l’hégémonie allemande à l’américaine, inéluctable. Car « déjà les États-Unis sont sortis seuls vainqueurs de la guerre de 1918 : ils en sortiront plus encore du conflit actuel. Leur puissance économique, leur haute civilisation, le chiffre de leur population, leur influence croissante sur tous les continents, l’affaiblissement des États européens qui pouvaient rivaliser avec eux font que, quoi qu’il arrive, le monde devra, dans les prochaines décades, se soumettre à la volonté des États-Unis. » [11] Bérard distinguait donc dès juillet 1941 le futur vainqueur militaire soviétique – que le Vatican identifia clairement peu après [12] ‑, que la guerre d’attrition allemande épuiserait, du « seul vainqueur », par « puissance économique », qui pratiquerait dans cette guerre comme dans la précédente la « stratégie périphérique ».

« Stratégie périphérique » et Pax Americana contre l’URSS

Les États-Unis, n’ayant jamais souffert d’occupation étrangère ni d’aucune destruction depuis la soumission du Sud agricole (esclavagiste) au Nord industriel, avaient cantonné leur armée permanente à des missions aussi impitoyables qu’aisées, avant (et éventuellement depuis) l’ère impérialiste : liquidation des populations indigènes, soumission de voisins faibles (« l’arrière-cour » latino-américaine) et répression intérieure. Pour l’expansion impériale, la consigne du chantre de l’impérialisme Alfred Mahan ‑ développer indéfiniment la Marine ‑, s’était enrichie sous ses successeurs des mêmes prescriptions concernant l’aviation [13]. Mais la modestie de leurs forces armées terrestresdictait leur incapacité dans un conflit européen. Victoire une fois acquise par pays interposé, fournisseur de la « chair à canon » (« canon fodder »), des forces américaines tardivement déployées investiraient, comme à partir du printemps 1918, le territoire à contrôler : désormais, ce serait à partir de bases aéronavales étrangères, celles d’Afrique du Nord s’ajoutant depuis novembre 1942 aux britanniques [14].

L’Entente tripartite (France, Angleterre, Russie) s’était en 1914 partagé le rôle militaire, finalement dévolu, vu le retrait russe, à la France surtout. C’est l’URSS seule qui l’assumerait cette fois dans une guerre américaine qui, selon l’étude secrète de décembre 1942 du Comité des chefs d’États-majors interarmées (Joint Chiefs of Staff, JCS), se fixait pour norme d’« ignorer les considérations de souveraineté nationale » des pays étrangers. En 1942-1943, le JCS 1° tira du conflit en cours (et du précédent) la conclusion que la prochaine guerre aurait « pour épine dorsale les bombardiers stratégiques américains » et que, simple « instrument de la politique américaine, une armée internationale » chargée des tâches subalternes (terrestres) « internationaliserait et légitimerait la puissance américaine » ; et 2° dressa l’interminable liste des bases d’après-guerre sillonnant l’univers, colonies des « alliés » comprises (JCS 570) : rien ne pourrait nous conduire à « tolérer des restrictions à notre capacité à faire stationner et opérer l’avion militaire dans et au-dessus de certains territoires sous souveraineté étrangère », trancha le général Henry Arnold, chef d’état-major de l’Air, en novembre 1943 [15].

La « Guerre froide » transformant l’URSS en « ogre soviétique » [16] débriderait les aveux sur la tactique subordonnant l’usage de la « chair à canon » des alliés (momentanés) aux objectifs des « bombardements stratégiques américains ». En mai 1949, Pacte atlantique signé (le 4 avril), Clarence Cannon, président de la commission des Finances de la Chambre des Représentants (House Committee on Appropriations) glorifia les fort coûteux « bombardiers terrestres de grand raid capables de transporter la bombe atomique qui “en trois semaines auraient pulvérisé tous les centres militaires soviétiques” » et se félicita de la « contribution » qu’apporteraient nos « alliés […] en envoyant les jeunes gens nécessaires pour occuper le territoire ennemi après que nous l’aurons démoralisé et anéanti par nos attaques aériennes. […] Nous avons suivi un tel plan pendant la dernière guerre » [17].

Les historiens américains Michael Sherry et Martin Sherwin l’ont montré : c’est l’URSS, instrument militaire de la victoire, qui était la cible simultanée des futures guerres de conquête – et non le Reich, officiellement désigné comme ennemi « des Nations unies » [18]. On comprend pourquoi en lisant William Appleman Williams, un des fondateurs de « l’école révisionniste » (progressiste) américaine. Sa thèse sur « les relations américano-russes de 1781 à 1947 » (1952) a démontré que l’impérialisme américain ne supportait aucune limitation à sa sphère d’influence mondiale, que la « Guerre froide », née en 1917 et non en 1945-1947, avait des fondements non idéologiques mais économiques, et que la russophobie américaine datait de l’ère impérialiste [19]. « L’entente [russo-américaine] lâche et informelle […] s’était rompue sur les droits de passage des chemins de fer [russes] de Mandchourie méridionale et de l’Est chinois entre 1895 et 1912 ». Les Soviets eurent au surplus l’audace d’exploiter eux-mêmes leur caverne d’Ali Baba, soustrayant aux capitaux américains leur immense territoire (22 millions de km2). Voilà ce qui généra « la continuité, de Theodore Roosevelt et John Hay à Franklin Roosevelt en passant par Wilson, Hugues et Hoover, de la politique américaine en Extrême-Orient » [20] ‑ mais aussi en Afrique et en Europe, autres champs privilégiés « d’un partage et d’un repartage du monde » [21] américains renouvelés sans répit depuis 1880-1890.

Washington prétendait opérer ce « partage-repartage » à son bénéfice exclusif, raison fondamentale pour laquelle Roosevelt mit son veto à toute discussion en temps de guerre avec Staline et Churchill sur la répartition des « zones d’influence ». L’arrêt des armes lui assurerait la victoire militaire à coût nul, vu l’état pitoyable de son grand rival russe, ravagé par l’assaut allemand [22]. En février-mars 1944, le milliardaire Harriman, ambassadeur à Moscou depuis 1943, s’accordait avec deux rapports des services « russes » du Département d’État (« Certains aspects de la politique soviétique actuelle » et « La Russie et l’Europe orientale ») pour penser que l’URSS, « appauvrie par la guerre et à l’affût de notre assistance économique […,] un de nos principaux leviers pour orienter une action politique compatible avec nos principes », n’aurait même pas la force d’empiéter sur l’Est de l’Europe bientôt américaine. Elle se contenterait pour l’après-guerre d’une promesse d’aide américaine, ce qui nous permettrait « d’éviter le développement d’une sphère d’influence de l’Union Soviétique sur l’Europe orientale et les Balkans » [23]. Pronostic manifestant un optimisme excessif, l’URSS n’ayant pas renoncé à s’en ménager une.

La Pax Americana dans le tronçon français de la zone d’influence

Les plans de paix synarchique…

Ce « levier » financier était, tant à l’Ouest qu’à l’Est, « une des armes les plus efficaces à notre disposition pour influer sur les événements politiques européens dans la direction que nous désirons » [24].

En vue de cette Pax Americana, la haute finance synarchique, cœur de l’impérialisme français particulièrement représenté outre-mer – Lemaigre-Dubreuil, chef des huiles Lesieur (et de sociétés pétrolières), le président de la banque d’Indochine Paul Baudouin, dernier ministre des Affaires étrangères de Reynaud et premier de Pétain, etc. –, négocia, plus activement depuis le second semestre 1941, avec le financier Robert Murphy, délégué spécial de Roosevelt en Afrique du Nord. Futur premier conseiller du gouverneur militaire de la zone d’occupation américaine en Allemagne et un des chefs des services de renseignements, de l’Office of Strategic Services (OSS) de guerre à la Central Intelligence Agency de 1947, il s’était installé à Alger en décembre 1940. Ce catholique intégriste y préparait le débarquement des États-Unis en Afrique du Nord, tremplin vers l’occupation de l’Europe qui commencerait par le territoire français quand l’URSS s’apprêterait à franchir ses frontières de 1940-1941 pour libérer les pays occupés [25]. Ces pourparlers secrets furent tenus en zone non occupée, dans « l’empire », via les « neutres », des pro-hitlériens Salazar et Franco, sensibles aux sirènes américaines, aux Suisses et aux Suédois, et via le Vatican, aussi soucieux qu’en 1917-1918 d’assurer une paix douce au Reich vaincu. Prolongés jusqu’à la fin de la guerre, ils inclurent dès 1942 des plans de « retournement des fronts », contre l’URSS, qui percèrent avant la capitulation allemande [26] mais n’eurent plein effet qu’après les 8-9 mai 1945.

Traitant d’affaires économiques immédiates (en Afrique du Nord) et futures (métropolitaines et coloniales pour l’après-Libération) avec les grands synarques, Washington comptait aussi sur eux pour évincer de Gaulle, également haï des deux parties. En aucun cas parce qu’il était une sorte de dictateur militaire insupportable, conformément à une durable légende, au grand démocrate Roosevelt. De Gaulle déplaisait seulement parce que, si réactionnaire qu’il eût été ou fût, il tirait sa popularité et sa force de la Résistance intérieure (surtout communiste) : c’est à ce titre qu’il entraverait la mainmise totale des États-Unis, alors qu’un « Vichy sans Vichy » offrirait des partenaires honnis du peuple, donc aussi dociles « perinde ac cadaver » aux injonctions américaines qu’ils l’étaient aux ordres allemands. Cette formule américaine, finalement vouée à l’échec vu le rapport de forces général et français, eut donc pour héros successifs, de 1941 à 1943, les cagoulards vichystes Weygand, Darlan puis Giraud, champions avérés de dictature militaire [27], si représentatifs du goût de Washington pour les étrangers acquis à la liberté de ses capitaux et à l’installation de ses bases aéronavales [28].

On ne s’efforçait pas d’esquiver de Gaulle pour subir les Soviets : épouvantés par l’issue de la bataille de Stalingrad, les mêmes financiers français dépêchèrent aussitôt à Rome leur tout dévoué Emmanuel Suhard, instrument depuis 1926 de leurs plans de liquidation de la République. Le cardinal-archevêque (de Reims) avait été, la Cagoule ayant opportunément en avril 1940 liquidé son prédécesseur Verdier, nommé à Paris en mai juste après l’invasion allemande (du 10 mai) : ses mandants et Paul Reynaud, complice du putsch Pétain-Laval imminent, l’envoyèrent amorcer à Madrid le 15 mai, via Franco, les tractations de « Paix » (capitulation) avec le Reich [29]. Suhard fut donc à nouveau chargé de préparer, en vue de la Pax Americana, les pourparlers avec le nouveau tuteur : il devait demander à Pie XII de poser « à Washington », via Myron Taylor, ancien président de l’US Steel et depuis l’été 1939 « représentant personnel » de Roosevelt « auprès du pape », « la question suivante : “Si les troupes américaines sont amenées à pénétrer en France, le gouvernement de Washington s’engage-t-il à ce que l’occupation américaine soit aussi totale que l’occupation allemande  ?” », à l’exclusion de toute « autre occupation étrangère (soviétique). Washington a répondu que les États-Unis se désintéresseraient de la forme future du gouvernement de la France et qu’ils s’engageaient à ne pas laisser le communisme s’installer dans le pays » [30]. La bourgeoisie, nota un informateur du BCRA fin juillet 1943, « ne croyant plus à la victoire allemande, compte […] sur l’Amérique pour lui éviter le bolchevisme. Elle attend le débarquement anglo-américain avec impatience, tout retard lui apparaissant comme une sorte de trahison ». Ce refrain fut chanté jusqu’à la mise en œuvre de l’opération « Overlord » [31].

… contre les espérances populaires

Au « bourgeois français [qui avait] toujours considéré le soldat américain ou britannique comme devant être naturellement à son service au cas d’une victoire bolchevique », les RG opposaient depuis février 1943 « le prolétariat », qui exultait : « les craintes de voir “sa” victoire escamotée par la haute finance internationale s’estompent avec la chute de Stalingrad et l’avance générale des soviets » [32]. De ce côté, à la rancœur contre l’inaction militaire des Anglo-Saxons contre l’Axe s’ajouta la colère provoquée par leur guerre aérienne contre les civils, ceux des « Nations unies » compris. Les « bombardements stratégiques américains », ininterrompus depuis 1942, frappaient les populations mais épargnaient les Konzerne partenaires, IG Farben en tête comme le rapporta en novembre « un très important industriel suédois en relations étroites avec [le géant chimique], retour d’un voyage d’affaires en Allemagne » : à Francfort, « les usines n’ont pas souffert », à Ludwigshafen, « les dégâts sont insignifiants », à Leverkusen, « les usines de l’IG Farben […] n’ont pas été bombardées » [33].

Rien ne changea jusqu’en 1944, où un long rapport de mars sur « les bombardements de l’aviation anglo-américaine et les réactions de la population française » exposa les effets de « ces raids meurtriers et inopérants » : l’indignation enflait tant depuis 1943 qu’elle ébranlait l’assise du contrôle américain imminent du territoire. Depuis septembre 1943 s’étaient intensifiées les attaques contre la banlieue de Paris, où les bombes étaient comme « jetées au hasard, sans but précis, et sans le moindre souci d’épargner des vies humaines ». Nantes avait suivi, Strasbourg, La Bocca, Annecy, puis Toulon, qui avait « mis le comble à la colère des ouvriers contre les Anglo-Saxons » : toujours les mêmes morts ouvriers et peu ou pas d’objectifs industriels touchés. Les opérations préservaient toujours l’économie de guerre allemande, comme si les Anglo-Saxons « craignaient de voir finir la guerre trop vite ». Ainsi trônaient intacts les hauts-fourneaux, dont la« destruction paralyserait immédiatement les industries de transformation, qui cesseraient de fonctionner faute de matières premières ». Se répandait « une opinion très dangereuse […] dans certaines parties de la population ouvrière qui a été durement frappée par les raids. C’est que les capitalistes anglo-saxons ne sont pas mécontents d’éliminer des concurrents commerciaux, et en même temps de décimer la classe ouvrière, de la plonger dans un état de détresse et de misère qui lui rendra plus difficile après la guerre la présentation de ses revendications sociales. Il serait vain de dissimuler que l’opinion française est, depuis quelque temps, considérablement refroidie à l’égard des Anglo-Américains », qui reculent toujours devant « le débarquement promis […]. La France souffre indiciblement […] Les forces vives du pays s’épuisent à une cadence qui s’accélère de jour en jour, et la confiance dans les alliés prend une courbe descendante. […] Instruits par la cruelle réalité des faits, la plupart des ouvriers portent désormais tous leurs espoirs vers la Russie, dont l’armée est, à leur avis, la seule qui puisse venir à bout dans un délai prochain de la résistance des Allemands » [34].

C’est donc dans une atmosphère de rancœur contre ces « alliés » aussi bienveillants pour le Reich qu’avant et après 1918 qu’eut lieu leur débarquement du 6 juin 1944. Colère et soviétophilie populaires persistèrent, donnant au PCF un écho qui inquiétait l’État gaulliste imminent : « le débarquement a enlevé à sa propagande une part de sa force de pénétration », mais « le temps assez long qu’ont mis les armées anglo-américaines à débarquer sur le sol français a été exploité pour démontrer que seule l’armée russe était en mesure de lutter efficacement contre les nazis. Les morts provoquées par les bombardements et les douleurs qu’elles suscitent servent également d’éléments favorables à une propagande qui prétend que les Russes se battent suivant les méthodes traditionnelles et ne s’en prennent point à la population civile » [35].

Le déficit de sympathie enregistré dans ce morceau initial de la sphère d’influence américaine se maintint entre la Libération de Paris et la fin de la guerre en Europe, comme l’attestent les sondages de l’Ifop d’après-Libération, parisien (« du 28 août au 2 septembre 1944 ») et de mai 1945, national (déjà cité) [36]. Il fut après-guerre, on l’a dit, d’abord progressivement, puis brutalement comblé. Il n’est donc plus grand monde pour rappeler qu’après la bataille des Ardennes (décembre 1944-janvier 1945), seuls combats importants livrés par les Anglo-Saxons contre des troupes allemandes (9 000 morts américains) [37], le haut-commandement de la Wehrmacht négocia fébrilement sa reddition « aux armées anglo-américaines et le report des forces à l’Est » ; 
que, fin mars 1945, « 26 divisions allemandes demeuraient sur le front occidental », à seule fin d’évacuation « vers l’Ouest » par les ports du Nord, « contre 170 divisions sur le front de l’Est », qui combattirent farouchement jusqu’au 9 mai (date de la libération de Prague) [38] ; 
que le libérateur américain, qui avait doublé à la faveur de la guerre son revenu national, avait sur les fronts du Pacifique et d’Europe perdu 290 000 soldats de décembre 1941 à août 1945 [39] : soit l’effectif soviétique tombé dans les dernières semaines de la chute de Berlin, et 1% du total des morts soviétiques de la « Grande guerre patriotique », près de 30 millions sur 50.

Du 6 juin 1944 au 9 mai 1945, Washington acheva de mettre en place tout ou presque pour rétablir le « cordon sanitaire » que les rivaux impérialistes anglais et français avaient édifié en 1919 ; et pour transformer en bête noire le pays le plus chéri des peuples d’Europe (français inclus). La légende de la « Guerre froide » mériterait les mêmes correctifs que celle de l’exclusive libération américaine de l’Europe [40].

Autres textes concernant le travail d’Annie Lacroix-Riz sur La faute à Diderot : 
-  Industriels et banquiers français sous l’occupation
-  Vichy et l’assassinat de la République 
-  La pologne dans la stratégie extérieure de la France (octobre 38-août 39)

Notes :

[1] Frédéric Dabi, « 1938-1944 : Des accords de Munich à la libération de Paris ou l’aube des sondages d’opinion en France », février 2012,http://www.revuepolitique.fr/1938-1..., chiffres extraits du tableau, p. 5. Total inférieur à 100 : 3 autres données : Angleterre ; 3 pays ; sans avis.

[2] Ibid., p. 4.

[3] Campagne si délirante qu’un journal électronique lié aux États-Unis a le 2 mai 2014 a prôné quelque pudeur sur l’équation CIA-démocratie http://www.huffingtonpost.fr/charle...

[4] Annie Lacroix-Riz, Le Vatican, l’Europe et le Reich 1914-1944, Paris, Armand Colin, 2010 (2e édition), passim.

[5] Lynn E. Davis, The Cold War begins […] 1941-1945, Princeton, Princeton UP, 1974 ; Lloyd Gardner, Spheres of influence […], 1938-1945, Chicago, Ivan R. Dee, 1993 ; Geoffrey Roberts, Stalin’s Wars : From World War to Cold War, 1939-1953. New Haven & London : Yale University Press, 2006, traduction chez Delga, septembre 2014.

[6] Tél. 1450-1467 de Bérard, Bonn, 18 février 1952, Europe généralités 1949-1955, 22, CED, archives du ministère des Affaires étrangères (MAE).

[7] Note État-major, anonyme, 15 septembre 1938 (modèle et papier des notes Gamelin), N 579, Service historique de l’armée de terre (SHAT).

[8] Moral de la région parisienne, note reçue le 22 avril 1943, F1a, 3743, Archives nationales (AN).

[9] Lacroix-Riz, L’histoire contemporaine toujours sous influence, Paris, Delga-Le temps des cerises, 2012.

[10] Revendication de paternité, t. 1 de ses mémoires, Un ambassadeur se souvient. Au temps du danger allemand, Paris, Plon, 1976, p. 458, vraisemblable, vu sa correspondance du MAE.

[11] Rapport 556/EM/S au général Koeltz, Wiesbaden, 16 juillet 1941, W3, 210 (Laval), AN.

[12] Les difficultés « des Allemands » nous menacent, se lamenta fin août Tardini, troisième personnage de la secrétairerie d’État du Vatican, d’une issue « telle que Staline serait appelé à organiser la paix de concert avec Churchill et Roosevelt », entretien avec Léon Bérard, lettre Bérard, Rome-Saint-Siège, 4 septembre 1941, Vichy-Europe, 551, archives du ministère des Affaires étrangères (MAE).

[13] Michael Sherry, Preparation for the next war, American Plans for postwar defense, 1941-1945, New Haven, Yale University Press, 1977, chap. 1, dont p. 39.

[14] Exemples français et scandinave (naguère fief britannique), Lacroix-Riz, Le Maghreb : allusions et silences de la chronologie Chauvel, La Revue d’Histoire Maghrébine, Tunis, février 2007, p. 39-48 ; Les Protectorats d’Afrique du Nord entre la France et Washington du débarquement à l’indépendance 1942-1956, Paris, L’Harmattan, 1988, chap. 1 ; « L’entrée de la Scandinavie dans le Pacte atlantique (1943-1949) : une indispensable “révision déchirante” », guerres mondiales et conflits contemporains (gmcc), 5 articles, 1988-1994, liste,http://www.historiographie.info/cv.html.

[15] Sherry, Preparation, p. 39-47 (citations éparses).

[16] Sarcasme de l’ambassadeur américain H. Freeman Matthews, ancien directeur du bureau des Affaires européennes, dépêche de Dampierre n° 1068, Stockholm, 23 novembre 1948, Europe Généralités 1944-1949, 43, MAE.

[17] Tél. Bonnet n° 944-1947, Washington, 10 mai 1949, Europe généralités 1944-1949, 27, MAE, voir Lacroix-Riz, « L’entrée de la Scandinavie », gmcc, n° 173, 1994, p. 150-151 (150-168).

[18] Martin Sherwin, A world destroyed. The atomic bomb and the Grand Alliance, Alfred a Knopf, New York, 1975 ; Sherry Michael,Preparation ; The rise of American Air Power : the creation of Armageddon, New Haven, Yale University Press, 1987 ; In the shadow of war : the US since the 1930’s, New Haven, Yale University Press, 1995.

[19] Williams, Ph.D., American Russian Relations, 1781-1947, New York, Rinehart & Co., 1952, et The Tragedy of American Diplomacy, Dell Publishing C°, New York, 1972 (2e éd).

[20] Richard W. Van Alstyne, recension d’American Russian Relations, The Journal of Asian Studies, vol. 12, n° 3, 1953, p. 311.

[21] Lénine, L’impérialisme, stade suprême du capitalisme, Essai de vulgarisation, Paris, Le Temps des cerises, 2001 (1e édition, 1917), p. 172. Souligné dans le texte.

[22] Élément clé de l’analyse révisionniste, dont Gardner, Spheres of influence, essentiel.

[23] Tél. 861.01/2320 de Harriman, Moscou, 13 mars 1944, Foreign Relations of the United States 1944, IV, Europe, p 951 (en ligne).

[24Ibid.

[25] Lacroix-Riz, Politique et intérêts ultra-marins de la synarchie entre Blitzkrieg et Pax Americana, 1939-1944, in Hubert Bonin et al., Les entreprises et l’outre-mer français pendant la Seconde Guerre mondiale, Pessac, MSHA, 2010, p. 59-77 ; Le Maghreb : allusions et silences de la chronologie Chauvel , La Revue d’Histoire Maghrébine, Tunis, février 2007, p. 39-48.

[26] Dont la capitulation de l’armée Kesselring d’Italie, opération Sunrise négociée en mars-avril 1945 par Allen Dulles, chef de l’OSS-Europe en poste à Berne, avec Karl Wolff, « chef de l’état-major personnel de Himmler » responsable de « l’assassinat de 300 000 juifs », qui ulcéra Moscou. Lacroix-Riz, Le Vatican, chap. 10, dont p. 562-563, et Industriels et banquiers français sous l’Occupation, Paris, Armand Colin, 2013, chap. 9.

[27] Jean-Baptiste Duroselle, L’Abîme 1939-1945, Paris, Imprimerie nationale, 1982, passim ; Lacroix-Riz,  Quand les Américains voulaient gouverner la FranceLe Monde diplomatique, mai 2003, p. 19 ; Industriels..., chap. 9.

[28] David F Schmitz, Thank God, they’re on our side. The US and right wing dictatorships, 1921-1965, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1999.

[29] Index Suhard Lacroix-Riz, Le choix de la défaite : les élites françaises dans les années 1930, et De Munich à Vichy, l’assassinat de la 3e République, 1938-1940, Paris, Armand Colin, 2010 (2e édition) et 2008.

[30] LIBE/9/14, 5 février 1943 (visite récente), F1a, 3784, AN. Taylor, Vatican, chap. 9-11 et index.

[31] Information d’octobre, reçue le 26 décembre 1943, F1a, 3958, AN, et Industriels, chap. 9.

[32] Lettre n° 740 du commissaire des RG au préfet de Melun, 13 février 1943, F7, 14904, AN.

[33] Renseignement 3271, arrivé le 17 février 1943, Alger-Londres, 278, MAE.

[34] Informations du 15 mai, diffusées les 5 et 9 juin 1944, F1a, 3864 et 3846, AN.

[35] Information du 13 juin, diffusée le 20 juillet 1944, « le PC à Grenoble », F1a, 3889, AN.

[36] M. Dabi, directeur du département Opinion de l’Ifop, phare de l’ignorance régnant en 2012 sur l’histoire de la Deuxième Guerre mondiale, déplore le résultat de 1944 : « une très nette majorité (61%) considèrent que l’URSS est la nation qui a le plus contribué à la défaite allemande alors que les États-Unis et l’Angleterre, pourtant libérateurs du territoire national [fin août 1944 ??], ne recueillent respectivement que 29,3% et 11,5% », « 1938-1944 », p. 4, souligné par moi.

[37] Jacques Mordal, Dictionnaire de la Seconde Guerre mondiale, Paris, Larousse, 1979, t. 1, p. 109-114.

[38] Gabriel Kolko, The Politics of War. The World and the United States Foreign Policy, 1943-1945, New York, Random House, 1969, chap. 13-14.

[39] Pertes « militaires uniquement », Pieter Lagrou, Les guerres, la mort et le deuil : bilan chiffré de la Seconde Guerre mondiale, in Stéphane Audoin-Rouzeau et al., dir., La violence de guerre 1914-1

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(In english: The Revival of the Movement of Non-Aligned Countries
By Samir Amin - Global Research, May 27, 2014


http://www.resistenze.org/sito/os/mo/osmoee25-014545.htm
www.resistenze.org - osservatorio - mondo multipolare - 25-05-14 - n. 500

La rinascita del Movimento dei Paesi non allineati e degli internazionalisti nell'era transnazionale

Intervista a Samir Amin in occasione della Conferenza ministeriale del Movimento dei Paesi non allineati (Algeri, 26-29 maggio 2014)

Samir Amin* | pambazuka.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

19/05/2014

Qual è la natura della sfida con cui si confrontano oggi i paesi del Movimento dei Paesi non allineati, a 60 anni dalla sua nascita, in questo mondo molto cambiato?

Viviamo in un sistema di mondializzazione squilibrata, iniqua e ingiusta. Agli uni, tutti i diritti d'accesso alle risorse del pianeta per il loro uso e persino spreco, esclusivi. Agli altri l'obbligo di accettare quest'ordine e di adattarsi alle sue esigenze, rinunciando al proprio sviluppo, finanche ai diritti elementari all'alimentazione, all'istruzione e alla salute, alla vita stessa, per ampi segmenti dei propri popoli - i nostri.

Quest'ordine ingiusto è definito "mondializzazione" o "globalizzazione".

Dovremmo anche accettare che le potenze beneficiarie di quest'ordine mondiale ingiusto, soprattutto gli Stati uniti e l'Unione europea, associati militari nella NATO, avrebbero il diritto di intervenire con la forza armata per fare rispettare i loro diritti abusivi di accedere all'uso - o al saccheggio - delle nostre ricchezze. Lo fanno con pretesti diversi - la guerra preventiva contro il terrorismo, evocata quando gli conviene. Lo fanno prendendo a pretesto la liberazione dei nostri popoli da dittatori sanguinari. Ma i fatti dimostrano che né in Iraq, né in Libia, ad esempio, il loro intervento ha permesso di restaurare la democrazia. Questi interventi hanno semplicemente distrutto gli stati e le loro società. Non hanno aperto la via al progresso e alla democrazia, ma l'hanno chiusa.

Il nostro movimento potrebbe dunque essere definito Movimento dei paesi non allineati alla globalizzazione.

Mi spiego: non siamo avversari di tutte le forme di mondializzazione. Siamo avversari di questa forma ingiusta di mondializzazione, di cui siamo vittime.

Quali risposte possono dare a questa sfida i Paesi non allineati?

Le risposte che vogliamo dare a questa sfida sono semplici da formulare nei loro grandi principi.

Abbiamo il diritto di scegliere il nostro percorso di sviluppo. Le potenze che erano e rimangono beneficiarie dell'ordine esistente devono accettare di adeguarsi alle esigenze del nostro sviluppo. L'adeguamento deve essere reciproco, non unilaterale. Non spetta ai deboli adeguarsi alle esigenze dei forti. Al contrario, è dai forti che si deve esigere che si regolino alle necessità dei deboli. Il principio del diritto è concepito per questo, per correggere le ingiustizie e non per perpetuarle. Abbiamo dunque il diritto di attuare i nostri progetti sovrani di sviluppo. Quello che i fautori della globalizzazione in atto, ci rifiutano.

I nostri progetti sovrani di sviluppo devono essere concepiti per permettere alle nostre nazioni e stati di industrializzarsi come loro intendono, con strutture giuridiche e sociali a loro scelta, che permettono quindi di raggiungere e sviluppare da noi stessi le tecnologie moderne. Devono essere concepiti per garantire la nostra sovranità alimentare e permettere a tutti gli strati dei nostri popoli di essere i beneficiari dello sviluppo, ponendo termine ai processi d'impoverimento in corso.

L'attuazione dei nostri progetti sovrani esige la riconquista della sovranità finanziaria. Non spetta a noi di adattarci al saccheggio finanziario a maggior profitto delle banche delle potenze economiche dominanti. Il sistema finanziario mondiale deve essere costretto a adattarsi a quella che è la nostra sovranità.

Spetta a noi definire insieme le vie e i mezzi di sviluppo della nostra cooperazione Sud-Sud che possano facilitare il successo dei nostri progetti sovrani di sviluppo.

Il Mpna, che rappresenta l'organizzazione internazionale più importante (117 paesi) dopo l'Onu, può influenzare le decisioni della Comunità internazionale?

Il nostro movimento può e deve agire nell'ambito dell'Onu per ricostruire i propri diritti, ridicolizzati dall'ordine della ingiusta globalizzazione. Attualmente, una auto-proclamata "Comunità internazionale" si è sostituita all'Onu. I media delle potenze dominanti non cessano di ripetere: "La Comunità internazionale pensa questo o quello, decide questo o quello". Osservando più da vicino, si scopre che la "Comunità internazionale" invocata è costituita da Stati uniti, Unione europea e due o tre paesi selezionati con cura dai primi, come ad esempio l'Arabia Saudita o il Qatar. C'è un insulto più grave ai nostri popoli che questa auto-proclamazione? Cina, Algeria, Egitto, Senegal, Angola, Venezuela, Brasile, Thailandia, Russia, Costa Rica e tanti altri non esistono più. Non hanno più il diritto di far sentire la loro voce nella Comunità internazionale.

Sì, portiamo la grande responsabilità all'interno dell'ONU, dove costituiamo un gruppo numerico importante, di esigere il ripristino dei diritti delle Nazioni unite, la sola cornice accettabile per l'espressione della Comunità internazionale.

60 anni dopo la loro creazione, i blocchi che esistevano all'epoca sono scomparsi. Il Mpna ha ancora una ragion d'essere?

Possiamo gettare uno sguardo sul nostro passato, che ci offre una bella lezione di ciò che siamo stati e che dovremmo essere nuovamente. Il Movimento dei non allineati si è costituito nel 1960, sulla via aperta dalla conferenza di Bandung nel 1955, per affermare i diritti dei nostri popoli e delle nazioni dell'Asia e dell'Africa, allora non ancora riconosciute come degne di essere partner alla pari nella ricostruzione dell'ordine mondiale.

Il nostro movimento non è stato il sottoprodotto del conflitto fra le due principali potenze dell'epoca - Stati uniti e Urss - e "della guerra fredda", come provano a farci credere. Nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, l'Asia e l'Africa erano ancora in gran parte sottoposte all'odioso colonialismo. I nostri popoli erano impegnati in lotte potenti per la riconquista dell'indipendenza, con mezzi pacifici o con la guerra di liberazione se occorreva.

Avendo riconquistato la nostra indipendenza e restaurato l'esistenza dei nostri stati, ci siamo trovati in conflitto con l'ordine mondiale che si voleva imporre all'epoca. Il nostro Movimento dei paesi non allineati ha allora proclamato il diritto di scegliere i percorsi del nostro sviluppo, ha attuato questo diritto e ha forzato le potenze dell'epoca a regolarsi alle esigenze del nostro sviluppo.

Alcune potenze dell'epoca lo accettarono, altre no. Le potenze occidentali - gli Stati uniti e i paesi di quella che diventerà l'Unione europea, già associati dal 1949 alla NATO - non hanno mai nascosto la loro ostilità ai nostri progetti di sviluppo indipendente. Li hanno combattuti con tutti i mezzi a loro disposizione. Altre potenze, l'Urss in primo luogo, hanno scelto verso di noi un'altra strada. Hanno accettato e a volte anche sostenuto le posizioni del Movimento dei paesi non allineati. La potenza militare dell'Urss dell'epoca ha pertanto limitato le possibilità d'aggressione dei nostalgici del colonialismo e dei difensori sempre entusiasti dell'ordinamento internazionale ingiusto.

Possiamo dunque dire che anche se il mondo di oggi non è più quello del 1960 - constatazione di un'evidenza banale - il Movimento dei non allineati, era già 60 anni fa un movimento dei non allineati alla globalizzazione che gli si voleva imporre all'epoca.

Qualcos'altro da aggiungere?

Attendo molto la Conferenza ministeriale del Movimento dei paesi non allineati, prevista ad Algeri dal 26 al 29 maggio prossimo. È la nostra Conferenza, quella dei nostri popoli e dei nostri stati. Che si facciano avanzare le nostre posizioni per il ripristino dell'uguale diritto di tutti gli stati di contribuire alla ricostruzione di una mondializzazione giusta. Auguro loro un buon successo.

* Samir Amin è direttore del Forum mondiale del Terzo Mondo


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Algeria: conferenza Movimento paesi non allineati "preparatoria" a summit in Venezuela

Algeri, 26 mag 16:14 - (Agenzia Nova) - La 17ma conferenza del Movimento dei non allineati iniziata oggi al Palazzo delle Nazioni di Algeri sarà “preparatoria” al vertice dei capi di Stato del movimento che si terrà in Venezuela nel 2015 e sarà incentrata su “tutti i conflitti e le questioni di interesse comune”. Lo ha detto chiarito oggi il direttore generale degli Affari politici e di sicurezza del ministero degli Esteri algerino, Taus Ferroukhi, precisando che il vertice in corso ad Algeri produrrà “un documento finale” nel quale confluiranno tutti i dibattiti avviati durante il summit, cui partecipano circa 80 ministri degli Esteri. Gli argomenti toccati saranno “lo sviluppo sostenibile, l’ambiente, il terrorismo, i conflitti, i traffici di droga, la criminalità organizzata internazionale, i diritti delle donne, lo Stato di diritti, gli embarghi e le interferenze di potenze esterne negli affari interni dei paesi”, ha spiegato la funzionaria algerina. (Ala)


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Evo Morales ha inaugurato vertice del Movimento dei Non-Allineati

28 mayo, 2014

Il presidente della Bolivia, Evo Morales, il Mercoledì ha inaugurato il vertice ministeriale XVII Movimento dei Paesi Non Allineati (NAM) ha tenuto nella città di Algeri, capitale dell’Algeria, e dove le questioni legate al terrorismo, organizzata transfrontaliera criminalità sarà affrontato, razzismo e islamofobia in alcuni paesi europei.
Secondo il ministro degli Esteri algerino Ramtan Lamamra, nei giorni 28 e 29 maggio porterà almeno 80 ministri provenienti da diversi paesi e leader delle organizzazioni regionali del NAM.
La presenza del capo dello Stato boliviano Morales risponde attualmente presiede il Gruppo dei 77 + Cina, forum internazionale il cui vertice si terrà nella città di Santa Cruz (Bolivia centrale) il 14 e 15 giugno prossimo.
L’incontro ha evidenziato l’assistenza del Ministro degli Affari Esteri del Venezuela, Elias Jaua, che usano l’occasione per denunciare le interferenze degli Stati Uniti negli affari interni del suo paese, proprio come ha fatto all’interno dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasur).
Infatti, l’evento servirà anche per avviare i preparativi per la prossima riunione ministeriale che si terrà a Caracas, capitale del Venezuela, il prossimo anno 2015.
NAM è stato concepito in mezzo al crollo del sistema coloniale e la lotta di liberazione dei popoli di Africa, Asia, America Latina e in altre regioni del mondo, così come durante il culmine della Guerra Fredda che indirettamente affrontato l’Unione Sovietica e negli Stati Uniti.NAM è fattore essenziale per il processo di decolonizzazione, poi, ha portato al raggiungimento di libertà e indipendenza di molti paesi e popoli, e la formazione di decine di nuovi Stati sovrani. Anche storicamente ha svolto un ruolo chiave nel mantenimento della pace mondiale.
Gli obiettivi del forum composto da 120 paesi includono il supporto per l’autodeterminazione, l’indipendenza nazionale, la sovranità e l’integrità territoriale degli Stati e non aderenza ai patti militari multilaterali.


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Dacic partecipa alla conferenza dei Paesi non allineati in Algeria

28. 05. 2014. - 17:54 -- MRS

Il primo vice premier, nonché il Ministro degli Esteri della Serbia Ivica Dacic partecipa alla conferenza ministeriale dei Paesi non allineati che si tiene in Algeria. Durante la conferenza, che durerà due giorni, Dacic avrà una serie di incontri bilaterali. È stato annunciato che Dacic parlerà con il Ministro per le risorse idriche dell’Algeria Hosin Nesib, il quale è il copresidente della conferenza. Il capo della diplomazia serba ha confermato che alla riunione avrà lo status di osservatore, perché la Serbia non è membro del Movimento dei non allineati.

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Venerdì, 30 Maggio 2014 23:22

Iran: Zarif incontra premier algerino e ministro esteri serbo

ALGERI (IRNA) – Ieri, prima della conclusione della 17esima riunione ministeriale dei Paesi Non Allineati, il Ministro degli Esteri iraniano Zarif ha avuto colloqui con altre autorità presenti al summit.
La delegazione iraniana, presidente di turno del NAM, che ha ricevuto oltre 50 richieste di incontri, aveva informato dai giorni precedenti di non poterle esaudire tutte. Giovedì Zarif ha incontrato il premier algerino, Abdulmalik Silal, con la quale ha parlato di sviluppo di relazioni bilaterali precisando che Teheran non pone limiti all'ampliamento dei rapporti con Algeri. Dal canto suo Silal ha espresso compiacimento per la vicinanza tra Iran e Algeria sul tema della lotta all'estremismo ed al terrorismo. Nell'incontro con il collega serbo Ivica Dacic, invece, il nucleare e l'accordo finale con il 5+1 e' stato al centro della discussione. Il capo della diplomazia serba si e' augurato che in futuro i due paesi possano stabilire relazioni più ampie e collaborare in più settori.


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La riunione dei Non Allineati affronta gli attacchi al Venezuela e a Cuba


Prensa Latina 28.5 - Il blocco a Cuba e le aggressioni contro il Venezuela da parte degli Stati Uniti e la crisi nella Palestina occupata sono tra i temi del programma della riunione dei Ministri degli Esteri del Movimento Non Allineati (MNOAL) che è iniziato oggi ad Algeri. La delegazione di Cuba presenterà di nuovo il caso del blocco economico degli Stati Uniti e respinto in decine di occasioni dall'ONU, mentre il Ministro degli Esteri venezuelano, Elías Jaua, ha annunciato che parlerà delle aggressioni di Washington contro il Governo costituzionale del presidente Nicolás Maduro.





Aggiornamento alluvione in Jugoslavia

1) Aggiornamento solidarietà - CONTRIBUISCI ANCHE TU!
2) Alluvioni in Serbia, i morti salgono a 51 (Stefano Giantin / Il Piccolo 30/5/2014)

Altre informazioni sull'alluvione e le iniziative di solidarietà:
https://www.cnj.it/AMICIZIA/poplava2014.htm


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Aggiornamento solidarietà - CONTRIBUISCI ANCHE TU!

Il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS invita a partecipare allo sforzo internazionale in atto per le vittime delle devastanti inondazioni verificatesi in Serbia, Bosnia e Croazia, aderendo alla iniziativa coordinata dalla ONLUS Non Bombe Ma Solo Caramelle vale a dire che: 

<< la nostra rete di piccole associazioni unisca le proprie forze e intervenga con alcuni progetti mirati in aree rurali nella ricostruzione di spazi pubblici devastati, quali scuole o ambulatori pubblici. (…) Proponiamo che siano i nostri tradizionali referenti nei Balcani a fornirci le indicazioni dei progetti che potremo realizzare, >>

progetti tra i quali sceglieremo in base all'ammontare dei fondi raccolti e privilegiando quelle aree di destinazione (non necessariamente della Rep. di Serbia, ma ad es. anche della Bosnia-Erzegovina) che meno stanno beneficiando degli interventi "istituzionali" già in corso.
Oltre a NBMSC e CNJ hanno già aderito anche le associazioni ABC Solidarietà e Pace di Roma e Zastava di Brescia.

Il conto corrente di riferimento per ricevere i contributi è quello di Non Bombe ma Solo Caramelle ONLUS:
IBAN:  IT18E0892802202010000021816
Suggeriamo di indicare nel versamento la seguente causale: Erogazione liberale per emergenza alluvione (seguito dal nome e cognome).
I fondi eventualmente inviati con analoga causale a CNJ-onlus saranno girati sul conto di NBMSC-onlus.
Raccomandiamo di conservare copia cartacea del bonifico effettuato perchè questi versamenti sono deducibili dalla dichiarazione dei redditi.

Non Bombe Ma Solo Caramelle ci comunica che in questo modo sono stati già raccolti più di 4mila euro. Inoltre, il Comune di San Giorgio di Nogaro informa che metterà a disposizione 1000 euro per un intervento mirato in una scuola.

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Altri aggiornamenti dalla ONLUS Non Bombe Ma Solo Caramelle (Trieste, 1 giugno 2014):

(…) Stiamo collaborando con la Comunita’ Serba Ortodossa di Trieste, che fino ad ora e’ riuscita a spedire otto camion da 80 metri cubi ciascuno, inviando materiale di tutti i tipi (cibo, prodotti per l’igiene personale e la disinfezione, letti, materassi, vestiario, scarpe, giocattoli). Questi materiali sono stati inviati ai centri di raccolta istituiti dai governi di Serbia e Bosnia.
Sono stati anche raccolti a Trieste circa 25.000 euro.
Anche il denaro raccolto sara’ distribuito in parte in Serbia e in parte in Bosnia.

Le stime dei danni economici in Serbia e Bosnia sono catastrofiche: si possono calcolare in maniera approssimativa in 1,5-2 miliardi di euro per la Serbia (7% del Pil) e in 1,3 miliardi di euro per la Bosnia (circa 10%).

(…) Venerdi’ 30 maggio e’ partito da Trieste un convoglio di quattro furgoni (con persone di cui abbiamo la piu’ completa fiducia) per la distribuzione di aiuti nei paesi piu’ isolati e danneggiati in Bosnia e Repubblica serba di Bosnia. Questo convoglio ha ricevuto l’autorizzazione anche per la distribuzione di medicinali e noi abbiamo contribuito con quelle poche medicine che avevamo ancora a disposizione, cinque scatoloni che non eravamo riusciti a portare con noi a Kragujevac nel nostro viaggio di inizio aprile scorso.
Questo convoglio tornera’ a Trieste domani 2 giugno e il viaggio sara’ replicato venerdi’ prossimo 6 giugno.
Per quel viaggio contribuiremo con molti medicinali: ieri ce ne sono arrivati da Torino 3 metri cubi raccolti dalla associazione degli adottanti di quella citta’ insieme a quasi 2 metri cubi di materiale scolastico, e martedi’ prossimo ce ne saranno consegnati 18 scatoloni che ci sono stati spediti dalla ONLUS Le Medicine di Grottaferrata.

(fonte: Gilberto Vlaic)


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http://ilpiccolo.gelocal.it/cronaca/2014/05/30/news/alluvioni-in-serbia-i-morti-salgono-a-51-1.9320628

Alluvioni in Serbia, i morti salgono a 51

Il premier Vucic stila il bilancio e stronca le polemiche ma Obrenovac resta allagata. Due arresti per gli allarmismi sul web

di Stefano Giantin

BELGRADO. Ci sono voluti giorni, perché ancora dovevano essere compiute le autopsie sui corpi recuperati. Ma alla fine il bilancio praticamente definitivo della tragedia delle inondazioni in Serbia è arrivato. Ed è un bilancio di vite umane pesante, quello letto dal premier di Belgrado, Aleksandar Vucic, ieri pomeriggio al Parlamento serbo durante un “question time” straordinario. Vucic ha spiegato che solo in Serbia ventiquattro sono i morti annegati durante l’alluvione, in gran parte a Obrenovac, tra cui un pompiere. Ventisei - la singolare distinzione fatta poi dal leader serbo -, sono invece le persone decedute «per cause naturali» nelle aree colpite dal disastro. Una persona è invece perita per uno smottamento del terreno. In tutto, 51 vittime accertate, mentre quattro rimangono ancora “missing”.
«Speriamo che questa sia la cifra finale», ha auspicato il primo ministro serbo. Qualche dubbio rimane, dato che «l’otto per cento» della superficie di Obrenovac, la città più colpita in Serbia, rimane ancora allagata. Obrenovac dove solo una sirena d’allarme avrebbe funzionato nella notte del disastro, ha informato Vucic, ma in città i soccorritori sono intervenuti «entro 90 minuti» dall’innalzamento del livello dell’acqua, la puntualizzazione. Il premier ha difeso a spada tratta l’opera delle autorità prima e durante l’emergenza. «Nessuno può dire che non abbiamo dato tutto», ha ribadito. La situazione era tale che ci siamo comportati nel migliore dei modi, tenuto conto delle dimensioni della catastrofe, ha ripetuto, rispondendo alla ridda di accuse sulla gestione dell’emergenza, in particolare a Obrenovac, municipalità il cui presidente, Miroslav Cuckovic, incolpato da più parti di non aver ordinato in tempo l’evacuazione, è stato ascoltato ieri per sette ore dalla polizia.
E dubbi e polemiche ha sollevato sempre ieri in Serbia la notizia della detenzione di tre persone denunciate per aver «causato panico» via Facebook. Avevano nei loro post parlato di centinaia di vittime a Obrenovac. I tre sono stati poi rilasciati, ma il procedimento contro di loro andrà avanti. Mercoledì l’Osce, criticata per questo da Vucic, aveva espresso preoccupazione per le presunte interferenze delle autorità sui media online e sul dibattito pubblico via web.
Rimane fermo invece a 24 il bilancio, ancora ufficioso, delle vittime in Bosnia, colpita da alluvioni «di proporzioni bibliche» che hanno creato «i maggiori danni» al Paese «dal tempo della guerra», ha ricordato Kristalina Georgieva, commissario Ue alla cooperazione internazionale. Bosnia dove, in collaborazione con la Banca mondiale, l’Onu e l’Unione europea, è iniziata finalmente la conta più precisa dei danni. Per ora valgono le cifre, seppur approssimative, rese note dal Consiglio dei ministri bosniaco, che ha parlato di 100mila alloggi danneggiati in misura diversa, 20mila abitazioni allagate, 40mila evacuati, almeno 2.600 persone la cui casa è andata irrimediabilmente distrutta, 2mila le frane e gli smottamenti, un migliaio solo nell’area di Tuzla. Numeri che fanno intuire le proporzioni del disastro.
Un disastro anche economico. Si possono calcolare in maniera approssimativa in 1,5-2 miliardi di euro per la Serbia (7% del Pil) e in 1,3 miliardi di euro per la Bosnia (circa 10%) i danni causati dall’alluvione, ha fatto sapere sempre ieri la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers). Da non dimenticare poi la Croazia, due morti, 15mila sfollati. Nazioni in difficoltà che vanno aiutate con donazioni, come auspicato ieri da Franco Iacop, presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia. E con uomini e mezzi. Così, una colonna composta da 30 volontari, 4 funzionari e 11 mezzi della Protezione civile del Fvg e 2 veicoli con 6 volontari del Molise è partita ieri da Palmanova alla volta di Bijeljina, in Bosnia. «Voi - ha detto l’assessore regionale alla Protezione civile, Paolo Panontin - rappresentate l’Italia in una terra che ha richiesto il nostro intervento. Con il consueto orgoglio e le elevate capacità operative che contraddistinguono la Protezione civile del nostro Paese sarete in grado di aiutare le migliaia di persone in difficoltà», in una delle tante aree dei Balcani martoriate dalle alluvioni.

30 maggio 2014