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Kosovo: scontro sull’"esercito" e crisi di "governo"

1) Consiglio di Sicurezza ONU, è scontro sull’esercito del Kosovo
2) Collapse of Kosovo government leads to early elections
3) L’opposition [du criminel de guerre Haradinaj] se coalise pour chasser [le criminel de guerre] Thaçi et le PDK


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Consiglio di Sicurezza, è scontro sull’esercito del Kosovo


Il dibattito nel Consiglio di Sicurezza relativo alla liceità della formazione di un esercito del Kosovo, tra ostacoli giuridici e conseguenze politiche


Aggiunto da c_perigli il 30/05/2014.

Nella riunione del Consiglio di Sicurezza di martedì scorso – 27 maggio – convocata per analizzare l’ultimo rapporto presentato dal Segretario Generale Ban Ki-Moon relativo alla situazione nei Balcani, buona parte del dibattito si è focalizzato sulla decisione del governo di Pristina di istituire un esercito del Kosovo indipendente, convertendo e ampliando la forza di sicurezza già esistente. Il Consiglio di Sicurezza si è presto ritrovato diviso, come da tempo avviene quando si affronta il rapporto tra Serbia e Kosovo, in due blocchi separati, ciascuno dei quali ha spiegato la propria posizione.

GLI SCHIERAMENTI E LE MOTIVAZIONI - Da un lato difatti, oltre al governo di Belgrado, anche Russia, Cina, Ciad e Argentina  hanno manifestato disappunto per la decisione presa dal governo di Pristina. Hanno infatti ricordato che la base giuridica di ogni decisione relativa al Kosovo e Metochia debba essere conforme a quanto stabilito dal Consiglio di Sicurezza nella Risoluzione 1244  del 1999, emanata subito dopo la fine delle ostilità tra i Paesi Nato e l’allora Repubblica Federale di Jugoslavia. Su tali basi, la creazione di un esercito del Kosovo sarebbe in violazione del diritto internazionale almeno per due motivi: anzitutto, come specificato dal delegato russo, sarebbe in violazione del rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale della Serbia perché il Consiglio di Sicurezza aveva indicato nella Kfor l’unico corpo militare posto a garanzia della sicurezza della provincia autonoma. In secondo luogo, come riportato dal rappresentante di Belgrado, la creazione di un esercito del Kosovo sarebbe una minaccia alla stabilità della Serbia e dell’intera regione, e minerebbe la credibilità delle Nazioni Unite.

IN DISACCORDO – In perfetto disaccordo con tale posizione si sono schierati invece, oltre al Kosovo, anche Gran Bretagna, Stati Uniti e Australia, che hanno sottolineato anzitutto che la Risoluzione 1244 non pone alcun divieto alla creazione di una forza militare kosovara, specificando poi che è diritto naturale di qualsiasi Stato sovrano quello di poter disporre di una propria forza di difesa.  In particolare, il presidente del Kosovo Atifete Jahjiaga ha affermato che la creazione di un esercito del Kosovo contribuirebbe a rafforzare la sicurezza di tutta la regione balcanica, invitando tutte le comunità etniche a partecipare attivamente al processo di creazione.


IL COMPLICATO DIALOGO TRA SERBIA E KOSOVO – Il percorso di normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo ha conosciuto la svolta con l’accordo del 19 aprile 2013, attraverso il quale Belgrado e Pristina hanno deciso di regolare l’autonomia dei cittadini di etnia serba all’interno del Kosovo.  La soddisfazione delle élite politiche, incrementata anche dal fatto che questo accordo, almeno per la Serbia, è decisivo per proseguire il cammino verso l’Unione Europea,  non ha trovato riscontro tra i cittadini serbi residenti nel nord del Kosovo, scesi in piazza per rigettarne i contenuti e chiedendo, sia l’istituzione di un governo locale, sia un referendum in Serbia sull’accettazione dell’accordo. Anche da parte albanese non sono mancate le manifestazioni di disappunto.  Forti le proteste provenienti dal movimento Vetëvendosje  (Autodeterminazione) – la seconda forza di opposizione nel Parlamento di Pristina – che ha bocciato l’intesa come un sabotaggio del processo di State building del Kosovo, e una resa alle aspirazioni di Belgrado di ottenere un’entità serba all’interno dei confini del Kosovo. L’incomprensione più grande verte però proprio sulla natura dell’accordo. Se per Pristina si è trattato dell’ennesimo dato a favore di una ormai conclamata indipendenza, da Belgrado hanno chiarito sin da subito che l’accordo non influisce in alcun modo sullo status del Kosovo, del quale la Serbia non intende riconoscere l’indipendenza.

LO STATUS GIURIDICO DEL KOSOVO E LE RIPERCUSSIONI POLITICHE – Ed è proprio lo status giuridico del Kosovo, il suo essere o meno uno Stato vero e proprio, la discriminante in base alla quale stabilire la legittimità della creazione di un esercito alle dipendenze di Pristina. Se difatti il Kosovo è uno Stato indipendente a tutti gli effetti, allora predisporre degli strumenti atti a difendere la propria sovranità è indubbiamente un suo diritto. Va però ricordato che, per quanto riguarda il diritto internazionale, la Risoluzione 1244 riconosce sì un’ampia autonoma alla regione, ma impegna gli Stati a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia, di cui il Kosovo rimane parte, anche se sotto amministrazione temporanea da parte delle Nazioni Unite. In ultimo, vi sono diversi aspetti politici le cui conseguenze dovranno essere valutate tanto dagli Stati coinvolti quanto dagli Stati terzi: in primis, l’effetto che la scelta di Pristina può avere sui rapporti con Belgrado, ad un anno dalla conclusione dei tanto agognati accordi di normalizzazione. Inoltre, sono da considerare le ripercussioni che le posizioni tenute dagli Stati occidentali potrebbero avere sulla crisi in Ucraina, con cui il caso kosovaro presenta non poche analogie.

Carlo Perigli

@c_perigli


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Collapse of Kosovo government leads to early elections


By Paul Mitchell 
7 June 2014


Early elections are taking place in Kosovo this Sunday, following the collapse last month of the coalition government of Kosovo Prime Minister Hachim Thaci. Thaci is the leader of the Democratic Party (PDK) and a former Kosovo Liberation Army (KLA) commander.

His government wanted to change the Constitution to transform the Kosovo Security Force (KSF), a home for ex-KLA fighters, into an army and reduce the number of Kosovo Assembly seats reserved for ethnic minorities.

Both proposals were considered threats by deputies belonging to the ethnic Serb minority who boycotted the Assembly debate preventing a quorum being reached. As a result, the Assembly was dissolved with Thaci declaring, “a parliament that cannot launch its own army should not continue.”

In 2010, in the last Assembly elections to the 120 seat Assembly, Thaci’s PDK won 34 seats, the Democratic League of Kosovo (LDK) 27 seats, the Self Determination Movement (LVV) 14 seats, the Alliance for the Future of Kosovo (AAK) 12 seats and the New Kosovo Coalition (AKR) eight seats. Thirteen seats went to Serbian parties and 12 to other minorities (Roma, Ashkali, Bosniak, Turkish and Gorani).

After the election, the PDK formed a minority government with the AKR, created in 2006 by the world’s richest ethnic Albanian, construction magnate Behgjet Pacolli.

Dissatisfaction with the political and economic setup is indicated by voter turnout in the Assembly elections, which has been below 50 percent since 2005. The combined vote for the two main parties—the PDK and LDK—has plummeted from around 80 percent in 2001 to around 50 percent today. This is because they are closely associated in the public’s mind with Kosovo remaining one of the poorest regions in Europe, with unemployment estimated at between 35 and 60 percent and almost 40 percent of people living in poverty. At the same time, a political/criminal network has made a fortune out of the privatisation of public assets, narcotics, human trafficking, corruption and nepotism.

Opinion polls suggest the PDK could struggle to hold onto power, even though Thaci has attempted to overcome criticisms by promising 500 million euros for agricultural reform and the creation of 200,000 new jobs—promises matched by LDK leader Isa Mustafa and the AAK’s Ramush Haradinaj. Commentators point out that it would require an impossible 20 percent growth rate to achieve these levels of employment.

The polls suggest the main beneficiary of Sunday’s election will be Self-Determination (LVV). Founded in 2004 and led by ex-KLA political officer Albin Kurti, the party describes itself as “left nationalist”, has consistently opposed EU/US intervention in Kosovo and called for a referendum of union with Albania. It has not been tarnished in the same way as the PDK and LDK attacking privatisation as “a corruption model, contributing to increasing unemployment, ruining the economy, and halting economic development of the country”. The 12.7 percent vote the LVV gained in the first Assembly elections it took part in 2010 and the ousting of the LDK’s leader Isa Mustafa as mayor of the capital Pristina last year by LVV candidate Shpend Ahmeti have been described as “historic”.

Two major issues have surrounded the election campaign—how to persuade the Serb minority (10 percent of the population) to vote and what to do about former KLA leaders now facing war crimes charges.

Both issues are linked to the Western campaign to dismember the former Republic of Yugoslavia and counter Russian influence in the Balkans—an objective that remains until this day.

During the1998-99 Kosovo conflict, Thaci was inserted at the head of the Kosovo negotiating team at the Rambouillet conference, supplanting Ibrahim Rugova, then leader of the “non-violent” LDK. When the 14-week bombardment of Serbia began the KLA—now delisted as a terrorist organisation by the US—was used as a proxy military force on the ground.

Following the defeat of Serbia and the ousting of President Slobodan Milosevic, UN Security Council resolution 1244 was passed and placed Kosovo under the control of a civilian United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK) headed by a Special Representative and a military NATO-led KFOR force.

The resolution was a fudge from the start—removing Kosovo from the practical control of Serbia whilst guaranteeing the sovereignty and territorial integrity of the Yugoslav federation.

There was no mention of Kosovan independence in the resolution but this did not stop the Western powers pushing ahead with the secession of Kosovo. The 2005 plan by former Finnish prime minister Martti Ahtisaari for “conditional independence” of the province supervised by an International Civilian Office was adopted as was recognition of Kosovo’s unilateral declaration of independence in 2008—something which Russia, China, India and most states in Africa and South America still do not accept.

The Western powers continue to dictate what happens in Kosovo with the plans to create a new army included in the Strategic Security Sector Review, the final version of which, according to press reports was “imposed” by the Security Advisory Unit of the International Civilian Office.

Another consequence of the newly-formed western protectorate was the incorporation of many ethnic Serbs, concentrated in the north, who have remained out of the control of the central government. A virtual Serb self-government has operated in the area and protests and outbreaks of violence have occurred whenever Pristina has tried to exert control.

However, with Serbia and Kosovo seeking admission to the EU, NATO and other Western institutions have been increasing pressure on the two countries to “normalise” their relations.

Following the April 2013 EU-mediated Brussels Agreement between the two countries, the majority of Serbian parallel institutions have been dissolved including the police force and judiciary. A soon-to-be created Community of Serbian Municipalities in Kosovo will retain control of economic development, education, health, and planning.

Ministers in Serbia, whilst making the ritual denunciations that they will never recognise Kosovo, encouraged ethnic Serbs to take part in the first local elections in Northern Kosovo in late 2013. However turnout was very low—single figure percentages in some municipalities—and marred by sporadic violence.

To prevent a re-occurrence in the Assembly elections, politicians in Serbia and northern Kosovo have been pleading with ethnic Serbs to vote claiming a high turnout could make them a major political force in the Assembly—especially if they all voted for the single Serb electoral list Citizens’ Initiative Srpska. This is a distinct possibility given there are over 1,200 candidates from 30 political entities, 18 political parties, seven initiatives and four coalitions contesting the 120 seats.

As a condition of Kosovo’s progress toward the EU, the Western powers have also increased pressure for it to set up a Special Court to try KLA leaders accused of war crimes in the Kosovo war. The allegations were the subject of a 2011 report by Council of Europe investigator, Dick Marty, which described how, after the cessation of the Kosovo conflict, the KLA operated a separate network of makeshift detention centres, which were used primarily for the gruesome practice of trafficking in human organs of abducted refugees.

Marty explicitly named Thaci and other PDK leaders and criticised the US, Germany, Britain and others for helping conceal the KLA’s activities and UNMIK and the International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia for destroying evidence.

Marty also drew attention to the fact that Washington was able to carve out a permanent military presence in Kosovo as part of its broader geo-political interests with “an Embassy endowed with impressive resources and a military base, Camp Bondsteel, of a scale and significance that clearly transcends regional consideration.”

In April, US Ambassador to Kosovo, Tracey Ann Jacobson, made it clear the demand for a Special Court involved a damage-control exercise. She insisted that “these are individual allegations, not allegations against a group of people, KLA, or against the war in general” and if they were not addressed, they “would inevitably end up in Kosovo being drawn in to a much longer process, possibly with a much broader scope” i.e., an investigation of the role of the US and other Western powers.

Within days, the Assembly, having heard their Master’s Voice and ignored Thaci’s pleas about Kosovo’s “humiliation and injustice”, voted to sacrifice their “war heroes” and create a Special Court.




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Le Courrier des Balkans

Kosovo : l’opposition se coalise pour chasser Thaçi et le PDK


De notre correspondant à Pristina


Mise en ligne : mercredi 11 juin 2014
La Ligue démocratique du Kosovo (LDK), l’Alliance pour l’avenir du Kosovo (AAK) et l’Initiative pour le Kosovo (Nisma për Kosovën) ont signé mardi un accord pour former le nouveau gouvernement du Kosovo. Le PDK d’Hashim Thaçi, minoritaire mais arrivé en tête des élections de dimanche dénonce une initiative « anticonstitutionnelle ».

Par B.K.


[PHOTO: Ramush Haradinaj, Isa Mustafa et Fatmir Limaj]


Selon l’accord signé par Isa Mustafa (LDK), Ramush Haradinaj (AAK) et Fatmir Limaj (Nisma), le poste de Premier ministre reviendrait à Ramush Haradinaj ; la présidence du Parlement et la présidence de la République à la LDK, tandis que Nisma devrait se contenter d’un poste de vice-Premier ministre. Le mandat de l’actuelle présidente du Kosovo, Atifete Jahjaga, expire en 2016. Selon l’accord, les trois partis partageront les autres postes proportionnellement à leur représentation parlementaire.

Selon les résultats préliminaires, c’est pourtant le Parti démocratique du Kosovo (PDK) qui arrive en tête avec 31,21% des voix. La Ligue démocratique du Kosovo (LDK) se positionne en deuxième position en recueillant 26,13%, puis viennent le mouvement Vetëvendosje, avec 13,61%, l’Alliance pour l’avenir du Kosovo (AAK) avec 9,65% et l’Initiative pour le Kosovo (Nisma për Kosovën), avec 5,36%.

Ce sont néanmoins les formations de l’opposition qui se sont empressées de créer un nouvel axe majoritaire, sous l’impulsion de Vetëvendosje, qui a fait monter la pression sur l’opposition, en appelant tout de suite les autres partis à ne pas s’allier au PDK. Vetëvendosje a néanmoins refuser de rejoindre la coalition, en posant comme conditions « une lutte efficace contre la corruption, l’arrêt des négociations sans conditions avec Belgrade et l’interruption de la privatisation du KEK, des mines Trepça et des PTK ».

« Notre objectif conjoint était de ne pas permettre une nouveau gouvernement de Thaçi. Ce serait une poursuite de l’agonie sur le plan de l’économie, de l’Etat de droit et de l’intégration européenne », a commenté Ramush Haradinaj en promettant une lutte sans compromis contre la corruption.

Le PDK a réagi en estimant que l’action des partis de l’opposition était anti-constitutionnelle et en affirmant qu’il revient au parti arrivé en tête des élections de former le gouvernement. « La volonté des citoyens ne peut pas être modifiée par des accords anti-constitutionnels. Le gouvernement sera dirigé par le PDK ou bien il faudra convoquer des élections anticipées », a affirmé Hajredin Kuçi, vice-président du PDK.

Si jamais Vetëvendosje ! ne se rallie pas à la LDK, le AAK et Nisma, ces derniers dépendront des votes minoritaires. « Nous aurons la majorité parlementaire, au moins avec l’AAK ; et c’est à nous que revient le mandat pour former le gouvernement. Si la présidente Atifete Jahjaga offre en premier à Hashim Thaçi de former le gouvernement, c’est à nous, selon la Constitution, d’avoir la deuxième occasion. Mais s’ils veulent politiser cette question, nous irons aux élections anticipées en coalition et notre victoire est assurée. Il n’y a pas de retour en arrière », a riposté Isa Mustafa.

Alors que les résultats définitifs n’ont pas encore été certifiés par la Commission électorale, le débat politique s’est donc déplacé sur le plan juridique et constitutionnel, tandis que les ambassadeurs occidentaux influents à Pristina ne se sont toujours pas prononcés sur les derniers événements.






(deutsch / english / italiano)

Miliardario e spia USA è presidente dell'Ucraina

1) U.S. blesses fraudulent Ukraine election (WW / Greg Butterfield, 29.5.2014)
2) BOROTBA: Il presidente oligarca: naturale risultato di Euromaidan / President Oligarch — the natural result of Euromaidan
3) Poroshenko e la CIA (Rete Voltaire, 11.6.2014)
4) Wikileaks, Poroshenho fu informatore Usa (ANSA, 30 maggio 2014)
5) Il Cremlino indaga sui rapporti tra Poroshenko e gli USA (ATS, 30 maggio 2014)
6) Poroshenko, l’insider americano a Kiev (Simone Pieranni, 30.5.2014)
7) Germans slam Berlin for supporting Nazi Ukrainians (Voltaire Net, 25 May 2014)
8) Germany: Leading journalists attempt to censor TV program (Peter Schwarz / WSWS, 30 May 2014)
9) Fascist propaganda on the front page of the Frankfurter Allgemeine Zeitung  (Peter Schwarz / WSWS, 4 June 2014)
10) Für Frieden und Freiheit  (GFP, 30.05.2014)


Vedi anche:


Who is Petro Poroshenko

L’Allemagne est-elle impliquée en Ukraine ?

È ufficiale: in Ucraina i nazisti si schierano col presidente
In cambio Poroshenko gli ha promesso armi, aiuti di Stato e una legge che liberalizzerà le armi, «come in America». A oggi i miliziani di Pravy Sektor sono 5.000. 
Franco Fracassi - 9 giugno 2014

The Finnish Model
In the West's hegemonic struggle against Russia, German government advisers are calling for close military ties between Ukraine and the Western war alliance…
GFP 2014/06/05

L'Ucraina è un quadrato della scacchiera del gioco geopolitico
Peter Koenig | globalresearch.ca, 01/06/2014


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http://www.workers.org/articles/2014/05/29/u-s-blesses-fraudulent-ukraine-election/

U.S. blesses fraudulent Ukraine election

By Greg Butterfield on May 29, 2014

May 27 — The U.S.-backed junta of neoliberal politicians, oligarchs and fascists, which came to power in a coup against the elected government of Ukraine, staged presidential elections May 25 in an attempt to legitimize its rule.

Billionaire oligarch Peter Poroshenko, known as the “Chocolate King,” claimed victory with 54 percent of the vote. (CNN, May 27) His closest competitor, Yulia Tymoshenko of the far-right Fatherland party, got 12.9 percent.

Two candidates closely associated with the demands of the resistance movement in southeastern Ukraine — Oleg Tsarev, formerly of the Party of Regions, and Communist Party leader Peter Simonenko – withdrew. Both were subject to assassination attempts and denounced the election as a fraud.

Two reporters from Russia’s LifeNews were abducted, tortured and deported. An Italian journalist and his Russian interpreter were killed.

According to RT, Right Sector fascists armed with knives surrounded the Central Election Commission in Kiev on election day. Journalists trying to enter were subject to their approval.

Earlier, Right Sector leader Dymtro Yarosh had threatened that his forces would “guard” polling stations in eastern Ukraine. (Kyiv Post, May 23)

Nevertheless, U.S. and European election observers – headed by U.S. war criminal Madeleine Albright – rushed to declare the elections “free and fair,” even before the official results were in.

President Obama offered his congratulations via Twitter. Russian President Vladimir Putin, facing provocative military and economic threats from the U.S. and NATO, signaled that he would recognize the election results and negotiate with Poroshenko.

The U.S. and European imperialists hope Poroshenko’s ascension will finally cement their plans to rule Ukraine through an International Monetary Fund austerity program. They want to destroy the resistance movement in the southeast, which has taken an increasingly anti-capitalist direction.

Boycott vs. ‘elections of blood’

While the junta says between 55 and 60 percent of eligible voters participated, three areas claimed by Kiev did not participate at all – the People’s Republics of Donetsk and Lugansk, as well as the Autonomous Republic of Crimea, which has chosen to join the Russian Federation. These three areas contain nearly 20 percent of the total Ukrainian population of 45.6 million.

In other southeastern regions like Kharkov, Odessa and Dnipropetrovsk, many heeded the call to boycott what were described as “the elections of blood.” This refers to the May 2 massacre of 48 people by neo-Nazis in Odessa and the ongoing Ukrainian military assault on Donetsk and Lugansk.

Election watchdog group Opora, cited by the pro-junta Kyiv Post, gave a figure of 45 percent voter participation overall, while exit poll data suggested an even lower turnout. (Global Research, May 25)

In Donetsk city on May 25, hundreds marched to the estate of oligarch Rinat Akhmetov, Ukraine’s richest boss and owner of several mines. Protesters demanded that the new people’s government seize Akhmetov’s mansion and nationalize his properties. Akhmetov had staged a “strike” of his employees against the Donetsk People’s Republic in the run-up to the elections.

Hundreds also rallied in Kharkov, including supporters of the revolutionary socialist organization Union Borotba (Struggle), despite growing attacks on the anti-fascist movement.

Regime escalates violence

Although Poroshenko had promised negotiations, as soon as his victory was announced, the Ukrainian military assault escalated. He boasted, “The anti-terrorist operation … should and will last [only] hours.” (Guardian, May 26)

Kiev immediately launched punishing airstrikes on Donetsk in an attempt to regain control of its airport.

The National Guard – comprised mostly of fascist gang members in uniform – carried out attacks on civilian housing blocks in the cities of Donetsk and Slavyansk using heavy weaponry, and causing many casualties.

Aleksandr Boroday, prime minister of the Donetsk People’s Republic, reported that 50 civilians and 50 antifascist militia members had been killed May 26, as the region braces for more attacks. (RT, May 27)

Donetsk residents are being urged to stock up on supplies and stay indoors if possible. All people’s militia members, health care workers and activists are being mobilized for the defense of the city.

On May 27, workers at several mines in the southeast launched strikes against the junta’s military offensive.

“Miners from the Skochinskogo, Abakumova, Chelyuskintsev and Trudovskaya mines have not been working today,” a representative told RIA Novosti. “People have been standing by the entrances, not wanting to go underground. They are having rallies demanding the suspension of military actions.”



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http://www.senzatregua.it/?p=1139

IL PRESIDENTE OLIGARCA: NATURALE RISULTATO DI EUROMAIDAN


POSTED ON MAG 28, 2014 IN INTERNAZIONALE | 0 COMMENTS
* Traduzione a cura della redazione di Senza Tregua

Comunicato di Union Borotba (Lotta) sulle “elezioni di sangue” in Ucraina
Le cosiddette elezioni, tenute dalla giunta Kiev il 25 Maggio, non si possono considerare giuste o legittime. Le elezioni tenute nel bel mezzo della guerra civile nella parte orientale del paese e del terrore neonazista nel Sud e Centro, non sono state libere.
Lo stesso corso della campagna elettorale è stato senza precedenti con ogni immaginabile violazione delle norme democratiche. I candidati presidenziali sono stati picchiati e non è stata permessa la campagna. Diversi candidati si sono ritirati per protesta contro la farsa.
A Odessa e in altre regioni, sono stati documentati casi di seggi “sorvegliati” da unità ultra-nazionaliste portati da Kiev e dall’Ucraina occidentale. Ciò non può essere definito altro che come una pressione esplicita sugli elettori.
In Crimea e nelle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, le cosiddette elezioni non si sono svolte. Nelle regioni Odessa e Kharkov, i seggi erano quasi vuoti. Molti di coloro che sono andati a votare hanno annullato il loro voto, scrivendo slogan contro la giunta di Kiev. Tuttavia, la cosiddetta Commissione Elettorale Centrale ha dichiarato una partecipazione del 60%!
Migliaia di persone in diverse città del paese sono scese in strada per protestare contro le “elezioni di sangue”. Tuttavia, i risultati annunciati dalla giunta saranno riconosciuti dell’obbediente Commissione Elettorale Centrale e dagli osservatori Occidentali.
Va notata l’ipocrisia dei cosiddetti campioni delle elezioni giuste. Essi criticano le elezioni viziate nella Federazione Russa e in altri paesi, ma adesso chiudono un occhio alla palese falsificazione e flagrante violazione delle “elezioni” del 25 Maggio. Questo dimostra ancora una volta che il criterio dell’”onestà” per l’opinione pubblica liberal ufficiale non è reale rispetto alle procedure elettorali, ma è leale al regime che tiene le elezioni per l’imperialismo occidentale.
Come previsto, il vincitore dell’”elezione” presidenziale è stato il miliardario Poroshenko. Poroshenko, insieme ad altri miliardari come Igor Kolomoisky e Sergei Taruta, è divenuto la personificazione del trasferimento diretto del potere statale ai grandi capitalisti. Poroshenko è il principale esempio della classe dirigente dell’Ucraina “indipendente” – la parassitaria oligarchia borghese che ha saccheggiato il paese negli ultimi 20 anni.
Il percorso politico di Poroshenko è rivelatore. Alla fine degli anni ’90 era un membro leale dell’allora Presidente Kučma del Partito Social Democratico d’Ucraina (Unito). Poi fu uno dei fondatori del Partito delle Regioni. Poi – un amico e alleato del presidente Viktor Yushchenko. Un leader lobbista per la cosiddetta “integrazione Europea”, Poroshenko è infine diventato uno dei leader e sponsor di Euromaidan.
Non c’è dubbio che Poroshenko continuerà il corso di Turchinov e Yatsenyuk nell’interesse di un sottile strato dell’oligarchia. Poroshenko continuerà la sporca guerra della giunta contro il proprio popolo nel Donbass. Poroshenko continuerà ad attuare le misure antipopolari imposte dal FMI portando il Paese al disastro economico.
Il trasferimento diretto del potere all’oligarchia e il rafforzamento delle tendenze neo-fasciste sono conseguenze dirette di Euromaidan, come Unione Borotba aveva avvertito lo scorso autunno. Solo le persone politicamente molto ingenue potevano aspettarsi un risultato diverso da un movimento guidato da neoliberisti e ultra-nazionalisti, e sponsorizzato dai più grandi capitalisti.
I risultati hanno mostrato una sconfitta devastante per i nazionalisti radicali – e Tyagnybok [leader di Svoboda] e Yarosh [leader di Settore Destro], che insieme hanno raggiunto solo il 2 %. Il terrore contro il popolo, contro la sinistra e le forze democratiche e lo spiegamento di unità combattenti nazionaliste, non hanno promosso la crescita della popolarità delle forze fasciste. Tuttavia, nonostante il loro scarso sostegno pubblico, l’estrema destra rimarrà un elemento importante del sistema politico della dittatura Kiev. Il loro ruolo è la violenta repressione degli oppositori del regime oligarchico. Questo è il ruolo tipico dei movimenti fascisti.
Noi non riconosciamo l’esito di queste pseudo-elezioni ignorate dalla maggioranza. Noi continueremo la campagna di disobbedienza civile contro la giunta di oligarchi e nazionalisti.



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http://borotba.org/president_oligarch_–_the_natural_result_of_euromaidan.html

http://www.workers.org/articles/2014/05/27/president-oligarch-natural-result-euromaidan/

President Oligarch — the natural result of Euromaidan

By Workers World staff on May 27, 2014

Statement of Union Borotba (Struggle) on Ukraine’s “elections of blood”

Following is a report and analysis of the May 25 elections by Union Borotba (Struggle), a revolutionary socialist and anti-fascist organization in Ukraine, translated by Workers World contributing editor Greg Butterfield and available on the Borotba.org website. Oligarch Petro Poroshenko declared himself the landslide winner of the presidential election, getting four times the vote of his nearest rival, Julia Timoshenko.

The so-called elections held by the Kiev junta on May 25, cannot be considered fair or legitimate. Elections held in the midst of civil war in the east of the country and neo-Nazi terror in the south and center were not free.

The very course of the election campaign was unprecedented in its every conceivable violation of democratic norms. Presidential candidates were beaten and not allowed to campaign. Several candidates withdrew in protest against the farce.

In Odessa and other regions, there were documented cases of polling stations being “guarded” by ultranationalist units brought from Kiev and western Ukraine. This cannot be called anything but explicit pressure on the voters.

In Crimea and the Donetsk and Lugansk People’s Republics, the so-called elections were not held. In the Odessa and Kharkov regions, polling stations were almost empty. Many of those who came to vote spoiled their ballots, writing slogans against the Kiev junta. Nevertheless, the so-called Central Election Commission claimed a turnout of 60 percent!

Thousands of people in different cities of the country came out to protest against the “elections of blood.” Nevertheless, the results announced by the junta will be recognized by the obedient Central Electoral Commission and Western observers.

The hypocrisy of the so-called champions of fair elections should be noted. They criticize flawed elections in the Russian Federation and other countries, but now turn a blind eye to the blatant falsification and flagrant violations of the “elections” of May 25.This once again shows that the criterion of “honesty” for official liberal public opinion is not real compliance with election procedures, but the loyalty to Western imperialism of the regime that holds elections.

As expected, the winner of the presidential “election” was billionaire Poroshenko. Poroshenko, along with other billionaires like Igor Kolomoisky and Sergei Taruta, became the personification of the direct transfer of state power to the big capitalists. Poroshenko is a prime example of the ruling class of “independent” Ukraine — the parasitic bourgeois oligarchy that has looted the country for the last 20 years.

Poroshenko’s political path is revealing. In the late 1990s, he was a loyal member of then-President Leonid Kuchma’s Social Democratic Party of Ukraine (united) party. Then he was one of the founders of the Party of Regions. Then — a friend and ally of President Viktor Yushchenko. A leading lobbyist for so-called “European integration,” Poroshenko then became one of the leaders and sponsors of Euromaidan.

There is no doubt that Poroshenko will continue the course of  Alexander Turchinov and Arseny Yatsenyuk in the interests of a narrow layer of the oligarchy. Poroshenko will continue the junta’s dirty war against its own people in the Donbass. Poroshenko will continue to implement the anti-people measures imposed by the International Monetary Fund and lead the country to economic disaster.

The direct transfer of power to the oligarchy and the strengthening of neofascist tendencies are direct consequences of Euromaidan, which Union Borotba warned of last autumn. Only very politically naive people could expect a different result from a movement led by neoliberals and ultranationalists, and sponsored by the biggest capitalists.

The results showed a devastating defeat for the radical nationalists — and Tyagnybok [leader of Svoboda] and Yarosh [leader of Right Sector], who together polled only 2 percent. Terror against the people, against the left and democratic forces, and deployment of nationalist combat units, have not promoted the growth of popularity of the fascist forces. Nevertheless, despite their low public support, the extreme right will remain an important element of the political system of the Kiev dictatorship. Their role is the violent suppression of opponents of the oligarchic regime. This role is typical of fascist-type movements.

We do not recognize the outcome of these pseudo-elections ignored by the majority. We will continue the campaign of civil disobedience against the junta of oligarchs and nationalists.

Violent attacks by neo-Nazi forces drove leaders from Kiev after the February coup. Borotba members then played a leading role in the resistance movement in southeastern Ukraine, especially in the regions of Odessa and Kharkov. Their members were among those killed and injured in the May 2 Odessa massacre. Because of increasing repression, since May 9, Borotba activists throughout the country have been forced to continue their work underground.


=== 3 ===

FRANÇAIS  http://www.voltairenet.org/article184193.html
ESPAÑOL  http://www.voltairenet.org/article184200.html
ENGLISH  http://www.voltairenet.org/article184209.html
PORTUGUÊS  http://www.voltairenet.org/article184221.html
DEUTSCH http://www.voltairenet.org/article184234.html


http://www.voltairenet.org/article184247.html

Poroshenko e la CIA

RETE VOLTAIRE  | 11 GIUGNO 2014  

Il presidente dell’Ucraina, Petro Poroshenko, ha ricevuto una delegazione dei servizi segreti atlantisti guidati dal comandante delle operazioni segrete della CIA Frank Archibald.
La delegazione comprendeva l’ex-capo della stazione CIA in Ucraina Jeffrey Raymond Egan e il suo successore Mark Davidson, l’ex-capo della stazione in Turchia Mark Buggy, l’ex-capo dell’intelligence polacca colonnello Andrzej Derlatka, e l’agente della CIA che dirige la compagnia di assicurazione Brower, copertura dell’agenzia, Kevin Duffin.
Le due parti hanno firmato un accordo di cooperazione militare.

Traduzione di Alessandro Lattanzio


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http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2014/05/30/wikileaks-poroshenho-fu-informatore-usa_1c0b9f5c-167e-4b0b-9cd1-fba903c426d8.html

Wikileaks, Poroshenho fu informatore Usa

Cable americani diffusi a Mosca, giudizi e sospetti imbarazzanti

Redazione ANSA
MOSCA 30 maggio 2014 21:32

(ANSA) - MOSCA, 30 MAG - I media russi cominciano a scavare nel passato del neo presidente ucraino Petro Poroshenko, evidenziando i suoi stretti legami con gli Usa e i giudizi non sempre lusinghieri della diplomazia americana. Rovistando nell'archivio di Wikileaks, dove ci sono almeno 350 documenti con il nome dell'oligarca ucraino si scopre che Poroshenko era censito come "informatore" dell'ambasciata americana a Kiev nel 2006. Mentre in un altro cable appare sospettato di corruzione, al pari di Iulia Timoshenko.


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http://www.gdp.ch/notizie/esteri/il-cremlino-indaga-sui-rapporti-tra-poroshenko-e-gli-usa-id27185.html

Il Cremlino indaga sui rapporti tra Poroshenko e gli USA

I media russi ufficiali cominciano a scavare nel passato del neo presidente ucraino Petro Poroshenko, al quale Putin non ha ancora fatto le sue congratulazioni, evidenziando i suoi stretti legami con gli USA.

I media russi ufficiali o filo Cremlino cominciano a scavare nel passato del neo presidente ucraino Petro Poroshenko, al quale Putin non ha ancora fatto le sue congratulazioni, evidenziando i suoi stretti legami con gli Usa e i giudizi non sempre lusinghieri o apparentemente opportunistici della diplomazia americana.

Rossiskaia Gazeta, organo ufficiale del governo, e la tv filo Cremlino Russia Today, hanno rovistato nell'archivio di Wikileaks, dove ci sono almeno 350 documenti con il nome dell'oligarca ucraino. Il quotidiano governativo sottolinea che Poroshenko era un «informatore» dell'ambasciata Usa a Kiev sulla situazione politica interna. In un cable del 2006, l'allora ambasciatore statunitense William Taylor lo definisce il «nostro candidato alla carica di speaker del parlamento». «Non c'è alcun dubbio che Poroshenko abbia già dato prova della propria fedeltà agli interessi di Usa e Ue», commenta il giornale. 

Russia Today dà conto dell'evoluzione della posizione della diplomazia americana verso il magnate tra il 2006 e il 2011: nel 2006, quando Poroshenko era un deputato, l'allora ambasciatore Usa a Kiev John Herbst lo descrive come un «oligarca caduto in disgrazia».  Pochi mesi dopo la numero 2 della missione diplomatica statunitense Sheila Gwalney lo dipinge come «macchiato da credibili accuse di corruzione», dietro le quali c'era, tra gli altri, l'allora premier Iulia Timoshenko.

Nel 2009, l'anno in cui l'oligarca diventa ministro degli Esteri, le descrizioni a stelle e strisce cominciano a cambiare, attribuendogli note personali più favorevoli. L'allora incaricato d'affari ad interim, James Pettit, scrive di lui che è «un imprenditore ricco con ampie connessioni politiche, che auspica una maggiore integrazione europea e relazioni più pragmatiche con la Russia». Il tabloid Komsomolskaya Pravda, anch'esso filo Cremlino, rispolvera invece una vecchia condanna del padre di Poroshenko, Alexiei: 5 anni nel 1986 per malversazione, come direttore di una fabbrica per la riparazione di trattori e macchine agricole nella città moldava di Benderi.

(ATS) (30.05.2014 - 17:05)


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http://ilmanifesto.it/poroshenko-linsider-americano-a-kiev/

Poroshenko, l’insider americano a Kiev

Ucraina, Usa e WikiLeaks. Un cable del 2006 dall'ambasciata di Kiev, descrive Poroshenko come "l'uomo americano in Ucraina"

di  Simone Pieranni, su Il Manifesto del 30.5.2014

Il «re del cioc­co­lato», l’oligarca, il tycoon, l’uomo del com­pro­messo pos­si­bile tra Usa e Rus­sia, il busi­ness­man capace, forse, di nego­ziare per­fino con Putin. Negli ultimi giorni le defi­ni­zioni dedi­cate al neo pre­si­dente ucraino Poro­shenko si sono spre­cate, ma quella più pecisa, netta e rive­la­to­ria, si trova in un cable del 2006, rila­sciato da Wiki­leaks gio­vedì notte.

A scri­vere è l’allora amba­scia­tore ame­ri­cano a Kiev e nella rela­zione Poro­shenko viene defi­nito come «our insi­der in Ukraine». Nel 2006, quindi, Poro­shenko era già con­si­de­rato «l’uomo ame­ri­cano a Kiev». <

Nel cable in que­stione l’oligarca si pone come media­tore tra i pro­ta­go­ni­sti della rivo­lu­zione aran­cione, Tymo­shenko e Yushenko, spen­den­dosi in par­ti­co­lari sulle vicende poli­ti­che dell’allora governo ucraino. Nel 2006, poteva sem­brare piut­to­sto ovvio che un per­so­nag­gio di rilievo come Poro­shenko, non solo busi­ness­man ma anche poli­tico (sarà mini­stro degli esteri tra il 2009 e il 2010 e mini­stro del com­mer­cio nel governo dell’ex pre­si­dente Yanu­ko­vich) diven­tasse un «insi­der» degli Usa per com­pren­dere al meglio la situa­zione poli­tica del paese.

Ana­liz­zare quel cable con il senno di poi, per­mette però di riscon­trare una linea­rità negli eventi. Se ci fer­miamo solo agli ultimi sei mesi delle vicende poli­ti­che ucraine, potremmo met­tere in fila una serie di acca­di­menti che com­por­tano una pre­senza degli Stati uniti nelle dina­mi­che poli­ti­che dell’Ucraina, che non appa­iono certo improv­vi­sate. Nel momento in cui infu­ria la pro­te­sta di Maj­dan, con Yanu­ko­vich pre­sto mol­lato tanto dai suoi quanto da Putin, la neo­con Vic­to­ria Nuland, assi­stente del segre­ta­rio di Stato Kerry, si fa piz­zi­care nel corso di una tele­fo­nata infuo­cata con­tro l’Ue.

Durante la con­ver­sa­zione Nuland spon­so­rizza in modo ener­gico Yatse­niuk, l’uomo con­si­de­rato più vicino — in quella fase — agli ame­ri­cani. Qual­che set­ti­mana più tardi, dopo i cento morti di Maj­dan, la fuga di Yanu­ko­vich e la nego­zia­zione tra lea­der della pro­te­sta e piazza, esce fuori dal cilin­dro Yatse­niuk, nuovo pre­mier ucraino. Primo passo: accordo con il Fmi. Nei cable pre­senti sul data­base di Wiki­leaks, Yatse­niuk com­pare un paio di volte e viene descritto come per­sona «affi­da­bile» dai fun­zio­nari ame­ri­cani. Un gio­vane su cui contare.

Poco dopo la sua nomina, Yatse­niuk lan­cia l’offensiva con­tro le regioni orien­tali; un’azione mili­tare che dovrebbe garan­tire, a can­no­nate, quella pace neces­sa­ria per­ché si pos­sano svol­gere le ele­zioni pre­si­den­ziali. La pace non arriva, le urne invece si aprono nelle regioni occi­den­tali e matu­rano un suc­cesso tanto ampio, quanto pre­vi­sto, pro­prio dell’«insider» Poro­shenko. Due uomini «ame­ri­cani» alla guida di un paese uscito da un con­flitto di piazza e in preda a una guerra civile e al cen­tro di un con­ten­zioso non da poco con la vicina Rus­sia, ovvero la minac­cia di un allar­ga­mento a est della Nato.

Wiki­leaks ha un archi­vio vasto di mate­riale e natu­ral­mente la noti­zia del cablerela­tivo al neo pre­si­dente ucraino non poteva non sol­le­ti­care la curio­sità. Su Poro­shenko si espri­mono anche altri ame­ri­cani, nel corso degli anni. Nel 2006 la numero 2 della mis­sione diplo­ma­tica Usa a Kiev Sheila Gwal­ney, lo dipinge come un uomo «mac­chiato da cre­di­bili accuse di cor­ru­zione», die­tro le quali ci sarebbe stata l’allora pre­mier Tymo­shenko. Ma dal 2009, quando l’oligarca diventa mini­stro degli Esteri, le descri­zioni comin­ciano a cam­biare; Poro­shenko torna ad essere affi­da­bile: è di nuovo l’uomo giu­sto, al posto giusto.


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ITALIANO: http://www.voltairenet.org/article184236.html
FRANÇAIS: http://www.voltairenet.org/article183957.html 
ESPAÑOL: http://www.voltairenet.org/article183959.html 
 فارسى : http://www.voltairenet.org/article183978.html 
РУССКИЙ: http://www.voltairenet.org/article183985.html 
DEUTSCH: http://www.voltairenet.org/article184026.html


http://www.voltairenet.org/article183966.html

Germans slam Berlin for supporting Nazi Ukrainians

VOLTAIRE NETWORK | 25 MAY 2014 

German Foreign Minister Frank-Walter Steinmeier lost his temper at an election rally of the SPD (Social Democratic Party of Germany) on the Alexanderplatz in Berlin.

The Minister was defending his policy in Ukraine when he was interrupted by hecklers for his support for Ukrainian Nazis. He snapped back saying that they were the instigators of war, while the European Union and the social democrats stood for peace.

This is not the first time that the German government is criticized for its backing of Ukrainian extremists against Russia. The three former chancellors Helmut Schmidt, Helmut Kohl and Gerhard Schröder expressed their misgivings and even opposition vis-à-vis this policy. Last week Chancellor Angela Merkel was also booed at a campaign rally by voters chanting "No support for Nazis in Ukraine!".

Former chief of the intelligence service, Steinmeier has played a central role in Germany’s support for the KLA terrorists during the NATO war in Kosovo. This time around, he is credited with being the main architect of German support for Ukrainian Nazis.

Exports from Germany to Russia fell by 16% in January-February 2014.

VIDEO: http://www.youtube.com/watch?v=AX5m5swD-QU


=== 8 ===

http://www.wsws.org/en/articles/2014/05/30/germ-m30.html

Germany: Leading journalists attempt to censor TV program


By Peter Schwarz 
30 May 2014


Since February, Germany’s second public television channel, the ZDF, has been broadcasting the political satire show “Die Anstalt” (the German word is used for a TV station as well as for a mental asylum) at regular intervals. Featuring 46-year-old Max Uthoff and 36-year-old Claus von Wagner, a younger generation of comedians has taken over from Urban Priol and Frank-Markus Barwasser, who headed the predecessor “News from the Anstalt”.

The first three editions of “Die Anstalt” were a refreshing antidote to the political coverage provided by the ZDF and other German media outlets. Using satire, the programs took up current issues and brought the public’s attention to themes which normally can only be learned about by carefully researching the Internet or reading the World Socialist Web Site.

Central themes of the programs were the revival of German militarism and the events in Ukraine. German President Gauck, Foreign Minister Steinmeier and Defense Minister von der Leyen, who all called for “an end to military restraint,” were subjected to the same merciless treatment as the lying reports in the German media about the events in Kiev.

The second edition of the program, on March 11, began with a depiction of the “Revolution” in Kiev’s central Maidan square. It was not presented as a “freedom struggle”, but rather as a revolt by forces which were mainly right-wing and on the payroll of vested interests. The fascist Right Sector was ruthlessly exposed, as was the corrupt oligarch Julia Timoshenko, played by comedian Jochen Busse.

The third edition on April 29 then addressed at length the propaganda pumped out by the German media aimed at provoking war with Russia.

One scene featured a chart with the names of five leading German journalists: Stefan Kornelius of the Süddeutsche Zeitung, Josef Joffe and Jochen Bittner from Die Zeit, and Günther Nonnenmacher and Klaus-Dieter Frankenberger of the Frankfurter Allgemeine Zeitung.

In addition, the chart showed the names of 12 transatlantic think tanks—including the Aspen Institute, the Trilateral Commission, the German Council on Foreign Relations and the German Academy for Security Policy—where “military heads, business leaders and politicians discuss foreign policy strategies in a discreet atmosphere,” as Wagner explained.

Lines on the chart traced the connections between the five journalists and the government-related think tanks. The result was a dense network. “Then all of these newspapers function as something like the local editions of the NATO press office,” Uthoff concluded.

The scene was based on material contained in the dissertation “The power over opinion. The influence of elites on key media and alpha journalists” by the media expert Uwe Krüger, and on a strategy paper by the Institute for Science and Policy (Stiftung Wissenschaft und Politik, SWP) on German foreign policy, which has also been commented on by the WSWS. Both papers had appeared in 2013 but were only known to a small circle. “Die Anstalt” has now made them available to a much broader audience.

The wide publicity sparked fierce protests against the media outlets that had been exposed. Uwe Krüger told the online magazine Telepolis: “I suppose that the pressure following a television show with millions of viewers is considerable. There has certainly been a shit storm of online articles, and apparently there were cancellations of subscriptions.”

The affected journalists reacted. They pressured the ZDF to ban similar revelations in the future. They responded to the exposure of their one-sided reporting and their incestuous relationship with the ruling elite by calling for censorship.

Josef Joffe wrote a letter of complaint to the editor of the ZDF, Peter Frey. Joffe evidently anticipated a favorable reaction because Frey is one of the “alpha journalists” exposed by Uwe Krüger. Together with Stefan Kornelius and Klaus-Dieter Frankenberger, Frey sits “on the Advisory Board of the Federal Academy for Security Policy, a think tank affiliated to the Federal Ministry of Defense,” Krüger writes.

Joffe justified his letter of complaint by arguing that the TV program had led “to many protest letters and cancellations of subscriptions”. He wrote that the treatment of the media in “Die Anstalt”—which is, of course, a satirical show!—was “not good journalism” and Krüger’s book was “not good science.” Joffe does not deny his close links to the institutions mentioned, but he does deny that they constitute “lobbies”. It is quite right and natural that many transatlantic organizations demanded “more armament”, he said.

In an interview with the online magazine Telepolis Krüger rejected Joffe’s complaint. He refuted Joffe’s assertion that the media and think tanks represented different points of view. His detailed analysis of the content revealed a broad degree of agreement by different newspapers regarding the following “major questions”: “that security should be defined in a broad sense, that German interests are to defended all over the world, that Germany should become more involved militarily and should maintain its partnership with the US, and that the German government should intensify its efforts to convince the German population on all of these issues.”

Stefan Kornelius defended his close ties to government-related think tanks in the NDR magazine Zapp. “This is my daily bread. I find it strange that I have to justify myself for this”, he said. The message of “Die Anstalt” affected all the newspapers, from Die Zeit to the FAZ and the taz. It posed the question: “Do we retain any legitimacy at all?” He did not want to destroy the forums where he worked as a journalist, Kornelius said.

Joffe’s letter of complaint to the editor of ZDF was evidently intended to put the authors of “Die Anstalt” under pressure—in other words to censor the program. To make this absolutely clear, Joffe also sent a “cease and desist” demand to the ZDF, as did Jochen Bittner.

If the ZDF agrees to such terms it commits itself not to repeat certain claims and to pay a heavy penalty in the event of a violation. Should it not agree to the terms the TV station could face legal action with resultant high legal costs and penalties.

A spokeswoman for the station told Telepolis that the ZDF rejected the cease and desist letter. No information was given to the public about other reactions inside the ZDF. The fourth episode of “Die Anstalt”, however, which was aired on May 27, does not bode well. It was disappointing, with little remaining of its former political freshness and aggressiveness. Uthoff and von Wagner concentrated their fire on the impending football World Cup, the FIFA and its corrupt boss Sepp Blatter—an easy target that does not tread on the toes of the German ruling establishment.



=== 9 ===


Fascist propaganda on the front page of the Frankfurter Allgemeine Zeitung

By Peter Schwarz 
4 June 2014

“If one tells a big lie, and repeats it often enough, then people will believe it in the end.” This principle of Joseph Goebbels, the Nazi propaganda minister, today serves many in the German media as a guideline for writing columns opposing the widespread resistance to a revival of German militarism.

Since Berlin and Washington helped a right-wing regime come to power in Ukraine, and thereby provoked a dangerous conflict with Russia, leading German media outlets have not shrunk from any lie in order to justify this policy. They play down the significance of the fascists of Svoboda and the Right Sector, depict the resistance in eastern Ukraine as a Russian conspiracy, and denounce their critics for daring to “understand Putin.”

But that is not enough. In order to undermine the opposition to the “end of military reticence” announced by the German government, they are even prepared to deny the historical crimes of German imperialism.

On Monday, the front page of the Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ) carried a comment piece uniting both positions, headlined “One-sided friendship.” It combined hateful attacks on Putin and Russia with a presentation of the Second World War which one usually reads only in Nazi publications.


(francais / italiano)

L'Unione Europea di fronte … e di dietro

1) Chi ha sabotato il gasdotto South Stream / La NATO spinge la UE verso l’«adattamento strategico» (Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci)
2) I tabù della sinistra radicale (Spartaco A. Puttini)
3) L'Unione Europea di fronte a se stessa (Sergio Cararo)
4) Samir Amin: Les élections européennes de mai 2014. nouvelles étape dans l’implosion du projet européen

Leggi anche:

I mediocri (e basta) dell'Unione Europea:
1) I mediocri fondatori dell'Unione Europea (Jacques-Marie Bourget)
2) La Nato spinge l’Ue nella nuova guerra fredda (Manlio Dinucci)

Gas, nazi e media: la verità sulla guerra ucraina
Un'azienda del gas, un oligarca e un'agenzia di pubbliche relazioni senza scrupoli, un gasdotto che non s'ha da fare e impronte che portano molto vicino alla Casa Bianca. 
Franco Fracassi - 12 giugno 2014


=== 1 ===

(en francais: Le sabotage du gazoduc South Stream
par Manlio Dinucci, Tommaso di Francesco

Chi ha sabotato il gasdotto South Stream

— Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci, 9.6.2014

Il governo bul­garo ha annun­ciato dome­nica scorsa di aver inter­rotto i lavori di costru­zione del South Stream, il gasdotto che dovrebbe tra­spor­tare gas russo nell’Unione euro­pea senza pas­sare per l’Ucraina. «Ho ordi­nato di fer­mare i lavori — fa sapere il pre­mier Pla­men Ore­shar­ski di un governo in crisi se non dimis­sio­na­rio -, deci­de­remo gli svi­luppi della situa­zione dopo le con­sul­ta­zioni che avremo con Bru­xel­les». La deci­sione è stata presa — manco a farlo appo­sta — il giorno prima dell’incontro tri­par­tito Russia-Ucraina-Ue sulle for­ni­ture di gas a Kiev.
Nei giorni scorsi il pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea, Josè Manuel Bar­roso, aveva annun­ciato l’apertura di una pro­ce­dura Ue con­tro la Bul­ga­ria per pre­sunte irre­go­la­rità negli appalti del South Stream.
Appena tre giorni prima, il 5 giu­gno, la dire­zione del Par­tito socia­li­sta bul­garo, che sostiene il governo Ore­shar­ski, dava per sicuro che il tratto bul­garo del gasdotto sarebbe stato costruito nono­stante la richie­sta di Bru­xel­les di fer­mare il pro­getto. «Per noi è d’importanza vitale», sot­to­li­neava il vice­pre­si­dente della com­mis­sione par­la­men­tare per l’energia, Kuiu­m­giev. E il pre­si­dente della Camera dei costrut­tori, Glos­sov, dichia­rava che «il South Stream è una boc­cata d’ossigeno per le imprese bulgare».

Che cosa è avve­nuto? Il pro­getto nasce quando, nel novem­bre 2006 (durante il governo ita­liano Prodi II), la russa Gaz­prom e l’italiana Eni fir­mano un accordo di par­te­na­riato strategico.

Nel giu­gno 2007 il mini­stro per lo svi­luppo eco­no­mico, Pier­luigi Ber­sani, firma con il mini­stro russo dell’industria e dell’energia il memo­ran­dum d’intesa per la rea­liz­za­zione del South Stream. Secondo il pro­getto, il gasdotto sarà com­po­sto da un tratto sot­to­ma­rino di 930 km attra­verso il Mar Nero (in acque ter­ri­to­riali russe, bul­gare e tur­che) e da uno su terra attra­verso Bul­ga­ria, Ser­bia, Unghe­ria, Slo­ve­nia e Ita­lia fino a Tar­vi­sio (Udine). Nel 2008–2011 ven­gono con­clusi tutti gli accordi inter­go­ver­na­tivi con i paesi attra­ver­sati dal South Stream.

Nel 2012 entrano a far parte della società per azioni che finan­zia la rea­liz­za­zione del tratto sot­to­ma­rino anche la tede­sca Win­ter­shall e la fran­cese Edf con il 15% cia­scuna, men­tre l’Eni (che ha ceduto il 30%) detiene il 20% e la Gaz­prom il 50%. La costru­zione del gasdotto ini­zia nel dicem­bre 2012, con l’obiettivo di avviare la for­ni­tura di gas entro il 2015. Nel marzo 2014 la Sai­pem (Eni) si aggiu­dica un con­tratto da 2 miliardi di euro per la costru­zione della prima linea del gasdotto sottomarino.

Nel frat­tempo, però, scop­pia la crisi ucraina e gli Stati uniti — con un lavoro all’unisono tra Casa bianca e diplo­ma­zia con­gres­suale dei Repub­bli­cani — pre­mono sugli alleati euro­pei per­ché ridu­cano le impor­ta­zioni di gas e petro­lio russo, che costi­tui­scono circa un terzo delle impor­ta­zioni ener­ge­ti­che dell’Unione europea.

Primo obiet­tivo sta­tu­ni­tense (scri­ve­vamo sul mani­fe­sto il 26 marzo) è impe­dire la rea­liz­za­zione del South Stream. A tale scopo Washing­ton eser­cita una cre­scente pres­sione sul governo bul­garo. Prima lo cri­tica per aver affi­dato la costru­zione del tratto bul­garo del gasdotto a un con­sor­zio di cui fa parte la società russa Stroy­tran­sgaz, sog­getta a san­zioni statunitensi.

Con tono di ricatto, l’ambasciatrice degli Stati uniti a Sofia, Mar­cie Ries, dichiara: «Avver­tiamo gli uomini d’affari bul­gari di evi­tare di lavo­rare con società sog­gette a san­zioni da parte degli Usa». Il momento deci­sivo è quando, dome­nica scorsa a Sofia, il sena­tore Usa John McCain, accom­pa­gnato da Chris Mur­phy e Ron John­son, incon­tra il pre­mier bul­garo tra­smet­ten­do­gli gli ordini di Washing­ton. Subito dopo Pla­men Ore­shar­ski annun­cia il blocco dei lavori del South Stream.

Una vicenda emble­ma­tica: un pro­getto di grande impor­tanza eco­no­mica per la Ue viene sabo­tato non solo da Washing­ton, ma anche da Bru­xel­les per mano dallo stesso pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea. Ci pia­ce­rebbe sapere che cosa ne pensa il governo Renzi, dato che l’Italia – come ha avver­tito allar­mato Paolo Sca­roni, ancora numero uno dell’Eni – per­de­rebbe con­tratti per miliardi di euro se venisse affos­sato il South Stream.


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L’Alleanza atlantica spinge la Ue verso l’«adattamento strategico»

di Manlio Dinucci
 | da il manifesto, 24 maggio 2014

Silenzio politico-mediatico sulla riunione Nato dei ministri della difesa svoltasi a Bruxelles il 21-22 maggio. Eppure non si è trattato di un incontro di routine, ma di un vertice che ha enunciato una nuova strategia che condizionerà il futuro dell’Europa. Basti pensare che 23 dei 28 paesi della Ue sono allo stesso tempo membri della Nato: di conseguenza le decisioni prese nell’Alleanza, sotto indiscussa leadership statunitense, inevitabilmente determinano gli indirizzi dell’Unione europea.

È stato il generale Usa Philip Breedlove – ossia il Comandante supremo alleato in Europa, nominato come sempre dal presidente degli Stati uniti – a enunciare a Bruxelles il punto di svolta: «Siamo alla decisione cruciale di come affrontare, nel lungo periodo, un vicino aggressivo». Ossia la Russia, accusata di violare il principio del rispetto delle frontiere nazionali in Europa, destabilizzando l’Ucraina come stato sovrano e minacciando i paesi della regione orientale della Nato.

La predica viene dal pulpito di una alleanza militare che ha demolito con la guerra la Jugoslavia, fino a separare anche il Kosovo dalla Serbia; che si è estesa a est, inglobando tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, due della ex Jugoslavia e tre dell’ex Urss; che è penetrata in Ucraina, assumendo il controllo di posizioni chiave nelle forze armate e addestrando i gruppi neonazisti usati nel putch di Kiev. Significativo è che alla riunione dei capi di stato maggiore dei paesi Nato, il 21 maggio a Bruxelles, abbia partecipato anche il generale Mykhallo Kutsyn, nuovo capo di stato maggiore ucraino. Contemporaneamente il segretario generale della Nato Rasmussen, in visita a Skopje, ha assicurato che «la porta dell’Alleanza rimane aperta a nuovi membri», come la Macedonia, la Georgia e naturalmente l’Ucraina. Continua dunque l’espansione a est.

La Nato, avverte il Comandante supremo in Europa, deve intraprendere un «adattamento strategico per affrontare l’uso da parte russa di improvvise esercitazioni, ciber-attività e operazioni coperte». Ciò «costerà denaro, tempo e sforzo». Il primo passo consisterà nell’ulteriore aumento della spesa militare Nato, già oggi superiore ai 1000 miliardi di dollari annui: a tal fine il segretario Usa alla difesa Chuck Hagel ha preannunciato una riunione, alla quale parteciperanno non solo i ministri della difesa ma anche quelli delle finanze, il cui scopo è spingere gli alleati europei ad accrescere la loro spesa militare.

Lo scenario dell’«adattamento strategico» Nato va ben oltre l’Europa, estendendosi alla regione Asia-Pacifico. Qui – sulla scia degli accordi russo-cinesi, che vanificano le sanzioni occidentali contro la Russia aprendole nuovi sbocchi commerciali a est – si prefigura la possibilità di una unione economica eurasiatica in grado di controbilanciare quella Usa-Ue, che Washington vuole rafforzare con la partnership transatlantica per il commercio e gli investimenti. Gli accordi siglati a Pechino non si limitano alle forniture energetiche russe alla Cina, ma riguardano anche settori ad alta tecnologia. È in fase di studio, ad esempio, il progetto di un grosso aereo di linea che, prodotto da una joint venture russo-cinese, farebbe concorrenza a quelli della statunitense Boeing e dell’europea Airbus. Un altro progetto riguarda la costruzione di un super-elicottero in grado di trasportare un carico di 15 tonnellate.

La questione di fondo, sostanzialmente ignorata nella campagna delle elezioni europee, è se l’Unione europea debba seguire gli Stati uniti nell’«adattamento strategico» della Nato che porta a un nuovo confronto Ovest-Est non meno pericoloso e costoso di quello della guerra fredda, oppure debba svincolarsi per intraprendere un suo cammino costruttivo respingendo l’idea di gettare la spada sul piatto della bilancia, accrescendo la spesa militare, per conservare un vantaggio che l’Occidente vede sempre più diminuire.

L’unico segnale che viene dalla Ue è un insulto all’intelligenza: la Commissione europea ha deciso che, dal 2014, nel calcolo del pil la spesa per sistemi d’arma sia considerata non una spesa ma un investimento per la sicurezza del paese. Per aumentare il pil dell’Italia investiamo dunque negli F-35.



=== 2 ===

http://www.marx21.it/internazionale/europa/24113-i-tabu-della-sinistra-radicale.html

I tabù della sinistra radicale

di Spartaco A. Puttini
21 Maggio 2014


L'articolo è stato pubblicato nel n. 2/2014 della rivista "Gramsci oggi" (www.gramscioggi.org) e lo proponiamo ai nostri lettori come contributo alla discussione dei comunisti sul futuro dell'Europa, anche in vista delle elezioni del parlamento dell'UE.


Note sulla posta in gioco, a margine di una recensione

Aurélien Bernier, di Attac France, ha da poco pubblicato il suo libro sui tabù della sinistra radicale: La gauche radicale et ses tabous: pourquoi le Front de Gauche échoue face au Front national. Il libro non è stato ancora tradotto in italiano, forse non lo sarà mai. Appare per certi versi troppo legato alla dimensione politica transalpina per poter sperare di rompere la coltre di provincialismo che interessa la politica nostrana. Eppure parla anche a noi. Per questo vale la pena soffermarsi sul testo e sui suoi rilievi, perché può arrecare alcuni elementi di giudizio e riflessione anche alla sinistra italiana, che mai come ora procede a tentoni, a fari spenti nella nebbia.

Tratta dell’ascesa del Front national, del suo sfondamento nelle classi popolari e della modifica di indirizzo che, almeno apparentemente, ha impresso la nuova leadership di Marine Le Pen. Ma il soggetto vero dell’analisi e della ricostruzione di Bernier è la sinistra radicale francese. Con la sua ambizione di contenere l’estrema destra e intercettare il malcontento verso le politiche euro-liberali praticate dai socialisti e dagli esponenti della destra ex-gollista convertita al neoliberismo.

Bernier ricostruisce le varie fasi in cui, dal 1984 ad oggi, l’elettorato comunista e apparentato si è assottigliato, specie a seguito della mutation, il processo di allontanamento dalle proprie radici ideologiche e di cultura politica, mentre parallelamente cresceva la fiamma lepenista. Sulle prime il Front national si è affermato presso i settori già collocati a destra dello spettro politico, in zone e milieu nei quali la sinistra comunista e anche i socialisti avevano tradizionalmente un forte insediamento e dove la destra tradizionale neogollista o giscardiana appariva più fragile. Successivamente, grazie alla progressiva perdita di credibilità presso le classi popolari dei socialisti, che con Mitterand aprono la parentesi della scelta neoliberista per non chiuderla mai più, il FN comincia la penetrazione anche tra le fila delle classi lavoratrici deluse dall’esperimento socialista, disegnando una prospettiva inquietante. Anche il PCF subisce un drastico calo di consensi, per avere, all’inizio, seguito i socialisti nella politica del rigore.

Ma in prospettiva è ben altro il terreno della disfida che si profila. Il vero punto di svolta è visto dall’autore nel cambiamento di indirizzo che Le Pen impartisce alla sua creatura nel corso della campagna contro l’Europa di Maastricht. Se, fino ad allora, Le Pen si era caratterizzato come un esponente della vecchia destra anti-repubblicana e vichyssoise (1) che mostrava ammirazione per Reagan, fastidio per l’invadenza dello Stato, e riservava le sue premurose attenzioni per il mondo delle imprese, specie piccole, che dipingeva come tartassate dal fisco, dopo Maastricht cambia tutto. O quasi. Il FN diviene il vessillifero della lotta contro il mondialismo della globalizzazione neoliberista e contro l’integrazione europea, che ne è lo strumento per soggiogare i popoli europei, cancellare le nazioni e soprattutto la Francia. Con questa nuova postura, integrata dalla campagna per la sicurezza e contro l’immigrazione, la crescita della fiamma è continua e costante e gli score che Le Pen fa registrare alle presidenziali paiono crescenti e aprono all’estrema destra ben altre prospettive.

Ma sulle prime la bandiera della questione nazionale e della lotta contro l’europeismo non viene lasciata in esclusiva al FN. In occasione del referendum del 1995 per chiedere ai francesi la loro sanzione del Trattato di Maastricht tutte le principali famiglie politiche si spaccano trasversalmente. Del resto, come hanno sostenuto Hix e Lord (2), di fronte al processo d’integrazione europeo le forze politiche non si polarizzano solamente in senso orizzontale lungo la dicotomia destra-sinistra ma anche in senso verticale, lungo la dicotomia difesa della sovranità-devoluzione dei poteri all’unione. Così alla campagna contro Maastricht dell’estrema destra fa da contraltare quella del Partito comunista francese, custode della sovranità e dell’idea di Nazione declinata a sinistra, sulla scorta del precedente della rivoluzione giacobina e della Resistenza. Durante la campagna referendaria del 1995 per la ratifica del Trattato a sinistra si aggiunge ai “no” Jean-Pierre Chevènement, a destra si schierano contro Maastricht Philippe Séguin e Charles Pasqua. I principali partiti (socialisti, RPR e UDF (3) ) sostengono il sì che la spunterà nelle urne, ma di pochissimo. Il risultato mostra tutta la potenzialità della critica radicale all’integrazione liberista europea. La strada sarebbe aperta per la costruzione di una vera alternativa di sinistra, sovranista e di classe. Invece viene fatto all’estrema destra un insperato regalo.

- Lo scivolamento dei comunisti: da euroscettici a eurocostruttivi

Purtroppo di lì a poco il PCF, con la segreteria di Robert Hue, imboccherà la strada della mutation e cercherà di riportare i comunisti all’intesa con i socialisti e con i verdi in quello che sarà il governo della “sinistra plurale”, che di plurale avrà solo la composizione ministeriale, l’indirizzo restando fermamente fissato sulla politica liberale scelta anni addietro dal PS. Nel giro di qualche mese Hue e i dirigenti che gli si stringono attorno cambiano discorso sull’Europa e si convertono al fumoso, inconcludente, ingenuo e poco credibile refrain dell’altra Europa possibile. Hue stesso si definisce “eurocostruttivo”. C’è chi, non senza ragione, lamenta una conversione vera e propria. Alle elezioni europee del 1999 il PCF si camuffa dietro l’insegna di una lista alter-europeista e i suoi massimi dirigenti sostengono ormai che per cambiare in Francia occorra cambiare l’Europa, vaneggiando di una possibile Europa sociale. L’inversione dei fattori è ormai fatta, e in questo caso cambia il risultato; la svolta del PCF è smaccatamente bocciata dalle urne, la lista della sinistra radicale (che aveva imbarcato anche esponenti favorevoli all’aggressione alla Jugoslavia) prende meno di quanto aveva raccolto il solo PCF nella tornata precedente e appare per quello che è: un insperato regalo all’estrema destra.

Al discredito per essere rimasto nel governo Jospin, a rimorchio del PS senza riuscire ad incidere in alcun modo, il PCF somma allora l’errore della metamorfosi che imprime al suo discorso sull’Europa. Dal fermo, patriottico e sociale al contempo, “no” della gestione Marchais, paladina della difesa della sovranità nazionale fino allo slogan “produciamo francese”, si passa alla versione euro-critica e alter-europeista. Sulla scia di un movimento alter-mondialista di cui oggi non si ha più nemmeno il ricordo (ma che in quegli anni veniva dipinto da molti come la superpotenza del futuro) si inizia a sostenere la litania: “Un’altra Europa è possibile”, ma curandosi bene dal poter indicare come arrivarci.

Bernier fa notare che il discorso del PCF in mutazione si assimila progressivamente e velocemente alla rimozione della questione nazionale, della questione della difesa della sovranità come spazio di esercizio della democrazia e strumento per la difesa e l’avanzata delle rivendicazioni di classe. Nella sinistra radicale inizia a prevalere la visione strabica e ottusa dei gruppi trotzkisti, che ripudiano la questione nazionale come destrorsa, abbandonandola nelle mani della demagogia lepenista. E’ questo passaggio a rendere possibile l’accordo di governo tra il PCF e i socialisti di Jospin nel 1997. Al sì dei socialisti per l’adozione della moneta unica si contrapponeva fermamente il no dei comunisti all’euro. Dietro la coltre dell’impegno (verbale) a cercare di cambiare questa concreta Unione europea, tante cose sarebbero passate in fanteria nell’arco di una breve stagione.

Successivamente, un altro referendum, quello del 4 marzo 2005 per ratificare il Trattato Costituzionale Europeo, segnerà la vittoria dei “no” all’integrazione e mostrerà come i cittadini francesi abbiano saputo scorgere nel processo d’integrazione europeo un chiaro attacco alla loro sovranità, ai loro diritti, al loro tenore di vita. In breve tempo il Front national resta l’unico partito organizzato in campo a sostenere una netta linea euroscettica e cerca di affermarsi come autentica forza anti-mondialista e anti-sistema. Chevènement continua, beninteso, a sostenere la sue ragioni, ma da una posizione sempre più isolata, come un profeta nel deserto della sinistra legata al carrozzone liberal-europeista del Ps. A destra Séguin viene marginalizzato e riassorbito da Chirac, mentre Pasqua tenta per una breve stagione la strada di una propria forza autonoma e sovranista di destra; il tentativo riscuote un certo successo sulle prime ma poi si sgonfia per varie ragioni. Il discorso del PCF continua ad essere confuso, pur restando il partito ancorato saldamente sulla linea del “no” nel referendum del 2005.

L’esplosione del FN è rallentata da scissioni interne e dalla scelta del vecchio leader di cavalcare la tigre della lotta all’immigrazione e l’islamofobia, strade che gli vengono ben presto sbarrate dalla deriva impressa da Sarkozy alla destra tradizionale francese. Ma i nodi prima o poi vengono al pettine e la crisi scopre i guasti causati dall’euro e dalla scelta europea presso un pubblico via via più largo. Il Front national è ben appostato per approfittarne. La sinistra radicale si ritrova a dover ripensare tutta la propria strategia.

Con la nascita del Front de Gauche, che tiene assieme il PCF, l’ex sinistra socialista di Mélenchon e un’altra formazione di origine trotzkista, una certa radicalità sembra ritrovata. Durante l’ultima campagna per le presidenziali Mélenchon sosteneva l’idea di disobbedire ai trattati europei. Una posizione che però manca al fondo di chiarezza, circa le eventuali caratteristiche, conseguenze e implicazioni di simile parola d’ordine. Se alle presidenziali, per la prima volta dall’era Marchais, il candidato dei comunisti e della sinistra radicale raccoglie più del 10%, alle politiche il Front viene un po’ ridimensionato (sotto il 7%).

Eppure la sfida per la sinistra transalpina, e in prospettiva non solo transalpina, è chiara: la lotta per l’egemonia nella società e per rispondere ai bisogni delle classi popolari è ingaggiata, o la vinceranno i comunisti con quanti alleati di sinistra riusciranno ad aggregare attorno a un loro progetto, o la vincerà il Front national (4).

- La posta in gioco, oggi, in Europa

Per coltivare la possibilità della vittoria, Bernier mette al centro delle sue riflessioni la necessità che la sinistra radicale abbandoni tre tabù che caratterizzano il suo discorso sull’Europa e auspica il ritorno alla radicalità con la quale il PCF combatteva la sua battaglia sovranista da sinistra (un riconoscimento e un invito significativo da parte di chi non proviene, per filiazione ideologica, dall’ortodossia marxista-leninista).

I tre tabù sono: il protezionismo (che viene oggi rifiutato in favore della scelta liberoscambista), la sovranità nazionale (dipinta come di destra o non considerata, e su questo si potrebbe scrivere un libro); l’Europa (a cui si guarda come ad un feticcio che non ci si può rifiutare di idolatrare, pena il rischio di essere additati come nazionalisti). Quanto di questo discorso riguarda anche noi!

Non mettere in discussione il liberoscambismo e la libera circolazione dei capitali porta inevitabilmente ad ingessare sul nascere qualsiasi ipotetica politica alternativa di sinistra. Non affrontare il nodo ha ricadute evidenti. Supponiamo che un esecutivo di sinistra voglia rivedere il peso dei carichi fiscali, redistribuendo le imposte in senso progressivo. I maggiorenti potranno spostare i capitali all’estero, e la fuga dei capitali metterebbe in panne la politica economica del governo. Se si volesse difendere il mondo del lavoro dal dumping salariale e dalla concorrenza al ribasso dei diritti, poi, non ci si potrebbe che scontrare con la possibilità delle imprese di delocalizzare e con l’effetto di induzione alla svalutazione interna svolto dalla moneta unica. Occorre tenere in considerazione che l’architettura delle politiche neoliberiste (che costituisce la base e l’essenza dell’Unione europea) funziona anche come un impedimento all’implementazione di politiche espansive e redistributive ispirate ai principi della democrazia sociale. Ma non ditelo a Barbara Spinelli e ai suoi accoliti…

Per questo acquisisce un significato strategico la questione dell’appropriazione della bandiera della sovranità nazionale da parte della sinistra di classe. Bernier ci dice che ultimamente il Front de Gauche si sta riposizionando, nonostante gli errori dell’era Hue, e nonostante la crisi che attraversano le relazioni tra le sue componenti. Ma per riuscire ad adottare una postura potenzialmente vincente che possa mettere la sinistra radicale francese in grado di contrastare il montare dell’estrema destra è necessario rompere gli ultimi tabù e passare dalla protesta alla proposta; e l’unica proposta possibile è quella di propendere per la rottura unilaterale dei trattati in modo da riconquistare la sovranità, conditio sine qua non di ogni cambiamento progressivo.

La prospettiva scelta da Bernier è certo particolare. Molte altre sarebbero le considerazioni da fare sulla crisi della sinistra radicale (in Francia e in Europa) e sulla crescita del Front national e di formazioni di estrema destra, dinamiche nelle quali giocano molteplici fattori. Ma la scelta operata dall’autore tiene conto della questione che oggi è indubbiamente la più rilevante in questa parte di mondo, anche se andrebbe in qualche modo sottolineato con maggior forza, a nostro personale giudizio, il parallelismo che corre tra l’abbandono della questione nazionale da parte dei partiti comunisti e la rottura con il loro bagaglio ideologico-strategico di matrice marxista-leninista. Più si allontanano dall’ortodossia, più rimuovono (quando non ripudiano) la questione nazionale.

Le ricadute e le conseguenze del discorso dell’autore e della sua ricostruzione sono chiare: solo impugnando l’arma della sovranità da riconquistare e rifiutando il discorso integrazionista e liberoscambista (cavalli di Troia del neoliberismo) sarà possibile proporre in modo credibile politiche che possano invertire l’attuale tendenza reazionaria e difendere gli interessi delle classi popolari, impedendo al contempo alla demagogia dell’estrema destra di approfittare della legittimazione che le viene dall’avere il sostanziale monopolio della questione nazionale, seppur malamente declinata, e dall’apparire come l’unica forza radicalmente anti-sistema.

La scelta di porsi sullo scivoloso, angusto e poco credibile (perché non fattibile) terreno della riforma della costruzione europea, dell’accettazione della moneta unica e della promozione di una futuribile “altra Europa possibile” lascia la sinistra radicale disarmata e pertanto incapace di incanalare il disagio delle classi popolari e di fette crescenti della popolazione che vengono spinte verso l’astensionismo o sono attratte da formazioni demagogiche.

La scelta che occorre avere il coraggio di operare è cercare di recuperare consenso nell’astensione e nella disaffezione promuovendo una politica più coraggiosa, radicale e realista, anziché limitarsi a cercare di raccogliere le schegge perse dalle formazioni socialdemocratiche nella loro continua marcia verso destra, magari in vista di un nuovo accomodamento, che sul breve periodo può premiare con qualche eletto ma che sul medio periodo lascia la sinistra radicale in mutande

- E in Italia? Anche in Italia… (Consiglio ai sordi)

Sono considerazioni che si stanno facendo strada un po’ ovunque, in Francia come in Italia. Da questo punto di vista un certo parallelismo è già percepibile. Con tutte le differenze del caso, sia chiaro. Intanto perché in Francia c’è un Front de Gauche (anche se malandato) costruito attorno a un Partito comunista, anche se debilitato da una mutazione con la quale non riesce a chiudere i conti in modo convincente, passaggio obbligato per rilanciarsi abbeverandosi alle proprie salde radici, patriottiche e internazionaliste. Al Front de Gauche stesso l’autore chiede, in modo convincente, più coraggio nel rompere i tre tabù che menzionavamo. In Italia, invece, non manca solamente un fronte di sinistra degno di questo nome. Come prendere seriamente formazioni costruite attorno a guru che credevano che non fosse più centrale il conflitto capitale-lavoro o che non esistesse più l’imperialismo? Come pretendere di sostituire l’attività strutturata delle vecchie sezioni con il salotto di Barbara Spinelli? (anche al netto delle riflessioni che si possono e devono fare circa le strampalate sciocchezze che da quel luogo provengono). Ma soprattutto in Italia manca un partito comunista che voglia davvero essere tale.

Nel contesto attuale la sua costruzione è certamente possibile. Ma per rendere il progetto vitale occorrerebbe risultare in grado di dare una speranza e una prospettiva di cambiamento anzitutto alle giovani generazioni, le più schiacciate dalla crisi. Per questo oggi, in Italia, i comunisti dovrebbero anzitutto costruire a partire dalla risposta da dare alle due questioni cruciali del nostro tempo: la questione sociale e la questione nazionale. E dovrebbero farlo a partire dalle risposte che dovrebbero dare all’attuale crisi europea, che rappresenta il nodo gordiano da tagliare. Da questo punto di vista, analogamente alle riflessioni svolte da Bernier sul panorama politico francese, i comunisti italiani non possono sostenere le stesse traballanti castronerie della sinistra radicale alter-europeista e dovrebbero caratterizzarsi come i veri difensori e sostenitori del ritorno alla sovranità nazionale, in tutte le sue dimensioni, ivi compresa quella monetaria. Chi si trincera dietro la presunta impossibilità dell’esercizio della sovranità è già fuori dalla storia, fuori dal campo di contesa politico. Chi rifiuta di dare fiducia al proprio popolo non può chiederla. Chi pretende che l’Italia non ce la possa fare si è già arreso, come può essere un interlocutore, un punto di riferimento?

In Italia vi sarebbe, tra l’altro, il vantaggio che lo spazio della critica alla Ue e all’euro non è ancora egemonizzato da alcuna formazione demagogica e di destra (affine al liberismo), a differenza che in Francia, dove il FN ha occupato abilmente quel vuoto. E’ vero che determinate formazioni demagogiche e di destra anche in Italia cercano di posizionarsi in tal senso. Ma sono all’inizio e godono, al momento, di una credibilità limitata, a causa dei loro trascorsi nei governi Berlusconi, dove non hanno dato affatto buona prova di sé.

A maggior ragione i comunisti dovrebbero porsi con urgenza l’obiettivo di presidiare questo spazio, evitando di cadere nella trappola illogica per cui se alcune formazioni di destra sostengono (a parole e a modo loro) determinate battaglie, bisogna negarne a priori l’eventuale validità. La Terra resta sferica e l’euro resta una trappola anche se lo dicono il Front national o la Lega Nord. Una ragione in più per non abbandonare determinate parole d’ordine.

Una delle parole d’ordine che la sinistra nostrana ha abbandonato da tempo è quella relativa alla difesa della sovranità nazionale. Se è vero che né il movimento socialista né la nuova sinistra avevano mai compreso la valenza e la portata della questione nazionale, per il movimento comunista valgono tutt’altre riflessioni (si pensi alla Resistenza, per non citare che un passaggio). La rimozione di questa radice dal proprio DNA è andata di pari passo con lo snaturamento e la mutazione. Passaggi che hanno condotto i comunisti al lumicino in cui ora si trovano. Per uscire da questo stato di minorità occorre tornare se stessi.

Il passaggio delle prossime elezioni europee rappresentava un’ottima occasione per mettere in campo il progetto di costruzione di una sinistra patriottica e di classe e i comunisti italiani avrebbero dovuto posizionarsi per agire in quest’ottica. Invece hanno preferito accodarsi, in base ad una logica suicida, alla costruzione di una lista che difende la solita aria fritta alter-europeista, la lista Tsipras, che di fatto è la lista Spinelli. Tale lista ha risucchiato tutta la sinistra radicale. Persino la componente del Prc che si definisce comunista ha applaudito all’operazione. Segno che da quelle parti, ormai, ci si pone ben pochi problemi in merito alla direzione di marcia. Coloro che sbeffeggiavano Bertinotti ieri, oggi gli danno ragione, scimmiottandone le gesta.

I risultati della scelta di pilotare i comunisti italiani nella lista Tsipras-Spinelli sono sotto gli occhi di tutti, erano scontati e prevedibili. Tutto si può rimproverare ai promotori della lista, tranne che non siano stati chiari sin dal principio. Ora basterebbe aprire gli occhi, e dirsi con franchezza che un conto è lavorare ad un progetto unitario, un altro è lavorare ad un aggregato confusamente di sinistra. Almeno ora, si dovrebbe scegliere con chiarezza di riconquistare ai comunisti la questione della sovranità nazionale, di riconquistare se stessi. Lavorando per costruire un fronte della sinistra sovranista e di classe in vista delle prossime elezioni politiche. Occorre scegliere, altri lo hanno fatto. Che si dimostri di voler fare sul serio. All’Italia e ai lavoratori italiani, ai tantissimi giovani senza futuro, serve ben altra offerta politica… e gli stessi militanti e simpatizzanti della sinistra comunista meritano di meglio.


NOTE

1) Vichysta”, sostenitrice ed erede del regime collaborazionista di Vichy.


2) S. Hix, C. Lord, Political Parties in the European Union; Londra, MacMillan 1997, p.50. Cit. in: M. PierMattei, Partiti d’Europa. Integrazione e federazioni transnazionali; in: “Memoria e Ricerca”, n.24 2007.

3) RPR, Rassemblement pour la République era la formazione neogollista guidata da Jacques Chirac, l’UDF, Union pour la démocratie française, era il partito composto dal centro destra democristiano e liberale degli eredi di Valéry Giscard d’Estaing.

4) “Noi abbiamo l’impressione di trovarci impegnati in una corsa contro il tempo con l’estrema destra. Il popolo che rigetta il sistema sceglierà tra la nostra proposta e la loro”; dichiarazione di Mélenchon a “Sud-Ouest”, 23 marzo 2013


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http://contropiano.org/politica/item/24465-l-unione-europea-di-fronte-a-se-stessa

L'Unione Europea di fronte a se stessa

•  Venerdì, 06 Giugno 2014
•  Sergio Cararo

Tra poco meno di un mese si apre il semestre europeo presieduto da Renzi e dall'Italia. Questo rappresenta un test ambivalente sia sul piano della governance che su quello dell'opposizione popolare e delle alternative. Può essere l'occasione per portare più a fondo il confronto su questioni rilevanti abbondantemente rimosse o sottovalutate ma che peseranno come macigni sulle prospettive del mondo reale nel quale ci è toccato di vivere.

La Commissione Europea ha pubblicato in questi giorni un documento sulla Strategia europea di sicurezza energetica. Si tratta per ora solo di una proposta che ha l’obiettivo di definire le linee guida e di proporre azioni per affrontare le principali sfide energetiche che l’UE si troverà ad affrontare nel breve, medio e lungo periodo. L’Unione Europea infatti importa il 53% dei suoi consumi totali, 90% nel caso del petrolio e 66% in quello del gas naturale. E' evidente dunque il livello di “vulnerabilità” di uno dei principali blocchi economici del mondo in termini di risorse energetiche, il che rende l'Unione Europea un anello ancora debole su questo terreno. E' evidente come i due conflitti scatenati alle porte di casa – a sud in Libia e ad est in Ucraina – segnino un livello elevato di questa vulnerabilità.

Un intervento militare fortemente voluto da una potenza europea come la Francia in Libia e una aperta ingerenza di paesi europei come Germania, Polonia e repubbliche Baltiche in Ucraina, hanno provocato un doloroso paradosso: la ricerca di una invocata stabilità ha provocato invece il massimo di instabilità. E adesso metterci rimedio sta diventando sempre più difficile, oltrechè sanguinoso per le popolazioni coinvolte sia in Libia che in Ucraina. Una volta deposto e ucciso Gheddafi o deposto e costretto alla fuga Yanukovich, le operazioni di “regime change” non hanno prodotto nuove e accondiscendenti leadership nei paesi destabilizzati.

Anche perchè a rendere le cose difficili per l'Unione Europea non sono tanto i gruppi armati in Libia o le repubbliche popolari secessioniste nell'Ucraina orientale, quanto il primus inter pares tra i paesi alleati: gli Stati Uniti.

Gli Usa hanno la percezione esatta della vulnerabilità energetica dei loro partner/competitori europei. Dopo aver incassato la sfida dell'avvento dell'euro, della competizione sulle tecnologie e della barriera deflazionista che ha impedito agli Usa di scaricare sull'Europa gli effetti inflattivi del loro quantitative easing come nei “bei tempi passati” del Washington Rule, gli Stati Uniti hanno deciso di giocare duro con e contro i loro alleati nella Nato. Hanno così cominciato a colpire sui nervi scoperti. Hanno lasciato la Francia giocare alla grandeur nella destabilizzazione della Libia e hanno bruscamente alzato l'asticella del conflitto con la Russia. In pratica due dei principali serbatoi delle forniture energetiche dell'Europa sono diventati incerti e i rubinetti si stanno chiudendo, aggiungendoci un pizzico di cinismo attraverso cui i danneggiati (gli europei) dovrebbero anche mostrarsi soddisfatti di essersi fatti male da soli.

Non solo. Gli Stati Uniti stanno infatti agendo apertamente non solo per allargare la faglia tra Unione Europea e Russia ma anche quella all'interno della stessa Ue tra paesi fondatori e paesi della periferia est. Nel suo viaggio in Polonia che ha preceduto il vertice del G7 a Bruxelles, il presidente statunitense non solo ha incontrato il “suo uomo di cioccolata a Kiev” cioè il neopresidente ucraino Poroshenko (che sin dal 2006 era ritenuto l'interlocutore privilegiato di Washington) ma ha anche incontrato a parte i leader cechi, slovacchi, baltici, bulgari e rumeni. Una sorta di corte degli agenti statunitensi dentro l'Unione Europea e la Nato. E in questo contesto ha reso noto di voler stanziare quasi un miliardo di dollari per installare soldati e mezzi militari statunitensi nei paesi dell'Europa dell'Est, molto più a oriente delle storiche basi militari di Ramstein in Germania o di Aviano in Italia, molto più a ridosso della Russia.

Le dichiarazioni bellicose di Obama contro Putin e la Russia lasciano intravedere che l'asticella della tensione verrà tenuta alta o alzata ulteriormente perchè, come ricorda Brzezinski nella sua opera omnia (“La Grande Scacchiera”), la Nato è lo strumento principale per interferire sulla politica europea proprio in quanto fattore politico-militare, ovvero il punto ancora debole della UE per potersi definire e agire come un polo imperialista compiuto.

Alla Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco (gennaio), avevamo visto i ministri degli Esteri e della Difesa tedeschi cominciare a parlare il linguaggio della grande potenza e non solo sul piano economico. La Francia continua a portare come unica dote - per non essere retrocessa tra i Pigs – il suo arsenale nucleare e un discreto complesso militare-industriale e coglie ogni occasione – con il gollista Sarkozy o con il galletto Hollande – per mostrarsi bellicista e oltranzista oltre ogni raziocinio. L'Italia del partito di Maastricht (Amato, Ciampi, Prodi, Monti, Letta, Renzi) galleggia, evoca scenari distensivi ma poi ha detto di si a tutto: dalla base di Vicenza al Muos, dagli F35 fino alla clamorosa doppia firma di Letta al G8 dello scorso anno a Mosca, sia sul documento voluto dagli Usa contro la Siria che al documento voluto dalla Russia contro l'intervento in Siria.

La politica militare e le fonti energetiche restano dunque i due punti di vulnerabilità delle ambizioni al polo imperialista europeo come competitore globale. Da qui si capisce la posta in gioco e il senso delle affermazioni di Martin Feldstein quando profetizzava nel 1997 che “l'introduzione dell'euro avrebbe portato alla discordia e alla guerra sia tra gli Stati Uniti e l'Europa che dentro l'Europa”.

Adesso ci siamo dentro fino al collo. Le guerre e l'instabilità alle periferie sud ed est dell'Unione Europea sono la conseguenza di questa sfida competitiva su scala globale, una classica competizione interimperialista direbbero – e ragione – i classici.

Con la crisi che continua a mordere, la lotta per le risorse che si fa più violenta, con i rimedi con non funzionano e lo sviluppo disuguale che si fa più acuto – il salto della cavallina, direbbe Alvin Toffler – i pericoli di una rottura storica, della guerra, si fanno più reali, quasi materializzabili. Se ne accorgono quelli che hanno a disposizione tutte le informazioni, non se ne accorgono invece quelli che dovrebbero mettersi di traverso. Per venti anni li hanno tenuti ben rincoglioniti con l'antiberlusconismo, adesso li distraggono con una leadership giovanile e ansiosa di fare il lavoro sporco che attendevano di fare sin dal 1992, proprio con la nascita di quell'Unione Europea che in tanti si ostinano a non voler vedere come il problema. L'occasione del Controsemestre popolare in opposizione al semestre europeo a guida italiana offre l'opportunità di recuperare il tempo e i passi perduti. Nella piattaforma per la manifestazione del 28 giugno e della campagna per il controsemestre per la prima volta, dopo troppo tempo, c'è anche il tema dell'opposizione alla guerra. C'è tanto da lavorare e da qualche parte occorre cominciare.

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LES ÉLECTIONS EUROPÉENNES DE MAI 2014. NOUVELLES ÉTAPE DANS L’IMPLOSION DU PROJET EUROPÉEN


Auteur: Samir Amin

  1. La construction européenne a été conçue et mise en œuvre dès l’origine pour garantir la pérennité d’un régime de libéralisme économique absolu. Le traité de Maastricht (1992) renforce encore ce choix fondamental, et interdit toute autre perspective alternative. Comme le disait Giscard d’Estaing : « le socialisme est désormais illégal ». Cette construction était donc par nature anti-démocratique et annihile le pouvoir des Parlements nationaux élus, dont les décisions éventuelles doivent rester conformes aux directives du pouvoir supranational défini par la pseudo-constitution européenne. Le « déficit de démocratie » des institutions de Bruxelles, à travers lesquelles opère la dictature néo-libérale, a été et demeure consciemment voulu. Les initiateurs du projet européen, Jean Monet et autres, n’aimaient pas la démocratie électorale et se donnaient l’objectif d’en réduire le « danger », celui d’engager une nation hors des sentiers tracés par la dictature de la propriété et du capital. Avec la formation de ce que j’appelle le capitalisme des monopoles généralisés, financiarisés et mondialisés, à partir de 1975, l’Union Européenne est devenue l’instrument du pouvoir économique absolu de ces monopoles, créant les conditions qui qui permettent d’en compléter l’efficacité par l’exercice parallèle de leur pouvoir politique absolu. Le contraste droite conservatrice/gauche progressiste, qui constituait l’essence de la démocratie électorale évoluée, est de ce fait annihilé, au bénéfice d’une idéologie de pseudo « consensus ».
    Ce consensus repose sur la reconnaissance par les opinions générales en Europe que les libertés individuelles et les droits de l’homme sont garantis, au moins dans la majorité des Etats européens sinon dans ceux de l’ex Europe orientale, mieux qu’ailleurs dans le monde. C’est exact et à l’honneur des peuple concernés. Néanmoins la double dictature économique et politique des monopoles généralisés annihile la portée de ces libertés, privées de leur capacité de porter en avant un projet de société qui transgresserait les limites imposées par la logique exclusive de l’accumulation du capital.
    Par ailleurs l’unité européenne a été popularisée avec l’argument alléchant que celle-ci conditionnait l’émergence d’une puissance économique égale à celle des Etats Unis et autonome par rapport à celle-ci. Mais en même temps la constitution européenne combinait les adhésions à l’Union Européenne et à l’OTAN, en qualité d’allié subalterne des Etats Unis. Le nouveau projet d’intégration économique atlantique devrait dissiper les mensonges de cette propagande : le marché européen sera soumis aux décisions du plus fort, les Etats Unis. Adieu l’indépendance de l’Europe !
    2. Mais le régime économique libéral absolu, imposé par la constitution européenne, n’est pas viable. Sa raison d’être exclusive est de permettre la concentration croissante de la richesse et du pouvoir, au bénéfice de l’oligarchie de ses bénéficiaires, fût-ce au prix d’une austérité permanente imposée aux classes les plus nombreuses, à la régression des acquis sociaux, voire au prix de la stagnation économique. La spirale infernale de l’austérité produit pour l’ensemble européen la croissance permanente des déficits et de la dette (et non leur réduction comme le prétend la théorie économique conventionnelle, sans fondements scientifiques). Les exceptions (l’Allemagne aujourd’hui) ne peuvent l’être que parce que les autres sont, eux, condamnés à subir leur sort. L’argument avancé – « il faut faire comme l’Allemagne » – n’est pas recevable : par sa nature même le modèle ne peut pas être généralisé.
    Néanmoins le pouvoir absolu exercé par les monopoles généralisés et l’oligarchie de leurs serviteurs ne permet pas sa remise en cause par les « opinions générales ». Ce pouvoir absolu est déterminé à défendre jusqu’au bout et par tous les moyens ses privilèges, ceux des oligarchies, seules bénéficiaires de la concentration sans limite de la richesse.
    3. Les élections européennes de mai 2014 traduisent le rejet par la majorité des citoyens de « cette Europe » (sans nécessairement être conscients que « l’Europe » ne peut être autre). Avec plus de la moitié d’abstentionnistes dans le corps électoral (plus de 70% d’abstentions dans l’Est européen), 20% de votes en faveur de partis d’extrême droite se déclarant « anti-européens », les listes dites « europhobes » en tête en Grande Bretagne et en France, 6% en faveur de partis de la gauche radicale critique de Bruxelles, cette conclusion s’impose. Certes, en contrepoint, la majorité de ceux qui ont participé au vote, se réclament toujours du (ou d’un) projet européen, pour les raisons données plus haut (« l’Europe garante de libertés et des droits ») et parce qu’ils pensent encore – avec beaucoup de naïveté – qu’une « autre Europe » (des peuples, des travailleurs, des nations) est possible, alors que la construction européenne – en béton armé – a été conçue pour annihiler toute éventualité de sa réforme.
    Le vote de défiance d’extrême-droite porte en lui des dangers qu’on ne doit pas sous-estimer. Comme tous les fascismes d’hier, ses porte-paroles ne mentionnent jamais le pouvoir économique exorbitant des monopoles. Leur prétendu « défense de la nation » est trompeuse : l’objectif poursuivi est – outre l’exercice de leur pouvoir dans les différents pays concernés de l’Union Européenne – le glissement de l’Union Européenne de son régime actuel administré par la droite parlementaire et/ou les sociaux-libéraux à un régime nouveau géré par une droite dure. Les débats sur les origines véritables de la dégradation sociale (précisément le pouvoir des monopoles) sont transférés vers d’autres domaines (l’exploitation du bouc émissaire de l’immigration en particulier).
    Mais si ce succès douteux de l’extrême droite « anti européenne » est celui qu’il est, la faute en revient à la gauche radicale (à gauche des partis du socialisme ralliés au libéralisme). Par son manque d’audacité dans la critique de l’Union Européenne, par l’ambiguïté de ses propositions, qui alimentent l’illusion de « réformes possibles », cette gauche radicale n’est pas parvenue à faire entendre sa voix.
    4. Dans le chapitre intitulé « L’implosion programmée du système européen » (in, L’implosion du capitalisme, contemporain, 2012), je dessinais les lignes générales de la dégradation programmée de l’Union Européenne. On aura alors une petite Europe allemande (l’Allemagne, agrandie par ses semi-colonies d’Europe orientale, allant peut-être jusqu’à l’Ukraine), la Scandinavie et les Pays Bas attelés à cette nouvelle zone mark/euro ; la France ayant choisi son adhésion « vichyste » à l’Europe allemande (c’est le choix des forces politiques dominantes à Paris), mais peut-être tentée plus tard par un renouveau « gaulliste » ; la Grande Bretagne prenant ses distances et affirmant encore davantage son atlantisme dirigé par Washington ; la Russie isolée ; l’Italie et l’Espagne hésitant ente la soumission à Berlin ou le rapprochement avec Londres. L’Europe de 1930, ais-je alors écrit. On y va.





http://www.voltairenet.org/article183988.html

6 JUIN 1944 - 6 JUIN 2014


Le paradoxe des commémorations du débarquement allié


par Finian Cunningham

Les chefs d’État des pays alliés lors de la Seconde Guerre mondiale, la reine Élisabeth II, François Hollande, Angela Merkel, Barack Obama et Vladimir Poutine, célébreront ensemble le 70ème anniversaire du débarquement en Normandie et de la défaite du nazisme en Europe. Pourtant, au même moment, ceux d’entre eux qui se disent « occidentaux » imposent le retour du nazisme en Ukraine et relancent leur politique anti-Russes. Pour Finian Cunningham, le paradoxe n’est qu’apparent…

RÉSEAU VOLTAIRE  | 4 JUIN 2014

[PHOTO: Les 29 et 30 septembre 1938, sur proposition de Benito Mussolini, une conférence réunit à Munich l’Allemagne, la France, l’Italie et le Royaume-uni pour trouver une solution à la crise des Sudètes. Adolf Hitler exige que l’Allemagne puisse annexer les populations allemandes de Tchécoslovaquie. Cette décision remet en cause le démembrement de son pays après la Première Guerre mondiale aussi bien que le traité d’assistance militaire franco-tchécoslovaque. Cependant les quatre puissances signent un accord autorisant la réunification allemande et le démembrement de la Tchécoslovaquie. Désormais, Berlin est en capacité d’attaquer la Russie. Celle-ci répondra en négociant l’accord Ribbentrop-Molotov.]

Les commémorations prévues cette année pour marquer l’anniversaire de la fin de la Deuxième Guerre mondiale vont sans doute en déconcerter plus d’un, au regard des développements en cours en Ukraine. Le régime fasciste de Kiev, soutenu par les puissances occidentales, fait déferler une vague de violence meurtrière sur les citoyens pro-russes qui le contestent. À Odessa, Marioupol ou Donestsk, des centaines de personnes ont trouvé la mort dans des opérations déclenchées par le gouvernement. Ces massacres ont été perpétrés par les forces répressives de l’État, agissant en étroite liaison avec des groupes paramilitaires nazis.
Ils interviennent au moment précis où le monde célèbre la défaite infligée aux forces coalisées de ce même fascisme, il y a 70 ans. Beaucoup ignorent, en « Occident » [1], que la situation qui prévaut aujourd’hui en Ukraine n’est pas une bizarrerie de l’histoire et ne contredit en rien le passé. Elle s’inscrit dans la logique des visées géostratégiques de l’« Occident » et de la politique agressive développée en conséquence à l’égard de la Russie.
Cette année, comme à chacun des anniversaires précédents, les commémorations de la Seconde Guerre mondiale rendront hommage aux millions de soldats, de partisans et de martyrs qui ont perdu la vie dans la lutte menée pour assurer la défaite des forces fascistes coalisées en Europe, et pour vaincre, en premier lieu, l’Allemagne nazie, engagée dès la fin des années 1930 et jusqu’en 1945 dans une guerre de conquête impliquant un programme d’extermination de masse, aux dépens des populations des autres pays européens. Nul ne peut nier le sacrifice, ni contester le respect dû aux soldats et aux citoyens qui ont péri en luttant contre la barbarie. Il convient, par contre, de se pencher très attentivement sur les desseins profonds qui ont motivé les choix et les décisions des dirigeants de l’Occident avant, pendant, après la Seconde Guerre mondiale, et jusqu’à aujourd’hui.
À première vue, les forces des États-Unis, de la Grande-Bretagne et de l’Union soviétique se dressaient ensemble contre l’Allemagne hitlérienne, alliée aux autres puissances de l’Axe passées sous la coupe du fascisme.
Or, on assiste actuellement à des phénomènes apparemment contradictoires. Les États-Unis, la Grande-Bretagne, et divers autres pays du camp « occidental » agissent de concert pour favoriser le retour du nazisme en Ukraine. Le régime de la junte installée illégalement au pouvoir à Kiev en février dernier, à la suite d’émeutes meurtrières fomentées et organisées dans l’ombre par la CIA, est entre les mains des héritiers autoproclamés des fascistes ukrainiens du siècle dernier. L’héritage qu’ils revendiquent, c’est leur collaboration à l’invasion et à la tentative de conquête de la Russie par l’Allemagne nazie, débutée en 1941 avec le déclenchement de l’Opération Barberousse .
L’actuel parti Svoboda, et les ministres issus de ses rangs qui participent au gouvernement autoproclamé de Kiev, se présentent fièrement comme les continuateurs et les disciples contemporains de l’OUN, l’organisation des nationalistes ukrainiens, autrefois conduite par le Collaborateur Stepan Bandera [2]. Bandera et ses légions nazies ont participé, aux côtés des troupes d’intervention SS de la Wehrmacht (Einsatzgruppen SS), au génocide de millions de juifs, de Polonais, de Russes, et d’autres. Leur collaboration active a renforcé la machine de guerre nazie et facilité la progression de ses troupes, parvenues, en fin d’année 1941, à moins de trente kilomètres de Moscou.
L’héroïsme et les sacrifices immenses des soldats de l’Armée rouge et du peuple russe ont permis de refouler progressivement la machine de guerre nazie jusqu’à Berlin, pour enfin la vaincre et en proclamer la défaite le 9 mai 1945.
Dans toutes les commémorations organisées au plan international cette année, la place d’honneur revient de droit à la Russie. Nul ne peut, ni ne tente, de le contester. C’est l’Armée rouge qui a vaincu l’Allemagne nazie. Presque 14 millions de ses soldats, (et autant de civils), ont sacrifié leur vie à ce combat historique. Dans le même temps, 290 000 soldats états-uniens et autant de soldats britanniques ont perdu la vie dans les combats [3]. Des trois puissances apparemment alliées contre le Troisième Reich, c’est la Russie qui a dû mener les plus durs combats, et endurer les plus terribles souffrances tout au long de la guerre d’agression imposée par l’Allemagne nazie. C’est la Russie qui a fini par terrasser l’ennemi, et lui a infligé sa défaite historique : 90 % du total des pertes infligées aux armées allemandes, tout au long du conflit, a été enregistré sur le Front Est, dans les combats menés contre l’Union soviétique.
N’oublions pas non plus que les États-uniens et les Britanniques ont attendu l’été 44 pour déclencher leur offensive contre l’Allemagne nazie sur le sol européen, en dépit des appels réitérés de Staline qui pressait les « Occidentaux » de prendre part aux combats beaucoup plus tôt, afin d’alléger le calvaire de la Russie.
Le nombre total des victimes civiles et militaires de la Seconde Guerre mondiale est estimé à 60 millions, répartis dans 30 pays. De tous ces morts, environ 30 millions ont été recensés en Russie et dans les autres États du camp soviétique. Par conséquent, personne ne peut mettre en doute les sacrifices héroïques consentis par la Russie, ni contester son rôle éminent dans la défaite historique infligée au fascisme sur le continent européen. Voilà pourquoi, malgré les tensions Est-Ouest liées à la crise ukrainienne, le président François Hollande a renouvelé cette semaine l’invitation faite au président russe Vladimir Poutine, de participer aux commémorations du 70ème anniversaire du Débarquement allié en Normandie. Le président Barack Obama, la chancelière Angela Merkel et la reine Élisabeth II participeront également à l’événement. Il est normal que Vladimir Poutine honore ces commémorations de sa présence parce que, comme on vient de le rappeler, c’est la Russie qui a gagné la guerre —et les puissances occidentales le savent pertinemment—. Le spectacle des célébrations officielles ne serait plus qu’une farce grotesque si la Russie venait à en être exclue, à cause de l’acrimonie présente des Occidentaux à son égard. Imaginez cela ! La France, dont le gouvernement légal a collaboré avec les Nazis, s’apprêtant à fêter la défaite de l’Allemagne nazie en l’absence de l’artisan essentiel de la victoire : la Russie.
On a mentionné plus haut que 90 % du total des pertes de l’Allemagne nazie, pendant toute la durée du conflit, ont été enregistrées sur son Front Est, dans sa guerre contre l’Union soviétique. Ce fait apporte un correctif salutaire à la vanité des « Occidentaux », et un démenti historique à leurs allégations. Avec le même aplomb, les Anglais et les États-uniens se targuent, vainement, d’avoir été les artisans de la victoire. Pensez à la kyrielle de productions hollywoodiennes qui véhiculent l’idée, extrêmement répandue en « Occident », que ce sont les exploits héroïques de « l’Amérique » et de la Grande Bretagne qui « ont libéré l’Europe ».
Mais il y a une autre leçon salutaire à tirer de l’échelle gigantesque des dévastations imposées à la Russie pendant la Seconde Guerre mondiale, et de leur part prépondérante, disproportionnée, dans le bilan global des destructions et des ravages générés par ce conflit. En « Occident », cet aspect des évènements a été pratiquement occulté, parce qu’il mène à la découverte de la vérité, extrêmement choquante, sur les causes réelles de la guerre et sur la logique qui a présidé à son déclenchement et à ses divers développements. La compréhension profonde des ressorts de la Seconde Guerre mondiale taille en pièces les prétentions éhontées de l’« Occident » à s’enorgueillir du noble rôle qu’il prétend avoir tenu dans la défaite de l’Allemagne nazie. Elle permet de démontrer que les rodomontades des « Occidentaux » sont aux antipodes de la vérité historique, et ne sont rien d’autre qu’une escroquerie.
Dans son livre intitulé L’Entente Chamberlain Hitler- [4], Clément Leibovitz démontre que, durant les années 1930, dans le plus grand secret, les classes dominantes de l’« Occident » ont, de façon délibérée, apporté leur concours à la mise au point de la machine de guerre nazie. De 1929 à 1940, les grandes sociétés états-uniennes ont accru leurs investissements dans l’Allemagne hitlérienne, dans des proportions beaucoup plus importantes que dans n’importe quel autre pays européen. Elles ont ainsi contribué de façon significative au renforcement massif du potentiel de production des industries de l’armement du Troisième Reich en gestation, au mépris de l’interdiction formelle du réarmement de l’Allemagne, décrétée en 1918 par le Traité de Versailles, à l’issue de la Première Guerre mondiale.
La classe dirigeante britannique a très largement contribué au renforcement du pouvoir hitlérien. Quand le Führer a remilitarisé la Rhénanie en 1936, Londres a fermé les yeux. En 1937 et 1938, le Parti conservateur que dirigeait Neville Chamberlain, le Premier ministre de l’époque, a participé à une série de rencontres secrètes avec le chancelier Adolf Hitler et les autres dirigeants nazis [5]. Ces discussions ont atteint leur apogée avec la conclusion des Accords de Munich en 1938 . Quand Chamberlain, de retour en Grande-Bretagne, a agité sa feuille de papier en proclamant « Nous avons sauvé la paix ! », on l’a beaucoup accusé, comme on le fait aujourd’hui encore, d’avoir cédé aux exigences d’Hitler pour tenter de « l’apaiser ». Mais, comme l’a relevé Leibovitz dans son étude minutieuse des échanges officiels de correspondances entre Londres et Berlin, l’objectif des pourparlers n’était pas « l’apaisement », mais plutôt la mise en place d’une collusion avec l’Allemagne Nazie.
« Il ne devrait y avoir aucun conflit entre nous », c’est ce qu’Hitler avait déclaré à Chamberlain lors d’une réunion tenue antérieurement à Godesberg, dans le plus grand secret, le 23 septembre 1938. Le Führer considérait que la Grande-Bretagne et l’Allemagne constituaient « les deux piliers qui soutenaient l’ordre social européen ». Le Premier ministre britannique et son secrétaire aux Affaires étrangères, Lord Halifax, entourés d’autres membres éminents du gouvernement de Londres, avaient pour leur part confié à Hitler qu’ils tenaient en haute estime « la grande force de son nationalisme et de son `racialisme’ ».
[PHOTO: La signature des Accords de Munich est présentée comme la volonté d’éviter une guerre avec l’Allemagne en reconnaissant que l’on est allée trop loin en la démembrant avec le Traité de Versailles. Il s’agit en vérité de reconstituer la force de frappe de l’Allemagne pour qu’elle détruise l’URSS.]
Comment expliquer de tels propos ?
Pour comprendre, il faut d’abord replacer l’avènement de l’Allemagne nazie et des autres régimes fascistes européens (Mussolini en Italie, Franco en Espagne, et Salazar au Portugal), dans leurs contextes historiques particuliers. En premier lieu, la révolution russe de 1917, a été le signal annonciateur du mouvement d’émancipation des travailleurs, de l’expropriation des capitalistes et de la fin de leur pouvoir omnipotent, et a profondément ébranlé le pouvoir des classes dirigeantes dans tous les pays capitalistes occidentaux.
D’autre part, les fascistes européens n’étaient pas seulement animés par les préceptes de leur idéologie raciste différenciant « la race supérieure » des « sous-hommes » (Untermenschen), ils étaient farouchement anticommunistes et exécraient tout particulièrement l’Union soviétique et ses principes socialistes. Le parti hitlérien avançait pourtant drapé de l’étendard (trompeur) du « national socialisme ». Hitler vouait au marxisme une haine pathologique. Il en allait de même pour tous les dirigeants du Troisième Reich.
C’était cet anticommunisme forcené qui soulevait l’enthousiasme et emportait immanquablement l’admiration des dirigeants capitalistes de l’« Occident ». Hitler était perçu par eux comme un rempart stratégique contre la propagation de la révolution communiste, alors que le capitalisme traversait la crise profonde de la grande dépression, et que la misère se répandait de façon prodigieuse dans tous les pays « occidentaux ».
La collusion entre Hitler et Chamberlain avait été scellée par un pacte secret. Elle reflétait les angoisses géostratégiques des classes dominantes des États-Unis et de la Grande Bretagne. Il fut donc décidé de mettre sur pied la machine de guerre nazie, avec l’objectif de détruire l’Union soviétique. Voilà ce que recouvrait, en réalité, la prétendue « politique d’apaisement » menée par Chamberlain à l’égard de l’Allemagne nazie. Elle avait été conçue afin de « laisser les mains libres » à l’Allemagne hitlérienne pour s’étendre à l’Est. Voilà pourquoi la Grande-Bretagne n’avait rien trouvé à redire à l’annexion de l’Autriche et de la région des Sudètes (au détriment de la Tchécoslovaquie) en 1938. Les dirigeants britanniques avaient, de façon explicite mais secrète, donné carte blanche à Hitler pour « préserver l’ordre social (capitaliste) en Europe », et combattre l’essor redouté du socialisme conquérant inspiré par la Russie.
En réalité, l’Allemagne nazie n’était guère qu’un régime à la solde de l’axe capitaliste anglo-US, au même titre que les autres régimes fascistes européens. C’est ce qui explique pourquoi la machine de guerre nazie a tourné sa terrible puissance de feu contre l’Union soviétique. Et c’est là que les janissaires en charge de l’extermination programmée des « Untermenschen » (les sous-hommes) ont commis les forfaits barbares les plus épouvantables que l’on puisse imaginer. Hitler a fait exactement ce qu’attendaient de lui les classes dirigeantes de l’« Occident », qui l’avaient aidé à conquérir le pouvoir en reconnaissance de son antisoviétisme furieux. Les souffrances et les atrocités qui en ont résulté pour le peuple russe et les aux autres peuples slaves ont été d’une ampleur et d’une sauvagerie inouïes, et dépassent, par leur échelle gigantesque, celles infligées à l’Europe de l’Ouest ou aux prisonniers de guerre anglais et états-uniens.
Comme dans toutes les relations qu’entretiennent les pouvoirs occidentaux avec leurs clientèles, la nature des liens entretenus est soumise aux aléas des redéploiements tactiques éventuels que commandent les évènements. La guerre de l’Irak contre l’Iran, fomentée et sponsorisée par les États-Unis et la Grande-Bretagne dans les années 1990 et les années 2000, en fournit une excellente illustration. Après avoir poussé Saddam Hussein à entrer en guerre contre l’Iran, ils se sont retournés contre le président irakien aussitôt qu’il est devenu une menace régionale potentielle pour leurs intérêts. Les impérialistes « occidentaux » mettent souvent sur le même plan Saddam Hussein et Adolf Hitler pour tenter de justifier les guerres qu’ils ont déclenchées contre l’Irak au cours des deux précédentes décennies. On remarquera ironiquement que cette comparaison superficielle est, si l’on va au fond des choses, extrêmement pertinente. Dans un cas comme dans l’autre, les puissances impérialistes ont tout bonnement renversé un dictateur qu’il leur avait paru commode de mettre en place au service de leurs propres intérêts. Ces mêmes intérêts cyniques, soumis à toutes sortes d’aléas, ayant changé, les donneurs d’ordre de l’Occident ont choisi de se débarrasser d’un allié devenu embarrassant.
De la même façon, la transgression, par Hitler, des limites tacites fixées à ses ambitions expansionnistes, lui permettant d’agir à sa guise sur sa frontière orientale pour détruire l’Union soviétique, a fini par retourner ses commanditaires contre lui. Dans un ironique renversement d’alliance, les « Occidentaux » ont trouvé sage de conclure un accord avec l’ennemi d’hier (la Russie), pour anéantir le pouvoir hitlérien qu’ils l’avaient eux-mêmes porté sur les fonds baptismaux et armé par eux jusqu’aux dents dans l’intention de détruire leur nouvel allié de circonstance, (cette même Russie).
Cependant, ainsi qu’on l’a remarqué plus haut, l’alliance réalisée pendant la guerre était empreinte d’ambivalence. La Russie a dû affronter seule les assauts des troupes nazies durant trois longues années avant que les Occidentaux ne se décident finalement à déployer des troupes en Europe. Encore faut-il noter que l’engagement occidental sur le théâtre européen n’intervint vraisemblablement à ce moment là, qu’en raison des avancées spectaculaires de l’Armée rouge, alors que la Wehrmacht reculait d’autant, et que l’Allemagne toute entière, et d’autres pays d’Europe centrale, risquaient de passer aux mains de Staline.
À partir de là, un nouvel impératif stratégique a gouverné les plans, les décisions et les actions des capitalistes « occidentaux ». L’objectif majeur est devenu la reprise de l’ouvrage là où il avait été laissé en 1917, quand la priorité suprême était de vaincre l’Union soviétique. C’est pour anéantir le péril communiste que les classes dirigeantes de l’« Occident » avaient sorti de leur manche la carte du régime hitlérien. Ce choix s’était révélé désastreux. Au bout du compte, pour des raisons géopolitiques cyniques, la machine de guerre antisoviétique des nazis avait dû être liquidée au prix d’un préjudice énorme.
Ces ressorts profonds qui ont motivé les décisions de leurs prédécesseurs avant, pendant, et après la guerre, les « Occidentaux » ne les évoquent jamais lors des commémorations qu’ils organisent chaque année pour célébrer la défaite de l’Allemagne nazie et de ses alliés. Mais, à la fin de la Seconde Guerre mondiale, les préoccupations géopolitiques secrètes des puissances capitalistes n’avaient pas varié d’un pouce. Le problème central, c’était la persistance du danger que l’Union soviétique représentait pour l’ordre capitaliste du monde. Les craintes des élites occidentales étaient d’autant plus exacerbées que le prestige de l’Union soviétique grandissait auprès des populations des pays occidentaux, qui n’ignoraient rien des héroïques sacrifices consentis par le peuple russe pour débarrasser l’Europe du joug et de la barbarie fascistes. Au sein des masses populaires de l’« Occident », il y avait en outre la conscience diffuse, palpable, que leurs classes dirigeantes avaient facilité d’une façon ou d’une autre l’ascension du fascisme. Ainsi, en Grande-Bretagne, le mépris de la population laborieuse pour la classe dirigeante explique pourquoi le chef du Parti conservateur, Winston Churchill, le successeur de Chamberlain à la tête du gouvernement après 1940, a été remercié par l’électorat et renvoyé dans ses foyers immédiatement après la guerre. Pour la première fois, les Britanniques avaient choisi de porter au gouvernement les travaillistes qui se réclamaient des idéaux socialistes. Le portrait flatteur de Winston Churchill, le chef de guerre énergique, ferme et décidé, n’avait pas suffi pour emporter l’adhésion des électeurs.
La Seconde Guerre mondiale était à peine terminée que déjà les classes dirigeantes britanniques et états-uniennes déclenchaient la Guerre froide et initiaient des campagnes hostiles contre l’Union soviétique. En un tournemain, le revirement occidental avait fait de Staline, l’allié d’hier, le nouveau Satan. À partir de ce moment, la nation qui avait terrassé l’hydre monstrueuse et criminelle du fascisme en Europe se vit fustigée comme l’ennemi mortel. La propagande occidentale prit alors un tour délirant, alertant à tout-va contre les dangers du « Péril rouge » et la malfaisance de « l’Empire du Mal ». Des décennies de campagnes de propagande haineuses et mensongères, s’appliquant à inspirer la peur de la Russie et du socialisme, allaient suivre. Aujourd’hui, Le communisme n’est plus l’idéologie officielle de la Russie. Néanmoins, la simple existence d’une Russie forte demeure une menace géostratégique pour l’ordre capitaliste de l’Occident et pour ses ambitions d’hégémonie planétaire. Les États-Unis, en particulier, perçoivent la Russie comme un obstacle à leurs visées expansionnistes sur le « Proche-Orient » [6] et le Pacifique. Le soutien décisif que Moscou a apporté à la Syrie a pratiquement fait échouer les efforts déployés à l’initiative de Washington pour imposer un changement de régime, ce qui, par voie de conséquence, a compromis les plans états-uniens visant à affaiblir l’Iran, un autre allié de la Russie.
Plus de vingt ans après l’écroulement de l’Union soviétique et la fin de la Guerre froide, nous assistons à la mise en œuvre d’un expansionnisme agressif des nations regroupées dans l’Otan sous la houlette des États-Unis, et à l’extension de la zone qu’ils contrôlent militairement de plus en plus près des frontières de la Russie. Les raisons qui motivent cette dynamique très particulière sont rarement évoquées dans les discours officiels des « Occidentaux ». Il est toutefois extrêmement instructif de se pencher sur la question.
Cette stratégie agressive que les pays du camp « occidental », dominés par Washington, mènent contre la Russie, est dans la droite ligne de leur attitude à l’égard de Moscou au lendemain de la Révolution bolchevique de 1917. Dès cette époque, ils ont vu en Moscou un ennemi susceptible de nuire à leurs ambitions hégémoniques. Leur politique hostile est dans la droite ligne de l’instrumentalisation du fascisme européen, utilisé comme fer de lance de leurs menées agressives contre l’URSS au cours des années 1930, à l’origine du déclenchement du conflit international, mondialisé, le plus terrible qui ait jamais existé. Elle est dans la droite ligne du déclenchement de la Guerre froide par l’« Occident » en 1945 et de l’isolement imposé à la Russie durant près d’un demi-siècle, lui interdisant le développement normal et harmonieux de ses relations internationales. Elle est dans la droite ligne de la logique qui sous-tend la campagne belliqueuse que mènent actuellement Washington et ses alliés capitalistes occidentaux, qui, tirant prétexte de la crise ukrainienne, déversent une avalanche ininterrompue de mensonges et d’accusations fabriquées de toutes pièces sur la Russie de Poutine..
Couronnant le tout, l’hostilité géostratégique profonde qui s’exprime de façon sous-jacente dans toutes les relations des puissances « occidentales » avec la Russie, éclate aujourd’hui au grand jour à travers ce paradoxe historique en apparence absurde : le 70ème anniversaire de la défaite du fascisme en Europe est le moment choisi par les puissances occidentales pour forger une alliance avec les néonazis qui ont usurpé le pouvoir à Kiev. Il ne faut pas être grand clerc pour voir percer, dans cette affaire, à travers l ‘écran des mensonges et des provocations, le dessein ultime, l’ambition stratégique de toujours, jamais abandonnée : les visées agressives que les puissances impérialistes de l’Occident entretiennent à l’égard de la Russie.
Il ne faut pas chercher plus loin ce qu’il y a derrière la soi-disant « remise à l’heure », par Washington, de ses relations avec Moscou. Les puissances capitalistes occidentales sont prêtes à s’acoquiner avec n’importe quelle force, fût-elle la plus méprisable et la plus dépravée, pourvu qu’elle prête son concours à la réalisation de leurs ambitions hégémoniques.
Si on creuse un peu plus loin ce sillon, on voit poindre une vérité troublante : du point de vue des puissances capitalistes « occidentales », la Seconde Guerre mondiale ne s’est jamais réellement terminée. Elle a seulement connu une courte pause avant d’être relancée par la Guerre froide. Les puissances capitalistes « occidentales » s’emploient aujourd’hui à en pousser de nouveau les feux, contre le pays perçu par eux comme leur ennemi irréductible de toujours : la Russie.

Traduction 
Gérard Jeannesson

Source 
Strategic Culture Foundation

       

[1] L’emploi du terme Occident pour désigner non pas une région géographique, mais les gouvernements pro-US (y compris aujourd’hui des États comme la Colombie ou le Japon), date de la Guerre froide. Il s’agit de poser un conflit entre deux civilisations, d’un côté l’Occident qui serait fondé sur les valeurs de l’individu, et de l’autre l’Orient (autour de la Russie et de la Chine), qui serait intrinsèquement collectiviste, donc naturellement communiste. NdlR.

[2] “All-Ukrainian Union "Svoboda" program”, Voltaire Network, 12 August 2009.

[3] Pieter Lagrou, « Les guerres, la mort et le deuil : bilan chiffré de la Seconde Guerre mondiale », in Stéphane Audoin-Rouzeau et al., dir., La violence de guerre 1914-1945, Bruxelles, Complexe, 2002, p. 322 (313-327).

[4In Our Time : The Chamberlain-Hitler Collusion, par Clement Leibovitz, Monthly Review Press, 1997. Une version ultérieure en français est disponible sous le titre L’Entente Chamberlain Hitler, L’Harmattan, 2011.

[5] Un fait historique méconnu : 
Au lendemain de la signature des Accords de Munich, Neville Chamberlain, le Premier ministre britannique, a invité le chancelier Hitler à un petit entretien privé. Et puis, sans crier gare, il a sorti un papier de sa poche portant cette inscription : 
« Nous ci-devant représentés, le Führer, chancelier d’Allemagne, et le Premier ministre de la Grande-Bretagne, avons eu ce jour un nouvel entretien et sommes tombés d’accord pour considérer que la question des relations anglo-allemandes est de la première importance pour nos deux pays et pour l’Europe. » 
On y pouvait lire également que : 
Les dirigeants de nos deux pays estiment que « l’accord signé la nuit dernière et le traité naval germano-britannique sont le symbole du désir des deux nations de ne jamais se faire la guerre. » 
Les historiens oublient généralement de mentionner ce document. Pourtant, c’est vraisemblablement cet accord non protocolaire qui a laissé les mains libres à Hitler pour entreprendre son agression à l’Est. Ce n’est certainement pas l’accord de Munich qui traitait uniquement du sort de la Tchécoslovaquie ! 

Dans la filmographie historique de l’époque, on retrouve souvent la scène de l’arrivée à Londres de Chamberlain à son retour d’Allemagne, après la signature des Accords de Munich. Il se tient debout près de son avion, brandit une feuille de papier et l’agite devant la foule, et proclame alors d’une voix forte : « Nous avons sauvé la paix ! «  
Et tout le monde pense, dans l’assemblée venue pour l’accueillir, que le Premier ministre tient dans sa main la copie des accords signés à Munich. Et pourtant, le papier que Neville Chamberlain agite devant la foule, n’est autre que la déclaration convenue hors protocole, lors de sa petite réunion complémentaire avec le Chancelier Hitler.

[6] Le « Proche-Orient », en anglais « Middle-East », ne désigne pas une région géographique naturelle, mais l’ensemble du Levant et du Golfe persique en tant qu’objet du colonialisme. L’administration états-unienne parle désormais de « Proche-Orient élargi » (en anglais « Greater Middle East »), pour englober une région allant du Maghreb au Pakistan. NdlR.