Informazione

(english / italiano)

Il Tribunale Speciale della NATO

1) Goran Jelisic, imputato del Tribunale Speciale (di A. Martocchia. Recensione del libro "Uomini e non uomini", Zambon 2013)
2) Giustizia selettiva / Selective Justice (by David Harland - NYT, December 7, 2012)


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GORAN JELISIC, IMPUTATO DEL TRIBUNALE SPECIALE

Ha ragione Ugo Giannangeli, che nella sua Postfazione al nuovo libro "Uomini e non uomini" (*) scrive: «Ho letto il libro di Goran Jelisic e sono rimasto allibito». "Allibito" è la parola giusta. Giustamente nella Postfazione Giannangeli parla del carattere eminentemente politico - e perciò giuridicamente obbrobrioso - del "processo" subito da Jelisic: «Non che di aberrazioni giudiziarie non ne abbia viste, ma poco sapevo del funzionamento del Tribunale dell'Aja».

Le cronache del "Tribunale penale internazionale ad hoc per i crimini commessi sul territorio della ex Jugoslavia" (TPIJ) non possono che lasciare allibito chiunque vi si avvicini per caso e senza parzialità o preconcetti. Il problema, però, è che – tolto il libro di cui stiamo parlando – tali cronache a dir poco scarseggiano. Esistono, è vero, i servizi informativi prodotti dallo stesso "Tribunale" (1) che oltre a farsi autopropaganda pubblica le trascrizioni ufficiali e una parte dei video (su YouTube) dei dibattimenti: ma il non addetto ai lavori non sa che farsene di questa mole esorbitante di materiali. Esistono poi le sintesi informative prodotte dall'IWPR (Institute for War & Peace Reporting), agenzia di stampa creata ad hoc per occupare a priori scrivanie e computer degli organi di informazione rendendo "superfluo" – cioè in pratica impedendo – il lavoro di presa diretta, scavo e analisi indipendente che invece il giornalista sarebbe tenuto a fare. La IWPR è nata in effetti per "coprire" mediaticamente in maniera totalitaria tutta la crisi jugoslava sin dai primi anni Novanta: chi li finanzia? Ma che domande: gli stessi che finanziano il "Tribunale ad hoc"! Tra questi spiccano il National Endowment for Democracy, l'Open Society Institute e la Rockefeller Family Associates (2).

Non esistono giornalisti indipendenti che abbiano seguito i lavori del TPIJ in maniera non occasionale, ed anche alcune attività di contro-informazione avviate su internet, per ovvie ragioni, non hanno retto al passare inesorabile del tempo – chi può seguire costantemente una questione per un ventennio o più su base meramente volontaria? Tantomeno tali attività hanno retto dopo alcune pesanti sconfitte subite – la più pesante fra tutte: l'assassinio di Slobodan Milosevic proprio nel carcere dell'Aia, proprio mentre avviava la sua autodifesa. (3)

Con la morte di Milosevic è venuta meno ogni attività di analisi e di critica delle attività del "Tribunale". Guardiamo al nostro paese, l'Italia, che pur essendo un paese molto provinciale aveva visto svilupparsi sin dagli anni Novanta innumerevoli attività dedicate ai fatti jugoslavi: ebbene, sul "Tribunale ad hoc" è uscito un numero assolutamente esiguo di testi analitici. Pochi gli articoli, tutti copia-e-incolla dei dispacci d'agenzia venuti dall'estero, e pochissimi anche i libri. Tra questi ultimi, cronologicamente precedenti al libro di Jelisic, dobbiamo ricordare solamente: «Imputato Milosevic. Il processo ai vinti e l'etica della guerra», di Massimo Nava (Fazi 2002), e il "nostro" «In difesa della Jugoslavia. Il j’accuse di Slobodan Milošević di fronte al “Tribunale ad hoc” dell’Aia» (Zambon, 2005). (4)
Sarebbe a questo punto importante, a venti anni dalla creazione di tale istituzione para-legale, operare una ricognizione degli studi specifici effettuati a livello accademico, delle Testi di laurea o dottorato dedicate al "Tribunale" o che usano gli Atti del "Tribunale" come fonte di ricostruzione storica dei tragici fatti jugoslavi… Sarebbe importante, ma già viene la pelle d'oca a pensare a quali sarebbero i risultati di questa ricognizione.

Sulla vera natura del "Tribunale ad hoc" scrivevamo nel 2005 (5): «La "giustizia" del "Tribunale ad hoc" è dunque quella di una parte in causa contro l'altra: il contrario esatto del super partes. Il TPIJ, analogamente al famigerato Tribunale Speciale dell'Italia fascista, è uno strumento politico totalmente sotto controllo dei vincitori, cioè degli aggressori, devastatori ed invasori della Jugoslavia.» Ci confortava nel giudizio la sincera dichiarazione di Jamie Shea, portavoce della NATO durante i bombardamenti sulla Jugoslavia della primavera del 1999: «La NATO è amica del Tribunale, è la NATO che detiene per conto del Tribunale i criminali di guerra sotto accusa… Sono i paesi della NATO che hanno procurato i fondi per istituire il Tribunale, noi siamo tra i più grandi finanziatori.» 
Più in dettaglio, del "Tribunale ad hoc" analizzavamo i meccanismi giuridici: «Noti giuristi e commentatori hanno spiegato come, nel suo funzionamento, il TPIJ violi tutti i principi del diritto internazionale. In sostanza, esso non rispetta la separazione dei poteri, né la parità fra accusa e difesa, né tantomeno la presunzione di innocenza finché non si giunge ad una condanna: la regola 92 del TPIJ stabilisce che le confessioni siano ritenute credibili, a meno che l'accusato possa provare il contrario, mentre in qualsiasi altra parte del mondo l'accusato è ritenuto innocente fino a quando non sia provata la sua colpevolezza. Il TPIJ formula i propri regolamenti e li modifica su ordine del Presidente o del Procuratore, assegnando ad essi carattere retroattivo: attraverso una procedura totalmente ridicola, il Presidente può apportare variazioni di sua propria iniziativa e ratificarle via fax ad altri giudici (regola 6). Il regolamento stesso non contempla un giudice per le indagini preliminari che investighi sulle accuse. Il "Tribunale ad hoc" utilizza testimoni anonimi, che si possono dunque sottrarre a verifiche da parte della difesa; secreta le fonti testimoniali, che possono essere anche servizi segreti di paesi coinvolti nei fatti. Esso usa la segretezza anche sui procedimenti aperti (regola 53); ricusa o rifiuta a proprio arbitrio di ascoltare gli avvocati della difesa (regola 46), allo stesso modo dei tribunali dell'Inquisizione; può rifiutare agli avvocati di consultare documentazione probatoria (regola 66); può detenere sospetti per novanta giorni prima di formulare imputazioni, con l'evidente scopo di estorcere confessioni. Dulcis in fundo, i giudici si arrogano persino il diritto, d'accordo con la "pubblica accusa", di revisionare la trascrizione del dibattimento, censurandola

La gran parte di queste pratiche illegittime è puntualmente confermata nel suo libro da Goran Jelisic, il quale porta quei casi esemplari che sono le sue esperienze dirette. Esperienze drammatiche, a fronte delle quali chiunque impazzirebbe. Jelisic invece raccoglie il suo dolore, i suoi shock, e riesce a farne un libro, a rivendicare semplicemente la umanità sua e dei suoi compagni di prigione, anche quelli di diverso colore politico-etnico. Di qui il titolo, poiché «esistono solo due nazioni: gli uomini e i non uomini» (p.87). E sulla base di questo spontaneo senso di umanità in carcere si fraternizza spesso (non sempre) anche con il nemico di ieri.

Jelisic spiega ulteriori discutibili prassi adottate dal "Tribunale". Racconta casi precisi, di testimoni "imboccati" dai giudici, o del modo in cui vengono imposti gli avvocati difensori e come questi ultimi inducano l'imputato a commettere errori dei quali pagherà poi care le conseguenze. Fa alcuni esempi di materiale probatorio grossolanamente falsificato (addirittura estratti da un film di Arnold Schwarzenegger: p.223). Jelisic racconta come gli inquirenti cercarono in tutti i modi di fagli dire che a Brcko erano stati uccisi seimila musulmani: «Ero sbalordito da tale richiesta. In seguito, ogni volta che volevano spingermi a dire qualcosa, spegnevano la telecamera. Si vedeva che avevano una bella esperienza d'interrogatori nei servizi segreti o come agenti» (p.144; p.170). Jelisic spiega che di fronte a sue "ammissioni" era sempre pronto uno sconto di pena… Alcune sue presunte vittime verranno però invece ritrovate vive e vegete (p.169; p.308). 
Un altro elemento interessante che emerge dalle memorie di Jelisic è la varietà delle posizioni e degli atteggiamenti anche nel seno di ciascuna parte etnico-politica. Così, ad esempio, anche tra i serbi di Brcko: Jelisic prigioniero non sempre trova tra i suoi ex commilitoni e preposti quell'aiuto che si sarebbe aspettato. Anche per qualche suo ex superiore evidentemente poteva essere lui, Jelisic, il capro espiatorio adatto a calmare le acque su altri versanti. L'opportunismo ha trasformato in "non uomini" anche qualcuno dei "suoi". 

E' particolarmente importante l'informazione che Jelisic fornisce sulla sua vicenda "italiana". Innanzitutto, dopo la condanna egli è stato arbitrariamente assegnato ad una prigione italiana nonostante garanzie affatto diverse che gli erano state date. In Italia è passato per sei prigioni diverse, e si trova adesso a Massa, dove deve terminare di scontare una condanna a 30 anni (fino al 2028). Sebbene abbia fatto domanda per ottenere tre anni di indulto, concessi a tutti i detenuti dello Stato italiano, questi gli sono stati rifiutati con la motivazione che avrebbe commesso il crimine di genocidio, reato da cui invece è stato assolto; i suoi ricorsi non ottengono nemmeno risposta. Gli sono stati negati anche i permessi che invece, nelle carceri estere, sono stati spesso concessi ad altri condannati dell'Aia. Dal 2006, anno d'inizio del lavoro di traduzione e riscrittura delle sue memorie, la curatrice del libro non ha mai ottenuto il permesso di incontrarlo. 

Sulla morte di Milosevic, che a noi risulta essere stato ucciso tramite somministrazione a sua insaputa di dosi da cavallo di Rifampicina nei pasti mensa, Jelisic espone una sua tesi un po' diversa (p.137) ma che comunque evidenzia quantomeno arbitrii e deficit di controlli nella prigione dell'Aia ("In carcere non si può morire altro che per omicidio", ha scritto giustamente Miriam Pellegrini Ferri). Jelisic opportunamente ricorda altre persone uccise o morte nel carcere del "Tribunale" o nelle operazioni per la loro cattura. L'elenco negli anni è diventato terribilmente lungo: Djordje Djukic, Simo Drljaca, Dragan Gagovic, Janko Janjic, Slavko Dokmanovic e Milan Babic (due strani suicidi nelle celle dell'Aia), Milan Kovacevic, Dragomir Abazovic. Sarà un caso, ma in questo elenco sono tutti serbi. Certamente la disparità di trattamento tra prigionieri delle diverse parti politiche è un dato acclarato; scriviamo "politiche" e non "nazionali" poiché in realtà anche alcuni serbi legati ai servizi segreti occidentali hanno goduto di trattamenti di favore: è il caso di Milorad Ulemek "Legija", di Momčilo Perišić e della strana coppia Stanisic-Simatovic, che hanno reso in passato i loro servigi al "Tribunale ad hoc" testimoniando contro Milosevic, per poi usufruire di assoluzioni o sconti di pena. 

I proscioglimenti "eccellenti" hanno riguardato tutti i personaggi di spicco, veri responsabili politico-militari, appartenenti alle parti e ai partiti secessionisti croati, musulmani e albanesi. Ramush Haradinaj e Hasim Thaci sono oggi i veri padroni della repubblichetta del Kosovo. Nel novembre 2012 la corte dell’Aja ha scagionato persino i generali croati Ante Gotovina e Mladen Markac, pianificatori della pulizia etnica delle Krajine. Il boia Nasir Oric, comandante delle milizie musulmane che a ripetizione fecero strage di serbi nei dintorni di Srebrenica tra il 1992 e il 1994, è stato completamente assolto (sic) nel 2008 quando era già libero avendo scontato solo una pena ridicola nel carcere dell'Aia. 

La notizia più recente è la liberazione dell'ex presidente della autoproclamata "Repubblica croata di Erzeg-Bosnia" Dario Kordic. In custodia dal 1997 e condannato a 25 anni nel 2004, Kordic ha scontato la pena a Graz, cioè in un paese (l'Austria) che ha in tutti i modi sostenuto il separatismo e nazionalismo croato. Mandante della strage di Ahmici, un villaggio a forte componente musulmana presso Vitez, dove un centinaio di non-croati furono liquidati il 16 aprile del 1993, Kordic è dunque potuto rientrare a Zagabria tra i festeggiamenti di rappresentanti politici e della chiesa cattolica. (6)

Per alcune delle assoluzioni di cui sopra un anno fa scoppiò uno scandalo, presto silenziato, attorno alla figura di Theodor Meron, "presidente" del "Tribunale", cittadino statunitense, già consigliere giuridico del governo israeliano e ambasciatore israeliano in Canada e alle Nazioni Unite. Il giudice danese Harhoff accusò Meron di avere "effettuato pressioni sui suoi colleghi" per compiacere l'establishment militare americano e israeliano. (7)

Negli anni successivi all'assassinio di Milosevic sono stati chiusi i "processi" che erano già aperti, come questo di Jelisic, e sono stati catturati gli ultimi ricercati. Jelisic è prigioniero in Italia da più di dieci anni, e da alcuni anni sono oramai in corso i procedimenti "eccellenti" contro Karadzic e Mladic – procedimenti che nessuno segue, né in Italia né all'estero, benché gli elementi interessanti siano moltissimi sotto il profilo della ricostruzione storica, mentre gli elementi di critica giuridica sono perfettamente analoghi a quelli già palesati nei casi precedenti… Il libro di Jelisic con grande umanità espone i fatti che sono capitati all'autore (8), ma certamente non è un singolo condannato a potersi fare carico di mettere in questione i meccanismi complessivi di funzionamento e le logiche del "Tribunale". Jelisic quasi candidamente ci "colpisce allo stomaco" rimproverandoci la nostra disattenzione su questa problematica, e ridestandoci. Ha ragione: a questo punto sarebbe veramente necessario che qualcuno stilasse un corposo bilancio critico di tanti anni di attività di questa struttura para-legale, "utile" solamente ad assolvere a priori tutti i responsabili occidentali, per i quali è stato sempre dichiarato il non luogo a procedere, e a prosciogliere dalle accuse tutti quelli che tra i criminali locali sono amici o agenti dell’Occidente. 


Andrea Martocchia
(segretario, Coord. Naz. per la Jugoslavia ONLUS - www.cnj.it)


(*) Goran Jelisic: UOMINI E NON UOMINI. La guerra in Bosnia Erzegovina nella testimonianza di un ufficiale jugoslavo
A cura di Jean Toschi Marazzani Visconti
Prefazione di Aldo Bernardini, docente di Diritto Internazionale, Università di Teramo
Postfazione dell’Avv. Ugo Giannangeli
Francoforte: Zambon 2013
Formato: 130x210 Pagg. 320 - prezzo 15,00 € - ISBN 978-88-87826-91-3

NOTE
(3) Da segnalare il grande lavoro svolto per anni da Andy Wilcoxson con il sito http://www.slobodan-milosevic.org . Il "processo" a Milosevic fu seguito bene dalle sezioni del Comitato internazionale di diversa sorte nei diversi paesi, tra cui l'Italia: http://it.groups.yahoo.com/group/icdsm-italia/
(4) https://www.cnj.it/documentazione/autodifesa04.htm . Online si accede ai due materiali più preziosi pubblicati nel testo: il nostro saggio «Processo Milošević: un “processo alle intenzioni”», unica dettagliata analisi e denuncia del funzionamento del "Tribunale" che sia apparsa finora in lingua italiana, e il testo integrale del Discorso di avvio della Autodifesa di Slobodan Milošević (31 agosto-2 settembre 2004)
(5) In «Processo Milošević: un “processo alle intenzioni”», cit. (https://www.cnj.it/MILOS/testi.htm#intenzioni).
Harhoff è stato ovviamente subito silurato con un pretesto relativo al "processo" Seselj: https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/7756
(8) In occasione di una riedizione, raccomandiamo la stesura di un Indice dei Nomi ed un corredo critico, in modo che ad ogni circostanza o nome si possa associare una pagina delle trascrizioni degli Atti ufficiali del dibattimento.

Sul carattere illegittimo, servile e fazioso del "Tribunale ad hoc" si veda altra documentazione raccolta al nostro sito: 
https://www.cnj.it/MILOS/testi.htm



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Giustizia selettiva

di David Harlan   New York Times, 7 dicembre, 2012

Pessimo essere un Serbo vittima di un qualsiasi crimine nella ex Jugoslavia. I Serbi sono stati costretti a partire dalle loro case  e hanno subito una pulizia etnica dalle guerre nei Balcani molto più di qualsiasi altra comunità. E più Serbi rimangono etnicamente spostati ancora oggi. Non si è tenuto conto di quasi nessuno e sembra che non succederà. Il tribunale per i crimini di guerra delle Nazioni Unite all’Aja ha prosciolto  dall’accusa di crimini di guerra Ramush Haradinaj, ex primo ministro del Kosovo. Il mese scorso la corte dell’Aja ha scagionato due generali croati.  Prosciolti in appello, i generali che hanno guidato la Croazia alla vittoria sui Serbi. Nell’insieme, quasi tutti gli amici dell’Occidente sono stati prosciolti; quasi tutti i Serbi sono stati giudicati colpevoli. Questi risultati non riflettono l’equilibrio dei crimini commessi sul terreno. Non nutro simpatia per i Serbi che sono stati imprigionati. Al contrario. Ho vissuto l’assedio di Sarajevo. Sono stato testimone al processo per i casi dell’ex presidente Serbo, Slobodan Milošević, per il presidente dei Serbi bosniaci in tempo di guerra, Radovan Karadzić, e, più recentemente, del comandante militare Serbo bosniaco, Ratko Mladić, accusato di aver ordinato il massacro di Srebrenica. I Serbi hanno commesso molti dei peggiori crimini di guerra, ma non erano per niente i soli, e non è giusto, o utile, che ne abbiano l’unica responsabilità.

Imprigionare solo i Serbi è semplicemente senza senso in termini di giustizia, in termini di realtà, o in termini di politica. I leader Croati furono conniventi del disgregamento della Jugoslavia e hanno contribuito abbondantemente agli orrori in Bosnia-Erzegovina. Sono stato io stesso testimone della indiscriminata furia dell’assalto Croato alla bella città di Mostar. Ho vissuto in una cittadina della Bosnia dove le teste decapitate dei Musulmani catturati erano esposte nella piazza del mercato. Ho visto io stesso decine e decine di migliaia di rifugiati civili Serbi fuggire dalla Croazia all’alba dell’offensiva Croata del 1995 che terminò la guerra. Se i generali prosciolti non erano responsabili della pulizia etnica, qualcuno lo era, qualcuno che presumibilmente sarà lasciato libero. Nemmeno lo erano solo i Serbi e i Croati, anche se devono portare sulle spalle  un grosso peso del giudizio della storia. La leadership Musulmana Bosniaca ha profondi e compromettenti legami con il movimento internazionale dei Jihadisti e hanno ospitato almeno tre persone che hanno giocato ruoli chiave negli attacchi agli Stati Uniti dell’11 settembre. Sono stato testimone di attacchi di elementi stranieri dei mujaheddin contro civili Croati nella valle di Lavska. E le autorità Albanesi Kosovare meritano una speciale  menzione, per aver impiegato la pulizia etnica, nella sua forma più estrema, per potersi sbarazzare interamente delle popolazioni Serbe e Rom. Gli antichi monasteri cristiani ortodossi sono, ora, quasi il solo ricordo di una popolazione non albanese, una volta fiorente. Questi monasteri sono stati oggetto di numerosi violenti attacchi. Diversi sono stati distrutti; altri sono sotto continua minaccia. Haradinaj è stato dichiarato innocente delle accuse contro di lui, ma rimane il fatto che centinaia di migliaia di Serbi, per la maggior parte anziani, donne e bambini, furono etnicamente cacciati dal Kosovo dagli Albanesi Kosovari. Quanto è successo al tribunale è lontano dalla giustizia, e sarà interpretato dagli osservatori nei Balcani e oltre come la continuazione della guerra con mezzi legali contro gli Stati Uniti,  la Germania e le altre potenze occidentali da una parte, e i Serbi dall’altra. Questo amplificherà i peggiori istinti politici nella gente della ex Jugoslavia: il complesso di persecuzione dei Serbi; il trionfalismo dei Croati; il senso di vittimismo dei Musulmani Bosniaci; la rivendicazione dei Kosovari Albanesi per la ricerca della purezza razziale. Ognuno di questi tratti ha delle basi di verità, e ognuna è stata esagerata e manipolata dai politici di ogni parte. La mancanza di un riconoscimento legale canalizzerà una volta ancora le lagnanze nel processo politico, depositando molte munizioni per futuri round conflittuali. E’ l’opposto di quanto il tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia era stato creato per ottenere.

 

(Una versione di questo articolo è apparso anche sul The International Herald Tribune dell’8 Dicembre 2012)

 

Traduzione a cura di JeanTMV per il Forum Belgrado Italia

 

SELECTIVE JUSTICE

By DAVID HARLAND

NYT, December 7, 2012

TOO bad if you were a Serb victim of any crime in the former Yugoslavia. More Serbs were displaced abd ethnically cleansed by the wars in the Balkans than any other community. And more Serbs remain ethnically displaced to this day. Almost no one has been held to account, and it appears that no one will be. The United Nations war crimes tribunal in The Hague has acquitted Ramush Haradinaj, Kosovo`s former prime minister, of war crimes. Last month, hague-court overturns convictions of 2 croatian-generals. It acquitted on appeal, the generals who led Croatia to victory over the Serbs. Altogether, almost all of the West`s friends have been acquitted; almost all of the Serbs have been found guilty. These results do not reflect the balance of crimes committed on the ground. I have no sympathy with the Serbs who have been convicted. On the contrary. I lived through the siege of Sarajevo. I served as a witness for the prosecution in the cases against the former Serbian president, Slobodan Milosevic, the wartime leader of the Bosnian Serbs, Radovan Karadzic, and, most recently, the Bosnian Serb military commander, Ratko Mladic, who is accused of ordering the massacre at Srebrenica. The Serbs committed many of the war`s worst crimes, but were not at all alone, and it is not right, or useful, for them to carry the sole responsibility. Convicting only Serbs simply doesn`t make sense in terms of justice, in terms of reality, or in terms of politics. The Croatian leaders connived in the carve-up of Yugoslavia, and contributed mightily to the horrors on Bosnia and Herzegovina. I witnessed for myself the indiscriminate fury of the Croatian assault on the beautiful city of Mostar. I lived in a town in Bosnia where the decapitated heads of captured Muslims were displayed in the marketplace. I saw for myself tens and tens of thousands of Serb civilian refugees fleeing Croatia in the wake of the 1995 Croatian offensive that ended the war. If the acquitted generals were not responsible for this ethnic cleansing, then somebody was, somebody who will presumably go free. Nor were the Serbs and Croats alone, though they must shoulder most of the judgment of history. The Bosnian Muslim leadership had deeply compromising links to the international jihadists movement, and hosted at least three people who went on to play key roles in the 9/11 attacks on the United States. I witnessed attacks by foreign mujahedeen elements against Croat civilians in the Lasva Valley. And the Kosovar Albanian authorities deserve a special mention, having taken ethnic cleansing to its most extreme form of ridding themselves almost entirely of the Serb and Roma populations. Kosovo’s ancient Christian Orthodox monasteries are now almost the only reminder of a once-flourishing non-Albanian population. These monasteries have been the object of numerous violent attacks. Several have been destroyed; others remain under threat. Haradinaj has been cleared of the charges brought against him, but the fact remains that hundreds of thousands of Serbs, mostly the elderly, women and children, were ethnically cleansed from Kosovo by the Kosovar Albanians. What has happened at the tribunal is far from justice, and will be interpreted by observers in the Balkans and beyond as the continuation of war by legal means, with the United States, Germany and other Western powers on one side, and the Serbs on the other. This will amplify the worst political instincts of the peoples of the former Yugoslavia: the persecution complex of the Serbs; the triumphalism of the Croats; the sense of victimization of the Bosnian Muslims; the vindication of the Kosovar Albanian quest for racial purity. Each of these traits has some basis in truth, and each has been exaggerated and manipulated by politicians on all sides. The lack of legal reckoning will once again channel grievances into the political process, laying up plenty of ammunition for further rounds of conflict. It is the opposite of what the war crimes tribunal for the former Yugoslavia was created to achieve.

A version of this op-ed appeared in print on December 8, 2012, in The International Herald Tribune





(francais / deutsch / italiano / english)

 
In 100th Anniversary of WWI, a New War Was Started in Europe


1) German foreign minister Steinmeier agitates for war (Ulrich Rippert / WSWS 20 June 2014)
2) Das finnische Modell. Berliner Regierungsberater plädieren im Machtkampf des Westens gegen Russland für eine enge militärische Anbindung der Ukraine an das westliche Kriegsbündnis… (GFP 05.06.2014)
3) For Peace and Freedom. German foreign policy experts are expressing their approval of Kiev's putsch regime's recent escalation of warfare against the East of Ukraine… (GFP 2014/05/30)
4) New Debate on the Responsibility for War. In the few months leading up to the one-hundredth anniversary of the beginning of World War I, a new debate, over who was responsible for starting the war, is gaining momentum in Germany… (GFP 2014/02/04)
5) Germany started the Great War, but the Left can’t bear to say so. By Boris Johnson (Major of London), 6 Jan 2014
6) Risoluzione sulla prima guerra mondiale / Resolution on WWI by German Communist Party, Communist Party of Luxembourg and Workers’ Party of Belgium (EN, DE, FR, IT)


LINKS:

14-18 : « On croit mourir pour la Patrie, on meurt pour des industriels »
Michel Collon mène l’enquête avec trois historiens : Jacques Pauwels, Anne Morelli et Lucas Catherine. 
VIDEO: http://michelcollon.info/14-18-On-croit-mourir-pour-la.html
ou http://vimeo.com/99236165
Akteure zweiter Klasse (Einbindung von Nicht-Mitgliedstaaten in die EU-Militärpolitik)
GFP 26.06.2014 - Die EU treibt auf ihrem heute beginnenden Gipfeltreffen die Einbindung von Nicht-Mitgliedstaaten in ihre globale Außen- und Militärpolitik voran. Die Assoziierungsabkommen mit Georgien, Moldawien und der Ukraine, die auf dem EU-Gipfel unterzeichnet werden sollen, sehen die allmähliche Anpassung der Vertragspartner an die Brüsseler Außen- und Militärpolitik vor… 
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58898
Second-Class Stakeholders (EU association and integration of non-member countries in military policy)
GFP 26.06.2014 - At its summit, starting today, the EU is pushing ahead to integrate non-member countries into its global foreign and military policies…
http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/58762
Analyse: Dilemmes moraux et promesses non tenues. Panorama historico-philosophique du mouvement non violent. Gandhi voyait en 14 - 18 un « test de virilité »
Domenico Losurdo - 4 septembre 2013
http://www.revueradical.be/?p=135
ou http://www.michelcollon.info/Gandhi-voyait-en-14-18-un-test-de.html

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http://www.wsws.org/en/articles/2014/06/20/spd-j20.html

German foreign minister Steinmeier agitates for war

By Ulrich Rippert 
20 June 2014


The 100th anniversary of August 4, 1914—the disastrous day on which the SPD (Social Democratic Party) faction voted in the Reichstag for the Kaiser’s war credits to finance World War I—is only weeks away. The SPD is preparing for the anniversary by pressing for renewed German militarism.

At the end of May, Foreign Minister Frank-Walter Steinmeier (SPD) opened a new web site for the foreign office with the title “Review 2014—Rethinking foreign policy.” The goal of the site is to combat long-standing public opposition to war and militarism.

With the support of the German federal government and the president, Steinmeier declared at the beginning of this year that the country’s previous policy of military restraint was at an end. In the future, Germany would intervene independently, “including militarily,” in crisis regions around the world. The foreign minister justified this by saying that Germany was “too big and too important” to limit itself “to merely commenting from the sidelines of world politics.”

Although this return of an aggressive German foreign policy underwent long and intensive preparation and was supported by all parties in the Bundestag as well as practically the entire media, it has met with the opposition and hostility by the majority of the population.

That is now supposed to change.

With the words “Allow us all to think further about foreign policy,” Steinmeier presses on the new web site for a foreign policy change. However, the mistrust and rejection of militarism and war are deep-seated. The despicable crimes of the Nazis and the Wehrmacht have embedded themselves deeply into the consciousness of broad layers of the population. The demands “No more war! No more fascism!” have shaped generations.

Steinmeier’s reaction to these sentiments leaves no room for doubt that from the point of view of the foreign ministry and the chancellor’s office the return of great power politics is a settled matter. At the same time, he is attempting to create the impression that it is not the German government and business interests that are pushing for great power politics and militarism, but rather that voices outside Germany are demanding “more leadership.” To this end, he has commissioned several dozen foreign “experts” to produce articles and assessments.

The advertisement for “Review 2014” claims: “For this web site we asked 50 renowned experts: ‘What, if anything, is wrong with German foreign policy? What must be changed?’ ”

In this regard, it should not be overlooked that these “renowned experts” in one or another way are dependent on and are paid by the foreign ministry. The form and content of their assessments clearly correspond with this dependence. Politicians, scientists, journalists and many countries all demand that Germany give up its cautious stance and take on a greater “leadership role” in security and military matters.

The demand for a German leadership role in Europe and the world has never been so shamelessly and forcefully raised in an official publication of the foreign ministry since the end of Hitler’s “Führerstaat” approximately 70 years ago.

Timothy Garton Ash, professor for European Studies at the University of Oxford, demands Germany take on a “greater leadership role” in the European Union (EU). Thomas Risse, head of the Working Group on Transnational Relations, Foreign and Security Policy at the Free University of Berlin, writes in an article entitled “German as a leading power” that the Berlin government must live up to its European leadership responsibility.

Volker Perthes, director of the Foundation for Science and Politics (SWP), which played a central role in the preparation of the change in foreign policy, emphasises, “Leadership depends on trust!” Perthes adds, “Foreign observers praise the professionalism of the German Foreign Service, but repeatedly complain that Germany plays too small of a role in international affairs—or otherwise promotes its own economic interests—and shies away from responsibility as well as leadership or shared leadership.” In another article, Perthes states, “Leadership means setting priorities.”

Kishore Mahbubani, a professor of political science at the National University of Singapore, was the clearest. He entitled his article “Germany’s destiny: leading Europe in order to lead the world.”

Nazi propaganda defined the character of Germany in a similar manner: “Today German belongs to us—tomorrow the entire world!” is part of the text of an infamous Nazi song.

Professor Mahbubani does not contest this. He declares that Merkel’s “European crisis management” has made Germany’s leading role in Europe unmistakably clear. “France and Great Britain can no longer fulfill this role,” he writes.

Professor Mahbubani does not worry about the fact that Germany committed unspeakable crimes in the previous century. Instead, he deplores the fact that it lost two world wars and he now wants to correct this.

He writes: “The twentieth century was a bad one for Germany. It lost two world wars and was divided and occupied.” The second half of the century was indeed better and brought Germany peace and prosperity. However, German society is “psychologically ill” with feelings of guilt about its past. This guilt complex must be overcome so that the twenty-first century “can become a great century for Germany.”

Steinmeier uses these remarks as justification for declaring that “foreign lands” have placed “great expectations” on German foreign policy. German politics should no longer ignore the cherished hopes and expectations “of our friends”.

With respect to the opening of the conference “Review 2014—Rethinking foreign policy” on May 20 in the foreign office’s “world hall steeped in history,” Steinmeier made it clear he wants to overcome the contradiction between “the great expectations placed on German foreign policy by foreign lands” and the ongoing opposition to a stronger stance on the part of the German population.

He says, “At the time I assumed office for the second time a half a year ago, I formulated a thesis in this world hall: Germany is somewhat too big and economically too strong for us to merely comment on world politics from the sidelines.” Now, he intends to explain and impose Germany’s new role in the world.

To this end, Steinmeier has planned numerous events over the course of the whole summer. He will no longer tolerate the public resistance to the return of militarism and war. For Steinmeier, democracy does not mean accepting the view of the majority and then acting. For him, a government that is “democratically legitimated by elections” has the task of defining German interests and imposing them against all opposition. It is the voice of the ruling finance oligarchy that tolerates no contradiction.

In the federal election of last autumn, this foreign policy turn was not introduced into the discussion, although it had been prepared for a long time in think tanks and ruling circles. Instead, all possible political issues of secondary importance were endlessly discussed, from gay marriage to a highway toll.

A few days after the election, President Gauck demanded that Germany once again play a role “in Europe and in the world” that corresponded with its actual influence. This was made a central theme of the coalition negotiations, and now the coalition is driving forward to resurrect German militarism.

Steinmeier is a typical Social Democratic representative of the state, who works on behalf of economic interests and the financial oligarchy, and views the population as an enemy. Symptomatic of this attitude was his angry outburst at an election meeting in Berlin, at which he shouted down his critics who had called him a “warmonger.”

Steinmeier cried, “You have no right!” and meant it literally. In an interview published in the Frankfurter Allgemeine Zeitung shortly after the European election, he called for the maintenance of an electoral threshold for small parties designed to maintain the dictatorship of the already established political parties.

A hundred years after the great betrayal by the SPD in August 1914, the Social Democrats have become the leading party of German imperialism and spout war propaganda on behalf of German militarism. Only one thing has changed: the SPD long ago lost its influence over the working class. The hostility between the Social Democrats and the workers is mutual.

=== 2 ===
In english: The Finnish Model
In the West's hegemonic struggle against Russia, German government advisers are calling for close military ties between Ukraine and the Western war alliance…
GFP 2014/06/05
http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/58757
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http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58884
Das finnische Modell
 
05.06.2014
BERLIN/KIEW
 
(Eigener Bericht) - Berliner Regierungsberater plädieren im Machtkampf des Westens gegen Russland für eine enge militärische Anbindung der Ukraine an das westliche Kriegsbündnis. Zwar sei die direkte Aufnahme des Landes in die NATO kontraproduktiv und solle nicht angestrebt werden, heißt es in einem aktuellen Papier der Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP). Das stehe jedoch einer Intensivierung der Kooperation, gemeinsamen Kriegsübungen und perspektivisch auch einer Aufrüstung des Landes an der Seite des Westens nicht entgegen. Für die Zukunft schlägt das SWP-Papier für die Ukraine ein "finnisches Modell" vor: Finnland gehöre offiziell keinem Militärbündnis an, sei aber eng an die NATO angebunden und praktisch Teil des Westens; in ähnlicher Weise könne auch Kiew formelle "Bündnisfreiheit" mit enger Partnerschaft mit der NATO verbinden. Auch im Mainstream der US-Außenpolitik wird die Auffassung geteilt, ein NATO-Beitritt der Ukraine sei zu riskant; er könne das Land endgültig in den Abgrund treiben und die östlichen Mitgliedstaaten des Kriegsbündnisses langfristig schwer belasten. Die Pläne zu einer engeren Zusammenarbeit der NATO mit der Ukraine gehen mit zunehmenden militärischen Aktivitäten in den osteuropäischen NATO-Staaten einher.
Die Beitrittsdebatte
In der aktuellen Debatte um militärische und militärpolitische Aktivitäten im Machtkampf gegen Russland meldet sich die Berliner Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP) zu Wort. Im Zentrum steht dabei die Frage, wie die Zusammenarbeit der NATO mit der Ukraine künftig zu gestalten sei. Hintergrund sind Plädoyers aus Kiew, aber auch aus ultrarechten Teilen des US-amerikanischen Establishments sowie aus transatlantisch orientierten Segmenten der deutschen Öffentlichkeit, das Land so rasch wie möglich in das westliche Kriegsbündnis aufzunehmen.
"Nicht jetzt"
Vor einem solchen Schritt warnt die SWP. Zwar klinge "der Gedanke ... verführerisch, als Reaktion auf das russische Vorgehen auf der Krim und in der Ostukraine die Option einer Vollmitgliedschaft drer Ukraine in der Nato wiederzubeleben", heißt es in einer aktuellen Stellungnahme aus dem Think-Tank. Doch zum einen werde Moskau dies "als bewusstes Eskalieren wahrnehmen" und vermutlich jegliche Kooperation zur Befriedung der Ukraine einstellen. Zum anderen sei zu befürchten, dass ein NATO-Beitritt die "politische Polarisierung der ukrainischen Gesellschaft weiter forciert". Mit Blick auf die Gefahr, in unmittelbarer Nachbarschaft zur EU und zum NATO-Bündnisgebiet könne sich ein langwieriger Konflikt, womöglich ein Bürgerkrieg festsetzen und auch deutsche Kräfte in spürbarem Maße binden, rät die SWP, "die Option einer Vollmitgliedschaft der Ukraine in der Nato im Moment (!) nicht aktiv zu verfolgen".[1] Ähnliches ist aus dem Mainstream der US-Außenpolitik zu hören. So weist der Congressional Research Service aus Washington explizit darauf hin, dass laut einer Umfrage vom März 2014 nur 34 Prozent der ukrainischen Bevölkerung für einen NATO-Beitritt des Landes plädieren, während 44 Prozent dagegen sind; Befürworter gibt es vor allem im Westen der Ukraine, Gegner in ihrem Osten.[2] Eine Debatte über den Beitritt wäre demnach - jedenfalls gegenwärtig - tatsächlich geeignet, das Land weiter zu spalten und in den Abgrund zu treiben und deutsch-europäische Kräfte zu binden.
"Kein Weg erkennbar"
Entsprechend positioniert sich die Bundesregierung bislang gegen jegliche NATO-Erweiterungspläne. Nach Äußerungen von NATO-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen, das Kriegsbündnis könne künftig weitere Staaten aufnehmen, erklärte Außenminister Frank-Walter Steinmeier Anfang April: "Einen Weg (der Ukraine) in die Mitgliedschaft in der Nato sehe ich nicht."[3] Ähnliches hat sich kürzlich mit Blick auf Georgien wiederholt. Während Rasmussen verlauten lässt, "die Tür" für das südkaukasische Land bleibe "offen", hat Bundeskanzlerin Angela Merkel zu Beginn dieser Woche mitgeteilt, ihrer Auffassung nach sei der NATO-Beitritt des Landes "kein Tagesordnungspunkt für den nächsten Nato-Gipfel" im September. Auf dem Gipfel solle vielmehr diskutiert werden, "wie wir deutlich machen können, dass Georgien ein guter Partner ... ist" - auch ohne Beitrittsprozess.[4]
Partnerschaft Plus
Dass der - zumindest vorläufige - Verzicht auf die formelle Aufnahme der Ukraine und Georgiens allerdings keinen Verzicht auf ihre enge Anbindung an die NATO bedeutet, lässt ebenfalls die aktuelle Stellungnahme aus der SWP erkennen. Demnach müsse man sich zwar zunächst mit der unmittelbaren Gefahr befassen, "dass die Ukraine weitere Teile ihres Territoriums ... verliert, das staatliche Gewaltmonopol noch stärker erodiert oder das Land in einen Bürgerkrieg versinkt". "Ein solches Szenario" hätte fatale Folgen für die "vier Nachbarländer der Ukraine, die Mitglieder der nordatlantischen Allianz sind: Polen, Slowakei, Ungarn und Rumänien"; "mittelbar" wäre auch die NATO als Ganzes betroffen, heißt es bei der SWP. "Langfristig" aber werde es darum gehen, "der Ukraine eine stabile sicherheitspolitische Verankerung zu bieten". Weil der NATO-Beitritt jedoch riskant sei, könne man ein "Partnerschaft-Plus-Format" anstreben: Das Kriegsbündnis solle etwa "Reformen des Verteidigungssektors" der Ukraine "unterstützen sowie auf politische und finanzielle Weichenstellungen drängen, die zum Aufbau effektiver Streitkräfte notwendig sind"; auch sollten "gemeinsame Manöver, die Unterstützung bei der Ausbildung der ukrainischen Streitkräfte und der Zugang zu modernen Defensivwaffen-Systemen ... das Hilfspaket ergänzen".[5]
Nur formell neutral
Die Gesamtperspektive für die Ukraine beschreibt die SWP als "finnisches Modell". Dabei bezieht sie sich auf die traditionelle finnische Neutralität. "Zwar gehört Finnland nach wie vor keinem Militärbündnis an, ist aber politisch nicht neutral", heißt es mit Blick auf die Entwicklung des Landes seit dem Ende der Systemkonfrontation: "An seiner sicherheitspolitischen Orientierung bzw. 'Westbindung' hat es in den letzten zwei Jahrzehnten keine Zweifel gelassen". So nehme es etwa "sehr aktiv" am "Partnership for Peace"-Programm der NATO teil und bringe sich in die Außen- und Militärpolitik der EU ein; vor allem kooperiere es militärisch mit den nordischen NATO-Mitgliedern Dänemark, Norwegen und Island. Offiziell neutral, faktisch Teil des Westens - dies sei ein geeignetes Modell auch für die Ukraine: "Die Fortführung der Bündnisfreiheit, die vertiefte Kooperation mit Nato-Mitgliedern und eine klare politische Westorientierung Kiews könnten auch die drei maßgeblichen Pfeiler der zukünftigen ukrainischen Sicherheitspolitik sein."[6]
Eine Nebelwand
Der Linie, die Ausdehnung ihrer militärischen Aktivitäten in Richtung Osten nicht durch allzu provokante Schritte zu gefährden, sondern sie mit Umsicht voranzutreiben, folgen die NATO-Hauptmächte auch bei der Ausweitung ihrer militärischen Aktivitäten in den osteuropäischen Mitgliedstaaten, etwa in den baltischen Staaten und Polen. So hat US-Präsident Barack Obama bei seinem Besuch in Warschau vor martialischer Kulisse (F-16-Kampfjets) posiert und die imposante Summe von einer Milliarde US-Dollar für den Ausbau der US-Militärpräsenz in Ost- und Südosteuropa in Aussicht gestellt, um das polnische Publikum zufriedenzustellen. Doch vermerken Beobachter, Obama habe ein Element vermieden, das Warschau energisch verlange, das Moskau aber wohl ähnlich wie ein etwaiger NATO-Beitritt der Ukraine zu drastischen Reaktionen zwingen würde - die Zusage einer dauerhaften Stationierung von NATO-Truppen in Polen. Der Westen hatte Moskau zunächst - während der Umbrüche des Jahres 1990 - mündlich und 1997 auch vertraglich zugesagt, keine NATO-Truppen in relevantem Umfang dauerhaft in Osteuropa zu stationieren, um Russland keiner existenziellen militärischen Bedrohung auszusetzen. Die US-Militärs, die die Obama-Administration jetzt beispielsweise nach Polen verlegen lassen will, sind dort dementsprechend offiziell nicht fest stationiert, sondern "rotieren". Ein polnischer Hardliner, der sich dafür ausspricht, NATO-Stützpunkte dauerhaft nach Polen zu verlegen, hat daher den martialischen Auftritt des US-Präsidenten eine "Nebelwand" genannt.[7]
Flexibel, nicht permanent
Ähnlich wie Washington positioniert sich auch Berlin. "Es ist wichtig, dass wir die Rückversicherung unserer östlichen Partner so gestalten, dass wir multinational, aber rotierend und flexibel, ... nicht statisch, nicht permanent ... anwesend sein werden", wird Bundesverteidigungsministerin Ursula von der Leyen zitiert.[8] Ähnlich wie die Anbindung der Ukraine an das westliche Kriegsbündnis ohne ihren offiziellen Beitritt scheint das Vorgehen der NATO-Staaten auch in diesem Falle geeignet, ihre militärischen Aktivitäten unter Vermeidung russischer Abwehrreaktionen deutlich nach Osten auszuweiten.
[1] Markus Kaim: Partnerschaft Plus: Zur Zukunft der NATO-Ukraine-Beziehungen. SWP-Aktuell 38, Mai 2014.
[2] Congressional Research Service: NATO: Response to the Crisis in Ukraine and Security Concerns in Central and Eastern Europe. April 16, 2014.
[3] Steinmeier sieht keinen Weg der Ukraine in die Nato. www.faz.net 01.04.2014.
[4] Pressekonferenz von Bundeskanzlerin Merkel und dem Ministerpräsidenten Garibaschwili am 2. Juni 2014 in Berlin.
[5], [6] Markus Kaim: Partnerschaft Plus: Zur Zukunft der NATO-Ukraine-Beziehungen. SWP-Aktuell 38, Mai 2014.
[7] Peter Baker, Rick Lyman: Obama, in Poland, Renews Commitment to Security. www.nytimes.com 03.06.2014.
[8] Von der Leyen lehnt ständige Nato-Truppen in Osteuropa ab. www.zeit.de 03.06.2014.
 
 
=== 3 ===
Auf Deutsch: Für Frieden und Freiheit
Deutsche Außenpolitiker äußern sich zustimmend zur jüngsten Eskalation der Kriegshandlungen in der Ostukraine durch das Kiewer Umsturzregime.
GFP 30.05.2014
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For Peace and Freedom
 
2014/05/30
BERLIN/KIEV
 
(Own report) - German foreign policy experts are expressing their approval of Kiev's putsch regime's recent escalation of warfare against the East of Ukraine. It is "evident" that "Kiev … had to again become active," declared the influential diplomat and Chairman of the Munich Security Conference, Wolfgang Ischinger. Prime Minister Arseniy Yatsenyuk, whose regime bears responsibility for the current artillery and aerial attacks on eastern Ukrainian cities, was guest speaker at yesterday's Charlemagne Prize award presentation ceremonies. The German media praised him accordingly. The Ukrainian President-elect, the Oligarch Petro Poroshenko, would like to lead Kiev into a "security alliance" with the West and soon sign the economic segment of the EU's Association Agreement. Ukraine has already begun the necessary preparations: Austerity measures, which will massively increase the unemployment rate and entail a dramatic rise in prices, have been initiated. German business circles are preparing for their economic expansion into that country. If Kiev can take control over eastern Ukraine with military means, new conflicts could arise: The interests of the expanding German industry would collide with those of Ukrainian oligarchs.
By All Means
Kiev's Prime Minister Arseniy Yatsenyuk has attracted public attention with his participation in yesterday's award presentation ceremonies of the Charlemagne Prize to the President of the European Council, Herman van Rompuy. In his short speech, he declared that Kiev will fight "for peace and freedom" against the rebellions in the East of the country - "with all means at our disposal."[1] On the eve of the ceremony, he conferred in Berlin with the German chancellor on the next steps in the struggle for influence with Moscow. President-elect Petro Poroshenko announced that Kiev seeks to strengthen its formal ties with the West. After initial resistance, Kiev now is signaling that the signing of the economic segment of the EU's Association Agreement is imminent - still in June. Only the political segment is currently in force. Poroshenko has also announced that he is counting on a "new security alliance with the USA and Europe to also militarily protect the Ukraine." He intends to "fight for this and immediately open talks."[2] He has had "intensive phone conversations" with Chancellor Merkel and is now hoping "for more solidarity and support."[3]
Saving up for Free Trade and War
Immediately following the putsch in late February, the Ukrainian putsch regime began initiating economic preparations for the country's transition into the western hegemonic sphere. As usual in such cases,[4] this process means the imposition of harsh austerity policies. An agreement has already been reached with the International Monetary Fund (IMF) to apply its clearly defined austerity measures. Therefore Kiev has abandoned the previous government's plans to slightly raise pensions and the minimum wage (approx. 45 cents/hr) and will now freeze both at current levels. The parliament decided already back in March, to reduce the national budget by 17 percent. Altogether, about 24,000 civil service employees will be fired, accounting for ten percent of all civil servants. In a "letter of intent" to the IMF, dated April 22, Kiev also agreed to increase - before the summer - the price of gas for private households by 56 percent as well as the costs for district heating by 40 percent. This will be a heavy blow to a large portion of the Ukrainian population, whose average earnings - when the oligarch's wealth is deducted - are estimated at about 150 Euros monthly. In 2015, gas and heating costs will be raised another 40 percent and again in 2016 and 2017, another 20 percent each year. The war against the insurgents in the east of the country, which is consuming large sums, has not yet even been calculated into these plans. Minister of Finances, Oleksandr Shlapak, announced May 10, that Kiev's military budget will probably have to be increased by 50 percent, for the time being, and this amount is still not enough. Therefore, Ukraine must cut its budget for social issues and healthcare.[5]
Lucrative Modernization
In anticipation of the imminent signing of the economic segment of the EU's Association Agreement, the austerity policy has begun provoking tangible interest in German economic sectors. "The adoption of EU standards and the establishment of a free trade zone with the European Union, will demand ... a multiplicity of immense efforts in modernization for Ukrainian enterprises," according to "Germany Trade and Invest" (gtai). For example, the steel industry, which "is very important to Ukraine," has "much catching up to do, in the use of modern technology."[6] German companies are hoping to land lucrative contracts. This sector also has political significance. As in many other branches, Ukrainian oligarchs, such as Rinat Achmetov, exercise an enormous amount of influence over the steel industry. It is unknown, whether Achmetov - who may have to make expensive modernization investments - can expect concessions for his announcement to regain control over eastern Ukraine.[7] From within the entourage of President-elect Poroshenko, there is talk of a "German aid program for the Donbass," that is supposed to "create jobs."[8] Gtai also sees opportunities for German enterprises in the impending modernization of Ukraine's agriculture, where Ukrainian oligarchs are also influential.
Low-Wage Site
According to the gtai analysis, the imminent signing of the economic segment of the EU's Association Agreement will make large-scale transplantation of industrial sites also feasible. For example, "a foreign automobile producer could proliferate its locations in Ukraine and establish a cluster of subcontractors," writes the foreign trade agency. The country could even, "step by step, become a second Czech Republic," thanks to its exceptionally low wage level ("labor cost advantages"), particularly due to the fact that Ukraine has a "relatively well trained labor force." Gtai points out that various German automotive components suppliers - such as Leoni - are already producing inside the country. However, Ukrainian auto manufacturers must "then convert to the production of component parts or niche products such as customized autos or infrastructures."[9] It is not clear what form the confrontation will take between the giants of the West European auto industry, on the one hand, and the Ukrainian oligarchs, on the other. For example, one of the largest car manufacturers in Ukraine is privately owned by the billionaire Petro Poroshenko.[10] Poroshenko has announced his intentions to sell his companies - with the exception of his "Channel 5" broadcasting company - but it is not clear, who will take over his "Bohdan Corporation" car factories.
"Finally Retaliate"
Whereas the protégée of the CDU-affiliated Konrad Adenauer Foundation [11], Kiev's future mayor, Vitali Klitschko, has announced that he will now "seek German investments very intensively,"[12] his political ally, Petro Poroshenko, is applying the final measures for the absorption of all of Ukraine into the Western hegemonic sphere - by repressing revolts in the east of the country. This week, using its newly formed "national guard," irregular militias and the air force, Kiev's regime massively expanded attacks on the cities of Donbass. Before elections, "they had shied away from fighting, to not endanger voting," an "insider" was quoted saying, "now we can finally retaliate."[13] German foreign policy experts are expressing their comprehension. "It was evident that Kiev had to again become active, once the elections were over," declared, the Chair of the Munich Security Conference, Wolfgang Ischinger.[14] From Donezk, the first strikes in opposition to Kiev's onslaught have been announced, and violence is also escalating from the side of the insurgents. No end to the fighting is in sight.
War of European Unification
The war beginning in eastern Ukraine will not be the first war to accompany the German-European eastward expansion of their hegemonic sphere. Already in the 1990s, Germany supported the destruction of Yugoslavia, to prevent possible resistance to its predominance. In the summer of 1999, shortly after the war over Kosovo, German media had referred to a "war of European unification." However, at the time, it was reported that "leaders," were referring to this "only in confidential conversations" - otherwise one would have to answer the objection that "war is again being called the mother of all - even Europe."[15]
 
[1] Van Rompuy wirft Russland Destabilisierung vor. www.handelsblatt.com 29.05.2014.
[2] Das erste Interview mit Klitschko und Poroschenko. www.bild.de 27.05.2014.
[3] So wollen sie der Ukraine Frieden bringen. www.bild.de 29.05.2014.
[4] See Under the EU Flag.
[5] Ukraine cuts health, welfare spending to boost defence. www.janes.com 12.05.2014.
[6] In der Ukraine stehen Modernisierungen an. www.gtai.de 24.04.2014.
[7], [8] See The Restoration of the Oligarchs (IV).
[9] In der Ukraine stehen Modernisierungen an. www.gtai.de 24.04.2014.
[10] See The Restoration of the Oligarchs (IV).
[11] See Our Man in Kiev.
[12] So wollen sie der Ukraine Frieden bringen. www.bild.de 29.05.2014.
[13] Konrad Schuller: Wie aus Partisanenhaufen Stoßtrupps wurden. Frankfurter Allgemeine Zeitung 28.05.2014.
[14] Ischinger nennt Offensive gegen Separatisten notwendig. www.faz.net 28.05.2014.
[15] Gunter Hofmann: Deutschland am Ende des Krieges. Die Zeit 24/1999.
=== 4 ===
Auf Deutsch: Die neue Kriegsschulddebatte
Wenige Monate vor dem hundertsten Jahrestag des Beginns des Ersten Weltkriegs gewinnt in Deutschland eine neue Debatte um die deutsche Kriegsschuld an Fahrt…
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New Debate on the Responsibility for War
 
2014/02/04
BERLIN
 
(Own report) - In the few months leading up to the one-hundredth anniversary of the beginning of World War I, a new debate, over who was responsible for starting the war, is gaining momentum in Germany. As relevant publications - such as the bestseller, "The Sleepwalkers" by the historian Christopher Clark - show, "a shift in paradigm has taken place" in scholarship, according to a recent press article: "The German Empire was not 'responsible' for World War I." The debate strongly contradicts the recognition that, even though Berlin did not bear it alone, it bore the primary responsibility for the bloody escalation of the 1914 July Crisis. This insight, which was derived particularly from the analyses of the historian Fritz Fischer in the 1960s, is now being massively contested. Historians are strongly criticizing remarks, such as those by Christopher Clark, who, working closely with government-affiliated academic institutions, is denying German responsibility for the war. According to Clark, "the Serbs" are supposedly a priori "the bad guys" of the pre war era, while he openly displays his preference for the Austro-Hungarian Empire. The denial of Germany's main culpability for the war is "balm on the soul of educated social sectors, grown more self-confident" at a time when Berlin's political power is again on the rise.
The Hegemony's "Defensive Goal"
An article published in early January by the German daily "Die Welt" is exemplifies the new debate on the responsibly for setting off World War I. Alluding to relevant publications by Christopher Clark ("The Sleepwalkers") and Herfried Münkler ("Der Große Krieg"), the article states that "a shift in paradigm has already occurred" in historiography, particularly with a re-evaluation of the German Empire's foreign policy. "Driven by fears of decline and encirclement," Berlin simply pursued "the defensive objective" of establishing the "precarious situation of a limited hegemony" over Europe and was "far from making a cocky and megalomaniacal grab for world power." Russia, on the other hand, pursued the war "for its own expansive objectives in Eastern Europe and at the Bosporus." France had been "quite ready to go to war itself," and Great Britain had been "even less peaceful and conciliatory" than is "often assumed." Ultimately, "only when Great Britain entered the war," the "original conflict turned into a global disaster." In any case, Berlin could have claimed a "ius ad bellum" at the time. The authors conclude: "The German Empire was not 'guilty' of starting WWI."[1]
The Otto-von-Bismarck Foundation
The book, "The Sleepwalkers," published in 2012 by the historian Christopher Clark, is central to the new debate on German guilt for starting the war. Clark, who is often ascribed an alleged neutrality with respect to Germany, because he is a native Australian, teaching at a British university, has in fact close ties to state-affiliated German academic institutions. He is a member of the Academic Advisory Board of the German Historical Institute in London, which is supported by the Max Weber Foundation - a Foundation of the German government, under supervision of the Federal Ministry of Education and Research. The German foreign ministry is also represented on its Board of Trustees. Clark is also a member of the Scientific Advisory Board of the state-financed Otto von Bismarck Foundation, who's Board of Directors and Board of Trustees is mainly comprised of former parliamentarians and Bismarck family members. Only a few years ago, its chair, Rüdiger Kass, had headed the Department of the Federal Police in the Ministry of the Interior. In 2010, Clark received the Historisches Kolleg Award from the hand of the German President. The Historische Kolleg was founded in 1980, essentially with the help of the Deutsche Bank, and today is co-financed by Bavaria.
A Teutonophile
Clark's writing, which investigates the developments leading up to World War I, flatly denying the German Empire's prominent responsibility for starting the war, is quite critically appraised by other historians. Clark, who his colleagues characterize as "a Teutonophile," describes the German Empire at the time of the 1914 July Crisis as the "least militarized European power." "I've never read such a thing before" commented, not without irony, the historian Gerd Krumeich, an expert on the history of World War I. Pointing to serious mistakes in Clark's scholarly analysis, Krumeich confirmed that the book "The Sleepwalkers" is being venerated generally only in Germany, while "abroad" it is "respected but not praised." The fact that Clark flaunts his preference for the Austro-Hungarian Empire, while treating Serbia as well as Russia with open disparagement, is particularly objectionable.[2] He sees "the Serbs" as "the bad guys of the pre-war era, and Austria-Hungary as having had every right to defend itself against them," concluded Krumeich. This has nothing more to do with objective scholarship.[3]
Plagued Employer
Clark's imperial point of view is also apparent in his appreciation of the German Empire's domestic situation. For example, in his 2010 ceremonial address at the reception of the Historisches Kolleg Award, he claimed that the notorious large landowners east of the Elbe would "appear today not so much as 'local tyrants,' but more as employers plagued from all sides, who often had been only able to prevail over a self-confident and resourceful peasantry with utter difficulty." The serf labor, peasants had to fulfill, "would no longer be considered, today, feudal coercion, but rather tenant charges, quasi a rent." Besides, the Prussian peasantry was "not doing too badly" even economically, "as has been alleged earlier." "The Wilhelmine militarism" had merely been "a socially splintered phenomenon," and not so "prevalent in the society, as a whole," as many believed. According to Clark, "the Prussian state apparatus' potential for progress" must, above all, be emphasized - "even in the aftermath of the 1819 conservative turning point."[4] An era of brutal repression of all liberal opposition began in 1819 with the Carlsbad Decrees.
The Function of German Myths
Herfried Münkler, whose work "Der Große Krieg" is also playing an important role in the current debate over responsibility for the war, can also be considered a state-affiliated political scientist. Münkler, who also relativizes Germany's primary guilt for World War I, is reported to be a "one-man think tank." He climbed the ladder from being simply a political science professor at Berlin's Humboldt University to "become one of Berlin's most prominent political advisors," according to a 2003 article. He serves, for example as "a prompter for the Bundeswehr's General Staff, the Foreign Ministry's Policy Planning Staff and also for humanitarian NGOs."[5] It has been reported that during Gerhard Schröder's second electoral period as Chancellor, Münkler was asked by Chief of Staff of the Chancellery, at the time Frank-Walter Steinmeier, to "discuss with the advisory staff" the best spin to make the measures of "Agenda 2010," "more palatable to the government's own clientele." When this proved a failure, Münkler published a book entitled "The Germans and their Myths." Münkler explained what was behind the idea: "We must find a grand narrative. We need to develop a Mosaic promise: You must go into the desert, but you will reach the Promised Land."[6] Münkler is still a member of the Advisory Board of the Federal College for Security Studies (BAKS), the German government's most important military policy think tank.
Balm for the German Soul
Observers are pointing to the fact that Münkler's, and particularly Clark's publications, are being enthusiastically acclaimed by members of the younger generation in Germany. "In a period, when the Federal Republic of Germany has again become a regional great power," denial of Germany's primary guilt for starting World War I is "balm for the soul of educated social sectors, grown more self-confident," explains the historian Stig Förster.[7] The historian Volker Ullrich considers particularly Clark's writings, to be "a change of course in the political interpretation of history." "Evidently a deep-seated need for exoneration is playing a role," according Ullrich. "If Germany's being solely responsible for setting off World War II is already unquestionable; then let it at least not be guilty of starting World War I." This drive seems "to become more overwhelming, the more Germany assumes a leading role in Europe, due to its economic preponderance." Ullrich points to a remark Herfried Münkler made in an interview: "A responsible policy can hardly be implemented in Europe, if one imagines that we are guilty of everything."[8]
 
[1] Dominik Geppert, Sönke Neitzel, Cora Stephan, Thomas Weber: Warum Deutschland nicht allein schuld ist. www.welt.de 04.01.2014.
[2] "Christopher Clark spricht die Deutschen von der Schuld am Ersten Weltkrieg frei". www.lisa.gerda-henkel-stiftung.de 14.11.2013.
[3] Gerd Krumeich: Unter Schlafwandlern. www.zeit.de 30.11.2012.
[4] Festvortrag von Christopher Clark: Preußenbilder im Wandel. Dokumentation zur Verleihung des Preises des Historischen Kollegs an Professor Dr. Christopher Clark, 5. November 2010.
[5] Der Ein-Mann-Think-Tank. www.zeit.de 30.10.2003.
[6] Herfried Münkler. www.welt.de 29.01.2011.
[7] "Balsam auf die Seele selbstbewusster gewordener Bildungsbürger". www.lisa.gerda-henkel-stiftung.de 17.12.2013.
[8] Volker Ullrich: Nun schlittern sie wieder. www.zeit.de 24.01.2014.
=== 5 ===
Also worth reading: 
Boris Johnson: Tristram Hunt should resign over First World War comments
By Georgia Graham, Political Correspondent - 06 Jan 2014
Na srpskohrvatskom:

Џонсон: Неоспорна истина, Први свјетски рат је резултат њемачке агресије!
10 јануар 2014
http://www.in4s.net/index.php/dzonson-neosporna-istina-prvi-svjetski-rat-je-rezultat-njemacke-agresije/

Градоначелник Лондона: Немци, нису Срби криви за рат већ ви!
13 јануар 2014
http://www.beoforum.rs/forum-prenosi-beogradski-forum-za-svet-ravnopravnih/534-srbi-nisu-krivi.html

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Germany started the Great War, but the Left can’t bear to say so

 

In this centennial year, it’s more important than ever that we treat the truth with respect

7:00AM GMT 06 Jan 2014
One of the reasons I am a Conservative is that, in the end, I just can’t stand the intellectual dishonesty of the Left. In my late teens I found I had come to hate the way Lefties always seemed to be trying to cover up embarrassing facts about human nature, or to refuse to express simple truths – and I disliked the pious way in which they took offence, and tried to shoosh you into silence, if you blurted such a truth.
Let me give you a current example of this type of proposition. It is a sad but undeniable fact that the First World War – in all its murderous horror – was overwhelmingly the result of German expansionism and aggression. That is a truism that has recently been restated by Max Hastings, in an excellent book, and that has been echoed by Michael Gove, the Education Secretary. I believe that analysis to be basically correct, and that it is all the more important, in this centenary year, that we remember it.
That fact is, alas, not one that the modern Labour Party believes it is polite to mention. According to the party’s education spokesman, Tristram Hunt, it is “crass” and “ugly” to say any such thing. It was “shocking”, he said in an article in yesterday’s Observer, that we continued to have this unacceptable focus on a “militaristic Germany bent on warmongering and imperial aggression”.
He went on – in a piece that deserves a Nobel prize for Tripe – to mount what appeared to be a kind of cock-eyed exculpation of the Kaiser and his generals. He pointed the finger, mystifyingly, at the Serbs. He blamed the Russians. He blamed the Turks for failing to keep the Ottoman empire together, and at one stage he suggested that we were too hard on the bellicose Junker class. He claimed that “modern scholarship” now believes that we have “underplayed the internal opposition to the Kaiser’s ideas within the German establishment” – as if that made things any better.
Perhaps there was some more “internal opposition” to the Kaiser, as Hunt thinks. Whoever they were, these internal opponents, they weren’t much blooming use, were they? It was Germany that pushed Austria to make war on Serbia. It was Germany that declared war on Russia, on August 1 1914. It was Germany that decided it was necessary to invade Luxembourg, and it was Germany that deployed the Schlieffen plan (devised in 1905, incidentally) and sent her troops smashing through neutral Belgium and into France.
Why was it necessary to follow up some rumpus in Sarajevo by invading France, for heaven’s sake? It wasn’t. The driving force behind the carnage was the desire of the German regime to express Germany’s destiny as a great European power, and to acquire the prestige and international clout that went with having an empire. That is why Tirpitz kept increasing the size of the German fleet – in spite of British efforts to end the arms race. That’s why they tried to bully the French by sending a gunboat to Agadir in 1911.
That, in a nutshell, is why millions died in the trenches of the western front and elsewhere, 15 million in all. It was an even greater tragedy for Germany, and for the world, that within two decades of the end of that conflict there should arise another German leader who decided to revive what was essentially the same military/political objective – a massive expansion of German influence in Europe and beyond; and though Hitler was admittedly even more nasty and militaristic than the Kaiser, it was no coincidence that he used a very similar plan: first take out France and the Low Countries, then go for Russia.
In both wars, huge numbers of British people, military and civilian, lost their lives in the struggle to frustrate these deranged ambitions. They were, in essence, fighting on the right side, and it should not be forbidden to state that fact. The Second World War arose inexorably out of the first, and in both wars I am afraid the burden of responsibility lies overwhelmingly on German shoulders. That is a fact that we should not be forbidden from stating today – not just for the sake of the truth, but for the sake of Germany in 2014.
Hunt is guilty of talking total twaddle, but beneath his mushy-minded blether about “multiple histories” there is what he imagines is a kindly instinct. These wars were utterly horrific for the Germans as well as for everyone else, and the Germans today are very much our friends. He doesn’t want the 1914 commemorations to pander to xenophobia, or nationalism, or Kraut-bashing; and I am totally with him on that.
We all want to think of the Germans as they are today – a wonderful, peaceful, democratic country; one of our most important global friends and partners; a country with stunning technological attainments; a place of incomparable cultural richness and civilisation. What Hunt fails to understand – in his fastidious Lefty obfuscation of the truth – is that he is insulting the immense spiritual achievement of modern Germany.
The Germans are as they are today because they have been frank with themselves, and because over the past 60 years they have been agonisingly thorough in acknowledging the horror of what they did. They don’t try to brush it aside. They don’t blame the Serbs for the 1914-18 war. They don’t blame the Russians or the Turks. They know the price they paid for the militarism of the 20th century.
They don’t try to mitigate, palliate, or spread the blame for the conflict. They tried that in the Thirties, and they know that way lies madness. The Germans know the truth about the world wars, and their role. They have learnt, and they have changed. It would be a disaster if that truth became blurred today. I can hardly believe that the author of this fatuous Observer article is proposing to oversee the teaching of history in our schools.
If Tristram Hunt seriously denies that German militarism was at the root of the First World War, then he is not fit to do his job, either in opposition or in government, and should resign. If he does not deny that fact, he should issue a clarification now.
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German CP, Declaration First World War [En, De, Fr]

Resolution by German Communist Party, Communist Party of Luxembourg and Workers’ Party of Belgium
Monday, 13 January 2014

100 years after the onset of World War I, we live through a renewed debate about who lit the fuse. When again German imperialism’s major responsibility for the four years of butchery among peoples is being questioned, this for sure is not in search for historical truth. It is about seeking theoretical and political legitimization for today’s imperialist politics.

World War I arose from the major imperialist European powers’ desire for expansion. It aimed to conquer new markets and resources, and to re-allocate the given ones. As the co-founder of the Communist Party of Germany, Karl Liebknecht, soon stated, it was “a capitalist war of aggression and conquest”. At the same time, it was an opportunity for the rulers to contaminate the working class’s conscience in their countries with the poison of opportunism, nationalism and chauvinism.

In summer 1914, there were two tight military blocks opposed in Europe: the tripartite alliance of Germany, Austro-Hungary and Italy versus theEntente of England and France which then also Russia allied with. In 1915, Italy entered the war siding with the Entente.

The Sarajevo assault was a very welcomed opportunity for the great powers, already eager for war, to put their strategic concepts into practice. A war followed, which for the first time in history held grip of all continents. 38 countries were involved, not counting the then colonies. Also for the first time ever, a war was waged in industrial manner. Seven million people fell victim to the manslaughter. Civilians became victims of famine and diseases in dimensions unknown before. 20 millions were wounded and crippled, and an incredible amount of values destroyed.

The slaughters ended by the aggressors’ military defeat. The November Revolution in Germany and the revolutions in Austria, Hungary and other countries were stalled because of the right-wing social democratic leaderships’ active role in crushing the Revolution. In Germany the monarchy was overthrown and the republic was founded, but the generals, however, and the powers of the monopolist capital remained. Their political survival gave way for World War II later on.

The social democracy split in the course of World War I. The revolutionary forces separated from the 2nd International and founded Communist Parties all over the world. The Great Socialist October Revolution in Russia paved the way for the first workers’ and peasants’ state in the history of mankind. Thus from the World War emerged a new hope for the world—the hope for Socialism. This is what the signing parties are still standing for.

“And, finally, the only war left for Prussia-Germany to wage will be a world war, a world war, moreover of an extent the violence hitherto unimagined. Eight to ten million soldiers will be at each other’s throats and in the process they will strip Europe barer than a swarm of locusts. The depredations of the 30 Years’ War compressed into three to four years and extended over the entire continent; famine, disease, the universal lapse into barbarism, both of the armies and the people, in the wake of acute misery irretrievable dislocation of our artificial system of’ trade, industry and credit, ending in universal bankruptcy, collapse of the old states and their conventional political wisdom to the point where crowns will roll into the gutters by the dozen, and no one will be around to pick them up; the absolute impossibility of foreseeing how it will all end and who will emerge as victor from the battle. Only one consequence is absolutely certain: universal exhaustion and the creation of the conditions for the ultimate victory of the working class.”

Friedrich Engels, 1887

 


 

Erklärung DKP, KP Luxemburgs, Partei der Arbeit Belgiens

100 Jahre nach dem Beginn des Ersten Weltkrieges erleben wir eine erneute Debatte darum, wer das Feuer an die Lunte gelegt hat. Bei dieser Infragestellung der Hauptverantwortung des deutschen Imperialismus an dem über vier Jahre dauernden Völkergemetzel geht es selbstverständlich nicht um historische Wahrheit. Es geht um die theoretische und politische Legitimierung heutiger imperialistischer Politik.

Der Erste Weltkrieg erwuchs aus den Expansionsinteressen der imperialistischen Großmächte Europas, er war auf Eroberung neuer Märkte und Ressourcen und die Neuaufteilung der vorhandenen gerichtet: Ein „kapitalistischer Angriffs- und Eroberungskrieg“, wie Karl Liebknecht, Mitgründer der Kommunistischen Partei Deutschlands, früh feststellte. Gleichzeitig war der Krieg eine Gelegenheit für die Herrschenden, in ihren Ländern das Bewusstsein der Arbeiterklasse mit dem Gift des Opportunismus, des Nationalismus und Chauvinismus zu verseuchen.

Im Sommer 1914 standen sich in Europa zwei feste Militärblöcke gegenüber: Der „Dre

(Message over 64 KB, truncated)


(srpskohrvatski / castellano / francais / italiano)

Hitler nije voleo Gavrila Principa

0) Linkovi: Filmovi, Pesme, Knjige, Slike…
1) Todor Kuljić: Princip bez advokata
Država Jugoslavija, koju su moćne strukture u svetu uvažavale, bila je najbolja odbrana sarajevskih atentatora
2) Spomenik Gavrilu u Istočnom Sarajevu / Kusturica vuole rifare il processo a Gavrilo Princip / La Serbie officielle boycottera les cérémonies de Sarajevo
Aleksandar Vučić a expliqué qu’il ne pouvait pas se rendre à Sarajevo car il ne pouvait pas voir une plaque parlant de « l’agresseur fasciste serbe ». Le Premier ministre de Serbie faisait référence à la plaque récemment apposée sur la Vijećnica, la Bibliothèque nationale de Sarajevo, dont la rénovation vient de s’achever.
3) Muharem Bazdulj: Princip pucao i u Hitlera / Neispričana priča o Sarajevskom atentatu
Hitler dobio na poklon jedini ratni trofej donet iz raskomadane Jugoslavije – spomen-ploču Gavrilu Principu donetu iz okupiranog Sarajeva 1941. / Quale fu il trofeo che i militari tedeschi portarono a Hitler dopo l'occupazione di Jugoslavia? La lapide a Gavrilo Princip, appena rimossa da Sarajevo (aprile 1941)
4) L'Anno che Continua a Tornare, di Slavko Goldstein (G. Pisa)


=== 0: LINKS ===

VIDEO della rimozione a Sarajevo della lapide a Gavrilo da parte della Wehmacht occupante, che ne fa omaggio al Fuehrer per il suo compleanno - aprile 1941 (dal secondo 00:40 al secondo 01:09):
Die Deutsche Wochenschau Nr. 556 April 30, 1941 Deutsche Pioniere nehmen das Eiserne Tor der Donau, versuchte Sperrung der Donau durch die Serben schlug fehl, serbische Truppen ergeben sich. Einmarsch in eine bosnische Stadt, Entfernung der Gedenktafel des Attentates von Sarajevo…

"A UN SOLO DISPARO / НА ПУЦАЊ ОДАВДЕ"
dokumentarni film o sarajevskom atentatu na spanskom (srpski titlovi)
VIDEO: http://www.semanarioserbio.com/disparo/
1: http://www.youtube.com/watch?v=j6fjYa0zyRQ 
2: http://www.youtube.com/watch?v=AN5YrKhl3Ao

SARAJEVSKI ATENTAT
Autor: Fadil Hadzic - 87 min - Izdanje: Delta video
VIDEO (CEO FILM): https://www.youtube.com/watch?v=xiGUFq6AZe4
Zasto vi mladi toliko mrzite ovu vlast?
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=Xzn14OP5QVU

Safet Isovic - PJESMA GAVRILU PRINCIPU
Jugoton SY 23075 - 9.4.1976g. / Ansambl Ace Stepica
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Nova knjiga:

Србија у Великом рату 1914-1918
Мира Радојевић – Љубодраг Димић
Издавач: Београдски форум за свет равноправних ( beoforum@... ) и Српска књижевна задруга, Београд 2014. 
У припреми су издања књиге на енглеском, немачком и руском.
http://www.beoforum.rs/sve-knjige-beogradskog-foruma-za-svet-ravnopravnih/560-knjiga-srbija-u-velikom-ratu.html
http://www.beoforum.rs/saopstenja-beogradskog-foruma-za-svet-ravnopravnih/554-srbija-u-velikom-ratu-2.html

СРБИЈА У ВЕЛИКОМ РАТУ 1914 – 1918.
У издању Београдског форума за свет равноправних и Српске књижевне задруге изашла је из штампе књига „Србија у Великом рату 1914. – 1918.“ аутора Др Мире Радојевић, доцента на Одељењу за историју Филозофског факултета Универзитета у Београду и Проф. Љубодрага Димића, дописног члана САНУ и редовног професора историје на Филозофском факултету Универзитета у Београду…
http://www.beoforum.rs/sve-knjige-beogradskog-foruma-za-svet-ravnopravnih/544-srbija-u-velikom-ratu-1914-1918.html

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(Altri libri, da scaricare in formato zippato (100MB): http://www.semanarioserbio.com/descargas/sarajevo_knjige.rar )

http://www.semanarioserbio.com/?p=6674

КЊИГЕ О САРАЈЕВСКОМ АТЕНТАТУ

10/12/2013 | Filed under: CAFE ALEKSANDAR,HISTORIA | Posted by: kopaonik
Александар Вуксановић

Поводом скорог доласка нове 2014. године када ће Србија и Срби као народ бити изложени новим покушајима прекрајања историје, овај Српски Недељник је одлучио да поклони својим читаоцима неколико интересантних књига о можда најзначајнијем тренутку наше новије историје, Сарајевском атентату.

Садржај:

“ИСТРАГА У САРАЈЕВСКОМ АТЕНТАТУ” (1938) – Лео Пфефер, истражни судија у процесу.

“КАКО САМ БРАНИО ПРИНЦИПА И ДРУГОВЕ У САРАЈЕВУ” – (1937) – др. Рудолф Цистлер, адвокат одбране у процесу

“САРАЈЕВСКИ АТЕНТАТ-СТЕНОГРАМ ГЛАВНЕ РАСПРАВЕ” (1954) – приредио проф. ВОЈИСЛАВ БОГИЋЕВИЋ, научни сарадник Архива БХ.

“ПРИНЦИП О СЕБИ” (1926) – др. Мартин Папенхајм, затворски психијатар у Терезину 1916.

“САРАЈЕВСКИ ЗАВЕРЕНИЦИ-ВИДОВДАН 1914″ (1953-54) – Доброслав Јевђевић, атентатор.

Хвала оним акоји су ми добавили неки од ових текстова које искључиво у циљу бољег упознавања историјске и националне стварности делим са свима вама. Сва права поседују аутори, издавачи, наследници……сви осим нас који ово размењујемо овако слободно. Поштујмо та права.

ПРЕУЗМИ КЊИГЕ ОВДЕ: http://www.semanarioserbio.com/descargas/sarajevo_knjige.rar


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Todor Kuljić


Princip bez advokata


Država Jugoslavija, koju su moćne strukture u svetu uvažavale, bila je najbolja odbrana sarajevskih atentatora


U „građanskom ratu sećanja” ovih dana je na nov način oživljen Sarajevski atentat. Okvir je ostao tanato-politički, ali se više ne eksploatiše samožrtvovanje Principa nego smrt Ferdinanda. Ko je odgovoran za to što su mladobosanci od tiranoubica postali teroristi? Svi oni u regionu koji strepe od jugoslovenstva i svi oni iz okruženja koji žele da rasterete vlastite nacije od imperijalističke odgovornosti za klanicu Prvog svetskog rata.

Da li će oni uveriti javnost da su atentatori bili teroristi? Verovatno hoće zato što Princip danas nema valjanog advokata. Srušene su one strukture koje su Principa iznedrile i koje su ga docnije opravdano heroizovale. Država Jugoslavija je Principu s razlogom dizala spomenike i po njemu imenovala ulice. Danas nikakva kohorta blistavih istoričara ne može odbraniti Principa zato što nema južnoslovenske države kao ostvarenja mutnog ideala koji je vodio mladobosance. A što se rečena država danas više shvata kao iluzija ili kao tamnica to su veće šanse da Princip o neslavnom jubileju bude stigmatizovan kao terorista.

Doduše, neki Principa i brane. To danas čine pretežno srpski istoričari. Zašto? Utisak je da to ne čine zbog solidarnosti sa težnjama sunarodnika (uostalom Gavrilo se izjašnjavao kao Jugosloven i to jeste bio njegov istinski identitet), nego više stoga što se time opiru demonizovanju vlastite nacije. Braneći Principa, ne brane njegov čin nego Srbiju. Teško da ovako usmerena odbrana ima šanse. Vladimir Dedijer je 1966. mnogo bolje u svetu branio Principa svojom knjigom „Sarajevo 1914“. Ne zbog uverljivosti materijala niti zbog virtuoznosti sinteze. Nego zato što je njegova knjiga imala kao zaleđinu Jugoslaviju kao uglednu svetsku državu. Književnik Muharem Bazdulj je to bolje uočio od mnogih istoričara koji danas brane Principa.

Princip nema danas uverljivog advokata i otuda što je nestalo načelo „Balkan balkanskim narodima“ koje je sam ekstatično branio. Globalizacija je pojela ovo načelo jer region stremi EU. Džaba svi naučni skupovi o Principu od Gacka do Beograda. Upravo je nestankom Jugoslavije kao poželjne države Princip lišen izabranog advokata. Legitimnost Jugoslavije je bila njegova najautentičnija odbrana. Ne može njemu danas pomoći ni nesporna pravna činjenica da je tadašnja Bosna bila nelegalni deo Austrougarske, pa shodno tome Princip nije ubio nadvojvodu na svom tlu nego je ovaj stradao u tuđoj državi. Koliko god bili legalistički uverljivi, ovi argumenti ne mogu da nadomeste izgubljeni legitimistički stub Principove odbrane – jugoslovensku državu.

Ne može se Princip braniti ni isticanjem njegovog druženja sa svetski čuvenim Ivom Andrićem kao autentičnim Jugoslovenom. Još je naivniji optimizam da će kad-tad pobediti ona istorijska istina da su atentatori bili patriote, a ne teroristi. Istina ne može postati hegemona sve dok je ne osigura snažna struktura. Sarajevski atentat je odveć markantan događaj, pa je već samim tim ostao u tanato-političkom smislu veliki potencijal. Smrt u Sarajevu, koja je neizbrisivo ušla u sve udžbenike istorije, i stotinu godina kasnije je još politički upotrebljiva.

Država Jugoslavija, koju su moćne strukture u svetu uvažavale, bila je najbolja odbrana sarajevskih atentatora koju bi verovatno i oni sami izabrali. Danas, pak, Principa brane advokati postavljeni po službenoj dužnosti. To su srpski istoričari koji štiteći Principa ne brane njegovu viziju društva nego nastoje da obore stereotipe u svetu o Srbima. Protiveći se tužiocima raznih boja koji se trude da pokažu kontinuitet srpskog terorizma, ovi službeni advokati i sami instrumentalizuju Principa.

Šta onda činiti? Treba jasno podvući da atentatori nisu pucali iz nacionalnog, nego iz multietničkog žara za oslobađanjem skupine malih naroda od podjarmljivanja velikih. Jesu pucali iz zasede, ali to nije bio mučki neviteški čin, nego je nepodnošljivi pritisak trpljenja vlastite vojne inferiornosti gonio atentatore na samožrtvovanje u neravnopravnoj borbi s moćnom imperijalnom silom. Iz ovog zaključka nikako ne proističe moralistička uteha da će istina kad-tad pobediti laž. Treba realno i istorično procenjivati šanse odbrane Principa. Ubistvo nadvojvode u Sarajevu jeste bio antiimperijalistički čin i nasilje protiv nasilja, ali je ovaj odbrambeni akt svet daleko ozbiljnije procenjivao dok je opstajala država zarad čijeg ostvarenja su pucnji odjeknuli. Zato onaj ko spori Jugoslaviju treba da ćuti o Principu.


Profesor Filozofskog fakulteta u Beogradu

Todor Kuljić
objavljeno: 24.09.2013.


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U povodu 100 godina od početka Prvog svjetskog rata Gavrilu Principu podižu spomenik u Istočnom Sarajevu

Objavljeno petak, 24 Januar 2014

Na današnjoj sjednici Organizacionog odbora za pripremu obilježavanja 100 godina od početka Prvog svjetskog rata odlučeno je da spomenik Gavrilu Principu bude postavljen u Istočnom Novom Sarajevu, izjavio je Srni načelnik ove opštine Ljubiša Ćosić.
Ćosić je istakao da će u Istočnom Novom Sarajevu biti postavljen spomenik identičan onom koji će biti postavljen na Kalemegdanu u Beogradu.
"Od gradonačelnika Istočnog Sarajeva Nenada Samardžije i mene očekuje se da obezbijedimo sve uslove i mjesto gdje će spomenik biti postavljen", rekao je Ćosić, dodajući da opština Istočno Novo Sarajevo već ima definisanu lokaciju.
Prema njegovim riječima, nema nikakvih prepreka da spomenik bude postavljen.
On je dodao da će predložiti da se organizuju još neke aktivnosti u Istočnom Sarajevu, jer je Sarajevo veoma bitno za dešavanja koja su prethodila Prvom svjetskom ratu. 
Ćosić je naglasio da je Odborom predsjedavao predsjednik Republike Srpske Milorad Dodik, a u radu su učestvovali i predsjednik Vlade Republike Srpske Željka Cvijanović, član Predsjedništva BiH Nebojša Radmanović, predsjednik Narodne skupštine Srpske Igor Radojčić, predsjednik Akademije nauka i umjetnosti Republike Srpske Rajko Kuzmanović, ministri Srpske, akademici, univerzitetski profesori... 
On je naglasio da je sjednici Odbora iz Istočnog Sarajeva, osim njega, prisustvovao i gradonačelnik Nenad Samardžija.
Prema Ćosićevim riječima, Organizacioni odbor ima i svoj Izvršni sekretarijat u čijem sastavu su Samardžija i on.
"Organizacioni odbor i Izvršni sekretarijat imaju obavezu da u narednih dvadesetak dana pripreme prijedlog aktivnosti i program rada koji se odnose na obilježavanje 100 godina od početka Prvog svjetskog rata", rekao je Ćosić.

(BOSNIA PRESS / agencije)

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da www.viedellest.eu

Serbia - 12 febbraio 2014

Kusturica vuole rifare il processo a Gavrilo Princip, l’attentatore di Sarajevo

Una revisione del processo a Gavrilo Princip, lo studente serbo che il 28 giugno 1914 assassinò a Sarajevo l'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria, scatenando il primo conflitto mondiale. Lo chiede il regista Emir Kusturica, che dirige l'Istituto di ricerche storiche intitolato a Ivo Andric. Parlando ai giornalisti a Andricgrad, la località da lui realizzata presso Visegrad nell'entità serbo-bosniaca al confine con la Serbia, Kusturica - lui stesso nato a Sarajevo, in Bosnia, ma che difende strenuamente la causa serba - ha detto che la sentenza di condanna a carico di Gavrilo Princip e degli altri membri del movimento Giovane Bosnia non può essere ritenuta valida. A suo avviso, l'assassinio fu compiuto in un territorio sotto occupazione, che legalmente non era sotto la sovranità dell'Impero Austro-ungarico. L'Istituto Andric, ha precisato il regista, presenterà la richiesta di revisione del processo al Tribunale della Bosnia-Erzegovina a Sarajevo. "È logico che una revisione avvenga nel luogo dove gli assassini furono processati, a Sarajevo", ha detto il regista, secondo il quale il tribunale che processò Gavrilo Princip e gli altri membri di Giovane Bosnia era illegale, e illegale di conseguenza fu anche il processo. Giovane Bosnia era un movimento di cui facevano parte serbi, croati e bosniaci musulmani uniti nella lotta contro l'annessione all'Austria-Ungheria e l'occupazione della Bosnia-Erzegovina. In un processo a Sarajevo dopo l'assassinio, cinque membri del movimento furono condannati a morte, mentre Gavrilo Princip e Nedeljko Cabrinovic furono condannati a 20 anni di carcere perché minorenni. Princip fu condotto nella prigione della fortezza di Terezin, nell'attuale Repubblica ceca, dove morì di tubercolosi il 28 aprile 1918 all'età di 24 anni.

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http://balkans.courriers.info/article25112.html


Le Courrier des Balkans

Centenaire de 1914 : la Serbie officielle boycottera les cérémonies de Sarajevo


De notre correspondant à Belgrade

Mise en ligne : samedi 14 juin 2014
Les dirigeants de Serbie et de Republika Srpska n’iront pas à Sarajevo pour les commémorations du centenaire du début de la Première Guerre mondiale. Des cérémonies « parallèles » auront lieu à Belgrade et à Andrićgrad.

Par J.A.D.

Le Premier ministre serbe Aleksandar Vučić et le ministre des Affaires étrangères Ivica Dačić ont reçu vendredi à Belgrade le Président de la Republika Srpska (RS) et le cinéaste Emir Kusturica pour arrêter une position commune à l’égard des commémorations prévues à Sarajevo.


Aleksandar Vučić a expliqué qu’il ne pouvait pas se rendre à Sarajevo car il ne pouvait pas voir une plaque parlant de « l’agresseur fasciste serbe ». Le Premier ministre de Serbie faisait référence à la plaque récemment apposée sur la Vijećnica, la Bibliothèque nationale de Sarajevo, dont la rénovation vient de s’achever.

Il a confirmé que la Serbie organiserait des célébrations du jour de Vidovdan à Belgrade et à Andrićgrad, la ville construite par Emir Kusturica à Višegrad, dans l’est de la Bosnie. Aleksandar Vučić, qui revenait juste d’une visite officielle en Allemagne a ajouté que « la Serbie devrait être fière de son histoire héroïque », même si le temps était venu de célébrations communes, et que « la Serbie, l’Allemagne et l’Autriche se retrouvent à la même table ».

Il y a quelques jours, le président Tomislav Nikolić avait également indiqué qu’il excluait de se rendre à Sarajevo. Il a expliqué que des cérémonies communes avaient été prévues dans la capitale bosnienne, mais que les « provocations » sur les crimes serbes rendaient cela impossible. « Ce n’est pas ainsi que nous pourrons nous réconcilier », a expliqué Tomislav Nikolić.



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(Quale fu il trofeo che i militari tedeschi portarono a Hitler dopo l'occupazione di Jugoslavia? La lapide a Gavrilo Princip, appena rimossa da Sarajevo.
VIDEO della rimozione della lapide (dal secondo 00:40 al secondo 01:09):
Die Deutsche Wochenschau Nr. 556 April 30, 1941 …Deutsche Pioniere nehmen das Eiserne Tor der Donau, versuchte Sperrung der Donau durch die Serben schlug fehl, serbische Truppen ergeben sich. Einmarsch in eine bosnische Stadt, Entfernung der Gedenktafel des Attentates von Sarajevo…
http://www.youtube.com/watch?v=QhLeaqhPXVU )

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Princip pucao i u Hitlera


Vuk MIJATOVIĆ | 06. novembar 2013. 21:25 | Komentara: 75
Muharem Bazdulj, pisac i novinar, objavio dokaz zašto nije moguća revizija Prvog svetskog rata: Ova fotografija uspostavlja vezu između Prvog i Drugog svetskog rata. Princip bio neka vrsta preteče oslobođenja svih delova sveta koji su u to vreme bili pokoreni i okupirani

[FOTO: Spomen-ploča Gavrilu Principu rođendanski dar Hitleru 20. april 1941.]

FOTOGRAFIJA Adolfa Hitlera dok zadovoljno posmatra spomen-ploču Gavrilu Principu, ratni trofej iz pregažene Jugoslavije, koji je dobio kao poklon za svoj 52. rođendan, objavljena u nedeljniku „Vreme“, snažnije od svih argumenata i rasprava vezala je ruke svima koji se zalažu za reviziju uzroka i povoda Prvog svetskog rata. Čak je i najglasniji među njima, istoričar Kristofer Klark, autor knjige „Mesečari - kako je Evropa krenula u rat 1914“, priznao da je ona najbolji vizuelni simbol veze između Prvog i Drugog svetskog rata.

Sa Muharemom Bazduljom, književnikom i novinarom, zahvaljujući kome je i objavljena fogografija Hajnriha Hofmana, koja se čuvala u Bavarskoj državnoj biblioteci, razgovarali smo o značaju same slike, o tome da li je posle njenog pojavljivanja u javnosti, moguća revizija Prvog svetskog rata i odnosa prema Austrougarskoj monarhiji.

- Ideja revizije Prvog svetskog rata moguća je između ostalog i zato što živih učesnika i svedoka više nema, zato što likovi Franje Josifa, kajzera Vilhema ili Franca Ferdinanda nemaju sugestije za današnjeg čoveka, što za mnoge u svetu Prvi svetski rat nije puno drugačiji od Tridesetogodišnjeg rata u srednjem veku - objašnjava Bazdulj.

Ali ova slika uspostavlja vezu između Prvog i Drugog svetskog rata. Ona na elementaran i vizuelan način pokazuje ono što je svakom racionalnom jasno - Hitler, simbol zla u 20. veku i Gavrilo Princip su, i u Prvom i u Drugom svetskom ratu bili na suprotnim stranama. Sa ovom fotografijom revizija Prvog svetskog rata postaje nemoguća.

* Istovremeno je reč i o jednom kompleksnijem nastojanju - da se, promeni i stav prema Austrougarskoj monarhiji, i to gotovo vek pošto je nestala.

- Savremene Austrija i Turska pokušavaju da svoje nekadašnje imperije postfestum proglase nekim multietničkim rajevima. To je na tragu slike da je čitava Evropa pre 1914. godine živela bel epok. Međutim, bogatstvo koje je tada postojalo u Evropi bazirano je na iskorišćavanju kolonija. Ne samo u Africi i Aziji, već i na Balkanu. 

Vidite kod Andrića u „Priči o kmetu Simanu“ da Austrougarska nije ni kmetstvo ukinula. Mi ne naglašavamo dovoljno da je Gavrilo Princip bio neka vrsta preteče oslobođenja svih delova sveta koji su u to vreme bili pokoreni i okupirani.

* Čak i u BiH i u Hrvatskoj, okupaciona Austrougarska se sada tretira kao država u kojoj su cvetale slobode, a Jugoslavija proglašava tamnicom naroda. Kako je došlo do takve zamene teza?

- To su politikantske interpretacije istorije i ono što je najironičnije zapravo jeste da se nastavljaju na nacističku propagandu. Hitler do 27. marta 1941. govori o Jugoslaviji, ali posle toga, vraća se na staru austrogugarsku propagandu i počinje da se govori isključivo o „srpskoj kliki“. 

Politika „zavadi pa vladaj“ koju su razne imperijalne sile sprovodile na Balkanu, prisutna je i danas. Zaboravlja se da je „Mlada Bosna“ bila jugoslovenska organizacija koja je okupljala i muslimane i Hrvate. Mnogi danas sude o „Mladoj Bosni“ kao o velikosrpskom elementu, a to je samo nastavak propagande Austrougarske monarhije.

* Ispada da je Jugoslavija bila velikosrpski projekat?

- Čini mi se da je ta ideja usađena sa ciljem da dovede do raspada Jugoslavije. Ideja da je Jugoslavija zapravo velika Srbija je na svaki način pogrešna, ali je bila potrebna da bi se projekat raspada realizovao.

* Pominjete 27. mart.

U ovdašnjim pokušajima revizije istorije, mnogi se tog datuma odriču.

- Na neki čudan način Hitler je mnogo bolje prepoznao sličnost 27. marta i Sarajevskog atentata nego mnogi drugi. On se tada nalazi na vrhuncu moći, imao je Evropu pod nogama i niko mu se nije suprotstavio na taj način. Odvajati ta dva događaja, i govoriti pozitivno o jednom, a negativno o drugom jednostavno nema smisla.

* Da li smo danas osuđeni na to da nacionalne identitete gradimo i potvrđuemo isključivo na suprotnostima i razlikama?

- O tome je Frojd pisao kao o narcizmu malih razlika. Što je razlika manja, ti moraš više da je ističeš. Dobar primer su Crnogorci. Južnoslovenski narodi koji govore istim jezikom su za distinkciju u jednom trenutku uzeli religiju, pa su oni koji su katolici postali Hrvati, pravoslavni Srbi, muslimani su bili Muslimani, danas Bošnjaci. Srbi i Crnogorci nisu mogli na taj način da se razlikuju i danas se vidi strašan napor da se ta razlika napravi. Jedini način da se ta razdvojenost očuva jeste da se naglašavaju te razlike. Ti nisi ono što jesi, nego ono što drugi nisu.

* Tekst koji si objavio u „Vremenu“ o fotografiji i sudbini spomen-ploče iz Sarajeva, završavaš konstatacijom da danas nema slobode. Da li to znači da su Princip i ostali mladobosanci zalud pucali u Austrougarsku monarhiju?

- Jedna od stvari zbog kojih je meni bliska mladobosanska ideja, jeste pitanje političkog subjektiviteta. Gavrilo Princip je u vreme atentata bio maloletan, ali njegova akcija je vodila ka tome da jugoslovenski narodi izađu iz stanja istorijske maloletnosti i uzmu sudbinu u svoje ruke, tako što će kreirati jednu državu koja neće biti marioneta velikih sila, koja neće biti kolonija, nego voditi svoju politiku i biti slobodna. 

Raspadom Jugoslavije, ratovima i svim kasnijim političkim epizodama, sve ove zemlje su manje ili više opet svedene na neku vrstu pseudokolonijalnih poseda ili satelita. Bosna i Makedonija su najbliže protektoratima, Srbija je neko vreme pokušavala da, na tragu Jugoslavije, vodi koliko-toliko samostalnu politiku. Međutim, čini mi se da se, naročito sa novom političkom garniturom, i od toga odustalo. I to nije čudno. Srbija nema tu vrstu snage i moći koja je za to potrebna. Ta baština mladobosanskog sna koja je jedno vreme bila ostvarena, sada se izgubila. Rekao si „Ne“ Hitleru 27. marta, rekao si „Ne“ Staljinu 1948. a sada razni ambasadori i činovnici imaju pravo da ti diktiraju šta ćeš da radiš.


JEZIK KAO IDENTITET* Često pišete o Andriću i Meši Selimoviću, velikim piscima čiji su nacionalni identiteti raspadom države u kojoj su stvarali i posle njihove smrti dovedeni u pitanje. Vi ste pisac iz Sarajeva koji piše u Beogradu. Vidite li paralelu sa njihovim sudbinama i da li svoj idenitet određujete na taj način? - Vidim sebe unutar onog sveta u kojem se to što pišem i govorim razume bez prevoda. Osećam se kao u zavičaju na čitavom prostoru koji danas obuhvataju Srbija, Bosna i Hercegovina i Hrvatska. Meni je taj jugoslovenski okvir intimno najbliži, iako sam svestan da on za većinu ljudi predstavlja samo istorijski relikt.

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29.10.2013 20:59


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Jedna fotografija: Neispričana priča o Sarajevskom atentatu


HITLER DOBIO NA POKLON JEDINI RATNI TROFEJ DONET IZ RASKOMADANE JUGOSLAVIJE – SPOMEN-PLOČU GAVRILU PRINCIPU DONETU IZ OKUPIRANOG SARAJEVA 1941.

Štajerska, izlaz iz železničkog tunela kod Menihkirhena, 20. april 1941. Ispred specijalnog voza u kome je smešten „Firerov glavni štab Jugoistok" („Führerhauptquartier Südost") svira orkestar – Adolf Hitler slavi pedeset i drugi rođendan. Gosti: vojni i politički vrh Trećeg rajha, italijanski ministar spoljnih poslova Galeaco Ćano, mađarski regent admiral Mikloš Horti i bugarski kralj Boris III. Tri dana su prošla od jugoslovenske kapitulacije i svi su "kao lešinari okupljeni oko trupla Jugoslavije". Na vrhuncu slavlja Hitler dobija na poklon jedini ratni trofej donet iz raskomadane Jugoslavije – spomen-ploča Gavrilu Principu doneta iz okupiranog Sarajeva; uručenja poklona snima Hitlerov službeni fotograf, Hajnrih Hofman.

Zašto se bez ove fotografije – koju "Vreme" premijerno objavljuje – ne može smatrati potpunim ni jedna polemika i analiza o početku Prvog svetskog rata, o istorijskoj težini Sarajevskog atentata, Mlade Bosne i Gavrila Principa, karakteru jugoslovenskog političkog projekta, te o Drugom svetskom ratu kao nastavku nezavršenog Prvog?

Kako se oko ove fotografija koja sama po sebi ima čudesnu i sugestivnu magiju, ispreplela ista takva priča u kojoj se dotiču sudbine Ive Andrića i Kurta Valdhajma, Eve Braun i Rodoljuba Čolakovića, španskog kralja Alfonsa XIII i Murata Kusturice, Gavrila Principa i Adolfa Hitlera?

Zbog čega je Hitleru stalo da mu njegova vojska iz ubijene Jugoslavije donese samo jednu jedinu stvar –spomen-ploču kojom su u Sarajevu odali počast Gavrilu Principu?

Šta je razlog da jedino u spomen-ploči koju su u Sarajevu podigli Jugosloveni u slavu svoje slobode i nemačkog poniženja, Hitler vidi nadgrobnu ploču njihovoj zemlji i njihovim snovima?


JEDNA TABLA VIĐENA KROZ DVA OBJEKTIVA 1941: Na filmskom zapisu (video klip u okviru dole) vidi se trenutak skidanja table u Sarajevu 1941. Na tabli koju drže nemački vojnici tokom skidanja table u Sarajevu vide se mrlje nastale verovatno zbog meteoroloških uzroka, identične onima na tabli u koju gleda Adolf Hitler na (fotografiji gore).
 

...Nacistička vojska ušla je u Sarajevo 17. aprila 1941. godine. Trenutak skidanja spomen-ploče Gavrilu Principu sa zida zabilježen je kamerom i uključen u jedan filmski žurnal (dostupan na internetskoj adresihttp://www.youtube.com/watch?v=QhLeaqhPXVU). Snimke ulaska nacističkih tenkova u Sarajevo, mase koja ih veselo pozdravlja i podizanja njemačke zastave očito su manje važne, jer najduži dio ovog žurnala prati skupinu muškaraca koji uz pomoć merdevina pažljivo skidaju ploču i predaju je vojnicima Vermahta koji uz nju teatralno poziraju. Sve ovo prati glas spikera koji na njemačkom izgovara nekoliko rečenica. U prevodu one glase ovako: "Invazija u bosanski grad. Podiže se njemačka ratna zastava. U Sarajevu; ovdje je 28. juna 1914. austrijski prestolonasljednik postao žrtvom kukavičkog atentata srpskog studenta. Ti pucnjevi su dali signal za svjetski rat. Njemci skidaju mramornu tablu i predaju je Vermahtu. Na tabli stoji: Na ovom istorijskom mjestu se Gavrilo Princip izborio za slobodu Srbije. Firer je tablu predao Berlinskom Zeughausu5."

Autor citiranog teksta očito je imao pouzdanog prevodioca sa srpskohrvatskog. Natpis na tabli zbilja počinje frazom Na ovom istorijskom mjestu koja je u filmskom žurnalu na njemački doslovno prevedena (An dieser historischen Stätte). Nigdje se, međutim, na tabli ne pominju ni srpstvo ni Srbija. Iz ove lapidarne interpretacijeanonimnog njemačkog filmskog radnika, razviće se, i u naše vrijeme, brojne publicističke i scenske vizije Principovog čina. Na dan 21. aprila, agencija Asošijeted pres javlja iz Berlina kako je iz nacističkog štaba na Balkanu stigla informacija da je spomen-ploča kojom se komemorira Sarajevski atentat juče predana Hitleru i to od strane jednog od prvih njemačkih vojnika koji su ušli u taj jugoslovenski grad. Objavljeno je i da će ploča biti javno izložena u muzeju kao "dokaz srpske zločinačke krvave krivice za Svjetski rat". Prvog jula iste godine, a povodom poklanjanja spomen-ploče Adolfu Hitleru, komentator NDH-ovskog "Sarajskog novog lista" trijumfalno piše: "Sarajvo je opralo sa sebe vidovdansku ljagu". (Oblik Sarajvo ovdje nije štamparska greška. Prvih mjeseci okupacije ustaše su ime grada formalno promijenili u Sarajvo, no uskoro je vraćen naziv Sarajevo.)

(Više u tekstu Muharema Bazdulja Srećan rođendan, gospone Hitler, Vreme broj 1191, 31. oktobra 2013)


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VIDEO:
Die Deutsche Wochenschau Nr. 556 April 30, 1941 Deutsche Pioniere nehmen das Eiserne Tor der Donau, versuchte Sperrung der Donau durch die Serben schlug fehl, serbische Truppen ergeben sich. Einmarsch in eine bosnische Stadt, Entfernung der Gedenktafel des Attentates von Sarajevo…
http://www.youtube.com/watch?v=QhLeaqhPXVU


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UN LIBRO AL GIORNO


L'Anno che Continua a Tornare, di Slavko Goldstein


Slavko Goldstein, importante storico bosniaco (di Sarajevo), ha suscitato dibattito in occasione della presentazione statunitense (10 Novembre) del suo libro 1941: The Year That Keeps Returning (1941: l'Anno che Continua a Tornare). La tesi da lui sostenuta è nota e vale la pena ripercorrerla: il regime fascista ustascia è traditore dell'unità dei popoli slavi del sud, Gavrilo Princip non fu un terrorista, il movimento della “Giovane Bosnia” non fu un movimento terrorista, il giudizio va contestualizzato e la lettura dominante di quella vicenda storica, specie di parte occidentale, è parziale e va rivista. 
Il libro è, peraltro, interessante per la sua struttura, una sorta di “diario storico” in cui lo sguardo personale del protagonista diventa l'occasione per una visione d'insieme dell'anno fatale 1941. E' questo l'anno in cui gli ustascia, i nazionalisti filo-fascisti croati, furono installati al potere dagli occupanti nazisti della Jugoslavia. Il 10 Aprile 1941, quando le truppe tedesche entrarono a Zagabria, i nazisti furono accolti come liberatori da ampia parte dei croati. Tre giorni dopo, Ante Pavelic, capo ustascia e futuro capo dello stato fantoccio indipendente di Croazia, rientrò dall'esilio in Italia e il padre di Goldstein, titolare di una libreria progressista a Karlovac - bella antica città a ca. 60 km. dalla capitale - fu arrestato insieme con altri serbi e croati, comunisti e simpatizzanti “jugoslavi”.
L'idea jugoslava, non essendo né nuova né episodica, era un'idea per molti aspetti rivoluzionaria e “sovversiva”. A causa della sua attività irredentistica ed anti-asburgica, potenza occupante, Gavrilo Princip fu espulso dalla scuola, si unì al movimento “Giovane Bosnia” e divenne un “combattente per la libertà”. A sua volta, il movimento “Giovane Bosnia” non aveva solo un'aspirazione irredentistica, ma fu anche una delle prime prove sul palcoscenico della storia dell'idea panslava, l'ideale di unire tutti gli slavi del sud in virtù delle loro connessioni e delle loro affinità, l'ideale della Jugoslavia. 
Inquadrare correttamente il fatto storico serve a dare una lettura corretta dell'intero processo, che attraversa le guerre balcaniche ed arriva al “lungo dopoguerra”, passando attraverso l'omicidio dell'arciduca della potenza occupante, Franz Ferdinand. Serve inoltre ad evitare pericolose forzature e strumentalizzazioni della storia, come quelle che sono, in larga misura, dietro alle controverse celebrazioni del centenario della prima guerra mondiale e del cosiddetto “Peace Event” di Sarajevo 2014. Possiamo giudicare un omicidio politico con sguardo negativo, ma sarebbe sbagliato dimenticare che tali pratiche di azione erano comuni nei movimenti patriotici dell'epoca, ha ammonito Goldstein.
“Il terrorismo va condannato sul piano morale e politico e, dal punto di vista storico e fattuale, va considerato come la manifestazione di una strategia politica e definito come la concretizzazione di una azione individuale a fini politici, determinata da organizzazioni clandestine attraverso l'uso della violenza contro le persone o contro le proprietà, con lo scopo di fare pressione sull'ordine costituito per conseguire determinati obiettivi di natura politica o sociale”. A differenza della storica canadese, Margaret Macmilan, che aveva sommariamente derubricato la vicenda di Gavrilo Princip e il movimento della “Giovane Bosnia” come “terrorismo punto”, quella vicenda comincia qui ad assumere finalmente una dimensione più complessa e ragionata, fuoriuscendo dal pregiudizio politico e dalla condanna morale per inscriversi più correttamente nel suo contesto e nella sua dinamica. 
Si tratta di un interrogativo molto impegnativo ed esigente, soprattutto per quanti si professano o si considerano progressisti, nonviolenti, rivoluzionari. Il ripudio della violenza da parte della nonviolenza viene fatto non in nome della remissività o della acquiescenza, ma in base ad una critica alla efficacia della violenza come mezzo politico di massa e in nome della ricerca di una “forza più potente”. La condanna morale non è semplice mozione da anime belle, ma presuppone una profonda consapevolezza sociale e politica. E la valutazione politica viene dopo, non prima, l'analisi storica.

Gianmarco Pisa

in data:15/11/2013




(english / italiano)

Borotba e il movimento contro la guerra in Ucraina

1) TAKE ACTION: Ukrainian anti-fascist activist, Borotba activist Maria Matyushenko, kidnapped
2) Anti-war protests in Ukraine expose bogus ‘ceasefire’ plan (Greg Butterfield / WW)
3) Un'analisi di classe della crisi ucraina (Viktor Shapinov / Borotba)


Leggi anche:

Le proposte dei comunisti per la risoluzione del conflitto nell'Est dell'Ucraina
Intervista a Petro Simonenko 
http://www.marx21.it/internazionale/area-ex-urss/24230-le-proposte-dei-comunisti-per-la-risoluzione-del-conflitto-nellest-dellucraina.html


=== 1 ===

http://www.workers.org/articles/2014/06/24/take-action-ukrainian-anti-fascist-activist-kidnapped/

TAKE ACTION: Ukrainian anti-fascist activist kidnapped

By Greg Butterfield on June 24, 2014

[PHOTO: Borotba activist Maria Matyushenko on a recent visit to the Donetsk People’s Republic. (Photo: Borotba)]

June 24 — Maria Matyushenko, an activist with the anti-fascist organization Union Borotba (Struggle), was kidnapped and her apartment ransacked in Dnepropetrovsk, Ukraine, on the night of June 23.

Dnepropetrovsk, a city in southeast Ukraine, is directly governed by far-right Ukrainian oligarch Igor Kolomoisky, who helps to finance the Right Sector fascist movement and is widely believed to be an organizer of the neo-Nazi massacre against anti-fascists and trade unionists in Odessa on May 2.

In May, armed right-wing paramilitaries attempted to kidnap two Borotba activists in the city of Kharkov. Leaders of the organization have been forced to flee the country or go underground under threat of arrest.

The government in Kiev and its State Security Police claim not to know who took Matyushenko. But the U.S.-backed junta, while saying it wants a ceasefire in its war against the newly-independent Donetsk and Lugansk People’s Republics, at the same time is intensifying its crackdown on left-wing activists, even going after youths for posting anti-fascist materials on Facebook and other social media sites.

Workers World urges readers to contact the nearest Ukrainian embassy or consulate to demand Maria Matyushenko’s immediate release. Let them know you hold the Kiev government and President Peter Poroshenko responsible for her safety.

In the U.S., contact: Igor Sybiga, Chief of the Consulate General of Ukraine in New York, 240 E. 49th St., New York, NY 10017; phone: 212-371-6965; fax: 212-371-5547; email: gc_usn@...; website:ny.mfa.gov.ua.


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Anti-war protests in Ukraine expose bogus ‘ceasefire’ plan

By Greg Butterfield on June 21, 2014


June 20 — An anti-war protest by 100 women shut down the Chernivtsi-Zhitomir highway near the town of Mahala in western Ukraine on June 19. The women — mothers of Ukrainian soldiers — demanded that the government in Kiev withdraw their sons from the fratricidal war to suppress the anti-fascist uprising in southeastern Ukraine. (Depo.ua)

A day earlier, hundreds of miles to the east, in the capital of the Donetsk People’s Republic, thousands of mineworkers and their families marched to demand an end to the junta’s “anti-terrorist operation.” Workers from 16 regional mines downed tools to join the protest.

The miners issued an ultimatum to Kiev: Withdraw your troops within 48 hours or we will take up arms and join the people’s militias defending Donetsk and Lugansk.

By the time their deadline passed on June 20, Donetsk Prime Minister Alexander Borodai had announced: “Formation of a division of miners, who have decided to defend their homes and families, has begun. Five hundred people are already enrolled in the ranks,” Borodai told ITAR-TASS news agency.

The miners’ determination was given added weight by simultaneous reports that a 4-year-old boy trapped in the besieged city of Slavyansk had just died after being hit by mortar fire. His mother was also killed, RT.com reported.

According to a report issued June 18 by the U.N. Commission on Human Rights, at least 356 people have been killed in the latest military operation, 257 of them civilians, including 14 children.

Together, the eastern miners and western soldiers’ mothers have given a resounding answer to the fraudulent “ceasefire” plan announced June 18 by Ukrainian President Peter Poroshenko, who represents the U.S.-backed alliance of oligarchs, neoliberal politicians and fascists that illegally seized power in Kiev earlier this year.

Poroshenko demands surrender

To great media fanfare, Poroshenko announced that he would declare a unilateral ceasefire “soon” in the war on the southeast. His announcement came after talks with Russian President Vladimir Putin and German Chancellor Angela Merkel.

But what was the actual content of Poroshenko’s “offer”?

“Poroshenko’s plan would offer insurgents in the eastern provinces that form the nation’s industrial heartland a chance to lay down weapons or leave the country,” the Associated Press reported. If this happens, Poroshenko claims, those who haven’t committed “grave crimes” will be pardoned.

“I can say that the period of the ceasefire will be rather short,” Poroshenko said. “We anticipate that immediately after this, the disarming of the illegal military formations will take place.”

By “illegal military formations,” Poroshenko means the popular militias of workers, youths and veterans that have defended the Donbass population from Kiev’s military campaign — but not neo-Nazi gangs like Right Sector, Maidan Self-Defense and the Social Nationalists that have carried out acts of terror against the regime’s opponents, including the massacre of 48 people at the Odessa House of Trade Unions.

In fact, Poroshenko’s ceasefire proposal is no different than the threats made by the junta all along.

The people’s governments in Donetsk and Lugansk — where the population voted overwhelmingly for independence in a democratic referendum May 11 — made it clear that the only basis for negotiations with Kiev is withdrawal of Ukrainian troops from the region.

Denis Pushilin, chair of the Supreme Soviet of the Donetsk People’s Republic, called Poroshenko’s offer “senseless.”

“They cease fire, we lay down weapons, and then they will capture us weaponless,” he said. (Dozhd TV, June 18)

It’s crucial for the U.S. working class and anti-war movement to understand that the crisis in southeastern Ukraine is not a problem of a small number of intransigent militants, much less a conspiracy of “Russian agents.”

In fact, the whole population on the Donbass has said “No!” to being ruled by a right-wing regime that seeks to impose austerity, NATO bases and the rule of neo-Nazi gangs on the whole population. Their determination is shared by millions of people in other parts of the southeast, and the unrest is increasingly spreading westward.

Even if the population of the southeast wanted to surrender their arms, could Poroshenko’s ceasefire offer be trusted?

The real muscles behind his regime are fascist gangs like Svoboda and Right Sector, working in tandem with the oligarchy that has grown wealthy off the stolen, privatized infrastructure built up over decades by the Soviet working class.

They in turn are taking cues from the U.S. and NATO as they flex their military and economic prowess against Russia.

The massacre of anti-fascists and trade unionists in Odessa; the bombing of downtown Lugansk; the attack on the Russian Embassy in Kiev; and the targeting of hospitals, schools and civilian housing in the Donbass — all demonstrate that no confidence can be put in the Poroshenko regime.

What’s really at stake?

To get a sense of what’s really at stake, it is necessary to look past Poroshenko’s declarations, made for the benefit of U.S. and European corporate media, and see what the junta’s supporters are saying among themselves.

At a cabinet meeting on June 11, for example, Ukrainian Defense Minister Mykhailo Koval said a “complete filtering” of the Donbass population was needed — a euphemism for concentration camps, according to anti-fascist activists. (Ukraine Channel 5 News)

“It will take a complete filtering of the people,” Koval said. “It requires special filtration activities. It’s said that among the people, including women, some were not associated with separatism, with those who committed crimes in Ukraine related to terrorist activities. While this may be, we have a lot of information. The base is very powerful. And the corresponding structure, which is designed for this, they will carry out. In addition, there is a problem associated with the fact that people will settle in different regions.”

In a June 13 letter to Poroshenko, oligarch Igor Kolomoysky, appointed governor of the Dnepropetrovsk region by the junta, proposed erecting a 2,000-kilometer-long electrified fence with barbed wire, minefields and ditches along the border with Russia, at a reported cost of $135 million. Kolomoysky’s assistant told Vesti.ua that business owners were already pledging to help fund the project.

Coming at a time when tens of thousands of refugees are fleeing Kiev’s military assault by crossing the border into Russia, the proposal has less to do with keeping Russia out than with keeping people opposed to the junta trapped.

“Here you have three illustrations of modern Ukrainian life,” said Victor Shapinov of the leftist Union Borotba (Struggle). “The defense minister promising filtration camps and resettlement for the population of the southeast. Prime Minister [Yatsenyuk] calling his fellow citizens ‘subhumans.’ The battalion of the Ukraine Ministry of Internal Affairs fighting under a banner adorned with SS symbols.

“Some inexorable historical logic makes the Kiev authorities copy the ‘Thousand-Year Reich.’ Such copying cannot be accidental — it is a consequence of ideological, political and methodological proximity. No, I do not want to say that in Ukraine there is a Nazi regime and Poroshenko is a modern Hitler. But the movement precisely in this direction is felt ever more clearly.” (“Concentration Camps for Donbass,” Borotba.org)

Now more than ever, it is imperative to build a global movement in solidarity with the People’s Republics and the anti-fascist resistance in Ukraine.



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The original text, in english: A class analysis of the Ukrainian crisis (June 13, 2014)



Un'analisi di classe della crisi ucraina (da Borotba)


traduzione di Silvia Conca 

13 giugno 2014 – Le origini sociali e di classe della crisi ucraina non sono state indagate a fondo. L'attenzione si è concentrata principalmente sull'aspetto politico degli eventi e si è permesso che la loro base socioeconomica passasse in secondo piano. Quali sono state le forze di classe dietro il rovesciamento del regime di Yanukovich, l'insediamento di un nuovo regime a Kiev e l'ascesa degli anti-Maidan e del movimento nel sud-est?

La crisi del capitalismo ucraino
La crisi ucraina non è un fenomeno nazionale isolato. Per una serie di motivi, l'Ucraina è stata “l'anello debole” ed è diventata la prima vittima del crollo del modello economico basato sulla regola del dollaro come valuta di riserva mondiale e sull'uso della domanda di credito al consumo come meccanismo di crescita economica [1]. L'economia ucraina è stata tra le più vulnerabili nel contesto della crisi globale, questo ha portato a una frattura nella classe dominante ed a un'aspra lotta che è visibile da diversi mesi . L'economia del capitalismo ucraino ha preso forma dal collasso del complesso economico dell'Unione Sovietica, dalla privatizzazione della proprietà collettiva e dall'integrazione nel mercato globale. Questi processi hanno portato al degrado della struttura economica della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, che era al decimo posto nella classifica mondiale dello sviluppo economico. L'Ucraina in epoca sovietica aveva un'economia complessa e sviluppata in cui avevano un ruolo di primo piano l'industria metalmeccanica e la produzione di beni ad alto valore aggiunto.
L'integrazione nel mercato globale ha portato al crollo dei settori di alta tecnologia. “Mentre l'economia dell'URSS era orientata alla soddisfazione dei bisogni di produzione e consumo personale interno e sviluppata in maniera più o meno rifinita, l'economia capitalistica ucraina è stata “formattata” in base alle richieste della divisione mondiale del lavoro. La vittima principale di questo processo è stata la produzione ad alta specializzazione – la costruzione di macchinari, l'industria leggera, la creazione di congegni meccanici, strumenti e radio-elettronica e la produzione di turbine, velivoli e automobili [2]. Dopo la distruzione della produzione complessa, il ruolo giocato dal settore delle materie prime destinate all'esportazione e da settori con un basso livello di valore aggiunto ha guadagnato un'importanza catastroficamente elevata. Gli imprenditori di questi settori hanno costituito un livello dell'oligarchia che ha controllato l'insieme dell'economia del paese attraverso quasi l'intero periodo dell'”indipendenza”. Questo livello, orientato verso la produzione di materie prime da esportare, ha sfruttato in maniera spietata il potenziale produttivo ereditato dall'URSS. Grazie alla sua posizione economica, l'oligarchia ucraina non solo non si è interessata allo sviluppo del mercato interno ma, in molti casi, ha anche avuto un atteggiamento predatorio nei confronti delle sue stesse attività produttive, preferendo esportare capitali verso i paradisi fiscali anziché usarli per sviluppare la produzione. Un totale di più di 165 miliardi di dollari è stato fatto uscire dall'Ucraina e investito offshore. [3] Il modello economico di esportazione periferica ha una natura “cannibale” ed è basato sull'esaurimento di ciò che eè stato ereditato dall'Unione Sovietica. Anche prima dell'inizio della crisi globale, la metallurgia ferrosa – la “locomotiva” dell'economia periferica ucraina che costituiva il 40-50% delle esportazioni – ha mostrato “evidenti fragilità strutturali: tecnologie obsolete, alta intensità di manodopera (produrre una tonnellata di acciaio in Ucraina richiedeva 52,8 ore lavorative, contro le 38.1 della Russia e le 16.8 della Germania), alto consumo energetico e dipendenza da fonti energetiche estere (soprattutto russe). Finché i prezzi erano alti queste debolezze non avevano un'importanza decisiva, ma il peggioramento della congiuntura le ha rese una seria minaccia. “Gli altri settori competitivi dell'economia Ucraina – la produzione agricola (in parte, colture ad uso industriale), l'industria chimica (principalmente la produzione di fertilizzanti minerali) e l'industria estrattiva (metalli ferrosi e carbone)- riguardavano principalmente i materiali grezzi ed erano diretti all'esportazione. A causa della limitatezza del mercato interno, i settori produttivi rimanenti (con l'eccezione dell'industria agroalimentare) si sono sviluppati solo ai fini di rifornire i settori volti all'esportazione. In linea di massima queste aree dell'economia erano quelle caratterizzate dai salari e dai saggi di profitto più bassi. [4] Col declino della produzione nazionale nei comparti diversi da quello delle materie prime destinate all'esportazione, è cresciuta la dipendenza dall'importazione. La fetta rappresentata dai beni di produzione ucraina nella bilancia commerciale è crollata, mentre sono aumentate le importazioni. Dalla metà degli anni 2000 le importazioni hanno superato le esportazioni [5]. La differenza è stata compensata da una crescita del debito estero, sia pubblico che societario.[6] Con la crisi globale cominciata nel 2008 la domanda rispetto alle esportazioni ucraine è tendenzialmente caduta, mentre il prezzo delle importazioni è cresciuto contemporaneamente all'aumento della dipendenza dai beni importati. Il modello di capitalismo ucraino è crollato.

La crisi e la frattura nella classe dominante
La crisi crescente ha creato una grave lotta interna alla classe dominante. In quel momento il gruppo di punta in quella classe – una dozzina di miliardari – era già pronto all'integrazione nelle élite mondiali e cercava un modo per “accreditare” i suoi capitali in Occidente. Tali miliardari avevano accumulato capitali sufficienti a essere trasformati in attività finanziarie e industriali in Occidente, mentre la crescente crisi sistemica in Ucraina aveva reso il paese non più attraente per i grandi affari. Il mezzo usato per legittimare questo passaggio è stata la cosiddetta “Eurointegrazione”, attraverso cui i miliardari ucraini, in cambio della fine del protezionismo interno e della resa ai monopoli internazionali, furono riconosciuti dall'Europa. Il fatto che il prezzo sarebbe stato la distruzione di vari settori produttivi e una nuova spirale di deindustrializzazione, con un'inevitabile crescita della disoccupazione e di altre problematiche sociali, non ha preoccupato minimamente questo gruppo di punta della classe dominante. [7] Gli oligarchi di medio e basso livello, che vedevano ancora l'Ucraina come un'arena in cui poter fare affari e che non avevano capitali sufficienti all'integrazione nelle élite mondiali svilupparono una tiepida resistenza a questo processo. Costoro non avevano ancora sfruttato appieno tutte le opportunità offerte dall'Ucraina “indipendente” ai fini di essere promossi nella “serie a” dei miliardari; di conseguenza, erano riluttanti ad accettare una resa completa del mercato interno ai “partner” europei. [8] Per un certo periodo la leadership del paese, nella persona di Victor Yanukovich, il presidente eletto nel 2010, ha oscillato tra il “partito dei miliardari” e il “partito dei milionari”, aspirando a una versione dell'”Eurointegrazione” che potesse soddisfare entrambi gli schieramenti. L'esito è stato che Yanukovich fu costretto a respingere la sottoscrizione già programmata a Vilnius a dicembre del 2013 di un accordo su una zona di libero scambio, poiché l'accordo minacciava gli interessi economici di un'importante parte della borghesia ed avrebbe avuto conseguenze sociali catastrofiche. Inoltre dietro il bisogno di un processo di “integrazione” c'era un'impellente necessità di crediti, i quali sarebbero potuti venire solo dalle organizzazioni finanziarie internazionali (il Fondo Monetario Internazionale) o dalla Federazione Russa. A differenza dell'FMI, la Russia non ha posto come condizione per fornire crediti l'attuazione di riforme antisociali: Questo ha fatto propendere Yanukovich per un rinvio della sottoscrizione di un accordo di associazione con l'Unione europea e dell'accordo sul libero scambio. La reazione del “partito dei miliardari”, che avevano scommesso sull'integrazione con l'Europa, è diventata Euromaidan.

Euromaidan: i fomentatori, il nucleo, la base sociale
Nella fase iniziale di Euromaidan, la partecipazione delle masse popolari era minima. I primi giorni erano presenti principalmente impiegati ed attivisti delle ONG filo-occidentali e membri di gruppi neonazisti (l'organizzazione Svoboda [“Libertà”] ed altre forze che in seguito avrebbero formato il Settore Destro). Euromaidan ha assunto un carattere genuinamente di massa solo dopo che i dimostranti sono stati sgomberati da piazza Maidan la notte del 30 novembre 2013. L'assalto fu mostrato dal vivo su tutti i canali televisivi controllati dagli oligarchi. In seguito i loro telegiornali mostrarono video a ripetizione con persone picchiate, con le teste insanguinate e così via. Gli spettatori furono costretti a subirte un fuoco di fila propagandistico, con un'informazione finalizzata a indurre i cittadini a partecipare alle proteste. Un esempio fu la notizia che uno studente era stato ucciso dall'esercito durante lo sgombero della piazza il 30 novembre. Si scoprì più tardi che lo studente aveva semplicemente preso una pausa di qualche giorni in compagnia dei suoi amici nazionalisti e non si era messo in contatto con la famiglia. Simili disinformazioni provocatorie sono state ripetutamente mandate in onda e sfruttate ogni volta dai media degli oligarchi. Non sono stati usati solo i canali televisivi controllati dagli oligarchi per mobilitare le masse di residenti a Kiev a partecipare alle adunate della domenica, chiamate “veglie”, a Maidan. E'stata condotta una campagna ampia e ben finanziata di agitazione; ha incluso il volantinaggio con appelli a recarsi a Maidan in ogni buca delle lettere a Kiev, una città di 4 milioni di abitanti. La forza egemone di Maidan, presente costantemente e attiva negli scontri armati con le forze dell'ordine, era costituita da militanti neonazisti (provenienti soprattutto dalle curve degli stadi di calcio) e da gente senza arte né parte venuta dalle regioni centrali e occidentali del paese. Per diversi mesi queste persone hanno vissuto a Maidan, dove gli venivano forniti cibo e denaro. Questo testimonia il finanziamento ben organizzato di Maidan da parte dell'oligarchia ucraina. Questo finanziamento è stato dato attraverso i tre partiti parlamentari di opposizione e attraverso le ONG. E' anche andato direttamente ai gruppi paramilitari neonazisti. Già a dicembre la tendenza nazionalista e ideologica del movimento di Maidan era visibile chiaramente. Come ha fatto notare la coalizione di sinistra Borotba (“Lotta”): Un successo indubbio dei nazionalisti è stato il fatto che, grazie al loro alto livello di attività, sono riusciti a imporre la loro leadership ideologica sull'Euromaidan. Ne sono prova gli slogan che sono diventati parole d'ordine per le masse di gente che si aduna in piazza e per gli attivisti. Questi slogan includono il grido “Gloria all'Ucraina – gloria agli eroi”, che assieme al saluto romano costituiva il saluto dell'Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini nel 1941. Altri slogan simili sono “Gloria alla nazione – morte ai suoi nemici!” e “L'Ucraina sopra a tutto!” (traduzione del tedesco “Deutschland über alles”). Gli altri partiti d'opposizione semplicemente non sono stati capaci di avere una linea politica chiara e di avere slogan forti, così i settori liberali d'opposizione hanno accettato gli slogan nazionalisti e l'agenda politica nazionalista... Timidi tentativi da parte dell'ala liberale della protesta di sfuggire al controllo ideologico dei nazionalisti, per esempio urlando frasi più politicamente corrette al posto di “Morte ai nemici!” sono generalmente sfociati in un fallimento.. Non solo perché le organizzazioni nazionaliste hanno una particolare capacità di attrarre un seguito di massa attivo e ideologicamente appassionato, ma anche perché la maggioranza liberale nelle proteste ha fallito nel proporre un qualsiasi piano d'azione chiaro. In una simile situazione i nazionalisti, essendo gli elementi più attivi e radicali, hanno incarnato l'immagine dell'avanguardia dell'intero movimento. [9]
Un ulteriore segno della posizione dominante dell'ultradestra è stata la distruzione da parte degli attivisti di Euromaidan del monumento a V.I. Lenin di Piazza Berrarabia. Quest'atto barbarico non è stato condannato dall'ala liberale di Maidan. Frammenti del monumento sono stati mostrati sul podio di Maidan, con le urla d'approvazione della folla. [10] La direzione anti-sinistra e anti-comunista del movimento Maidan è stata evidente nel pestaggio di due attivisti di Borotba, i fratelli Levin, che avevano tenuto un picchetto sindacale vicino Maidan. Pare che i due fratelli avessero una bandiera rossa. Dal podio è venuta la richiesta di fargliela pagare.[11] A dirigere la rappresaglia, il deputato di Svoboda Miroshnichenko. A gennaio, il contenuto ideologico e politico di Maidan sarebbe stato ovvio per qualsiasi osservatore senza pregiudizi.[12] All'epoca, abbiamo definito ciò che stava succedendo come “una rivolta liberal-nazionalista con visibile e crescente partecipazione da parte di elementi dichiaratemente nazisti del Settore Destro”. [13] Il nocciolo duro di Maidan era quindi costituito da neonazisti e attivisti dei partiti politici d'opposizione. Chi, allora, costituiva la “carne” di Euromaidan? Chi erano le migliaia di persone che supportavano il movimento? Dei partecipanti alle manifestazioni, circa la metà erano attivisti provenienti da altre regioni. Tra quelli che hanno risposto a un sondaggio, il 50% era di Kiev e il 50% era venuto a Maidan da altre regioni. Di questi ultimi, il 52% proveniva dall'Ucraina occidentale, il 31% dalle province centrali e solo il 17% dal sud-est-[14]. Di quelli che stavano costantemente in piazza il 17% era imprenditore, un numero esageratamente alto. Esageratamente pochi, invece, erano i russofoni, il 16%, rispetto al loro 40-50% nella società ucraina nel suo complesso.[15] Ci si può fare un'idea chiara della fisionomia sociale di Maidan guardando al fatto che tra i “cento del Paradiso” che sono morti non c'è un singolo lavoratore. [16]
Euromaidan è quindi un movimento avviato e controllato dagli oligarchi di primo piano. La sua base politica è costituita da nazionalisti radicali ed in misura minore da liberali filo-occidentali, mentre la sua base sociale è formata da piccolo-borghesi ed elementi sottoproletari.
Al contrario, il movimento di resistenza nel sud-est è più proletario nella sua composizione, come hanno notato osservatori indipendenti. Non è un caso che la resistenza alla junta di oligarchi e nazisti che ha preso il potere grazie a Maidan sia maturata nelle regioni più sviluppate dal punto di vista industriale, dove la maggioranza della popolazione è costituita dalla classe operaia.

 

Note

[1] Per un'analisi più dettagliata, guarda il nostro documento Mirovoykrizis i ukrainskiyperiferiynyykapitalizm (“La crisi globale e il capitalismo periferico ucraino”), scritto prima degli eventi di Maidan e consultabile su http://liva.com.ua/crisis-report.html 
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[2]Viktor Shapinov. Neoliberal’nyytupikdlyaUkrainy (“Un vicolo cieco neoliberale per l'Ucraina”)http://liva.com.ua/dead-end.html
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[3] Circa il 90% degli investimenti esteri diretti dell'Ucraina è andato a Cipro. Questo paese è anche l'origine dell'80-90% degli investimenti esteri diretti che arrivano in Ucraina. Questo denaro non è, infatti, investimento estero, bensì semplicemente rappresenta i fondi che sono stati portati fuori dall'Ucraina ed in un secondo momento tornano indietro. Durante il decennio del 2000, gli investimento offshore a Cipro hanno fornito un modo comodo per l'oligarchia ucraina di evitare il pagamento delle tasse. Nel 2012 l'investimento estero diretto totale ammontava a 6 miliardi di dollari, mentre il totale dei trasferimenti di denaro da individui privati (principalmente trasferimenti di denaro da lavoratori migranti alle loro famiglie) arrivava a 7 miliardi e mezzo di dollari. I lavoratori dipendenti hanno quindi investito più soldi nell'economia del paese rispetto alla borghesia (vedi, per esempiohttp://dt.ua/ECONOMICS/suma-groshovih-perekaziv-zarobitchan-vpershe-perevischila-obsyag-inozemnih-investiciy-119740_.html 
)
[4]Viktor Shapinov. Neoliberal’nyytupikdlyaUkrainy (“Un vicolo cieco neoliberale per l'Ucraina”) http://liva.com.ua/dead-end.html 
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[5] Ibid.

[6] Dinamiche della bilancia dei pagamenti dell'Ucraina:
1999: +$1.658 miliardi 2000: +$1.481 miliardi 2001: +$1.402 miliardi 2002: +$3.173 miliardi 2003: +$2.891 miliardi 2004: +$6.909 miliardi 2005: +$2.531 miliardi 2006: –$1.617 miliardi 2007: –$5.272 miliardi 2008: –$12.763 miliardi 2009: –$1.732 miliardi 2010: –$3.018 miliardi 2011: –$10.245 miliardi 2012: –$14.761 miliardi 2013 (primi sei mesi): –$3.742 miliardi
Dinamiche del debito estero lordo dell'Ucraina (statale e privato)
1 gennaio 2004: $23.811 miliardi 1 gennaio 2005: $30.647 miliardi 1 gennaio 2006: $38.633 miliardi 1 gennaio 2007: $54.512 miliardi 1 gennaio 2008: $82.663 miliardi 1 gennaio 2009: $101.654 miliardi 1 gennaio 2010: $103.396 miliardi 1 gennaio 2011: $117.345 miliardi 1 gennaio 2012: $126.236 miliardi 1 gennaio 2013: $135.065 miliardi 4 gennaio 2013: $136.277 miliardi

[7] Per le conseguenze dell'ingtegrazione economica con l'Unione Europea, guarda il report Mirovoykrizis i ukrainskiyperiferiynyykapitalizm (“La crisi globale e il capitalismo periferico ucraino”), scritto prima degli eventi di Maidan e consultabile su http://liva.com.ua/crisis-report.html.

[8]”Per un lungo periodo gli oligarchi hanno determinato il carattere interno del sistema statale. Ma a un certo punto sono giunti alla conclusione di aver preso tutto ciò che si poteva prendere dall'Ucraina indipendente ed ormai erano tra i super-ricchi del mondo. Da questo punto in poi hanno affrontato la questione di come conservare ciò che avevano conquistato 'attraverso un duro lavoro'. Gestire ciò nei confini del loro paese sembrava loro irrealistico, poiché in ogni momento un determinato, imprevedibile leader carismatico o partito avrebbe potuto prendere il potere e dichiarare una ripubblicizzazione... Per evitare un simile sviluppo, gli oligarchi hanno stretto un tacito accordo per 'consegnare' la sovranità dell'Ucraina per 'stare al sicuro' nelle strutture europee. In cambio, esse avrebbero assicurato l'applicazione sul territorio ucraino delle leggi di difesa economica e sociale che garantiscono l'inviolabilità della proprietà sul territorio europeo. Gli oligarchi hanno provato ad avviare questo processo con la sottoscrizione di un accordo di associazione con l'Unione Europea.” DmitriyVydrin Evromaydan – bunt milliarderovprotivmillionerov (“Euromaidan – una rivolta di miliardari contro i milionari”) http://glagol.in.ua/2014/01/23/dmitriy-vyidrin-evromaydan-bunt-milliarderov-protiv-millionerov/#ixzz2yHYP6PXR
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[9] Guarda Sergey Kirichuk. Aktivnoeuchastienatsionalistov – klyuchevoyfaktorpadeniyapopulyarnostiMaydana (“La partecipazione attiva dei nazionalisti- il fattore chiave nel declino della popolarità di Maidan”) http://borotba.org/sergei-kirichuk-uchastie-nacionalistov-factor-padeniya-populyarnosti-maidana.html 
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[10] La notizia della distruzione barbarica del monumento a V.I. Lenin non ha incontrato la condanna dei leader di Maidan”, ha scritto Borotba all'epoca. “Al contrario, gli oppositori liberali stanno sostenendo i loro fratelli adottivi neonazisti. Come è evidente, il volto ideologico di Maidan non è determinato dal settore liberale dell'opposizione, ma dalle forze di estrema destra, neonazioste” (http://borotba.org/oni-mogut-unichtojit-pamyatnik-no-ne-ideyu.html). Dal podio, il deputato del partito di ultradestra Svoboda Andrey Ilenko ha mostrato frammenti del monumento (http://podrobnosti.ua/society/2013/12/08/946901.html?cid=5408279
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[12] Guarda, per esempio, quest'articolo su The Nation:http://www.thenation.com/article/178013/ukrainian-nationalism-heart-euromaidan# 
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[14] Sondaggio condotto dalla fondazione Iniziativa Democratica il 6 febbraio http://www.dif.org.ua/ua/polls/2014_polls/vid-maidanu-taboru-do-maidan.htm 
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[15] Ibid. 

[16]”Un'altra caratteristica importante della lista di vittime è che tra i morti, praticamente nessuno apparteneva alla classe lavoratrice o lavorava in grandi ditte industriali... Questo fatto, che la punta avanzata della violenza rivoluzionaria di Euromaidan sia formata da membri del sottoproletariato e dell'intellighenzia (la 'classe creativa'), assieme a persone di province remote che ad essi si sono uniti, riflette la differenza fondamentale tra le strutture sociali tra l'Ucraina orientale e quella occidentale, una differenza che si sovrappone alle differenze di mentalità tra le due parti del paese” (http://kavpolit.com/articles/litso_pogibshego_majdana-1526/).


Di Viktor Shapinov, tradotto dal sito ucraino Liva (La sinistra), tradotto da Renfrey Clarke per Links International Journal of Socialist Renewal