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(Sui contenuti di "Magazzino 18" si vedano anche, ad esempio: 


RECENSIONE DELLO SPETTACOLO “MAGAZZINO 18″ DI SIMONE CRISTICCHI


RECENSIONE DELLO SPETTACOLO “MAGAZZINO 18″ DI SIMONE CRISTICCHI.

Quattro anni fa l’editrice Mursia ha pubblicato un libro dal titolo “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, scritto dal giornalista Jan Bernas (oggi portavoce del vice presidente vicario del parlamento europeo Gianni Pittella (PD), figlio dell’ex parlamentare socialista Domenico Pittella che nel 1992 si era candidato nella Lega delle Leghe di Stefano Delle Chiaie.

Il libro non riporta nulla di nuovo dal punto di vista storiografico (risulta dalla stessa sinossi del testo che “Questo non è e non vuole essere un libro di storia” (http://www.forumforpages.com/facebook/esodo-istriano-per-non-dimenticare/ci-chiamavano-fascisti-eravamo-italiani-il-nuovo-libro-di-jan-bernas/847529688/0): oltre ad alcune testimonianze di esuli istriani e di “rimasti”, si limita a ripetere cose già pubblicate più volte (e spesso anche più volte smentite in base a documentazione ufficiale), ciononostante, pur non essendo un’opera innovativa, è corredata da una prefazione di Walter Veltroni (curiosamente, nel sito di Bernas e nella nota biografica inserita nella pubblicazione curata dal Teatro Rossetti di Trieste compare anche una “postfazione di Gianfranco Fini”, che però non risulta pubblicata nel libro messo in commercio). Il libro è stato presentato per la prima volta a Roma in modo bipartisan da Luciano Violante e Fabio Rampelli, allora deputato del PDL (oggi in Fratelli d’Italia), anche se nella nota di cui sopra si legge che sarebbe stato Roberto Menia a presentarlo.

Ed è a questo libro che dice di essersi ispirato il cantautore Simone Cristicchi per il suo spettacolo Magazzino 18 (Bernas infatti risulta coautore del testo teatrale): lo avrebbe comprato dopo averlo visto “per caso” in una libreria, incuriosito dal titolo. In seguito Cristicchi sarebbe venuto a Trieste dove Piero Delbello (direttore dell’IRCI Istituto Regionale Cultura Istriano-giuliano-dalmata) lo avrebbe accompagnato al Porto vecchio a prendere visione delle masserizie degli esuli istriani ancora conservate al Magazzino n. 18. Di questa visita Cristicchi usa dire che trovarsi in quel magazzino pieno di mobili e di altri oggetti è un po’ come visitare Auschwitz (paragone che ci sembra offensivo nei confronti delle vittime di Auschwitz, dato che gli oggetti trovati nei magazzini di quel lager erano stati rubati agli internati che poi furono uccisi, mentre qui si tratta di cose abbandonate dai loro proprietari, che hanno abbandonato le proprie città, ma non furono assassinati), ed ha quindi deciso di mettere in scena la “tragedia degli esuli”, perché, a suo parere, è stata finora ignorata.

Va ribadito a questo punto che a Trieste della questione dell’esodo istriano si è sempre parlato, ed a livello nazionale è quantomeno da vent’anni, dalla dissoluzione della Jugoslavia, che sentiamo ribadire la necessità di parlare di questa tragedia “finora ignorata” ogniqualvolta viene pubblicato un libro o un articolo, quando esce un film, e nel corso delle celebrazioni e commemorazioni indette nel Giorno del ricordo (10 febbraio).

In realtà la legge istitutiva del Giorno del ricordo (n. 92/2004) contempla che in questa occasione vadano approfondite, oltre alla questione dell’esodo e delle foibe, “le più complesse vicende del confine orientale”; e la lettura completa della norma ha creato, e crea tuttora, svariate polemiche sul come raccontare la storia di queste vicende, dato che le associazioni degli esuli hanno ritenuto di dover avere il monopolio delle commemorazioni e pertanto di imporre ad enti ed istituzioni varie di non far parlare relatori non omologati alla loro interpretazione della storia.

In questo panorama si è inserito ora anche Cristicchi, considerato da alcuni un autore “impegnato” per certi suoi spettacoli sulla malattia mentale, sui minatori e sulla guerra. Senza entrare nel merito degli altri suoi lavori parliamo di Magazzino 18, del quale l’autore spiega che “la cosa più complicata è stata raccontare la situazione storica. Il rischio era ovviamente quello di annoiare e quindi abbiamo sintetizzato un arco di tempo di quarant’anni in cinque minuti di orologio. Anche da qui sono nate diverse critiche, perché sono stato accusato di aver dimenticato, o addirittura omesso di dire certe cose: io non ho omesso niente, ho solo avuto rispetto di un pubblico che viene a teatro, non ad ascoltare una conferenza, ma a emozionarsi, a provare rabbia, a ridere. Lo spettacolo vuole essere anche uno spunto per incuriosire la gente ad approfondire questa storia. Di certo non volevo fare lo storico”.

Cristicchi dunque “non voleva fare lo storico”, ma “emozionare”: intento rispettabilissimo, se solo l’avesse rispettato e non avesse dato in quei “cinque minuti” (che nei fatti si sono però dilatati in tutto lo spettacolo) una lettura storica del tutto falsata, dato che non si è basato su testi storici ma ha riprodotto pedissequamente i vecchi testi di propaganda nazionalista inframmezzati da qualche appunto “antifascista”, probabilmente per apparire bipartisan, coerentemente con la promozione del testo di Bernas. E va detto subito che nella narrazione non viene rispettata la cronologia dei fatti e spesso non è inquadrata correttamente la sequenzialità delle vicende, il che sicuramente non aiuta lo spettatore a chiarirsi le idee su quello che è accaduto.

Nello spettacolo Cristicchi impersona un archivista un po’ burino, Duilio Persichetti, che alla stregua di un Dante Alighieri de noantri si fa accompagnare alla scoperta della storia non da un poeta come Virigilio, ma da un oscuro “spirito delle masserizie” che gli appare nel deposito dei mobili abbandonati dagli esuli giuliano dalmati. E questo Spirito, lungi dal fornirgli dati storici, sembra il portavoce dell’antica agenzia Stefani che lavorava sotto il fascismo (o forse si ispira semplicemente al testo di Bernas, dal quale cita abbondantemente).

“Un’intera regione svuotata della propria essenza. Gente costretta a lasciare la sua terra non per la fame o per la voglia di migliorare la propria condizione, ma perché non si può vivere senza essere italiani”, declama lo Spirito, non considerando che l’Istria non era esclusivamente italiana, ma una regione popolata anche da sloveni, croati ed istrorumeni, e l’essenza istriana, se vogliamo mantenere questa definizione, è data dalla commistione di queste etnie, non dalla presenza dei soli italiani, molti dei quali peraltro rimasero in Istria, restando italiani, come dimostra il fatto che ancora oggi la comunità italiana in Slovenia e Croazia è viva e vitale. Perché in Jugoslavia gli italiani potevano mantenere la propria nazionalità italiana, a condizione di acquisire la cittadinanza jugoslava (ed i cittadini jugoslavi di nazionalità italiana hanno da subito avuto il diritto alle scuole con insegnamento nella madre lingua, a finanziamenti per circoli culturali ed editoria, al bilinguismo nei rapporti con le istituzioni, fino ai seggi garantiti nei parlamenti locali: molto di più di quanto abbiano mai visto le comunità minoritarie in Italia); mentre nel caso in cui non volessero rinunciare alla cittadinanza italiana, il Trattato di pace prevedeva che, in quanto “optanti”, lasciassero la Jugoslavia per andare in Italia. Nessuna “pulizia etnica” (con buona pace del Presidente Napolitano, che con tutto il rispetto, non è un esperto di storia), dunque, ma una banalissima questione di diritto internazionale.

E che non vi fosse un clima di terrore nei confronti degli italiani è dimostrato dalle stesse parole dello Spirito, quando parla di “un’emorragia durata dieci anni”. Per fare un paragone, i tedeschi dei Sudeti dovettero lasciare le proprie case dalla sera alla mattina, senza poter portare via nulla, mentre se gli istriani poterono portare via “persino le bare dei propri cari” e riempire delle proprie masserizie, poi non ritirate, il Magazzino 18, si può ben comprendere la diversità dei due eventi. Infine un altro appunto: lo Spirito dice che “se ne andarono in trecentomila”, ma va precisato che nel 1958 l’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati pubblicò una sorta di censimento dal quale appare che i “profughi legalmente riconosciuti” erano 190.905 (i numeri poi furono fatti lievitare con operazioni di conteggio quantomeno discutibili, ma su questo vi rinviamo ai titoli in bibliografia).

Quando poi lo Spirito si mette a raccontare (nei famosi cinque minuti) la storia del confine orientale, sembra essersi ispirato a qualche filmino dell’Istituto Luce: “quei luoghi settant’anni fa erano Italia, anche le pietre parlano italiano”, ma non dice che quei luoghi diventarono italiani meno di cento anni fa, e lo rimasero per una ventina d’anni, dopo la vittoria italiana nella prima guerra mondiale. “Il tricolore viene issato “non solo a Trento, a Gorizia e Trieste, ma anche a Zara, Pola, nell’Istria e nelle isole del Quarnaro; ed alla fine “anche Fiume qualche anno dopo si ricongiunge all’Italia”: che ciò sia avvenuto in barba al Trattato di Rapallo e con un colpo di mano, questo lo Spirito non lo ricorda. Non ce n’era il tempo? O perché non era intenzione di Cristicchi di parlare di storia?

Così il “processo di riunificazione si conclude, ma per poco, perché vent’anni dopo il Fascismo (maiuscolo? n.d.r.) “sfalda il delicato equilibrio”: ma lo Spirito non spiega che l’Italia fissò il proprio confine orientale ben oltre a quelli che potevano essere considerati “luoghi dove le pietre parlavano italiano”, come Postumia, Tolmino, Villa del Nevoso (per usare i nomi italianizzati dallo Stato vincitore). Del resto, se Cristicchi più di una volta ha affermato che “un tempo l’Istria si chiamava Italia ed ora si chiama Slovenia e Croazia”, non ci si può aspettare che conosca la geografia, ma dà l’impressione che si sia limitato a ripetere gli slogan della propaganda nazionalista ed irredentista. Per “emozionare”, certamente. E va da sé che l’emozione, non essendo di per se stessa razionale, non ha bisogno di considerare la realtà dei fatti.

Segue una carrellata, piuttosto confusa, che vorrebbe spiegare come il fascismo (noi lo scriviamo minuscolo, signor Spirito delle masserizie), si rese colpevole di violenze antislave (vengono citati l’incendio del Narodni Dom del 1920, il cambiamento forzato dei cognomi e dei toponimi, l’impedimento di parlare nella propria lingua, l’invasione della Jugoslavia nel 1941, i campi di internamento per civili) e da ciò si arriva alla conclusione che gli “slavi”, di fronte a questo fecero l’equazione “italiano = fascista”. Altra mistificazione che serve a creare uno stato emozionale e non razionale, mistificazione diffusa dalla propaganda antijugoslava e non corrispondente al vero, perché l’Esercito di liberazione jugoslavo, così come i militanti antifascisti del Fronte di liberazione (Osvobodilna fronta) accoglievano nelle proprie file antifascisti di tutte le etnie, e le stesse direttive emanate da Edvard Kardelj parlavano di “epurare non sulla base della nazionalità ma del fascismo”.

In questo modo anche la lettura dello scritto di una bambina che era stata internata ad Arbe serve come apripista per ribadire quell’interpretazione fascista del fenomeno delle “foibe” che risale ancora al 1943, dopo gli eventi istriani post-armistizio: sentiamo come lo Spirito delle masserizie narra i fatti.

Dopo l’armistizio l’esercito italiano si sfalda, arrivano i nazisti e a Trieste viene messo in funzione il lager della Risiera, ma non viene neppure accennato a quante vittime costò il ripristino dell’“ordine” in Istria nell’ottobre 1943, quando le truppe nazifasciste rivendicarono di avere fatto dai diecimila ai tredicimila morti (così i comunicati ufficiali apparsi sulla stampa dell’epoca). E poi, senza che si comprenda la conseguenza temporale dei fatti: “i partigiani slavi agli ordini di Tito scendono dalle montagne dell’interno dove sono accampati e di città in città di paese in paese, di casa in casa arrivano e arrestano i nemici del popolo”.

Da questa descrizione un ignaro spettatore si fa l’idea che durante tutta la guerra i partigiani sarebbero stati “accampati in montagna” (a non fare niente, si suppone) in attesa di “scendere” (è interessante come certo tipo di propaganda insista sul fatto che i comunisti, i partigiani, gli “slavi” non arrivano mai normalmente da qualche parte, ma “scendono”, “calano”, “dilagano” e via di seguito) nelle città a dare la caccia ai “nemici del popolo” (termine questo usato dalla propaganda anticomunista perché mutuato dalle epurazioni staliniane, ma non usato dai partigiani).

Mescolando assieme, senza contestualizzarli, i due momenti delle esecuzioni sommarie, quello dell’Istria del settembre 1943 e quello degli arresti del maggio 1945, lo Spirito ipotizza che potrebbe essersi trattato di vendette verso i fascisti e di vecchi rancori; ma quando “cominciano a sparire anche carabinieri, podestà, guardie forestali, farmacisti, maestri, sacerdoti, impiegati statali”, i “processi sommari e le esecuzioni di massa non risparmiano nemmeno cattolici, antifascisti e persino comunisti”, e ci si mette a “colpire anche donne, maestri, postini, antifascisti, gente che con la politica non c’entra niente”, allora si domanda: perché tutto questo?

Come al solito, quando l’intenzione non è di ricostruire fatti storici, ma di “emozionare”, è facile, partendo da un presupposto sbagliato, arrivare a dimostrare un fatto non vero. Perché innanzitutto bisogna dividere i due eventi di cui abbiamo parlato: nell’Istria del 1943 ci furono sì delle vendette sommarie contro i rappresentanti del fascismo (piccoli gerarchi, in genere, non gli alti papaveri), ma fu infoibato un carabiniere solo, nessun podestà, nessun farmacista (perché poi allo Spirito sono venuti in mente proprio i farmacisti fra tutte le possibili categorie professionali, forse perché la famiglia di Luigi Papo, il futuro rastrellatore del 2° Reggimento MDT Istria, gestiva a Montona una farmacia che sotto il fascismo veniva usata come luogo di interrogatorio di partigiani?), sacerdoti uno (che sembra fosse un informatore dell’Ovra).

Poi va ricordato che ai quei tempi le guardie forestali erano militarizzate e che gli “impiegati statali” erano in genere funzionari del fascio, così come i maestri erano coloro che intimidivano i bambini per impedire loro di parlare nella propria lingua, e che le donne potevano essere fasciste esattamente come gli uomini, così come potevano essere ausiliarie nelle forze armate. E se nel 1945 vi furono altre vendette personali, la maggior parte dei morti si ebbero tra i militari internati nei campi (l’internamento in campi lontani dal luogo di cattura era previsto dalle leggi di guerra, ed i militari italiani furono internati anche in campi britannici e statunitensi, dove le condizioni di vita non erano tanto migliori di quelle dei campi jugoslavi), mentre furono arrestati coloro che erano stati segnalati come criminali di guerra; gli antifascisti arrestati erano quei reparti del Corpo volontari della libertà italiani che si erano opposti in armi all’esercito jugoslavo (che era un esercito alleato: sarebbe accaduto lo stesso con il CVL milanese se si fosse opposto agli statunitensi); infine, per quanto riguarda i partigiani “comunisti”, va detto che vi furono anche un paio di esecuzioni (avvenute durante il conflitto) sul motivo reale delle quali d’altra parte non si è mai ricostruita la storia (ma fatti di questo genere avvennero in tutti i corpi della Resistenza, non solo in Italia).

Tutta questa mistificazione (che dura da settant’anni) ha un preciso scopo, che nel testo di Cristicchi (fatto per “emozionare”, ricordiamolo) viene così spiegato: “forse perché gli italiani sono un ostacolo al Sogno (maiuscolo? n.d.r.) di Tito di realizzare una sola grande regione e quindi annettersi anche le zone a maggioranza italiana”, come Zara, l’Istria, Fiume, Trieste per creare “una sola grande Jugoslavia”, dove la “lotta per la liberazione dal nazifascismo giusta e sacrosanta” (bontà loro, n.d.r) qui “sembra un mezzo per raggiungere l’obiettivo del confine all’Isonzo e quella che nel resto d’Italia viene festeggiata come Liberazione qui prende le sembianze di occupazione”.

Come abbiamo detto prima, per dimostrare una cosa inesistente (il “sogno della grande Jugoslavia”) l’autore (Bernas? Cristicchi?) è partito da presupposti falsi (l’eliminazione di chi non voleva la Jugoslavia), e riesce in tal modo a diffondere dal palcoscenico dei teatri di tutta Italia (ma anche dell’Istria) quelle teorie anti-jugoslave che fino a pochi anni fa erano peculiarità della destra irredentista ma ora sembrano avere preso piede anche in ambienti “antifascisti” e “di sinistra”.

E così arriviamo ad uno dei momenti più bassi (dal punto di vista artistico e civile) dello spettacolo: quando Cristicchi si avvolge un fazzoletto rosso attorno al collo e declama “per realizzare il sogno della grande Jugoslavia bisogna solo dare un calcio allo stivale” ed a questo punto parte il coro dei bambini che cantano la canzone della foiba, “Dentro la buca” (“un colpo alla nuca e giù nelle buca”, davvero delle parole adatte da far cantare a dei ragazzini).

Viene poi data la parola ad un certo Domenico, “staffetta del Regio Esercito”, si presenta, “praticamente un postino” (un militare in guerra sarebbe un postino? se questa non è manipolazione, come la vogliamo chiamare?), che sarebbe stato infoibato ancora vivo assieme a tantissimi altri, recuperato da una foiba… no, non lo sa da che foiba sarebbe stato recuperato perché ce ne sono 1.700 in Istria (i recuperi verbalizzati si riferiscono a molte meno foibe, lo diciamo per tranquillizzare gli spettatori: il maresciallo dei Vigili del fuoco di Pola, Arnaldo Harzarich, dichiarò agli Alleati di avere esplorato dieci foibe istriane tra l’autunno e l’inverno 1943-44, dalle quali furono estratte 204 salme ed indicò altre cinque foibe dalle quali non fu possibile effettuare recuperi). Come Domenico sarebbero stati infoibati Luigi, Tonin, Giovanni, Norma… e qui parte la storia di Norma Cossetto, con le consuete falsità che vi sono state ricamate attorno negli anni, in base ad una inesistente testimonianza di una donna, mai identificata, che avrebbe assistito alle violenze.

Nomi e cognomi degli scomparsi stanno scritti ci spiega Persichetti (che non ha detto i cognomi degli infoibati chiamati per nome, né nell’elencare le categorie degli uccisi ha fatto nomi: perché è uso consolidato, quando si parla di questi argomenti di generalizzare, e teniamo a mente che non è scopo di Cristicchi, come non lo era di Bernas, “fare storia”), per poi contraddirsi dicendo che non si saprà mai quanta gente è sparita in questo modo; si parla genericamente di persone “uccise in tempo di pace” termine che può significare tutto e niente, perché le vendette personali proseguirono per anni in tutta Europa, così come le condanne a morte eseguite dopo i processi ai criminali di guerra furono fatte “in tempo di pace”, basti pensare a Norimberga. Viene citata a questo punto la dichiarazione fatta da Milovan Gilas in un’intervista, pochi anni prima di morire, di essere stato incaricato assieme a Kardelj di andare in Istria per mandare via gli italiani con ogni mezzo. Considerando che Gilas era diventato “dissidente” già negli anni ’50, tale affermazione, fatta a tanti anni di distanza, lascia il tempo che trova, innanzitutto perché non ha alcun riscontro documentale, e poi perché il governo jugoslavo riconobbe alla comunità italiana tutte quelle garanzie che abbiamo descritto in precedenza.

Poi si parla della strage di Vergarolla del 18/8/46 (della quale non vi è alcuna prova che si sia trattato di un attentato e tanto meno di un attentato organizzato per “terrorizzare” gli italiani), come motivo per cui quel giorno “la maggioranza degli italiani che abitava a Pola scelse come l’unica via l’esodo”. Però noi leggiamo sulla Voce del popolo del 5/4/08 che tre settimane prima della strage il CLN di Pola “aveva raccolto 9.496 dichiarazioni familiari scritte, per conto di 28.058 abitanti su un totale di 31.000, di voler abbandonare la città se questa dovesse venir assegnata alla Jugoslavia”: il che dovrebbe dimostrare che “l’esodo” era già stato deciso prima della tragedia.

Interessante il punto in cui si sente dire che “tutta l’Istria è occupata dai titini” già prima della firma del Trattato di pace “firmato dai potenti della Terra” (togliendo l’emozione, più prosaicamente, si trattava delle potenze che si erano alleate contro la guerra scatenata dall’Asse, Germania, Italia, Giappone) che “consegna alla Jugoslavia un’intera regione italiana”, come “prezzo che l’Italia deve pagare per essere uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale”. Una riflessione sul fatto che l’Italia avrebbe anche potuto non dichiarare guerra al mondo intero assieme al suo alleato tedesco? Naturalmente no, perché non è di queste emozioni che si occupa uno Spirito delle masserizie.

Ed ancora notiamo come si parli sempre di “titini” e non di Esercito jugoslavo: sentiamo mai parlare di “churchilliani” a proposito dei britannici o di “hitleriani” a proposito dei nazisti? È tanto difficile riconoscere alla Jugoslavia di essere stata uno dei Paesi alleati nella lotta contro il nazifascismo? Certamente, perché se le si riconoscesse questo ruolo si dovrebbe anche riconoscere che l’Esercito jugoslavo aveva il diritto e l’autorità di fare prigionieri i militari nemici e di arrestare i presunti criminali di guerra per sottoporli a processo, così come fecero gli eserciti delle altre nazioni alleate. E quindi crollerebbe anche tutta la costruzione dei crimini jugoslavi rivolti contro gli innocenti italiani.

Altro punto interessante è che il diritto di conquista militare viene riconosciuto per l’Italia che aveva annesso i territori occupati militarmente dopo la prima guerra mondiale, anche quelli dove non vivevano italiani; mentre lo stesso discorso non sembra valere per la Jugoslavia, che anzi a seguito del Trattato di pace rinuncerà a zone che aveva conquistato militarmente.

Persichetti poi parla della partenza dall’Istria e della miseria dei campi profughi: “pensi che voleva di’ passà da una casa magari co vista mare… ad un casermone di cemento armato in periferia o a un ex campo di concentramento!”, dice al suo superiore romano. I campi profughi non sono mai piacevoli, è vero, è così è una tragedia quella della bambina morta di freddo nel comprensorio di Padriciano, ma si rende conto il narratore di quanti italiani in Italia, nell’immediato dopoguerra, avrebbero fatto firme false per avere un appartamento in un “casermone di cemento armato in periferia” invece di continuare a vivere nelle baracche o negli appartamenti privi di servizi igienici che erano la norma e non l’eccezione a quei tempi? Non tutti gli esuli istriani abbandonarono la “casa con vista mare” (ed anche questa spesso era un appartamentino privo di tutto) ma provenivano da condizioni di vita di miseria, come la maggior parte della popolazione d’Europa prima del boom economico e dopo essere uscita da una guerra disastrosa.

Si passa poi all’elenco di una serie di esuli “diventati famosi”, tra cui Alida Valli (che però viveva a Roma già prima della guerra, dato che Cinecittà si trovava lì e non a Pola, ma questo particolare evidentemente è sfuggito agli autori); una canzoncina è dedicata ai “rimasti”, descritti come disprezzati da tutti, ma alla fine “ancora italiani” com’erano sempre stati (altra contraddizione che non pare preoccupare gli autori: se vi furono dei “rimasti” e “rimasti italiani” vuol dire che non si era “svuotata una regione intera”, che non si aveva paura di parlare italiano, che non c’era alcuna manovra politica per far andare via gli italiani dall’Istria).

Alla fine arriviamo all’altro momento bassissimo dello spettacolo, quando Persichetti, dirigendo il coro dei bambini, prende in giro gli operai che da Monfalcone si erano recati in Jugoslavia per dare una mano a ricostruire le infrastrutture distrutte durante la guerra e per partecipare alla realizzazione di una società socialista dopo vent’anni di fascismo. Alcuni di essi rimasero vittime dello scontro tra Tito e Stalin, quando molti filosovietici (che erano però per la maggior parte jugoslavi, e molti dei quali avevano commesso omicidi ed attentati contro il proprio governo) furono internati nell’isola di Goli Otok. Si tratta indubbiamente di una pagina buia della storia jugoslava, che però avrebbe dovuto essere affrontata diversamente, proprio per la sua tragicità, e non mediante lo spregio di coloro che avevano creduto in un ideale e coerentemente avevano cercato di realizzarlo.

Infine il burino Persichetti dice allo Spirito delle masserizie che giocherà al lotto il numero 18 (spiegando che nella Smorfia tale numero significa “sangue”, sempre per emozionare il pubblico?) e che lui archivia tutto, tranne una lettera inviata alla figlia del proprietario di alcuni mobili rinvenuti, la quale aveva chiesto notizia delle masserizie dei suoi genitori che non li avevano mai “reclamati indietro”. Il che dovrebbe stroncare tutto il plot su cui si basa questo spettacolo: i mobili sono stati abbandonati dagli stessi proprietari, evidentemente perché non ne avevano più bisogno o sarebbe stato troppo complicato farseli mandare nel luogo in cui erano andati a vivere.

Cosa del resto confermata da Piero Delbello in un articolo apparso sul Piccolo del 24 gennaio scorso: nel Magazzino 18 sono conservate “più o meno la metà delle cose che arrivarono subito dopo la guerra dall’Istria, ma che negli anni successivi dalle Prefetture di più città d’Italia continuarono a essere inviate nel capoluogo giuliano. Fatte arrivare dalle varie ditte di spedizioni nelle località di destinazione delle famiglie che ne erano proprietarie, in più casi rimasero nei depositi. Senza che nessuno più le reclamasse. E dunque furono fatte infine convergere in Porto Vecchio, dove oggi occupano una parte del primo piano del 18”.

In pratica si tratta di oggetti che agli esuli (od optanti che dir si voglia) una volta giunti nella città di destinazione, non interessava di conservare, per cui li hanno abbandonati. Cosa comprensibile per i mobili, che forse non potevano trovare posto nelle nuove case consegnate, ma perché non reclamare almeno gli oggetti di famiglia, le fotografie, i quaderni? Quale valore simbolico si vuole attribuire a delle che sono state abbandonate perché i loro proprietari se ne sono disinteressati, non sequestrate né rapinate; e con quale sentimento questo materiale viene paragonato ai magazzini dove venivano accatastate le cose rubate ai prigionieri assassinati ad Auschwitz?

Alla fine di tutto si parla delle vittime dell’una e dell’altra parte, e l’autore conclude “io non ho un nome ma potrei averne milioni. Come i profughi di tutto il mondo, costretti a lasciare la propria terra, per sfuggire alla povertà, all’odio, alla guerra”.

Ecco, se Cristicchi fosse partito da queste due belle, significative frasi, ed avesse parlato delle tragedie degli esodi, di tutti gli esodi, senza pretendere di fare storia su un evento specifico (asserendo peraltro di non volerla fare), avrebbe potuto realizzare uno spettacolo di indubbio interesse, emozionando (in questo caso positivamente) e coinvolgendo lo spettatore. Invece il risultato di questa sua ambizione ha prodotto uno spettacolo di propaganda, in quanto il suo intento di creare emozione è degenerato nel voler creare piuttostosuggestione, fornendo agli spettatori dati falsi da cui trarre conclusioni errate.

Come opera di propaganda Magazzino 18 è indiscutibilmente riuscito molto bene: ma per chi come noi ha studiato e conosce la storia di queste terre, vederla stravolta in questo modo allo scopo di denigrare il movimento internazionalista ed antifascista jugoslavo, è francamente intollerabile; ed inoltre, considerando il modo in cui è stato sponsorizzato, a livello mediatico, questo spettacolo, fa sorgere il dubbio che si tratti di un’operazione studiata a tavolino che può rivelarsi molto pericolosa per gli equilibri delicati del confine orientale.

Le citazioni sono tratte da “Magazzino 18 di Simone Cristicchi, regia di Antonio Calenda, testo completo dello spettacolo + CD”, I Quaderni del Teatro, edizioni Il Rossetti – Promo Music, Trieste dicembre 2013.

Claudia Cernigoi

31 gennaio 2014


BIBLIOGRAFIA.

CERNIGOI Claudia, Operazione foibe tra storia e mito, Kappa Vu 2005.

COLUMMI Cristiana (e altri), Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste, 1980.

CONTI Davide, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” 1940-1943,Odradek 2008.

GOBETTI Eric, L’occupazione allegra, Carocci 2007.

MICHIELI Roberta – ZELCO Giuliano, Venezia Giulia la regione inventata, Kappa Vu 2008.

PIRJEVEC Jože, Foibe, Einaudi 2010.

PURINI Piero, Metamorfosi etniche, Kappa Vu 2010.

SCOTTI Giacomo, Goli Otok, LINT 1991.

VOLK Alessandro, Esuli a Trieste, Kappa Vu 2004.





CLAMOROSO! 

A Como la giunta di centrosinistra ha revocato all'ANPI e all'Istituto di Storia Contemporanea la concessione della sala della Circoscrizione per una iniziativa dedicata alla Giornata della Memoria dell'Olocausto - 27 gennaio - cedendo alle intimidazioni dell’organizzazione di estrema destra Militia.

Alessandra Kersevan vi era stata invitata a parlare dei lager fascisti italiani.

L'INIZIATIVA SI TERRA' COMUNQUE DOMANI IN UNA DIVERSA SALA:
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Lager italiani, pulizia etnica e campi di concentramento fascisti: incontro con Alessandra Kersevan

La sezione Anpi “Perugino Perugini” di Como, in collaborazione con l’Istituto di storia contemporanea Pier Amato Perretta,  è lieta di invitarvi alla

CONFERENZA PUBBLICA
con la ricercatrice storica 
Alessandra Kersevan
autrice del libro
LAGER ITALIANI
pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943

l'incontro si terrà
sabato 1° febbraio 2014 ore 15.30
[…]

Tra il 1941 e l’8 settembre del 1943, il regime fascista e l’esercito italiano misero in atto un sistema di campi di concentramento in cui furono internati decine di migliaia di jugoslavi: donne, uomini, vecchi, bambini, rastrellati nei villaggi bruciati con i lanciafiamme. Lo scopo di Mussolini e del generale Roatta, l’ideatore di questo sistema concentrazionario, era quello di eliminare qualsiasi appoggio della popolazione alla Resistenza jugoslava e di eseguire una vera e propria pulizia etnica, sostituendo le popolazioni locali con italiani.
Alessandra Kersevan, grazie al suo percorso di ricerca storica è in grado oggi di illustrare la realtà del sistema repressivo fascista, spesso allo stesso livello, in termini di brutalità, del ben più indagato sistema concentrazionario nazista.


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Comunicato stampa/Incontro con Alessandra Kersevan

L’incontro con Alessandra Kersevan trasferito al Salone Bertolio in via Lissi dopo che il sindaco Mario Lucini ha negato l’uso della Circoscrizione n. 1 a seguito delle pretestuose proteste dell’organizzazione di estrema destra Militia

L’incontro con la storica Alessandra Kersevan, organizzato dalla sezione di Como dell’ANPI e dall’Istituto di Storia Contemporanea “Pier Amato Perretta” per domani sabato 1° febbraio alle ore 15.30 è stato spostato al salone Bertolio in via Lissi 6 (sopra la Cooperativa) dopo che nella tarda mattinata di oggi, venerdì 31 gennaio, il sindaco di Como, Mario Lucini, ha ritirato il permesso all’uso della sala della Circoscrizione, già concessa nei giorni precedenti, in seguito all’intervento dell’organizzazione di estrema destra Militia che sulla sua pagina fb ha definito la Kersevan “nota per lo spiccato negazionismo che la contraddistingue sul dramma delle Foibe”.
Com’è evidente dal programma, l’incontro non era centrato sulle foibe, ma sulle responsabilità del fascismo italiano riguardo alla persecuzione delle popolazioni jugoslave nel periodo dell’occupazione nazifascista. I lavori di approfondimento storico di Alessandra Kersevan non hanno mai negato il fenomeno delle foibe, ma si sono rivolti a cercare di ricostruire le reali dimensioni e le ragioni di tali tragici fatti, spesso usati a puri fini propagandistici senza alcun rapporto con la loro reale drammaticità.
Senza ragione, il Comune di Como ha fatto propria un’accusa irriguardosa del serio lavoro di approfondimento che la studiosa e le organizzazioni promotrici svolgono su questi temi da molti anni, come hanno riconosciuto pubblicamente anche alcuni esponenti – quelli meno ideologicamente prevenuti – dei profughi giuliano-dalmati.
L’unica possibile spiegazione di questa grave decisione è una sorta di “parità di trattamento” tra le associazioni antifasciste e quelle filofasciste e filonaziste cui nei giorni scorsi non era stato concesso l’uso della circoscrizione di Camnago Volta per un incontro celebrativo di un esponente del nazismo!
Per rispetto alle drammatiche vicende che intorno al “confine orientale” ebbero luogo negli anni prima e dopo la seconda guerra mondiale e la fine del fascismo, le organizzazioni promotrici dell’incontro hanno deciso di mantenere l’appuntamento, spostandolo al Salone Bertolio, e rivolgono l’invito di partecipazione a tutta la popolazione.

Associazione Nazionale Partigiani d’Italia - sezione di Como "Perugino Perugini"
Istituto di Storia Contemporanea “Pier Amato Perretta” di Como



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Il Sindaco Pd di Como si arrende alle richieste di Militia

L’incontro con la storica Alessandra Kersevan, organizzato dalla sezione ANnpi di Como e dall’Istituto di Storia Contemporanea “Pier Amato Perretta” (sabato 1° febbraio ore 15.30) ha subito un forzato trasloco. Si svolgerà nel salone Bertolio (vicino alla sede di Rifondazione Comunista) dopo che oggi 31 gennaio il sindaco Pd di Como, Mario Lucini, ha ritirato il permesso all’uso della sala della Circoscrizione 1 concessa nei giorni precedenti, in seguito all’intervento dell’organizzazione di estrema destra Militia che sulla pagina Facebook ha definito la Kersevan “nota per lo spiccato negazionismo che la contraddistingue sul dramma delle Foibe”.
L’incontro non è centrato sulle foibe, ma sulle responsabilità del fascismo italiano nelle persecuzioni delle popolazioni jugoslave durante l’occupazione nazifascista. I lavori di approfondimento storico di Alessandra Kersevan non hanno mai negato il fenomeno delle foibe. 
Senza ragione, il Comune di Como ha fatto propria l’accusa irriguardosa del serio lavoro di approfondimento che la studiosa e le organizzazioni promotrici svolgono su questi temi da molti anni, come per altro hanno riconosciuto pubblicamente anche alcuni esponenti dei profughi giuliano-dalmati.
L’unica possibile spiegazione che potrebbe arrivare dall’amministrazione PD-SEL-liste civiche di Como per giustificare questa gravissima decisione è una sorta di “parità di trattamento” tra le associazioni antifasciste e quelle filofasciste e filonaziste cui nei giorni scorsi non era stato concesso l’uso di una Circoscrizione per un incontro celebrativo di un esponente del nazismo!
Per rispetto alle drammatiche vicende che intorno al “confine orientale” ebbero luogo negli anni prima e dopo la seconda guerra mondiale e la fine del fascismo, le organizzazioni promotrici dell’incontro hanno deciso di mantenere l’appuntamento, spostandolo al Salone Bertolio. Rifondazione Comunista di Como solidarizza con Anpi e Istituto di Storia Contemporanea “Pier Amato Perretta”, stigmatizzando il comportamento della Giunta comunale di Como.

Guido Capizzi

in data:31/01/2014





Iniziative segnalate

- BRUGHERIO (MB) 30 GENNAIO: “ERAVAMO IN TANTI“. Diario partigiano di Eros Sequi

- MEL (BL) 1 FEBBRAIO: Inaugurazione mostra "TESTA PER DENTE". Esposizione fino al 9 febbraio

- VASTO (CH) 1 FEBBRAIO: PARLIAMO DI FOIBE


=== BRUGHERIO (MB), 30 GENNAIO ===

Giovedì 30 Gennaio 2014
alle ore 21,00, presso il Lucignolo Cafè - Piazza Togliatti, 11, Brugherio (MB)

L' Angolo del Lettore ”Augusto Daolio” e l’Associazione Culturale “Il Lucignolo”, in collaborazione con l'A.N.P.I. Provinciale di Monza e Brianza con il patrocinio del Comune di Brugherio hanno il piacere di invitarLa alla presentazione di:

“ERAVAMO IN TANTI“
Diario partigiano di Eros Sequi

Questa sera al Lucignolo è di scena la storia, presenteremo infatti il libro, rieditato dall'Associazione Cultural Box, “eravamo in tanti” diario partigiano di Eros Sequi combattente nell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo durante la Resistenza.

Ne parleranno
Luigi Lusenti, scrittore e giornalista, curatore del Libro 
Carlo Cifronti dell’Anpi provinciale di Monza e Brianza.

Dalla nota del curatore del libro:

la storia di Eros Sequi è la storia di tanti italiani che restarono a vivere in Jugoslavia per costruirvi il potere popolare. Le cose andarono poi diversamente e per questi uomini si costruì una storia silenziosa, di cui poco si sa e che invece, insieme alle ragioni di chi fece una scelta opposta – i trecentomila italiani dell’esodo –potrebbero aiutarci moltissimo, a ricostruire, fuori da fanatismi di parte, non tanto una verità univoca, ma comprensioni e ripensamenti su quello che è stato il secolo delle grandi illusioni” 

La Sua partecipazione sarà particolarmente gradita. Si ringrazia per una conferma. 

“IL CAFFÈ LETTERARIO” 
LUCIGNOLO CAFE'
Piazza Togliatti, 11, Brugherio (MB)
tel 0395251261, mobile 3493047796 lucignolocafe@...
www.comune.brugherio.mb.it 

Lucignolo Cafè è un locale no-slot aderente a www.senzaslot.it




=== MEL (BL), 1 FEBBRAIO ===

Mel (Belluno), 1 febbraio 2014
ore 17:30, presso: Palazzo delle Contesse

INAUGURAZIONE DELLA MOSTRA "TESTA PER DENTE"

con gli interventi di:
PAOLO CONSOLARO    Curatore della mostra
DARIO MATTIUSSI    Relatore del Centro isontino di ricerca “Leopoldo Gasparini”

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ESPOSIZIONE DELLA MOSTRA FOTOGRAFICA E DOCUMENTALE

“TESTA PER DENTE” – L’OCCUPAZIONE ITALIANA DELLA JUGOSLAVIA 1941-1943

A MEL (BL)- PALAZZO DELLE CONTESSE – DALL’1 AL 9 FEBBRAIO 2014

INAUGURAZIONE: SABATO 1 FEBBRAIO 2014 – ORE 17.30

Interventi:

PAOLO CONSOLARO    Curatore della mostra

DARIO MATTIUSSI    Relatore del Centro isontino di ricerca “Leopoldo Gasparini”

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Orari:

da lunedì a venerdì dalle 18 alle 20

sabato e domenica dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 19

INGRESSO LIBERO




=== VASTO (CH), 1 FEBBRAIO ===

Vasto (CH), sabato 1 febbraio 2014
ore 17.30 presso SALA CONFERENZE EX PALAZZI SCOLASTICI
C.so Nuova Italia (a ridosso di Piazza Rossetti)

Contro il revisionismo storico e neo-irredentista, l'Anpi di Vasto, con il patrocinio del Comune di Vasto, organizza un incontro-dibattito con
CLAUDIA CERNIGOI, giornalista triestina, autrice dell'importante ricostruzione storica "Operazione foibe. Tra storia e mito":

PARLIAMO DI FOIBE. In difesa della memoria antifascista.

Come ogni anno, a ridosso del 10 febbraio nascono iniziative tese a mettere sullo stesso piano Shoah e foibe, alimentando l'ideologia irredentista e revisionista.
L'incontro non avrà il carattere di "negazionismo delle foibe", ma di ricostruzione storica tesa a dimostrare, prove alla mano, che - come afferma Claudia Cernigoi - "sulla questione delle foibe sono state dette tante falsità e che queste falsità sono diventate una 'leggenda metropolitana', un 'mito', che vengono utilizzate in chiave antipartigiana" e neo-irredentista.
Alla luce dei materiali d'archivio che Claudia Cernigoi ha analizzato, si può dimostrare che nessuna politica di sterminio o pulizia etnica è stata condotta da parte dei partigiani jugoslavi contro gli italiani.





(english / italiano)

Usare le parole giuste nella Giornata della Memoria

1) Marco Rovelli, Moni Ovadia, Idea Rom Onlus: Una parola giusta per lo sterminio dei Rom
2) Tatiana Sirbu: The Deportation of Roma to Transnistria


=== 1 ===

Sullo stesso argomento: 
La memoria che verrà - di Jovica Jović
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Sterminio dei rom, cerchiamo un’altra parola

sabato 25 gennaio 2014

di Marco Rovelli e Moni Ovadia 
per il Fatto Quotidiano 

Il Giorno della Memoria è stato istituito nel giorno in cui 69 anni fa i soldati dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli del lager di Auschwitz e vi entrarono rivelandone l’orrore. E sacrosanto è stato aver stabilito un giorno in cui ricordare quell’abisso incancellabile. Ma, come per ogni ritualizzazione, quella ferita sanguinante si scontra con il rischio della museificazione da una parte e della falsa coscienza dall’altra. Le attività e le manifestazioni di questa Giornata riguardano in maniera soverchiante la shoah, ovvero lo sterminio degli ebrei, al punto da oscurare quasi gli eccidi e le sofferenze subite dalle altre vittime della ferocia nazista: i rom, gli omosessuali, i menomati, gli antifascisti a vario titolo, i testimoni di Geova, gli slavi, i militari italiani che rifiutarono di servire il governo fantoccio di Salò. Ricordare l’unicità della shoah non può essere l’alibi per dimenticarsi degli altri. I rom, in particolare, sono stati per lunghissimo tempo misconosciuti nel loro status di vittime: e se oggi non c’è quasi un politico occidentale che non voglia mostrarsi amico degli ebrei e soprattutto degli israeliani, quasi nessuno di essi è disposto ad identificarsi con i rom. Nessuno dei rappresentanti politici dei paesi occidentali ha il coraggio di uscire da una visita al lager di Auschwitz dichiarando: “mi sento rom”; molti, però, si affrettano ad affermare: “mi sento israeliano”. Ora sia chiaro, nessuno vuole ignorare o sottovalutare lo specifico antisemita del nazifascismo e sminuire l’immane dimensione della Shoah. Ciò che è inaccettabile è il deliberato sottacere delle sofferenze dei rom e dei sinti anch’essi destinati al genocidio. È intollerabile che si discrimini fra le sofferenze di esseri umani che subirono la stessa tragica sorte. I rom sono vittime secolari dell’occultamente della loro identità e della loro memoria, oltre che essere vittime di un’antichissima persecuzione. Essi non hanno terra, non hanno un governo potente che parli per loro, sono tuttora gli “zingari” reietti: perché mai dunque riconoscere piena dignità alle loro inenarrabili sofferenze? La cultura orale dei rom, del resto, diversamente dalla cultura ebraica fondata sulla Scrittura, ha facilitato il compito della dimenticanza: non c’è stato che un soffio di vento, niente più che questo, nulla che sia conservato e degno di conservazione. Solo con fatica si è imposto il nome dello sterminio nazista dei rom: Porrajmos. Il merito di questo va al grande intellettuale rom inglese Ian Hancock, linguista e fra le altre cose rappresentante del popolo rom presso le Nazioni Unite. Il termine “Porrajmos”, nella lingua di alcuni romanì, “devastazione”. Ma la lingua romanes ha molte articolazioni, corrispondenti alla disseminazione dei suoi numerosissimi gruppi e sottogruppi: perciò capita che un significante abbia significati diversi per diversi rom. Da Jovica Jovic, grande fisarmonicista rom serbo, abbiamo appreso che quel termine, nel “suo” romanes, ha un significato sessuale osceno. Così per Jovica quel termine è inusabile, e offensivo: impossibile per lui ricordare i suoi zii morti ad Auschwitz con quel termine. Una vicenda paradossale, questa, direttamente legata alla dispersione e alla secolare marginalizzazione e inferiorizzazione dei rom. Per rispetto nei confronti dei rom come Jovica crediamo dunque che dovremmo cominciare a trovare un altro termine, che non sia l’ennesimo affronto alla memoria proprio là dove la memoria dovrebbe essere sacralizzata e conservata. Samudaripen è il termine alternativo che molti rom propongono: significa “tutti morti”, e non ha implicazioni imbarazzanti per nessuno. Domani le associazioni 21 luglio e Sucar Drom hanno organizzato un convegno a Roma intitolato proprio Samudaripen: può essere un buon inizio, per avere finalmente un nome, e un nome giusto, per l’Orrore dimenticato.

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Idea Rom Onlus

PORRAJMOS o SAMUDARIPEN

Il termine Porrajmos ha un significato controverso nelle numerose varianti della lingua Romanì. Alcuni rifiutano il termine Porrajmos a causa del significato della parola tra i Rom Kanjaira e, a sfumare, in altre comunità provenienti dai balcani. Ma fra le altre comunità Rom, anche provenienti dai balcani e coesistenti negli stessi territori dei Kanjaira, il significato si diversifica in tante direzioni: aprire, strappare, stuprare, divorare mostrano i denti, sbadiglio, abbagliamento, fissare, urlare, imbrogliare , piantare la tenda, lacerare, spalancare gli occhi o la bocca, forza smisurata e violenta, divorare, aprire gli occhi, aprire la bocca, apertura, seduta con le gambe sui fianchi, violentare, disturbare, ampliamento di un'apertura, libertà, accesso, allungare, allargare, estendere, fagocitare... Il termine è stato contestato a causa di alcuni possibili significati, in particolare per il suo uso come un eufemismo per "stupro". Ma questa ulteriore interpretazione , insieme a "gridare" e "bocca aperta" e "strappare a pezzi", aggiunge semplicemente forza al significato simbolico della parola, per quello che il genocidio ha fatto al nostro popolo. Ora abbiamo quattro parole diverse per l'Olocausto dei Rom, ma questo è abbastanza in linea con l'imprecisione complessiva sui Rom in generale, una vaghezza a cui noi stessi stiamo contribuendo. Tuttavia, il riconoscimento internazionale e l'uso della parola Porrajmos si sta diffondendo. Google ha oltre 80.000 voci di testo per Porrajmos / Porraimos / Porraimos / Poraimos e migliaia di immagini. La parola Porrajmos, per quanto controversa, ha dato un'identità e un nome al più tragico evento in tutta la nostra storia. Ovviamente non sappiamo se in futuro sarà ancora questa o un'altra parola a descriverlo ma, per il momento, crediamo che la priorità sia impegnarci per il riconoscimento, la memoria e la lezione di quei tragici eventi.


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January 23, 2014

DEPORTATION OF ROMA TO TRANSNISTRIA

In the 40s all of sudden so called “Gypsy issue” was raised in Romania. It had nothing to do with the traditional attitude of Romanian authorities to this population. From the day of their liberation from slavery in the middle of the XIXth century up to the time when regime of Antonescu came to power Gypsies did not enjoy any special attention of any government. Thus, this “Gypsy issue” refers primarily to evolution of Romanian nationalism and modification of political order of Romania in the political context of 1940, and on the other hand this was an influence from the West, where back at the beginning of the 30s deportations to concentration camps began and severe repressive measures were applied as a result of deepening of racist prejudices, of so called “Gypsy issue”.

This situation began in 1929 with the enactment of a law stipulating certain limitations for Roma including freedom of movement of specially equipp
ed carts and caravans, forcing young people who have reached the age of 16 and are not working anywhere to work for two years in internment camps.

Later, when Hitler came to power in 1933 these measures became more stringent. In the country the main slogan of which was Arbeit macht frei (“Work makes a person free”), any person without documents could be announced a parasite. Therefore Roma, who could not confirm their German nationality were deported from the country. Soon concentration camps were opened and among their prisoners who were the enemies of the regime Jews and Roma were also kept there as criminals.

If real measures were taken against Gypsies in pre-war Hitlerite Germany, only some attempts of scientific analysis of relations between Romanians and national minorities were made at that time in Romania. This approach was based in biopolitics researches of other countries, especially of German science. Later this scientific area became an autonomous part of such subjects as biopolitics and eugenics. The basis for biopolitics was laid by Cluj professor Iulie Moldovan.

On the basis of this particular point of view the “Gypsy issues” was reviewed in Cluj Institute of Social Hygiene representatives of which are actually the “authors” of this notion. They are the authors of such notions as “ethnic purity”, “lower race”, “mixed ethnos”. They believed that there were national minorities in Romania that caused “bioethnic danger”, so called “minorities of non-European origin” or “ballast-minorities”, such as Gypsies, Jews and others.

With certain decisiveness it was stated that “the Gypsy issue” was completely resolved by the political regime proclaimed when general Ion Antonescu came to power, when Romania joined political and ideological orbit of Hitlerite Germany. Since then measures against people speaking different languages were transformed into the state policy.

Ion Antonescu was that very person who raised the issue on the measures against Gypsies at the sitting of the Government on February 7, 1941. After one inspection in Bucharest when he revealed gross violations of the way the city is disguised he required deportation of all Gypsies from the city. This was the beginning of the policy of Antonescu’s regime towards the Gypsies.

As Ion Antonescu declared at the court trial held in 1946 deportation of Gypsies to Transnistria was carried out at his personal order. It is worth mentioning that not a single order of Antonescu concerning Gypsies was signed by him or was officially published. These were oral instructions to the ministers and to the General Inspection of Gendarmerie. Antonescu was closely tracking how his orders were executed, so the policy towards the Gypsies carried out in Romania and Bessarabia during the war times can be considered as creativity of Antonescu himself.

As we have already mentioned the most important part of Antonescu’s policy towards the Gypsies was their deportation to Transnistria in summer and early autumn of 1942. 25 thousand Gypsies were deported to Transnistria, all nomadic Gypsies and some of settled Gypsies.

If we want to understand why Gypsies and Jews were deported to the territory between the Dniester and the Bug rivers which before its occupation by German and Romanian armies in 1941 was the Soviet territory, it should be mentioned that Adolph Hitler and Ion Antonescu exchanged letters and German-Romanian agreement was signed in Tighina on August 30, 1941 in conformity with which this territory fell under administration of Romania and the final status of the territory was to be decided after the war. Romanian administration of Transnistria headed by Gheorghe Alexeanu was dealing with economic and social life of this territory. This administration ruled until January 29, 1944 when it was changed by a military administration because of the developments at the front. Transnistria became the place where in 1941 and 1944 Romanian authorities were deporting Jews of Bessarabia and Bucovina, as well as the Gypsies living in the country.

We will speak about the Gypsies deported from Bessarabia to Transnistria. This issue has not been studied in a single special research. We shall make an attempt to tell about these events on the basis of archive materials and to complete the real picture of Bessarabian Roma deportation to Transnistria.

Basing on the analysis of these materials Roma deportation to Transnistria can be divided into several stages. During the first stage that lasted from June 1 to August 15, 1942 there were deported nomadic Gypsies and those who were causing difficulties. For instance, from June 1 to August 1, 1942 135 persons (4 tents) were deported from urban and rural territories of Chisinau inspection [6] and 33 person, including 19 women and 11 men from Balti region.

At the second stage (from September 12 until early October of 1942) settled Gypsies qualified as extremely dangerous and without any employment were deported. Deportation of settled Gypsies was going on in all Bessarabian inspections – Chisinau, Balti, Cahul, and Orhei.

During this period dangerous and unemployed Roma were deported. For instance, 51 persons – 14 women, 16 men and 21 children were deported from Cahul and Leova regions. We do not know whether there existed lists of the Gypsies dangerous for public order and unemployed Roma in other regions [2, file 552].

We only know about the records that were kept about the Gypsies who were in prisons at that moment, but these people were not deported as they could avoid deportation measures that had been carried out before.

But when they were freed from the prison and those who ran away during deportation were caught an authorization for their deportation to Transnistria was requested from the Main Department.

We believe it is important to mention that certain law enforcement bodies (gendarmerie and police) were intimidating other categories of Roma not subject to deportation to Transnistria with the aim of obtaining certain material benefits as a result of confiscation of the property owned by Roma. [1, file 121].

This can explain the fact that later the ministry and the Council of Ministers received a large number of complaints that many Gypsies were deported in violation of the established procedure and that the lists were not drawn up accurately and thoroughly. Later there was expected retrial of certain cases especially of the families of the Gypsies who were at the front. Implementation of these measures required additional transportation costs and authorities were very unhappy about that. [1, file 258].

From the same document we can find out that other complaints forwarded to the Ministry of Internal Affairs were simply not reviewed and general explanation was given that in each particular case deportation was carried out by mistake or at the request of the people being deported.

At certain stage the Ministry found itself in such situation when it had to return all the Roma and Jews back to their homes, as the latter managed to establish certain connections and demanded the right to be returned home.

In conformity with the order of Chisinau regional police inspectorate Nr. 20371 of September 3, 1942 wired to Balti local police it was necessary to select all local Roma. There were found 24 Roma men who hade previous convictions for various offences and crimes, others were deemed dangerous elements and persons without permanent employment as they were making their living by thefts and other types of fraud [3, file 596].

Thus, 51 persons (both men and women) with 63 children were gathered. Their deportation was organized by Balti Gendarmerie Inspection. On September 15, 1942 they were put into three railroad cars at Balti-Slobodzeia station for further transportation to Transnistria. Property of the deported people was confiscated and transferred to the Property Administration of Balti.

In accordance with the same wire order Nr. 20371 of September 3, 1942 to Ismail local police (Nr. 10371) Roma of this region were to be deported. 44 Gypsies dangerous for public order (16 families) were transferred to the gendarmerie legion on September 5, 1942 [4, file 61].

No instruction on finding and deportation of previously convicted Gypsies was made to this region. Therefore it was not specified what particular categories of Roma must be deported to Transnistria. In other words, assumption that the first category of Roma is dangerous for the public order is not justified, especially if we take into consideration that not only people with previous convictions were deported, but also innocent people, women and children.

List of Roma subject to deportation to Transnistria can serve as convincing example here. For instance, five families were deported from Chisinau region, 16 families (52 persons) from Cahul region, 1 family (2 persons) from police station in Chilia Noua [4, files 61-67].

During the third stage which began after October 13, 1942 (on this date the Council of Ministers made decision on refrain from new deportations) only few Roma were deported to Transnistria, primarily those who avoided summer deportation.

Settled Roma were deported three months later, except for several categories, such as mobilized both at front and at the enterprises executing orders for the front, invalids of war and their close relatives. As far as the mechanism of the orders execution, the information on deportation of nomadic Roma from capital can be considered the most precise one.

As we have already mentioned, some of the people deported at the second stage reached Transnistria because they were not aware of the ministerial order on their liberation from deportation. As a result in the course of the last months of 1942 and at  he beginning of 1943 many Roma who found themselves in such situation and filed written solicitations were returning home.

At the same time many Roma who did not fall into the category of the persons subject to deportation, concealed their previous convictions either with the aim of joining their relatives, or believing that in Transnistria their situation could be better than at home. The Ministry of Internal Affairs set up three commissions that were reviewing their complaints in Transnistria, but each time the authors stated that they had written absolute truth. But since they did not provide any documents in confirmation of their declarations the General Gendarmerie Inspectorate required new field inspection.

In many cases the General Gendarmerie Inspectorate allowed servicemen to visit their families deported to Transnistria, covered their transportation expenses, but did not allow to return home for the simple reason that they allegedly did not request that. Solicitations of Roma were still reviewed by the authorized bodies until March 1943.

For example order Nr. 20771 of January 20, 1943 instructed that no deportations were to be carried out because of typhus epidemic in Transnistria. Later order Nr. 71265 of February 18, 1943 issued by the same department instructs that all solicitations to return from Transnistria shall not be reviewed.

Archive materials do not contain any information about deportation of Roma to Transnistria from such regions as Orhei, Soroca and Tighina. In this respect we have our own assumptions made on the basis of archive researches.

In several documents drawn up soon after the establishment of the Soviet power in this territory we have read that in the village of Cosuati, Soroca region, two pits of different sizes were discovered, the first one is 6 meters wide, 4 meters long and 3 meters deep and another one is 7 meters long, 9 meters wide and 3 meters deep. 20 skeletons were exhumed from the area of 1,28 m2 [5, fund 67]. At the depth of 3 meters 10-12 levels of corpses were laid. According to rough estimations 6000 persons were buried there.

Similar case was registered in the village of Straseni where there were discovered 11 graves 2 meters long and 1 meter wide, and next to them another grave 5 meters long and 4 meters wide. The latter grave obviously became the place of shooting of a large group of civilians. According to estimations about 350 persons were shot there. It is presumed that this happened in July, 1942 [5, fund 63].

We can assume that Roma were also among those victims and thus we can explain lack of lists of Roma of Soroca and Orhei regions subject to deportation to Transnistria.

Orders of the Ministry of Internal Affairs do not provide for clear reasons that caused Romanian authorities to deport Roma. It is supposed that the order on their deportation is based on the idea that major part of Roma caused danger for the public order, especially during civil defence trainings, when Roma were stealing and committing other offences causing damage to state and private property. We do not know the number of Roma deported during the first two stages, but we have information from many regions about people deported to Transnistria in September of 1942. However we cannot be sure that this information is accurate and final.

Thus, the policy carried out by Ion Antonescu set up the lowest status for this category of population and later led to extermination of large number of Roma.

Historian Billing differentiates various types of genocide, such as genocide by means of reproduction prevention and alienation from children, genocide by means of deportation, genocide by means of homicide [7, page 146].

It is worth mentioning that Ion Antonescu chose the second type of genocide by violating human rights proclaimed in the Constitution of 1923.

Therefore the fourth decade of the last century became terrible for a great number of Roma. In November of 1940 at the recommendation of the Ministry of Health Care because of typhus epidemic the Ministry of Internal Affairs prohibited movement of nomadic Roma. Next year results of secret census showed that 208 700 Roma lived in Romania, these were the people who were considered to infect “Romanian race”. In 1942 a Royal decree was issued defining theft tendencies and criteria for Roma deportation. That decree had tragic consequences for Romanian Gypsies.

Instead of conclusions we would like to note that because this drama was not thoroughly studied it is not possible to completely restore the events preceding Roma Holocaust and to systematize statistic data about deportation of Bessarabian Roma to Transnistria.

By Tatiana SIRBU,
Master of History.

Notes:

1. National Archive of the Republic of Moldova (NARM), fund 679, list 1, file 7239.
2. NARM, fund 680, list 1, file 4473.
3. NARM, fund 680, list 1, file 4570.
4. NARM, fund 680, list 1, file 4578.
5. NARM, fund 1026, list 2, file 18.
6. Arhivele Statului, Bucuresti, fond Inspectoratul General al Jandarmeriei, dos. 147/1942.
7. Myriam Novich, Genocid: de la Auschwitz la Bug, //Rromanothan. Studii despre romi, 1997, vol. 1, nr.2.