Informazione

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=53&did=265

Pubblichiamo due proposte dell'On. Bulgarelli al Parlamento per:

1. l'abolizione del segreto sui documenti di Stato
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5972

2. un referendum per smantellare le armi nucleari e sulla NATO in Italia
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5971

Incontro nazionale a Roma il 17 novembre

Palazzo Marini, via del Pozzetto 158, ore16.00

In tutta Italia i comandi militari USA e NATO stanno procedendo
all'allargamento delle basi militari sottoponendo il territorio ad una
ulteriore militarizzazione. Alcune di queste basi ospitano armi
nucleari, in altre attraccano unità navali a propulsione nucleare. In
molte realtà locali sta crescendo la preoccupazione e l'insofferenza
per la presenza di queste strutture militari rese operative o
installate in base a protocolli segreti di cui il Parlamento o le
comunità locali non sanno nulla.

Giovedì 17 novembre, presso la Sala delle Colonne della Camera dei
deputati, a Palazzo Marini, Via del Pozzetto 158, saranno presentati
due progetti di legge a firma del deputato dei Verdi Mauro Bulgarelli.
Il primo (Pdl n. 5971) riguarda l'indizione di un referendum
consultivo sullo smantellamento degli armamenti nucleari presenti sul
territorio nazionale, teso a dare ai cittadini la possibilità di
esprimersi sull'opportunità di mantenere negli insediamenti militari
italiani e stranieri, nonché nei poligoni di tiro, a costi
elevatissimi per l'intera collettività, dispositivi nucleari che
comportano, per tipologia e caratteristiche intrinseche, un elevato
rischio per la popolazione, sia sotto il profilo ambientale che sotto
il profilo sanitario. Il secondo (Pdl n.6100), propone la
desecretazione automatica di tutti i documenti coperti da segreto di
stato la cui stipula risalga ad oltre 25 anni fa. Nel nostro paese,
infatti, poco o nulla si è fatto per garantire che i cittadini
potessero avere accesso reale alle informazioni, in particolare a
quelle che riguardano i rapporti e i patti di collaborazione stipulati
negli anni dal Governo italiano con altre nazioni o organismi
sovranazionali e a quelle inerenti le attività dei servizi di
sicurezza. La nostra storia recente dimostra che, proprio riguardo a
questi ultimi due temi, l'apposizione sistematica del segreto di Stato
ha inciso negativamente sia sui rapporti tra l'opinione pubblica e
l'esecutivo – come dimostra la crescente ostilità di quelle
popolazioni costrette a convivere sul proprio territorio con basi
militari straniere insediate grazie a patti bilaterali segreti - sia
sull'accertamento della verità riguardo a una serie di tragici
avvenimenti che sconvolsero la vita del Paese negli anni settanta e
ottanta del secolo scorso, durante il periodo della cosiddetta «
strategia della tensione », e di cui ancora nulla si conosce per
quanto concerne le responsabilità e i ruoli ricoperti da apparati
dello Stato in seno alle trame eversive che segnarono quegli anni.

Il Comitato nazionale per il ritiro dei militari dall'Iraq da tempo è
impegnato affinché lo smantellamento delle basi militari e delle armi
nucleari diventi un punto centrale nell'iniziativa del movimento
contro la guerra. Con questo obiettivo invitiamo tutte le realtà a
partecipare attivamente all'incontro del 17 novembre per discutere
come gestire questi due progetti di legge sia a livello nazionale che
nei territori.

N.B: è necessario l'accredito e la giacca. Chi vuole partecipare
all'incontro deve far pervenire nome e cognome entro il 14 novembre a:
viadalliraqora @...; agorapi @...; bulgarelli_m
@... oppure telefonare e lasciare nome e cognome a 06-67608786

Comitato nazionale per il ritiro dei militari dall'Iraq

---
1. per l'abolizione del segreto sui documenti di Stato
---

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5972

Bulgarelli: "Abolire il segreto sui documenti di Stato"

di Atti parlamentari - Camera dei Deputati

su vari articoli online del 27/09/2005

CAMERA DEI DEPUTATI N. 6100

PROPOSTA DI LEGGE d'iniziativa del deputato BULGARELLI

Disposizioni in materia di desecretazione e accesso ai documenti di Stato

Presentata il 27 settembre 2005

Onorevoli colleghi! - il problema della trasparenza degli atti
amministrativi e di governo è da tempo al centro del dibattito
politico e istituzionale, in Italia come in altri paesi del mondo. Nel
nostro paese, tuttavia, poco o nulla si è fatto per garantire che i
cittadini potessero avere accesso reale alle informazioni, in
particolare a quelle che riguardano i rapporti e i patti di
collaborazione stipulati negli anni dal governo italiano con altre
nazioni o organismi sovranazionali e a quelle inerenti le attività dei
servizi di sicurezza. La nostra storia recente dimostra che, proprio a
riguardo di questi ultimi due temi, l'apposizione sistematica del
segreto di stato ha inciso negativamente sia sui rapporti tra
l'opinione pubblica e l'esecutivo –si veda, in particolare, la
crescente ostilità di quelle popolazioni costrette a convivere sul
proprio territorio con basi militari straniere di cui sono ignoti allo
stesso parlamento gli atti che all'indomani del secondo conflitto
mondiale portarono al loro insediamento –, sia sull'accertamento della
verità riguardo a una serie di tragici avvenimenti che sconvolsero la
vita del paese negli anni settanta e ottanta del secolo scorso,
durante il periodo della cosiddetta "strategia della tensione", e di
cui ancora nulla si conosce per quanto concerne le responsabilità e i
ruoli ricoperti da apparati dello stato in seno alle trame eversive
che segnarono quegli anni. Eppure sussistono tutti i motivi per
rendere finalmente di pubblico dominio la documentazione fin qui
secretata: da una parte, il contesto storico e geopolitico che portò
all'insediamento delle basi Usa e Nato sul territorio italiano è
radicalmente mutato con la fine della "guerra fredda" e della
contrapposizione tra i blocchi e, dall'altra, vi è tuttora la
necessità di fare piena luce su una serie di orribili stragi rimaste
impunite e di rispondere alla sete di verità e giustizia dei familiari
di coloro che ne rimasero vittime. Rendere pubblici tutti quei
materiali fin qui tenuti segreti sarebbe dunque un dovere morale,
prima che istituzionale, storico e giudiziario. In molti paesi, queste
stesse motivazioni hanno portato all'emanazione di specifiche
normative. Negli Stati uniti la legge che regola la declassificazione
dei documenti – il Freedom of Information Act (FOIA), o 5 U.S.C. § 552
– è stata introdotta nel lontano 1966. Essa stabilisce che qualunque
cittadino, americano o straniero, possa richiedere la
declassificazione di documenti che per motivi di vario genere non
siano ancora consultabili. L'amministrazione interessata è obbligata a
fornire una risposta che, nel 70% dei casi, è positiva. In caso di
risposta negativa, d'altra parte, è possibile ricorrere in appello
presso la stessa amministrazione, e spesso l'appello ribalta il primo
giudizio. Qualora l'amministrazione si rifiuti, anche dopo il ricorso
in appello, di declassificare un determinato documento, è prevista la
possibilità di citarla in giudizio. In questo caso il richiedente deve
sostenere le spese di una causa giudiziaria il cui esito, però, può
essergli favorevole: recentemente un istituto di ricerca privato, il
National Security Archive, ha ottenuto in questo modo il rilascio da
parte del Dipartimento di Stato di un'importantissima collezione di
documenti relativi alla crisi cubana del 1962 che i legali del
Dipartimento si erano rifiutati di rilasciare attraverso la normale
procedura prevista dal Freedom Information Act.
Alla fine del secolo scorso, le pressioni esercitate dalla comunità
degli storici e la fine della guerra fredda, spinsero il Congresso Usa
ad approvare una nuova legge, la Public Law 102-138 del 28 ottobre
1991, che ampliava il numero dei documenti suscettibili di
desecretazione e, successivamente, nell'aprile del 1995, il Presidente
Clinton emanò un Executive Order (E.O. 12958) che incentivava
ulteriormente la declassificazione dei documenti da parte delle varie
agenzie federali.
La nuova legge stabiliva, infatti, che, a meno che un documento non
appartenesse a una delle nove categorie specificamente elencate –
piani militari ancora validi riguardanti la sicurezza nazionale del
paese, informazioni concernenti i ruoli ricoperti da singole persone
all'interno dei servizi di intelligence, segreti aziendali,
commerciali e finanziari ottenuti in via confidenziale, dati sensibili
sulla situazione sanitaria dei cittadini o che comunque ne potessero
ledere la privacy, ecc. – ogni ente governativo fosse tenuto a
declassificare automaticamente entro l'aprile del 2000 (cioè entro
cinque anni dall'entrata in vigore dell'E.O.) tutta la sua
documentazione più vecchia di venticinque anni; inoltre ogni anno
ciascun dipartimento, o agenzia governativa, era tenuto a
declassificare una quota specifica dei suoi documenti ancora classificati.
E' importante sottolineare che queste normative si applicavano alla
stessa Cia (Central Intelligence Agency), della quale negli ultimi
anni è stata resa pubblica una mole enorme di documenti dell'OSS
ancora classificati, molti dei quali di straordinario valore storico e
politico. La Cia può rifiutarsi di divulgare documenti che contengano
materiale relativo alla sicurezza nazionale o alle fonti e agli
strumenti per la collezione dell'intelligence, ma è comunque tenuta a
rispondere alle domande rivoltele in base al Freedom of Information Act.
L'E.O. 12958, proprio in relazione alle esigenze di tutela della
sicurezza nazionale, lasciava alle varie amministrazioni ampia
discrezionalità nella valutare l'opportunità di divulgare un
determinato documento ma introduceva un principio fondamentale: la
desecretazione automatica, dopo 25 anni dalla loro emanazione, di
tutti i documenti da esse prodotti, a eccezione di quelli concernenti
le nove categorie sopra menzionate. Un lasso di tempo più che
ragionevole per far sì che tale divulgazione non pregiudicasse proprio
le esigenze correnti di sicurezza. Appare superfluo sottolineare
l'opportunità e i vantaggi che un simile criterio apporterebbe in sede
storica e di trasparenza istituzionale qualora fosse adottato anche
nel nostro paese. Sempre l' E.O. 12958 introduceva una vera e propria
"rivoluzione" nelle procedure di divulgazione dei documenti,
predisponendo con gli "Electronic Freedom of Information Act
Amendments" del 2 ottobre1996, voluti dal presidente Bill Clinton e
raccolti nella Public Law No. 104-231, 110 Stat. 3048, la
digitalizzazione e la messa in rete di tutti i documenti suscettibili
di desecretazione automatica.
Sempre più paesi nel mondo stanno adottando il Foia. Il 1 gennaio 2005
è entrato in vigore in Gran Bretagna il Freedom of Information Act
2000, che stabilisce nel Regno Unito il diritto dei cittadini a
richiedere e visionare i documenti conservati dagli uffici pubblici,
come quelli dei dipartimenti governativi, delle scuole, del servizio
sanitario, delle forze dell'ordine e delle autorità locali.
Anche in questo caso, ogni singolo cittadino privato, di qualsiasi
nazionalità e da qualsiasi Paese, potrà accedere a tutta una serie di
dati relativi ad esempio alle modalità con cui si sono fatte certe
scelte pubbliche o a come sono stati spesi alcuni fondi statali
semplicemente attraverso una richiesta scritta cui l'ufficio
destinatario darà risposta entro 20 giorni lavorativi.
Tra la documentazione che sarà oggetto di diffusione pubblica potranno
figurare atti istituzionali, attestati sulle prestazioni ospedaliere e
mediche, contratti pubblici, studi e ricerche in base ai quali si sono
operate delle scelte che hanno avuto peso nella vita dei cittadini, le
procedure di pagamento dei funzionari pubblici, in definitiva tutto
ciò che potrà avere un interesse pubblico.
Nel caso in cui non si potesse procedere alla pubblicazione
dell'oggetto della richiesta il rifiuto sarà debitamente motivato,
dimostrando che è maggiore l'interesse temporaneo a tenere riservata
l'informazione e a monitorare l'equità e la legittimità di questo
processo sarà l'ufficio dell'Information Commissioner che opererà di
volta in volta una specifica valutazione.
Per quanto riguarda la Germania, in questi mesi il Parlamento tedesco
ha completato l'esame in prima lettura della proposta di legge del 17
dicembre 2004 Freedom of Information, che dispone il diritto di
accesso pubblico ai documenti ufficiali della pubblica
amministrazione, senza dover dimostrare un interesse particolare
all'acquisizione dell'informazione.
La proposta di legge, che stabilisce altresì l'obbligo per gli uffici
pubblici a rendere pubblicamente disponibili on line una serie di atti
e documenti, prevede che le richieste vengano soddisfatte in modo
risoluto e veloce; solo in caso di procedure complesse si pone un
tempo limite di 2 mesi.
D'altra parte, su tutto il territorio europeo soltanto Cipro, Malta e
Lussemburgo non dispongono ancora di una legislazione sull'informazione.
In Italia, la situazione è confusa e, per certi versi, paradossale. La
legge dal titolo "Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi"
(legge 7 agosto 1990, n. 241), aveva innovato profondamente le regole
sul procedimento amministrativo e aveva introdotto il principio della
trasparenza e del diritto di accesso dei cittadini alle informazioni
che li riguardano. Essa è stata modificata molte volte e, da ultimo,
dalla Legge 11 Febbraio 2005 , n. 15 ("Modifiche ed integrazioni alla
legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione
amministrativa").
La legge 241, all'articolo 22, primo comma, recita: " Al fine di
assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne
lo svolgimento imparziale è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse
per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di
accesso ai documenti amministrativi, secondo le modalità stabilite
dalla presente legge".

Nulla di paragonabile al diritto di accesso imposto dal Freedom of
Information Act Usa, ma comunque un primo passo nella direzione della
pubblicità degli atti di governo. La norma, tuttavia, è stata
sistematicamente disapplicata da molte amministrazioni, anche col
pretesto della poi sopravvenuta normativa sulla tutela dei dati personali.
Ma è l'articolo 24 che vanifica, di fatto, la reale utilità di un
simile provvedimento, quando, al comma 1, recita: " Il diritto di
accesso è escluso per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi
dell'articolo 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, per quelli
relativi ai procedimenti previsti dal decreto-legge 15 gennaio 1991,
n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82,
e successive modificazioni, e dal decreto legislativo 29 marzo 1993,
n. 119, e successive modificazioni nonché nei casi di segreto o di
divieto di divulgazione altrimenti previsti dall'ordinamento".
Al fine di adeguare la nostra legislazione a gran parte di quelle
europee e internazionali, il presente progetto di legge propone di
rimuovere il segreto di stato gravante su tutti i documenti prodotti
dalle amministrazioni, dagli organi dello stato e dagli apparati di
sicurezza e di intelligence, una volta che dalla loro emanazione siano
trascorsi 25 anni, adottando un automatismo simile a quello previsto
dal Freedom Informaton Act Usa.


TESTO DELLA PROPOSTA DI LEGGE

Articolo 1
(Principi)

1. Al fine di promuovere la massima trasparenza nell'attività degli
organi dello stato e dei suoi apparati di intelligence e di sicurezza
nazionale e a integrazione di quanto disposto dalla legge 7 agosto
1990, n. 241 e successive modifiche, si prevede il diritto d'accesso,
per qualunque cittadino italiano o straniero che ne faccia richiesta,
a tutti i documenti fin qui coperti da segreto di Stato ai sensi
dell'articolo 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, per quelli
relativi ai procedimenti previsti dal decreto-legge 15 gennaio 1991,
n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82,
e successive modificazioni, e dal decreto legislativo 29 marzo 1993,
n. 119, e successive modificazioni, dalla cui redazione siano
trascorsi almeno 25 anni.
2. Rimangono coperti da segreto di stato esclusivamente quei documenti
la cui divulgazione possa arrecare attuale pregiudizio alla sicurezza
nazionale o possa ledere il diritto alla privacy di singole persone.

Articolo 2
( Responsabile del procedimento)

1. E' istituita un'apposita unità organizzativa, denominata
Commissione per la desecretazione degli atti di stato, responsabile
della istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché
dell'adozione del provvedimento finale.
2. La commissione è presieduta da un funzionario dello stato ed è
composta da due senatori e due deputati designati dai Presidenti delle
rispettive Camere, quattro funzionari pubblici, quattro docenti
universitari di ruolo in materie storiche e giuridico-amministrative,
quattro esponenti della società civile con funzioni di controllo e
garanzia. La Commissione è nominata con decreto del Presidente della
Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri,
sentito il Consiglio dei ministri.

Articolo 3
( Istruzione e modalità del procedimento)

1. E' riconosciuto a chiunque vi abbia interesse l'accesso a qualsiasi
documento prodotto da amministrazioni pubbliche, enti e organi di
sicurezza dello stato, la cui emanazione risalga ad almeno 25 anni
prima, senza che la sua richiesta debba essere motivata.
2. È considerato documento ogni rappresentazione grafica,
fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del
contenuto di atti, anche a uso interno, formati dai soggetti
menzionati al comma 1.
3. L'esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è
subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le
disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca
e di visura.
4. La commissione è tenuta in ogni caso, entro il termine di 30
giorni, a esprimere un parere sulla richiesta presentata, anche nel
caso intenda ad essa opporre un rifiuto, che deve essere motivato e
circostanziato.
5. Il richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo
regionale, il quale decide in camera di consiglio entro trenta giorni
dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i
difensori delle parti che ne abbiano fatto richiesta. La decisione del
tribunale è appellabile, entro trenta giorni dalla notifica della
stessa, al Consiglio di Stato, il quale decide con le medesime
modalità e negli stessi termini.
6. In caso di totale o parziale accoglimento del ricorso il giudice
amministrativo, sussistendone i presupposti, ordina l'esibizione dei
documenti richiesti.
7. La commissione procede, a prescindere dalle richieste presso di
essa inoltrate, alla desecretazione d'ufficio di tutti i documenti la
cui estensione risalga ad almeno 25 anni.
8. La commissione è tenuta a pubblicare con scadenza semestrale una
relazione sull'attività svolta, a darne massima diffusione nonché a
predisporre tutte le iniziative dirette a rendere effettivo il diritto
d'accesso.
9. La commissione è tenuta a disporre tutti i necessari procedimenti
organizzativi per la digitalizzazione dei documenti desecretati e per
la loro pubblicazione in internet.
10. La commissione è rinnovata ogni tre anni

---
2. per un referendum per smantellare le armi nucleari e sulla NATO in
Italia
---

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5971

Bulgarelli: "Un referendum consultivo per smantellare gli armamenti
nucleari e sulla Nato in Italia"

di Atti parlamentari - Camera dei Deputati

su vari articoli online del 05/07/2005

CAMERA DEI DEPUTATI N. 5971

PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE d'iniziativa del deputato BULGARELLI

Audizione di un referendum consultivo sullo smantellamento degli
armamenti nucleari sul territorio nazionale e sull'adesione
dell'Italia alla NATO

Presentata il 5 luglio 2005

Onorevoli colleghi! - Gli enormi cambiamenti che si sono verificati
nel corso degli ultimi cinquanta anni hanno fortemente ridimensionato
la validità del modello di difesa introdotto con l'approvazione del
trattato multilaterale che ha dato vita alla Nato (North Atlantic
Treaty Organisation - Organizzazione del Trattato Nord Atlantico). A
questa struttura di difesa multinazionale, creata nel 1949 in supporto
al Patto Atlantico, (firmato a Washington il 4 aprile dello stesso
anno), ha aderito sin dall'inizio l'Italia, insieme a Gran Bretagna,
Canada, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Portogallo.
Il trattato costitutivo della Nato ha carattere strettamente
difensivo, e si rifà, in verità impropriamente, all'art. 51 della
Carta Onu, che recita testualmente: «Nessuna disposizione della
presente Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela
individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato
contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di
Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e
la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell'esercizio
di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a
conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo
il potere ed il compito spettanti, secondo la presente Carta al
Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quella
azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace
e la sicurezza internazionale».
Tale articolo prevede effettivamente l'uso della forza da parte di uno
Stato, a patto che esso sia in funzione auto-difensiva, in prospettiva
di un attacco imminente e fino all'attivazione del Consiglio di
Sicurezza. Tuttavia la dottrina internazionalistica ha da tempo messo
in rilievo come l'art. 51 preveda l'uso della forza esclusivamente nel
caso in cui uno Stato debba difendersi da un attacco armato, e non nel
caso in cui l'attacco sia imminente ma non attuale. In effetti, il
ruolo affidato alla Nato va letto nel contesto della cosiddetta
"guerra fredda", fondata sulla contrapposizione strategica tra il
blocco delle potenze occidentali e quello facente capo all'Unione
Sovietica, con, in più, funzioni di monitoraggio e contenimento del
"fianco sud-est" (Grecia, Turchia). In ragione di ciò, la Nato fu
destinataria, fin dalle origini, di una mission articolata: da una
parte, la difesa di tipo strettamente militare, volta a fronteggiare
l'arsenale nucleare sovietico, fu improntata in chiave di
"deterrenza"; dall'altra, proprio in considerazione della
contrapposizione sistemica tra i due blocchi, obiettivo parallelo
della Nato divenne quello di consolidare la coesione
politico-culturale dei partner europei nel segno dell'egemonia
culturale e ideologica degli Usa. Nel mezzo secolo della "guerra
fredda", la Nato non intervenne militarmente in alcuna area, anche
laddove si determinarono situazioni di crisi, come nel Mediterraneo.
Ciononostante, centinaia di basi Usa e Nato furono insediate in Europa
e, di queste, quasi 150 nella sola Italia. Oggi le basi militari Usa
nel mondo conosciute sono oltre 850, il doppio di quelle dell'impero
romano d'occidente nel momento della sua massima espansione – II sec.
d.c., quando esso si estese dall'Atlantico al Caucaso, al Sahara, alla
Britannia – e un terzo in più di quello vittoriano, sui cui territori,
29 milioni di chilometri quadrati abitati da 390 milioni di persone,
agli albori del XX secolo non tramontava mai il sole, come con
malcelata nostalgia ricorda Samuel Huntigton in un suo celebre libro.
Riguardo questo impressionante dispiegamento bellico, sono sempre più
numerosi gli analisti che ritengono che esso comporti un sostanziale
depotenziamento dello stesso concetto di sovranità territoriale e, del
resto, gli esperti militari, quando si trovano a dover descrivere il
segno della supremazia Usa sul pianeta, ricorrono al termine
"footprint" –"impronta"-, che non evoca le immagini classicamente
legate ai conflitti bellici – bombardamenti, invasioni, occupazioni
manu militari- quanto piuttosto le moderne caratteristiche reticolari
della presenza globale americana nel mondo, non esente da venature che
pare lecito definire neocolonialiste. In alcune zone la concentrazione
di insediamenti Usa e Nato è addirittura parossistica, come a Okinawa,
piccola isola del Pacifico, che "ospita" ben 38 basi militari
americane, o come in Sardegna, dove è concentrato il 66% delle basi e
servitù militari, italiane e non. Una presenza così massiccia non può
non condizionare in maniera rilevante l'economia delle regioni
interessate e scadenzare i tempi di vita delle popolazioni, alle quali
è progressivamente sottratta la ricchezza derivante dall'utilizzo
paesaggistico del proprio territorio, in conseguenza dell'inquinamento
ambientale e dell'esproprio di vaste porzioni di esso e, spesso, è
concesso usufruire dei beni naturali (il mare, la spiaggia, il verde)
solo in subordine ai tempi delle attività belliche (le esercitazioni,
le manovre militari, i trasporti di armamenti), o, infine, è concesso
esercitare le attività necessarie alla propria sussistenza solo nella
misura in cui esse siano compatibili con le esigenze militari. Questo
sistema di servitù che pende sul capo della gente disegna dunque un
concetto di sovranità –di spoliazione di sovranità– molto più
complesso della semplice espropriazione di territorio e ha
determinato, nel nostro paese, una forte opposizione da parte di
moltissime associazioni della società civile, molte delle quali
concertano da tempo un'azione diffusa sull'intero territorio
nazionale, come è emerso, per esempio, in occasione del convegno
nazionale tenutosi l'11 e il 12 novembre 2004 a Pisa,
significativamente intitolato "Mediterraneo Parabellum".
Alla presenza di insediamenti militari è legata inoltre un'altra
problematica particolarmente scottante, riguardante la presenza di
numerosi ordigni nucleari stoccati nelle basi. Secondo lo studio
condotto dal Natural Resources Defence Council, sarebbero 40 le
testate nucleari stoccate nella base di Torre di Ghedi e 50 quelle
custodite a Aviano, della potenza variante dai 0,3 a 170 chilotoni
(quella della bomba sganciata su Hiroshima era di circa 15 chilotoni),
pronte a essere lanciate dai Tornado della 102esima e della 154esima
squadriglia del sesto stormo dell'aeronautica italiana. Il
munizionamento nucleare, inoltre, viene gestito da un'unità speciale
statunitense, lo 831o squadrone Muns, agli ordini diretti ed esclusivi
dello Stato Maggiore Usa; tale unità è anche l'unica ad avere accesso
ai bunker dove le testate sono custodite e, più in generale, a
garantire la manutenzione degli ordigni. Il documento ufficiale
National Security Strategy, risalente al 1997, definisce tali ordigni
"forze nucleari strategiche che costituiscono un'assicurazione vitale
per un futuro incerto, una garanzia dei nostri impegni per la
sicurezza degli alleati e un deterrente per coloro che contemplino
l'acquisizione o lo sviluppo di loro arsenali atomici", ma la
Direttiva 60, promulgata dal Presidente Clinton, prevede che le armi
nucleari sub-strategiche dislocate in Italia e in Europa possano
essere impiegate "contro soggetti o gruppi non presenti al livello
istituzionale di Stato, contro i loro centri operativi che dispongano
di mezzi atomici di distruzione di massa". La Direttiva 60 è stata
integrata nella precedente strategia dell'Alleanza senza essere
sottoposta all'approvazione dei Parlamenti dei paesi alleati e ciò
pone un problema interpretativo rispetto all'istituto della cosiddetta
"co-decisione".
Secondo le decisioni prese a Gleneagles dal Nuclear Planning Group
della Nato nell'ottobre del 1992, "una particolare considerazione
verrà estesa bilateralmente dagli Stati Uniti ai Governi eventualmente
coinvolti nell'impiego di armi atomiche". Tuttavia, a parere di
numerosi esperti militari, rimarrebbe tuttora in vigore la direttiva
enunciata nel 1962 dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa
Charles E. Johnson (Memorandum, Charles E. Johnson for the record,
"President's Decisions at the Meeting on Nuclear Weapons Requirements
on May 3, 1962), che recita: "Conseguentemente all'impegno Nato su
modalità nucleari della difesa comune, gli alleati non nucleari
dell'alleanza in caso di guerra assumono a tutti gli effetti il ruolo
di potenze nucleari". Ciò pone drammatici interrogativi sulla catena
di comando che si attiverebbe in caso di proclamato stato di emergenza
o di guerra in relazione all'utilizzo dei dispositivi "nazionali", il
cui controllo, di fatto, verrebbe sottratto ai poteri decisionali dei
rispettivi Governi e riservato unicamente ai comandi Usa e Nato in Europa.
In undici porti italiani, infine, è previsto l'attracco di navigli a
propulsione nucleare; tale attività comporta evidenti rischi per la
popolazione civile, vista la possibilità che possano determinarsi
incidenti dalle conseguenze gravissime per la salute pubblica e per
l'ecosistema, soprattutto perché, nonostante la normativa vigente in
sede europea preveda l'obbligo di fornire adeguata informazione alla
popolazione civile riguardo i rischi derivanti da incidente nucleare e
individui le autorità e gli enti cui spetta il compito di predisporre
i piani di emergenza (Direttive Euratom 80/386, 84/467, 84/466,
89/618, 90/641 e 92/3 in materia di radiazioni ionizzanti), a
tutt'oggi, tali disposizioni vengono disattese dal governo italiano e
non viene fornita alla popolazione adeguata informazione a riguardo di
eventuali emergenze nucleari; in particolare, non sono noti – tranne
che, parzialmente, per i porti di La Spezia e Taranto– i piani di
emergenza predisposti dalla Marina militare di concerto con le
Prefetture. Ciò pone un altro rilevante problema concernente la
sovranità nazionale. Il nostro paese, infatti, con referendum popolare
dell'8 novembre 1987, si è espresso a larghissima maggioranza (80,06%)
per la chiusura delle centrali nucleari esistenti e contro la
costruzione di nuove. E' dunque paradossale che i rischi che si erano
voluti evitare mediante l'abolizione del nucleare a uso civile siano
indirettamente reintrodotti dalla presenza di numerosi ordigni bellici
e dal transito e attracco di navigli a propulsione nucleare, soggetti,
quest'ultimi, a incidenti dalle conseguenze potenzialmente
catastrofiche, come dimostra il caso del sottomarino Hartford,
incagliatosi al largo dell'isola della Maddalena nell'ottobre del 2003.
Ma altre considerazioni vanno svolte in merito al permanere del nostro
paese in seno all'Alleanza Atlantica. Negli anni `70/'80 del secolo
scorso, infatti, con il progressivo tramontare della potenza
sovietica, la politica militare della Nato si è fatta più
spiccatamente offensiva. Nel 1978 Zibgnew Brzezinski, National
Security Adviser del Presidente americano Carter, elaborò il concetto
di "arco di crisi" per il fianco sud della Nato, per applicare il
quale, nel 1983, venne costituito il CENTCOM (Central Command), con
competenza su circa 40 paesi tra Mediterraneo e Golfo e la Rapid
Deployment Force. In quegli stessi anni, l'Amministrazione Usa passò
dalla filosofia della deterrenza a quella della "compellenza",
criterio che prevedeva l'adozione di "ogni politica che tenda ad agire
su un dato scenario in modo da costringere l'avversario ad adottare
quelle politiche che meglio si adattano ai propri interessi". Al
Consiglio Atlantico di Roma del 7-8 novembre 1991 venne quindi
elaborato il "Nuovo concetto strategico dell'Alleanza atlantica" e
istituito il Consiglio di cooperazione del Nord Atlantico (Nacc) che
inizierà le sue attività il 20 dicembre 1991. Ma è nel gennaio 1994,
al vertice di Bruxelles, che venne elaborata la "nuova" Nato, a
partire dal lancio del programma Partnership for peace, volto
all'allargamento dell'alleanza a Est e preludio per la radicale
trasformazione, avvenuta il 24 aprile del 1999, dello statuto
dell'Alleanza che, ampliando aree e motivazioni di intervento, da
trattato difensivo si trasformò ufficialmente in trattato di
intervento globale in tutto il mondo. Al centro di questa
trasformazione vi è il "nuovo concetto strategico" (The Alliance
Strategic Concept), e la Defense Capabilities Initiative, che
prevedono che la Nato utilizzi ora le sue forze militari come
strumento di gestione delle crisi, di intervento e di proiezione della
forza, estendendo l'area d'azione alla periferia dei paesi membri
(Parte II, 20), nonché a tutte le aree in cui vi sia il pericolo di
interruzione del flusso di risorse vitali, cioè energetiche. Perno
della nuova strategia è la collaborazione con la Russia e
l'allargamento dell'alleanza a Est, mentre nel Mediterraneo viene
rafforzata la cooperazione militare con Israele e alcuni paesi arabi
(Egitto, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia).
Alla luce dei passaggi fin qui sommariamente accennati, appare
opportuno valutare sotto una luce radicalmente nuova il ruolo
strategico della Nato. Il nemico di un tempo, l'ex Unione Sovietica, è
oggi tra gli alleati su cui si fonda la nuova partnership globale, il
blocco di paesi dell'Est, un tempo sotto la sfera di influenza
sovietica, è membro dell'Alleanza o è in procinto di entrarvi a far
parte, il controllo del Mediterraneo non è più in discussione e con
esso sono tramontate le ragioni di carattere difensivo che spinsero
molti paesi, tra i quali l'Italia, ad aderire all'Alleanza Atlantica.
Queste ragioni vengono tanto più vanificate dalla intrinseca
trasformazione della Nato da struttura difensiva in struttura di
controllo egemonico e proiezione, di fatto, dell'egemonia Usa sul
pianeta. In una parola, l'interesse della sicurezza nazionale italiana
non coincide più con le strategie messe in atto dalla Nato.
Tale approccio strategico, inoltre, sta dimostrando in modo sempre più
evidente i propri limiti e la propria inadeguatezza ad affrontare
pericoli che non sono più determinati da conflittualità di tipo
"tradizionale" tra gli stati, ma da cause ben diverse – legate molto
spesso agli squilibri socio-economici imposti dai paesi più ricchi –
che sempre più spesso generano fenomeni terroristici di caratura
globale, contro i quali alcuna funzione di deterrenza possono svolgere
gli insediamenti militari di tipo convenzionale che anzi,
paradossalmente, acuiscono l'eventualità di attentati e, dunque,
l'insicurezza per i paesi che li ospitano. E' necessario quindi
superare la cosiddetta "logica securitaria", sottesa alle ragioni
costituenti della Nato, e prendere atto che il modello di sicurezza
che a esse si ispirava dimostra oggi tutta la sua inefficacia e
obsolescenza proprio nell'adozione di tecniche e strumenti che sono
intrinsecamente in contraddizione con gli obiettivi che si prefiggono:
la pace e la sicurezza del paese. Appare dunque del tutto ragionevole
considerare esaurite le motivazioni dell'adesione italiana alla Nato e
sottoporre alla volontà popolare l'opportunità di non rinnovare per il
futuro tale adesione.
Sta crescendo sempre di più la convinzione, o meglio la
consapevolezza, che la vera sicurezza può derivare soltanto dalla
crescita della comunicazione sociale e della fiducia collettiva, e non
dall'esclusione e dalla marginalizzazione dei 'diversi' e degli
'altri', dalla difesa armata dei cancelli e dei muri, dalla
sottolineatura delle differenze –di cultura, di religione, di etnia– e
alla conseguente individuazione dei 'nemici' assoluti.
Il nostro Paese –a fronte anche della sua storia millenaria basata su
una cultura dell'integrazione e dell'accoglienza– deve finalmente
prendere atto degli enormi cambiamenti che si sono verificati a
livello geopolitico mondiale e sottrarsi a quella logica del
"conflitto permanente" che in buona parte è la semplice applicazione
delle teorie keynesiane all'economia militarista.
Non va infine trascurato –come sottolineato dai vari comitati che si
battono per la riconversione a usi civili degli insediamenti militari-
l'aspetto della difficile coabitazione di quest'ultimi con le comunità
locali, che si vedono ingiustamente espropriate di ampie e bellissime
zone, che vivono nella preoccupazione delle conseguenze ambientali e
sanitarie delle attività militari (responsabili di diversi tipi di
inquinamento: dell'aria, dell'acqua e del suolo) e che temono la
presenza di armi nucleari a pochi metri dalle proprie abitazioni.
Con questa proposta di legge si vuole semplicemente chiedere di dare
la possibilità ai cittadini di esprimere la propria opinione
sull'opportunità di mantenere –peraltro a costi elevatissimi per
l'intera collettività– la presenza sul territorio italiano di
dispositivi nucleari che comportano, per tipologia e caratteristiche
intrinseche, un elevato rischio per la popolazione, sia sotto il
profilo ambientale che sotto il profilo sanitario, nonché
sull'opportunità di una progressiva chiusura dei poligoni militari di
tiro e sulla ipotesi di non rinnovare l'adesione al trattato Nord
Atlantico (Nato).


TESTO DELLA PROPOSTA DI LEGGE

Articolo 1
1. Il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei
Ministri, indice un referendum entro 180 giorni dalla data di entrata
in vigore della presente legge, avente per oggetto il quesito indicato
nell'articolo 2.
2. Hanno diritto di voto tutti i cittadini che, alla data di
svolgimento del referendum, abbiano compiuto il diciottesimo anno di
età e che siano iscritti nelle liste elettorali del comune, a termini
delle disposizioni contenute nel testo unico approvato con D.P.R. 20
marzo 1967, numero 223, e successive modificazioni e integrazioni.

Articolo 2
1. I quesiti da sottoporre al referendum sono i seguenti:
a) Quesito n. 1: «Ritenete voi che l'Italia debba procedere
all'immediato smantellamento di tutte le armi nucleari presenti, a
qualunque titolo, sul territorio italiano»;
b) Quesito n. 2: «Ritenete voi che l'Italia debba revocare ogni
autorizzazione concessa a seguito di accordi internazionali e proibire
l'ingresso nel territorio nazionale, ivi comprese le acque
territoriali, di armi nucleari nonché di mezzi di trasporto a
propulsione nucleare»;
c) Quesito n. 3: «Ritenete voi che l'Italia debba avviare un piano per
la progressiva chiusura dei poligoni di tiro a uso militare, dando la
priorità alle strutture che comportano maggiori pericoli e disagi per
la popolazione circostante»;
d) Quesito n. 4: «Ritenete voi che l'Italia debba valutare
l'opportunità di non rinnovare l'adesione al Trattato Nord Atlantico,
ratificato con la legge 30 novembre 1955, n. 1335, in ottemperanza al
ripudio della guerra sancito dall'articolo 11 del dettato
costituzionale?».

Articolo 3
1. La propaganda relativa allo svolgimento del referendum previsto
dalla presente legge costituzionale è disciplinata dalle disposizioni
contenute nelle leggi 4 aprile 1956, n. 212, 24 aprile 1975, n. 130,
nell'articolo 52 della legge 25 maggio 1970, n. 352, nonché nella
legge 22 febbraio 2000, n. 28.
2. Le facoltà riconosciute dalle disposizioni vigenti ai partiti o
gruppi politici rappresentati in Parlamento e ai comitati promotori di
referendum sono estese anche agli enti e alle associazioni aventi
rilevanza nazionale o che comunque operino in almeno due regioni e che
abbiano interesse positivo o negativo verso la formazione dell'unità
europea e il sostegno e la promozione dell'Europa comunitaria. Tali
enti e associazioni sono individuati, a richiesta dei medesimi, con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di concerto con il
Ministro dell'interno, entro trenta giorni dalla data di entrata in
vigore della presente legge costituzionale.
3. La commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza
dei servizi radiotelevisivi formula gli indirizzi atti a garantire ai
partiti, enti e associazioni di cui al comma 2 la partecipazione alle
trasmissioni radiotelevisive dedicate alla illustrazione del quesito
referendario, entro i termini stabiliti per l'elezione dei
rappresentanti del Parlamento europeo.

Articolo 4
1. Il Governo, sulla base del risultato della consultazione
referendaria, avvia le azioni necessarie all'adeguamento della
legislazione alla volontà popolare.

Articolo 5
1. La presente legge costituzionale entra in vigore il giorno seguente
a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale successiva alla
sua promulgazione.


### 7 - 10 NOVEMBRE
CUBA, CONFERENZA INTERNAZIONALE SULLE BASI MILITARI STRANIERE
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5930 ###

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/28-Ottobre-2005/art127.html

il manifesto, 28 Ottobre 2005

DUE ANNIVERSARI


Balcani, vuoto a perdere


Dieci anni fa Dayton, sei anni fa Kumanovo dopo i raid Nato. Ora
l'Occidente che obbliga la Bosnia alla multietnicità, vuole per il
Kosovo un'indipendenza monoetnica


MIODRAG LEKIC *


Mentre resta ancora in attesa della risposta degli storici il quesito
se la Jugoslavia sia morta di morte naturale, sia stata assasinata, si
sia suicidata o altri l'abbiano «suicidata», la sua lunga
disintegrazione ed agonia nel 2005 celebra i suoi anniversari. Nella
geopolitica degli anniversari si ricordano infatti questo anno gli
inizi di due «protettorati»: quello ormai decennale in Bosnia
Erzegovina e i sei anni del protettorato sul Kosovo. E' probabilmente
inutile, a questo punto, chiedersi se l'Europa non avrebbe fatto
meglio, nel proprio interesse, a cercare di salvare quell'elemento di
stabilizzazione e integrazione tra i popoli rappresentato dalla
Jugoslavia, invece di trovarsi di fronte una serie di nuovi Stati su
base etnica, a volte pseudo-Stati o protettorati, quale sanguinoso
frutto della «primavera dei popoli ex-jugoslavi».

Nel novembre di dieci anni fa gli accordi di Dayton ponevano fine ai
combattimenti in Bosnia , dopo anni di scontri sanguinosi, che, in una
fase, avevano assunto il carattere di bellum omnium contra omnes.
Caratteristica di un accordo diplomatico, con elementi di un trattato
internazionale e perciò del tutto atipico, fu la pretesa di imporre
anche un modello di sistema costituzionale. E' nata così una complessa
macchina politico-burocratica che conta quattro presidenti, tre primi
ministri, tre parlamenti, più di cento ministri, due eserciti e 14
livelli di governo. Anche se alcuni risultati positivi sono stati
raggiunti, soprattutto per quanto riguarda i profughi (circa il 50% ha
trovato una sistemazione), la macchina statale si presenta come
elefantiaca, costosissima e spesso inefficace. Inoltre, secondo quasi
tutti gli analisti politici, è innegabile che la Bosnia accoglie tre
popolazioni ancor oggi, in gran parte, etnicamente divise tra loro e
la pacificazione è ancor oggi garantita dalla presenza di un
contingente di truppe, attualmente della UE.

Un Alto protettore, non eletto

Nel quadro di sviluppo democratico del paese - institution building -
è stata prevista la figura dell'Alto rappresentante della comunità
internazionale (non eletto), che può licenziare politici locali
(eletti), sospendere o cassare leggi approvate dai Parlamenti (eletti)
e imporre decreti con valore di legge.

Il decennale potrebbe essere un'occasione per fare il punto della
situazione e vedere se non sarebbe forse il caso di proporre nuove
soluzioni equilibrate e che non danneggino nessuno dei gruppi etnici.
Sarebbe forse proficuo rileggere le proposte formulate dalla comunità
internazionale precedentemente a Dayton - piano Cutillero, piano Owen-
Stoltenberg, in entrambi i casi iniziative europee, rifiutate in
circostanze non ancora del tutto chiarite. Secondo Lord Owen, nel suo
libro Odissea balcanica, gli americani avrebbero sabotato il suo piano
per spostare la sede negoziale nella base militare di Dayton, per
attribuirsi - a scopi elettorali - il merito di aver concluso la guerra.

A differenza della Bosnia, che ha istituzioni sui generis che
convivono con forti elementi di protettorato, il Kosovo, a più di sei
anni dalla fine della guerra (giugno 1999) continua a vivere sotto un
classico protettorato internazionale (Unmik/Kfor).

Negli ultimi mesi sono state avanzate varie proposte per una soluzione
definitiva. Dopo anni in cui ci si è trincerati dietro la formula
«prima standard, poi status» che ha garantito un pessimo status quo
della regione, per il Kosovo, che vive in una sorta di «buio
mediatico», si profilano oggi i primi segni di un rinnovato interesse
internazionale. Il 24 ottobre le Nazioni Unite, dopo la discussione al
Consiglio di Sicurezza, hanno deciso di aprire formalmente il
negoziato per definire lo status della provincia.

Prima di entrare nel merito delle possibili soluzioni, a questo punto
vale forse la pena di ricapitolare brevemente come si è giunti
all'attuale situazione.

La guerra, che, alla fine di marzo del 1999, gli strateghi della Nato
avevano previsto di breve durata (3, 4 giorni) si è conclusa dopo 78
giorni di intensi bombardamenti e dopo la sigla a Kumanovo di un
accordo tra forze militari jugoslave e Alleanza atlantica. In Kosovo
il ritiro dell'esercito di Belgrado è stato accompagnato dall'entrata
contemporanea delle forze della Nato e delle milizie dell'Uck.

E' indubbio che, se di «pulizia etnica» degli albanesi non si poteva
parlare prima dell'inizio della guerra, la campagna aerea ha scatenato
rappresaglie dei serbi contro gli albanesi, che naturalmente non
possono essere giustificate con la brutalità dei bombardamenti stessi
(che hanno colpito infrastrutture civili- ospedali, scuole,
acquedotti, ponti, centrali elettriche, ecc., hanno causato la morte
di donne e bambini, facendo uso di armi vietate da molte Convenzioni
internazionali...).

Dopo la «liberazione» del Kosovo, è iniziata una «pulizia etnica» in
senso opposto: il 90% della popolazione non albanese è stata costretta
a lasciare il Kosovo e non ha ancora potuto farvi ritorno, ad onta di
tutte le promesse e le garanzie della «comunità internazionale»;
inoltre i luoghi santi della regione sono stati distrutti (finora 150
chiese e monasteri ortodossi). Si tratta delle testimonianze medievali
del Cristianesimo serbo, culla dell'identità nazionale, oltre che
patrimonio dell'Umanità secondo l'Unesco.

Molti osservatori concordano nel riconoscere che la situazione
economica e dei diritti umani in Kosovo è attualmente per molti versi
peggiore di quanto non fosse sei anni fa. (Su questo tema si veda
l'articolo del generale Fabio Mini, a lungo Comandante Nato in Kosovo,
F.Mini, «Kosovo Roadmap», Limes, 2004/2).

Un trucco gli accordi di Kumanovo?

La definizione dello status finale non potrà non tener conto del
documento che ha concluso la guerra del 1999: la risoluzione 1244 del
Consiglio di Sicurezza dell'Onu del 10 giugno, di cui fanno parte
integranti gli accordi tecnico-militari di Kumanovo. Nei documenti
vengono confermati esplicitamente «sovranità e integrità territoriale
della Repubblica Federale di Jugoslavia» e «una sostanziale autonomia
del Kosovo». Le conclusioni del G8 del 6 maggio 1999, così come
l'accordo stipulato grazie alla mediazione di Ahtisaari e
Chernomyrdin, e accettato dall'Assemblea nazionale serba il 3 giugno,
prevedevano ugualmente l'integrità territoriale della Jugoslavia. La
guerra non avrebbe potuto essere conclusa il 10 giugno senza questo
riconoscimento dell'integrità del paese. Riconoscere ora
l'indipendenza del Kosovo sarebbe come ammettere che si è arrivati
alla «vittoria» della più grande potenza militare della storia contro
un piccolo paese grazie ad un abile trucco diplomatico.

Ma come trovare una soluzione partendo da un documento che attribuisce
de jure la sovranità sul Kosovo alla Jugoslavia (e alla Serbia),
mentre de facto ha trasformato la regione in un protettorato militare
della Nato e sotto amministrazione dell'Unmik-Nato qualsiasi soluzione
credibile, dal punto di vista della legalità internazionale, deve
basarsi sulla risoluzione Onu e può scaturire solo dal dialogo diretto
tra Pristina e Belgrado, sia pur mediato da una presenza
internazionale super partes? Ora che al governo in Serbia sono
politici , considerati filo-occidentali, e che difendono in egual
misura i principi democratici e gli interessi nazionali, si può
sperare che si trovino di fronte leader kosovari che condividano gli
stessi valori. Belgrado ha al contempo la responsabilità di proporre
un modello di reale integrazione democratica per gli albanesi in
Serbia e di porsi come fattore i stabilità regionale. Siccome i
politici serbi si pronunciano per una soluzione che contempli «più
dell'autonomia e meno dell'indipendenza», forse varrebbe la pena di
riprendere gli studi sul modello Alto Adige, che Rugova ha nel
frattempo abbandonato, anche perché forse è sottoposto a forti
pressioni interne. E la «comunità internazionale» potrebbe spiegare
loro che quello con gli altoatesini non sarebbe un paragone offensivo.
Ma conditio sine qua non per la riuscita dei negoziati è il ritorno
dei più di 200.000 nuovi profughi e la ripresa della vita civile,
nelle sue forme più elementari, per tutti i non albanesi. Se la
«comunità internazionale» non è in grado, a dispetto della sua forte
presenza - civile e militare - di garantire una vita «normale» ai
serbi e alle altre etnie, come si può pensare che queste potranno
rientrare in Kosovo e godervi dei diritti umani, una volta che la Kfor
e l'Unmik avranno lasciato la regione? Dovrebbe essere chiaro che se
il Kosovo, per la prima volta nella storia, avrà raggiunto
l'indipendenza, altrettanto per la prima volta quella regione sarà
«etnicamente pulita».

In termini realistici il processo di definizione dello status dovrà
necessariamente tener conto di tre elementi della politica
internazionale: gli interessi nazionali delle parti coinvolte, i
rapporti di forza e le regole. Ma, concretamente, restano molte
incognite: chi, ad esempio, avrà l'iniziativa da un punto di vista
internazionale? Gli Stati Uniti, l'Unione europea o l'Onu? O, per una
volta, ci sarà un vera trattativa diretta tra le parti, senza
soluzioni imposte dall'esterno?

La lobby dell'indipendenza da pulizia etnica

Mentre, contemporaneamente all'avvio del processo, permangono le
ambiguità dei fattori internazionali, è ormai evidente, in questo
2005, un forte impegno di gruppi informali, con forti connotazioni
lobbystico-mediatiche, in favore dell'indipendenza del Kosovo

Il 25 gennaio di quest'anno l'International crisis group, di cui fanno
parte - tra gli altri - Zbigniew Brzezinski, Marti Ahtisaari, il
generale Wesley Clark, George Soros ed Emma Bonino, ha presentato un
documento che prevede l'indipendenza del Kosovo. Un altro gruppo,
l'International commission on the Balkans, presieduto dall'on.
Giuliano Amato, e finanziata da quattro Fondazioni private, è
arrivato, in aprile, ad un'analoga proposta di indipendenza, sia pur
da raggiungere in quattro fasi. Val la pena di sottolineare che, in
occasione della presentazione alla Farnesina del piano Amato (26
aprile 2005), i responsabili del Ministero e lo stesso ministro, l'on.
Gianfranco Fini, hanno mostrato un'estrema prudenza.

Va riconosciuto all'on. Amato il merito di aver fornito un quadro
realistico, ed impietoso, dell'attuale situazione dei Balcani, e
soprattutto in Bosnia e Kosovo. E' inoltre certo convincente la sua
proposta di integrazione dell'intera regione nella Ue in tempi
relativamente brevi. Ma in questo caso si tratta di passare dalla
proposta ai fatti, e per questo è necessario avere una chiara visione
dell'Europa del futuro.

E' certo molto bella l'immagine dell'on Amato, secondo cui il 2014, in
cui si commemorerà il centenario dell'attentato di Sarajevo e
dell'inizio della follia della prima guerra mondiale, dovrebbe vedere
l'entrata di tutti i paesi balcanici, finalmente in pace, nella Ue, ed
aprire una fase di concordia e prosperità, una sorta di belle époque
ritrovata.

Ma, nei Balcani, la storia a volte, nelle sue componenti interne ed
esterne, torna come l'eroe di Dostovjeski, Raskolnikov, sul luogo del
delitto. Tutti gli attori della tragedia sono ancora sul luogo,
speriamo che il delitto non si compia.



* Ex-ambasciatore jugoslavo in Italia, 1996-1999 e 2001-2003,
attualmente professore a contratto presso la LUISS e l' Università di
Roma "La Sapienza"

da Zagabria riceviamo e giriamo:
---------------

NUOVO MILLENNIO : UN OTTOBRE DIVERSO

E' tornato ottobre, con preoccupazioni nuove: una situazione mondiale,
economica e politica, fra le più difficili non soltanto del millennio
appena iniziato, ma negli ultimi cinquant'anni. Il movimento comunista
in Russia e non soltanto in Russia ai suoi minimi storici. La salma di
Lenin che rischia di essere buttata fuori dal Mausoleo. L`imperialismo
all'attacco dovunque nel mondo. L'aggressione, inaudita per arroganza
e violenza, alla memoria storica del movimento operaio,
all'immaginario collettivo verso i comunisti, persino alla Resistenza
- e non solo nei suoi valori, ma anche alle fondamenta che essa ha
intessuto nelle Costituzioni in Europa e al vivere una vita in comune,
basata su principi di libertà. Ghettizzazione dei partiti comunisti
ed afasia della sinistra, che la paralizza e la frantuma,
impossibilitando ogni crescita del movimento radicata su scelte
profonde e irrevocabili piuttosto che su voglie effimere e reazioni di
ripicca alle politiche dei governanti. Nella sinistra il senso
dell'internazionalismo e del destino comune nel mondo globalizzato
non risulta accresciuto: lo stesso vale per il sentimento del comune
destino europeo, anche se l'Europa dei signori sarebbe un dato di
fatto. Eccetera, eccetera.

A ottantotto anni dalla Rivoluzione d'Ottobre è quasi vergognoso come
siamo messi – ma siamo messi così e dobbiamo rendercene conto. Inutile
ripetere che la Rivoluzione d'Ottobre fu uno dei massimi eventi nella
storia moderna o ricordarsi di quella notte d'assalto al Palazzo
d'Inverno, di Lenin e di Trotsky sfigurati dalla fatica e
dall'insonnia o di John Reed a cui il tassista nel centro di San
Pietroburgo, in una serata non diversa delle altre, rispose di non
volerlo condurre allo Smoglnij, visto che li c'era il diavolo...
Inutile elucubrare sulle grandi idee che quando falliscono provocano
delle tragedie smisurate. O sulla mediocrità del materiale umano che
il movimento operaio si era trovato via via a disposizione, dopo
diverse frantumazioni, collassi, purghe e tragedie immani dalle quali
è stato colpito nel corso del Novecento. Certo, l'Ottobre, come
qualche altra rivoluzione nella storia, è stato opera di uomini
eccezionali, che hanno subordinato tutto ai grandi principii in cui
credevano, pronti a sacrificare ogni interesse vitale a questo scopo,
nonchè la vita stessa: vere torce umane dell'entusiasmo rivoluzionario.

Ma tutto questo è già stato detto e ci siamo pianti addosso per troppo
tempo.
Il destino di coloro che lottano dalla parte della rivoluzione, dalla
parte dei comunisti era ed è di essere contro il proprio tempo,
contro la realtà, quale essa sia, e che sembra impossibile cambiare.
Questo lo disse già Isaak Deutscher e forse ci conviene ripeterlo,
nell'ottantottesimo anniversario dell'Ottobre, per renderlo qualcosa
di più di un momento di mera memoria storica. Per tentare di mutarlo
in un momento di presa di coscienza della situazione attuale.

<< ...Lui (Trotsky), come ricordiamo, aveva già paragonato il suo
destino e il destino dell'opposizione al destino dei comunardi di
Parigi i quali, anche se non sono riusciti a vincere come proletari
rivoluzionari nel 1971, avevano impedito la restaurazione della
monarchia. Questa era stata la loro vittoria nella sconfitta. La
grande trasformazione dell'Unione Sovietica negli anni Trenta fu la
vittoria di Trotsky nel fallimento. Ma i comunardi non si sono potuti
rappacificare con la Terza Repubblica, con la repubblica borghese, la
quale forse non avrebbe vinto mai senza loro appoggio. Però, essi
sono rimasti suoi nemici. In modo simile, Trotsky non si riconcilierà
mai con la seconda rivoluzione burocratica; lui continuerà ad
appellarsi al primato dei diritti della classe operaia nello stato
operaio ed alla libertà del pensiero politico nel socialismo. Per
questo fu automaticamente condannato alla solitudine e all'isolamento,
perchè un numero smisurato di suoi collaboratori (fino a ieri), sia
per delusione e fatica sia per convinzione, era rimasto incantato
dalla rivoluzione staliniana. L'opposizione in esilio era sulla
strada migliore per l'auto-liquidazione...
Era dunque Trotsky in conflitto con il suo tempo? Non conduceva dunque
egli una battaglia senza speranza, "contro la storia"? Nietzsche dice:
"...Se volete una biografia non cercate quella intitolata : "Il
Signor Tal dei Tali e il suo tempo", ma quella sulla cui copertina c'è
scritto: "Combattente contro il suo tempo"...
Qualora la storia non fosse nient'altro che "un sistema
onnicomprensivo di passioni e di errori" uno la dovrebbe leggere come
Goethe voleva che si leggesse il Werther – come se il suo messaggio
fosse appunto questo: "Sii uomo e rinuncia a seguirmi!" Ma per fortuna
la storia ci tiene in serbo un ricordo vivo dei grandi "combattenti
contro la storia", cioè contro la cieca forza del reale...
Essa ingrandisce la vera natura storica degli uomini che hanno dato
poca importanza al "Cosi è" per poter seguire un "Cosi Dovrebbe
Essere" con maggiore gioia e maggiore orgoglio. Non traghettare la
propria generazione sino alla tomba, ma in verità porre le basi del
nuovo – è questo il moto che spinge questi uomini sempre avanti...". >>

Qui termina la citazione da Deutscher e da Nietzsche. Non l'ho scelta
a caso. Tutti quelli (non molti) che ancora oggi sono di quell'idea –
che l'Ottobre rosso russo fu un momento grandioso della storia del
Novecento e che abbia dato moltissimi frutti – sono in qualche modo
"combattenti contro il loro tempo e contro la Storia", come dice
Nietzsche... che fu – nonostante tutto - un grandissimo filosofo
tedesco. E come dice lui, la storia la fanno proprio quelli che sono
in contrasto implacabile con quello che è - e che bruciano la
propria esistenza nella lotta per Come Dovrebbe Essere. E facendo
così, essi scrivono la storia. Ed arricchiscono il patrimonio
dell'umanità. Rimane d'importanza secondaria se i loro nomi e il loro
destino diventeranno famosi o meno. Loro hanno esaurito ed esaudito il
proprio compito rivoluzionario. Questo mi sembra necessario dire,
ottantotto anni dopo la Rivoluzione d'Ottobre.

Certo, il momento non è dei migliori. Certo, è triste e tragico vedere
buttata la salma di Lenin fuori dal mausoleo (ma forse non avrebbe
dovuto mai essere mummificata, come non si sarebbero dovuti mai
mummificare i risultati di quella rivoluzione). Certo, è duro vedere e
sentire i comunisti paragonati ed equiparati ai nazisti. E ancora più
arduo è vedere offesa e vilipesa la Resistenza e i valori della
Liberazione, ed annientata ogni memoria storica e ogni traguardo
progressista del Novecento.
Ma tutto questo è già successo nella storia dell'umanità. E il grande
senso a questa storia continua a darlo la gente che instancabilmente
lotta per Come Dovrebbe Essere. Ci sono momenti di grande luce, nella
vita di ogni persona, come ci sono i momenti bui, quando prevalgono lo
smarrimento e le tenebre. Anche nella storia umana, nella storia di
movimenti e rivoluzioni, ci sono momenti di grande luce, come fu la
Rivoluzione d'Ottobre o la Comune di Parigi, e ci sono tempi di
nebbia, ottenebrati, bui, quale è il momento che si sta vivendo.
Neanche questo è nuovo; eppoi dipende dall'angolo di visuale delle cose.

La nuova moda è di moda... adesso. Domani apparirà già brutta e
paradossale. La grande arte, l'arte nuova, la nuova pittura o
scultura, il nuovo pensiero, una nuova concezione della società,
spesso hanno suscitato e suscitano tuttora scandalo, indignazione,
incomprensione e rabbia nel pubblico. Ma coloro i quali fanno cose
nuove – nuova arte, nuova storia, nuovo pensiero - o lottano per una
nuova società, continuano ad andare avanti e non si curano delle
retroguardie che li raggiungeranno soltanto in seguito. Ha poca
importanza se queste retroguardie sono numerosissime o se al momento
pare che in retroguardia siano finiti proprio tutti... È soltanto
un'impressione. Il domani dirà altre cose.

Se il Novecento si è chiuso ed ha chiuso il suo ciclo di vittorie e di
sconfitte, nel nuovo millennio ai rivoluzionari tocca se non di aprire
una nuova stagione di lotte, almeno di continuare instancabilmente a
combattere per Come Dovrebbe Essere. Nulla sulla scena mondiale è
stato mai fermo nemmeno un attimo.

Certo, è un gran brutto momento. Certo, il compito con cui si è
confrontati è duro, anzi è immenso. Le forze che ostacolano un impegno
radicalmente progressista sono incommensurabili per potere e
portata... Ma non si sono spalancati sempre gli abissi davanti ai
combattenti contro la "cieca forza del Reale"? Non hanno rischiato
essi di vedersi aprire dinanzi le porte dell'Inferno in ogni momento?
Non sono rimasti anche in passato soli ed isolati? E non si sono
sempre sentiti dire, dai propri compagni nella lotta fino a ieri, che
stanno conducendo una lotta senza speranza, una lotta contro il loro
tempo? Eppure, quelli che sono ancora rimasti nella lotta -
avrebbero potuto fare altrimenti? Non si erano auto-arruolati in una
lotta per la libertà? La loro libertà imponeva loro il proseguimento
della battaglia ossia della strada che avevano intrapreso, anche
quando tutti gli altri avevano fatto i voltagabbana.
Oggi i voltagabbana spadroneggiano, ma il domani sarà opera di coloro
che sono rimasti coerenti con se stessi e con il pensiero che li
ispirava. Cosi fu con la Comune di Parigi, cosi fu con la Rivoluzione
d'Ottobre, cosi rimane anche oggi – a distanza di ottantotto anni.
Non possiamo consegnare a quelli che verranno dopo di noi un mondo
dove nei mari non ci sono più pesci, nell'aria non ci sono più uccelli
e non c'è neanche l'aria per respirare. Un mondo dove nella testa
degli uomini non ci sono più progetti, ne' idee, ne' pensieri e nel
cuore non ci sono più ne' speranze ne' passioni ne' felicità.
Un mondo dove tutti assomigliano ai cibi preconfezionati - fatto di
corpi palestrati ed insipidi con i pensieri inculcati dalla TV nella
testa. Un mondo fatto di gente che non sa pensare, ma accetta prona le
idee preconcette, fabbricate dai media, che fanno da riflesso al
potere... Un mondo concepito come mercato universale – dove la roba
che si vende non è altro che stoltezza. Patria dell'uomo privato della
capacità di ragionare. Un mondo ridotto ad istituzione per idioti. Un
mondo di gente con la testa in disuso, ottenebrata da piaceri
superficiali, assolutamente incapace di capire in che modo si è
trovata su quella galera chiamata mondo moderno o democrazia
occidentale, ed invischiata in questa libertà fatta di bombe. E'
esattamente questo che i padroni vogliono. Le rivoluzioni si fanno
non soltanto per inedia. Si fanno anche per questo. Anche se delle
volte falliscono. Ma altre vincono. E perchè vincano non bisogna
smettere di lottare. Mi pare che questo sia, oggi, il significato
dell'Ottobre.

Jasna Tkalec

--- In This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it., "Andrea" ha scritto:

L'INCHIESTA. Fabbricate a Roma in maniera goffa e artigianale le prove
su Saddam.

Storia del falso dossier uranio che il Sismi spedì alla Cia
Doppiogiochisti e dilettanti tutti gli italiani del Nigergate

L'ammissione di Martino alla stampa inglese: "Americani e italiani
hanno lavorato insieme. E' stata un'operazione di disinformazione"

da La Repubblica di CARLO BONINI e GIUSEPPE D'AVANZO


Silvio Berlusconi e George W. Bush. Dopo l'11 settembre la Casa
Bianca chiese a tutti gli alleati, e in particolare all'Italia,
notizie e prove che evidenziassero la pericolosità sociale di Saddam
Hussein

ROMA - L'intervento militare in Iraq è stato giustificato da due
rivelazioni: Saddam Hussein ha tentato di procurarsi uranio grezzo
(yellowcake) in Niger (1) per arricchirlo con centrifughe costruite
con tubi di alluminio importati dall'Europa (2). Alla costruzione
delle due "bufale" (non si troverà traccia in Iraq né di uranio
grezzo né di centrifughe), collaborano il governo italiano e la sua
intelligence militare. Repubblica ha cercato di ricostruire chi,
come, dove e quando ha lavorato e "disseminato" alle intelligence
inglese e americana il falso dossier che è valso una guerra.
Sono le stesse "bufale" che Judith Miller, la reporter che "ha
tradito il suo giornale", pubblica (con Michael Gordon) l'8 settembre
2002. In una lunga inchiesta sul New York Times, Miller racconta dei
tubi di alluminio con cui Saddam avrebbe potuto realizzare l'arma
atomica. E' l'argomento che i "falchi" dell'Amministrazione Bush
attendono.
La "danza di guerra", che segue allo scoop di Judith Miller, appare a
un attento media watcher come Roberto Reale ("Ultime notizie") "uno
spettacolo preparato con cura".
Condoleezza Rice, allora consigliere per la Sicurezza nazionale alla
Casa Bianca, dice: "Non vogliamo che la pistola fumante abbia
l'aspetto di una nube a forma di fungo" (Cnn). Un minaccioso Dick
Cheney rincara la dose a Meet the press: "Sappiamo, con assoluta
certezza, che Saddam sta usando le sue strutture tecniche e
commerciali per acquistare il materiale necessario ad arricchire
l'uranio per costruire l'arma nucleare". E' l'inizio di un'escalation
di paura.
26 settembre 2002. Colin Powell avverte il Senato: "Il tentativo
iracheno di ottenere l'uranio è la prova delle sue ambizioni
nucleari".
19 dicembre 2002. L'informazione sul Niger e l'uranio è inclusa nelle
tre pagine del President daily brief che ogni giorno Cia e
Dipartimento di Stato preparano per George W. Bush. L'ambasciatore
alle Nazioni Unite, John Negroponte, ci mette il sigillo: "Perché
l'Iraq nasconde l'acquisto di uranio nigerino?".
28 gennaio 2003. George W. Bush scandisce le 16 parole che sono una
dichiarazione di guerra: "Il governo inglese ha appreso che Saddam
Hussein ha recentemente cercato di acquisire significative quantità
di uranio dall'Africa".
La farina di questo sacco è romana.
Il coinvolgimento italiano negli eventi che precedono l'invasione
dell'Iraq ha, sin qui, trovato nella distrazione generale un
solitario e grottesco protagonista in un tale che si chiama Rocco
Martino, "di Raffaele e America Ventrici, nato a Tropea (Catanzaro)
il 20 settembre 1938".
Smascherato dalla stampa inglese (Financial Times, Sunday Times)
nell'estate del 2004, Rocco Martino vuota il sacco: "E' vero, c'è la
mia mano nella disseminazione di quei documenti (sull'uranio
nigerino), ma io sono stato ingannato. Dietro questa storia ci sono,
insieme, americani e italiani. Si è trattato di un'operazione di
disinformazione".
Confessione non lontana dalla verità, ma incompleta.
Nasconde gli architetti dell'"operazione". Rocco Martino è a occhio
nudo soltanto una pedina. Come i suoi compari. Chi tira i fili delle
loro mediocri avventure? Per saperlo bisogna, in ogni caso,
cominciare da quel buffo tipo venuto a Roma da Tropea.
Rocco Martino è un carabiniere fallito. Uno spione disonesto. Intorno
a lui si avverte l'aura del briccone anche se non si conosce la sua
pasticciata storia. Capitano nell'intelligence politico-militare tra
il '76 e il '77 "allontanato per difetti di comportamento". Nell'85
arrestato per estorsione in Italia. Nel '93 arrestato in Germania con
assegni rubati. E tuttavia, a sentire i funzionari del ministero
della Difesa, "fino al 1999" collabora ancora con il Sismi. E' un
doppiogiochista.
Prende dimora in Lussemburgo al 3 di Rue Hoehl, Sandweiler. Lavora a
stipendio fisso per l'intelligence francese protetto da un'agenzia di
consulenza, "Security development organization office". O, meglio
lavora anche per i francesi. Servo di due padroni, Rocco si
arrabatta. Vende ai francesi notizie sugli italiani e agli italiani
notizie raccolte dai i francesi. "Il mio mestiere è questo. Io vendo
informazioni".
Nel 1999, il gaudente Rocco è a corto di quattrini. Come gli capita
quando è "a secco", ne escogita una delle sue. La pensata gli sembra
brillante e priva di rischi. La scintilla che lo illumina è la
difficoltà dei francesi in Niger.
Per farla breve. I francesi, tra il 1999 e il 2000, si accorgono che
c'è chi si è rimesso al lavoro nelle miniere dismesse per avviare un
prospero commercio clandestino di uranio. A quali Paesi i
contrabbandieri lo stanno vendendo? I francesi cercano le risposte.
Rocco Martino annusa l'affare.
Chiede aiuto a un suo vecchio amico del Sismi. Antonio Nucera.
Carabiniere come Rocco, Antonio è il vicecapo del centro Sismi di
viale Pasteur, a Roma.
Fa capo alla 1^ e 8^ divisione (contrasto al traffico d'armi e
tecnologie; controspionaggio sulla proliferazione delle armi di
distruzione di massa "nel quadrante africano e mediorientale").
E' una sezione che si è data molto da fare alla fine degli anni '80
mettendo il sale sulla coda ai tanti spioni che Saddam ha
sguinzagliato per il mondo prima dell'invasione del Kuwait. "Con
qualche successo", a sentire un alto funzionario dell'intelligence
italiana che, all'epoca, lavorava per quella divisione. L'agente
ricorda: "Ci riuscì di mettere le mani sui cifrari nigerini e su un
telex dell'ambasciatore Adamou Chékou che annunciava al ministero
degli esteri di Niamey (è la capitale del Niger) la missione di
Wissam Al Zahawie, ambasciatore iracheno presso la Santa Sede, "in
qualità di rappresentante di Saddam Hussein".
Non fu l'unica operazione. Nel porto di Trieste riuscimmo, per dire,
a sequestrare dell'acciaio marangin (garantisce un'ottima resistenza
anche a temperature oltre i 1000 gradi). Secondo noi era destinato
alla costruzione della cascata di centrifughe necessaria a separare i
costituenti dell'uranio. Le informazioni sulla proliferazione
nucleare irachena venivano scambiate, già alla fine degli anni '80,
soprattutto con gli inglesi dell'MI6, i migliori. Lì lavorava, un
sincero amico dell'Italia come Hamilton Mac Millan, peraltro,
l'agente segreto che ha iniziato Francesco Cossiga ai misteri dello
spionaggio quando era il "residente" inglese a Roma".
Nucera decide di dare una mano al suo amico Rocco. Quello gliela
mette giù facile. Non c'è nulla che mi puoi dare, un'informazione, un
contatto buono con i nigerini? Basta qualsiasi cosa. I francesi sono
assetati come viandanti nel deserto. Vogliono sapere chi sta
comprando sotto banco il "loro" uranio. Sono disposti a pagare bene,
per saperlo.
Nell'archivio della divisione del Sismi, come abbiamo visto, ci sono
documenti utili a cucinare la frittata, guadagnando qualche soldo.
C'è il telex dell'ambasciatore e qualcos'altro si può sempre
rimediare nell'ambasciata nigerina a Roma di via Baiamonti 10.
Riconosce, con Repubblica, il direttore del Sismi, Nicolò
Pollari: "Nucera vuole aiutare l'amico. Invita così una Fonte del
Servizio - niente di che, capiamoci; al libro paga sì, ma ormai
improduttiva - a dare una mano a Martino". La Fonte del Servizio
lavora all'ambasciata del Niger a Roma. E' messa male. Vivacchia nel
retrobottega del controspionaggio. Non ha un fisso mensile
dall'intelligence italiana. E' a cottimo, per così dire.
Qui l'informazione, qui il denaro. Comunque poca cosa, pochi centoni.
Anche quelli, nel 2000, sono in pericolo. Da qualche tempo, che
comincia ad essere sciaguratamente lungo, non ha nulla da spiare e
dunque nulla da vendere.
Chiamiamo la fonte "la Signora".
Ora dovreste vederla, "la Signora". Sessant'anni, di più e non di
meno. Una faccia che deve essere stata bella e ora è un foglio
spiegazzato. La si può dire factotum dell'ambasciata nigerina.
Aspetto da vecchia zia paziente. Accento francese. Occhi ammiccanti e
complici. Parla sempre sottovoce. Anche se dice "buongiorno", lo
soffia come un piccolo fiato misterioso che sembra doverti rivelare
innominabili verità. Anche "la Signora" ha bisogno di denaro.
Nucera combina l'incontro. Rocco e "la Signora" non ci mettono molto
ad accordarsi. Qualcosa si può fare. Quel Nucera non è forse il
suo "contatto" ufficiale al Sismi? E allora perché "la Signora" non
deve pensare che sia il Servizio a volere che faccia questa cosa? Che
insomma questa cosa sia utile alla Ditta?
Rocco e "la Signora", astuti vendifumo, con la benedizione di Nucera,
trovano l'accordo. Qualche carta da prendere e vendere c'è. Occorre
però la collaborazione di un nigerino. La Signora indica l'uomo
giusto. E' il primo consigliere di ambasciata Zakaria Yaou Maiga.
Come rivela Pollari, "quel Maiga spende sei volte quel che guadagna".
La combriccola di garbuglioni gaudenti a corto di spiccioli è pronta
all'azione. Rocco Martino, la Signora, Zakaria Yaou Maiga. Nucera, lo
vediamo appena un passo indietro nell'ombra. Maiga si organizza così.
Attende che l'ambasciata chiuda i battenti per il Capodanno del 2001.
Finge un'intrusione con furto. Quando il 2 gennaio 2001, di buon
mattino, il secondo segretario per gli affari amministrativi Arfou
Mounkaila denuncia il furto ai carabinieri della stazione Trionfale,
ammette a labbra strette che quei ladri sono stati molto fiacchi.
Tanto rumore, e fatica, per nulla.
Mounkaila tace quel che non può dire. Mancano carte intestate, timbri
ufficiali, questa è la verità che è opportuno tacere. E' materiale
buono nelle mani della "squadretta" di vendifumo per confezionare uno
strampalato dossier.
Vi si raccolgono vecchi documenti sottratti all'archivio della
divisione del Sismi come i cifrari (Nucera vicecapocentro) più carta
intestata che viene trasformata in lettere, contratti e in
un "protocollo d'intesa" tra i governi del Niger e
dell'Iraq "relativo alla fornitura di uranio siglato il 5 e 6 luglio
2000 a Niamey". Il protocollo ha un allegato di due pagine dal
titolo "Accord". Rocco consegna il "pacco" ai francesi della
Direction Générale de la Sécurité Extérieure (Dgse). Ne ricava
qualche bigliettone che spende felice a Nizza. Rocco adora la Costa
Azzurra.
Fin qui siamo a una truffa degna di Totò, Peppino e la Malafemmina. A
suo modo innocua perché i francesi prendono quelle carte e le gettano
nel cestino. Dice un agente del Dgse: "Il Niger è un paese francofono
che conosciamo bene. Mai nessuno avrebbe preso la cantonata di
confondere un ministro con un altro, come accade in quelle cartacce".
Partita chiusa, dunque? No, l'imbroglio burlesco si rianima
diventando una faccenda terribilmente seria perché arriva l'11
settembre e Bush da subito comincia a pensare all'Iraq, a chiedere
prove dei coinvolgimento di Saddam.
Il Sismi richiama in campo la "squadretta" di via Baiamonti. A Forte
Braschi è arrivato un nuovo direttore, Nicolò Pollari. Come nuovo è
il responsabile delle "Armi di distruzione di massa", il colonnello
Alberto Manenti. "Un ufficiale preparato, ma assolutamente incapace
di dire "no" a un capo", dice un alto funzionario del Sismi che con
lui ha lavorato. Il colonnello Manenti conosce bene Nucera per averlo
avuto nel suo staff, per molto tempo. E' Manenti, con Nucera prossimo
alla pensione, che gli chiede di restare come "collaboratore".
Il Sismi ha voglia di fare. Ha mano libera come mai l'ha avuta
l'intelligence nel nostro Paese. Berlusconi chiede a Pollari un
protagonismo nella scena internazionale che consenta all'Italia di
sedere in prima fila accanto all'alleato americano. Le stesse
sollecitazioni arrivano dal capo della Cia a Roma, Jeff Castelli.
Occorono notizie, informazioni, utili brandelli di intelligence. Ora,
subito. Washington cerca prove contro Saddam.
La Casa Bianca (Cheney, soprattutto) stressa la Cia perché saltino
fuori. "L'assenza delle prove non è la prova dell'assenza"
filosofeggia Rumsfeld al Pentagono.
In questo clima, con il loro dossier fasullo, i vendifumo di via
Baiamonti (Rocco Martino e Antonio Nucera) possono tornare utili. Che
cosa fanno in quell'autunno del 2001? Rocco Martino la mette
così: "Alla fine del 2001, il Sismi trasmette il dossier yellowcake
agli inglesi del MI6.
Lo "passa" senza alcuna valutazione. Sostiene soltanto che è stato
ricevuto da "fonte attendibile"". Poi l'aggiusta ancora un po': "Il
Sismi voleva che disseminassi alle intelligence alleate i documenti
del dossier nigerino, ma, allo stesso tempo, non voleva che si
sapesse del suo coinvolgimento nell'operazione". Sono accuse che
Palazzo Chigi respinge con sdegno. Il governo ci mette la faccia.
Dopo che la guerra ha svelato l'imbroglio delle armi di distruzione
di massa, giura che "nessun dossier sull'uranio né direttamente né in
forma mediata, è stato consegnato o fatto consegnare ad alcuno".
La mossa è prevedibile. Governo e Sismi devono scavare un fossato tra
Forte Braschi e i passi della "squadretta" di via Baiamonti. Ma la
smentita non regge alla verifica. E' un fatto che nell'autunno del
2001 il Sismi controlla a Londra le mosse di Rocco Martino. Lo
conferma a Repubblica il direttore del Sismi Pollari: "Seguivamo
Martino e avevamo anche le foto dei suoi incontri a Londra. Volete
vederle?". E dunque perché Roma non sbugiarda subito quel suo ex-
agente vendifumo? Di più perché addirittura le notizie contenute in
quel dossier vengono accreditate da Pollari a Jeff Castelli, il capo
della Cia a Roma? E' un fatto che un report sul farlocco dossier made
in Rome finisce sul tavolo dello State Department's Bureau of
Intelligence, l'intelligence del Dipartimento di Stato. Lo riceve
l'Ufficio per gli affari strategici, militari e di proliferazione
delle armi di distruzione di massa.
Affari strategici non è un grande ufficio. Vi lavorano in quel
periodo 16 analisti diretti da Greg Thielmann. Che racconta a
Repubblica: "Ricevo il report nell'autunno del 2001. E' una sintesi
che Langley ha ricevuto dal suo field officer in Italia. L'"agente in
campo" informa di aver avuto visione dall'intelligence italiana di
alcune carte che documentano il tentativo dell 'Iraq di acquistare
oltre 500 tonnellate di uranio puro dal Niger". Dunque, il Sismi
affida quelle informazioni, che sa essere false, alla Cia. C'è una
seconda conferma. A Langley l'ambasciatore Joseph C. Wilson riceve
l'incarico di verificare la storia "italiana" delle 500 tonnellate di
uranio nigerino.
Racconta Wilson: "Il rapporto non è molto dettagliato. Non è chiaro
se l'agente che firma il rapporto ha materialmente visto i documenti
di vendita o ne ha avuto notizia da altra fonte".
Bisogna ora fermare la prima immagine di questa storia.
Autunno 2001. Il Sismi di Pollari ha in mano il farlocco dossier
costruito da Rocco Martino e Antonio Nucera. Lo mostra alla Cia
mentre Rocco Martino lo consegna a Londra al MI6 di sir Richard
Dearlove. E' solo l'inizio del Grande Inganno italiano.

http://www.articolo21.info/rassegna.php?id=2640

--- Fine messaggio inoltrato ---