Informazione

Otpor, arancione a stelle e strisce

1. L'intervista di E. Remondino a S. Lazendic
2. Il commento critico di F. Grimaldi

=== 1 ===

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/30-Dicembre-2004/
art106.html

il manifesto - 30 Dicembre 2004

STANKO LAZENDIC

Otpor, arancione a stelle e strisce

Serbo di Novi Sad, è uno degli «istruttori» che ha allenato la piazza
di Kiev contro il regime. Per idealità, dice, ma anche per soldi. I
committenti? I governi Usa ed europei
E' il «consigliere speciale» per l'Ucraina dell'American Freedom House.
Accrediti professionali, Milosevic in galera all'Aja, Shevardnadze
deposto in Georgia, e ora Yanukovic rovesciato. Tante trasferte e tanti
«seminari sulla non violenza» tenuti da un ex colonnello della Cia, per
lui e gli altri «trainer». Chi paga?
ENNIO REMONDINO

Non deve essere stato particolarmente difficile per la polizia politica
e i servizi segreti ucraini, eredi del mitico Kgb, stargli dietro.
Stanko Lazendic non ha il fisico del cospiratore, dell'uomo anonimo che
trama nell'ombra nascondendosi. Due metri e qualche centimetro di
mancia, vestiti da 110 chili di muscoli, e si nota, soprattutto se a
camminargli accanto è un giornalista per così dire, «concentrato».
Abbiamo passeggiato e chiacchierato a lungo con Stanko, per le belle
strade di Novi Sad, su in Voivodina, al nord della Serbia, quasi in
Ungheria. Stanko è un giovane uomo di 31 anni che nella vita ne ha
viste molte, a cominciare dalla galera, che ha iniziato a frequentare
dall'imporsi del regime di Milosevic. Diciassette arresti non sono male
per un semplice leader studentesco, se mai è stato vero che Stanko sia
soltanto quello. Stanko non ha potuto essere presente ai festeggiamenti
dell'opposizione filo occidentale ucraina sulla piazza di Kiev, che
pure ha tanto contribuito a organizzare e a far vincere. Stanko
Lazendic è stato uno degli «Istruttori», uno dei «Trainers», che ha
allenato la piazza arancione ad opporsi e a rovesciare il regime. Un
po' per idealità, sostiene Stanko, ma certo anche per soldi, da buon
professionista. Socio fondatore della Ong, l'organizzazione non
governativa serba «Center of not violent resistence», registrata a
Belgrado. Per contatti e contratti, vedi il sito Internet. Accrediti
professionali, oltre a quello di Slobodan Milosevic che attende in
galera la sentenza del Tribunale internazionale dell'Aja per crimini di
guerra, l'ex presidente georgiano Eduard Shevardnadze, e ora il premier
ucraino filo russo Viktor Yanukovic. I committenti per queste singolari
prestazioni professionali di destabilizzazione più o meno non violenta,
sono altrettanto interessanti ma, contravvenendo a tutte le regole
giornalistiche, le lasciamo al Gran Finale del Giallo.

Stanko Lazendic è stato uno dei fondatori del movimento studentesco
serbo «Otpor», che vuol dire Resistenza, ed è da lì che parte tutto.
Resistenza popolare e non violenta al regime di Milosevic in quel
lontano 1998, quando il despota di Belgrado era ancora equivocamente
corteggiato da molte cancellerie occidentali incerte fra l'adottarlo e
il fargli guerra. Otpor nasce allora, ed è probabilmente l'unico erede
del vasto movimento democratico di piazza che negli anni precedenti
aveva quasi dato la spallata decisiva al potere della famiglia
Milosevic. Poi i partiti tradizionali, anche quelli democratici, si
erano ingoiate sia la «Rivoluzione dei fischietti» (Inverno `96, `97),
sia le speranze di cambiamento.

Otpor rivoluziona la liturgia della politica, con i multicolori delle
bandiere, nelle parole d'ordine, nella leadership collettiva, nella
musica sparata in piazza a tutto volume, e nel costante sberleffo al
potere. L'anima slava, sepolta sino allora nell'auto commiserazione, ne
approfitta per ritirare fuori la prorompente carica d'ironia e auto
ironia, dell'amara irriverenza. Ce l'avrebbero fatta da soli e prima e
meglio, quelli di Otpor, con tutto il popolo serbo, se qualche stratega
di Washington non avesse già deciso, in quella metà del 1998, che
Milosevic serviva per collaudare la forza militare della Nato come
guardiano del fronte Est dell'Impero. Quando, il 24 marzo del 1999,
sulla Jugoslavia iniziano a piovere le bombe, Otpor si arruola, assieme
a tutta la Serbia, non accanto a Milosevic, ma contro la Nato. Per loro
quelle bombe sono insensate. Puntano al despota ma colpiscono
innanzitutto le sue vittime, primo fra queste, il popolo serbo e quello
kosovaro. A quasi sei anni di distanza dai bombardamenti, non c'è
persona in Serbia, per «americana» e filo occidentale che sia, a non
chiamare l'evento «Aggressione». Sono gli stessi giovani - molti dei
quali poi diventeranno Otpor - a portare sui ponti sulla Sava e sul
Danubio la popolazione a fare da scudo umano, a sbeffeggiare l'Iper
potenza Nato. E' la loro ironia che ci fa indossare, tutti allora a
Belgrado, le magliette con la scritta «Target». Tutti bersagli, salvo
chiedere scusa quando la scalcinata contraerea serba riesce per sbaglio
ad abbattere un cacciabombardiere F117: «Scusate, non sapevamo fosse
Invisibile».

Occorrono tre mesi al Golia-Nato per stendere - con tanti «effetti
collaterali» civili - il nano militare di Belgrado. Tantini, viene da
dire. Dopo di che Otpor riprende ad attaccare il suo storico bersaglio,
il despota Slobodan Milosevic. Ricordo come allora fu possibile notare
i segni di un'insospettata abbondanza. Sempre la fantasia al potere
della protesta, ma anche qualche soldino in più per manifesti,
striscioni, apparato legale di difesa, bandiere, radio libere e
Internet pirata. Molti di quegli studenti ormai abbondantemente fuori
corso sembrava avessero studiato molto durante il duro inverno della
guerra, lezioni sul come scardinare un trucido apparato di potere per
seppellirlo sotto il ridicolo della sua sostanziale impotenza. Anche
Stanko Lazendic aveva studiato. In trasferta a Budapest, nella vicina
Ungheria che ancora non chiedeva il visto per i serbi; altri suoi amici
nel protettorato Nato della Bosnia o in quello statunitense del
Montenegro. «Seminari» li chiamavano gli organizzatori, sulla
«Resistenza non violenta».

Due le cose interessanti che riesco ad ottenere dalla memoria di
Stanko: il nome di almeno un «docente» e le molte sigle di chi pagava i
conti di quelle trasferte di «studio». Nel marzo del 2000, uno dei
docenti di Stanko all'Hilton di Budapest, fu un certo Robert Helvi, già
colonnello della Cia, operativo a Rangoon e Burma. L'Ex colonnello Cia
(esiste un «ex» in qualsiasi Servizio segreto?), aveva illustrato i 500
modi «non violenti» per destabilizzare un regime autoritario. In
pratica una rilettura del libro di Gin Sharp, «Dalla dittatura alla
democrazia», che resta dal lontano 1970 il testo base per ogni
movimento anticomunista che si rispetti, tecnica del Colpo di Stato col
Guanto di Velluto.

«Che il conferenziere fosse uno della Cia», insiste Stanko, «nessuno di
noi allora lo sospettava». Ma chi pagava quel seminario a Budapest?
Chiedo. «Quel seminario fu promosso, mi sembra, dalla Us Aid». Lo
sguardo che riceve in cambio, induce Stanko ad una giustificazione non
richiesta. «Noi non siamo della Cia, né lavoriamo per la Cia. Se così
fosse, guadagneremmo molto, molto di più dei pochi soldi che riceviamo.
Una miseria per i rischi che corriamo».

Quanti siano «pochi» i soldi che pagano le loro originali prestazioni
professionali, Stanko Lazerdic non ce lo dice. In compenso ci racconta
dei suoi committenti: ovviamente le organizzazioni giovanili dei
diversi paesi coinvolti. Tutto indipendente e tutto trasparente,
secondo lui. Ma chi paga il conto dei vostri «pochi soldi»? «A volte le
organizzazioni studentesche, a volte direttamente i loro finanziatori».
Risalendo lungo la catena della solidarietà anti despota ex comunista e
anti occidentale, arriviamo finalmente ai nomi. La generosità
democratica in Serbia, Ucraina, Georgia eccetera, ci dice Stanko
Lazendic, esce dai conti correnti di Us Aid, l'organizzazione
governativa statunitense, o dall'Iri, l'Istituto Internazionale
Repubblicano (il partito di Bush), o dal suo gemello Democratico (Ndi),
o dalla fondazione Soros, o dalla Freedom House, o dalle tedesche
«Friedrich Ebert» e «Konrad Adenauer», o dalla britannica «Westminster».

Le trasferte di Stanko in Ucraina, da agosto a settembre, per esempio,
è stata pagata prima dalla Westminster britannica e poi dall'American
Freedom House di cui è «consigliere speciale» per l'Ucraina. In
Georgia, contro Shevarndnadze, pagava Soros. La serba Otpor in formato
esportazione partorisce così «Kmara» (Basta) a Tbilisi, e «Pora» (E'
ora) a Kiev.

Prossimi impegni professionali, Stanko? «Vedremo. Dopo gli ottimi
risultati ottenuti in Serbia, Georgia e Ucraina, spero che avremo altri
contratti. Stiamo già lavorando un po' in Bielorussia e siamo in
corrispondenza con l'Azerbaijan. Vedremo». Già. Anche noi sicuramente
vedremo.

=== 2 ===

Remondino

Ennio Remondino, noto mistificatore buonista delle vicende balcaniche,
ha
avuto dal non più sorpendente Manifesto di Mariuccia Ciotta e Gabriele
Polo
e dell'arancione Astrid Dakli il privilegio di imbrattare un'intera
pagina
di una cialtronesca diffamazione dei serbi e di Milosevic, infilata
subdolamente in tardive pseudorivelazioni su Otpor e furbescamente
collocata
sotto il fuorviante titolo "Otpor, arancione a stelle e striscie", che
poteva far ben sperare. Un titolo che indurrebbe lettori fiduciosi e
consapevoli ad attendersi una, anche questa volta tardiva, ma benvenuta,
rettifica agli scomposti e bugiardi inni alla "primavera ucraina"
sciolti
dal già citato slavofobo, anticomunista, integralista albanese Astrid
Dakli.
Raccontandoci cose che soltanto la complice subalternità dei
giornalisti - e
relativi ufficiali pagatori - della sedicente sinistra radicale ha
taciuto e
stravolto, ma che chiunque di noi si documenti in modo serio aveva
capito,
se non letto e imparato, nell'immediato espandersi della neoplasia
Otpor in
Europa Orientale e nel Caucaso, il Remondino coglie la palla al balzo,
sotto
il benevolo sguardo del propalatore di "contro"pulizie etniche Tommaso
di
Francesco, per rinnovare il suo lavoro di servo furbo dei cantastorie
della
Nato, di Washington e del Tribunale di Carla del Ponte. La tecnica è
quella
di un Bertinotti qualsiasi: la guerra è cattiva, la fanno i cattivi di
Oltreatlantico, ma non meno cattivo è il "terrorismo" islamico, onde per
cui... La conclusione la può trarre facilmente chiunque, visto che il
"terrorismo" islamico non ha nessuna intenzione di sciogliersi nella
nonviolenza e nelle liturgie New Age del neosanfedista al comando del
PRC:
una sostanziale vasellinata ai missili di Bush. Così Remondino.
Coperto dalla finzione tecnica di un'intervista al mercenario prezzolato
Stanko Lazendic, violentissimo nonviolento serbo della genìa che, dopo
il
golpe "nonviolento", ma pieno di teppisti armati e col parlamento messo
a
fuoco, del 2000, ha epurato, bastonando, uccidendo, buttando in mezzo
a una
strada, compagni, giornalisti, sindacalisti, semplici funzionari di
Stato e,
dunque, avviato la svendita del suo paese al proprio carnefice,
Remondino
esercita la solita funzione del cerchiobottista - un colpo al cerchio e
duecento colpi alla botte - che lo ha incastonato quale "onesto
giornalista"
nel folgorante diadema di stupidità e dabbennaggini di tante persone "di
sinistra".
Il trucco consiste nell'inventarsi un Lazendic, giovane partecipe, con
il
"Centro di Resistenza non-violenta" di Belgrado, della rivolta
democratica
contro il "despota" Milosevic (la definizione "despota" ricorre
incessantemente nelle cinque colonne di maleodorante piombo ed è dunque
il
messaggio centrale dello scritto) e, dunque, nell' assegnare a
quell'ondata
di manifestazioni guidate dai mercenari Djindjic e Draskovic, con le
sorosiane donne in nero a sostenerne l'apparenza di autentica e giusta
espressione di malcontento popolare, una patente di democratica
spontaneità
ed autonomia che, come sappiamo, non ha mai meritato. Quel Centro e
quelle
manifestazioni non differivano nè in qualità politica, nè in retroterra
economico in nulla dal lavoro di destabilizzazione per conto
dell'imperialismo che, in chiusura, Remondino identifica negli
arancioni di
Kiev. Anche noi, piccola delegazione di antimperialisti e pacifisti,
incontrammo gli esponenti della coalizione dai vari nomi, tra cui
quello di
"Centro di Resistenza non violenta". Li incontrammo in piena guerra,
cosa
stupefacente per una dichiarata quinta colonna filo-americana, in una
loro
sala "sindacale", in piena Belgrado, sotto gli occhi di chiunque: tale
era
la "dittatura" di questo governo maniaco di elezioni, tanto da farne
ogni
sei mesi e di indiscutibili. Ci espressero tutta la loro foja
capitalista,
qualche remora per le bombe che, dopottutto, potevano cascare in testa
anche
a loro, ma una grande fiducia riservata alle spie Djndjic e Draskovic e,
soprattutto, al malvivente e narcotrafficante Djukanovic del
Montenegro. Si
ritirarono inorriditi ad apprendere che alcuni di noi erano comunisti e,
comunque, antimperialisti. Si soffermarono con loro e, anzi, intessero
duraturi rapporti di fraterna collaborazione solo i "Berretti Bianchi",
per
chi non lo sapesse il ramo itinerante dei "Beati Costruttori di Pace",
quelli che in questi giorni hanno dato il proprio contributo a un
Tribunale
sull'Iraq che raccoglievo il peggio del moderatismo equidistante della
società "civile" italiana e irachena.
Basta scorrere gli atti del Congresso USA per trovare le centinaia di
milioni di dollari stanziati a favore di questa sua quinta colonna nella
disintegrazione della Jugoslavia. Il losco giornalista, approfittando di
quella che in effetti è una memoria molto labile dell'opinione pubblica,
torna a parlare di "radio libere" che fiancheggiavano la sedizione delle
masse narcotizzate dagli agenti della Nato e degli USA. Il riferimento
non
può che essere a Radio B-92, l'emittente
finto-giovanilistico-democratica-di
sinistra foraggiata dal criminale della finanza internazionale
(filantropo
per "Liberazione"), George Soros, e amministrata da Amsterdam dal
circuito
internazionale statunitense di Radio Liberty-Radio Free Europe, rete
messa
in piedi durante la guerra fredda per destabilizzare l'est europeo.
Quindi, Remondino salva tutta l'operazione Cia-Bundesnachrichtendienst
degli
anni '95-'99 e avalla un' Otpor e un Lazendic - originaria invenzione
entrambi dei cospiratori imperialisti - patrioti e combattenti contro la
"dittatura", solo più tardi e solo per "scardinare un trucido apparato
di
potere per seppellirlo sotto il ridicolo della sua sostanziale
impotenza",
adattatasi a farsi dare "qualche soldino" e qualche lezione a Budapest
(dei
corsi di insurrezione a Sofia si scorda) da un colonello (Robert Helvi)
di
cui manco per niente sapevano che fosse della Cia (è ovvio che spia non
denuncia spia). "Quel seminario, mi sembra (sic!), fu promosso da
USAids",
registra nel suo taccuino e non contesta, l'agevolatore delle
diffamazioni
umanitarie RAI, quando di questi finanziamenti in termini di dimensioni
senza precedenti si vantano da anni (vedi BBC, vedi "Il diario") la NED
(National Foundation for Democracy, vetrina della Cia, finanziatrice dei
golpisti di Caracas), gli Istituti Democratico e Repubblicano degli
USA, le
fondazioni di destra Adenauer ed Ebert (statutariamente vocate alle
infiltrazioni nell'area socialista) e numerose altre fondazioni,
think-tank
e lobby come la International Renaissance Foundation, filiale ucraina
dell'Open Society di Soros, la Eurasia Foundation, pure finanziata da
Soros,
la Banca Mondiale, la Freedom House dell'ex-capo Cia James Woolsey, il
National Democratic Institute diretto dalla iena sionista (con rispetto
per
le iene) Madeleine Albright, oltre alle ambasciate di USA, Regno Unito e
Canada dei vari paesi interessati. Senza contare che USAid è l'agenzia
"di
aiuti allo sviluppo internazionale" che da sempre infiltra e corrompe
nei
paesi da ricondurre sotto lo stivale imperialista, oggi
nazi-imperialista.

Remondino lascia dire - e non obietta - a Lazendic: "Noi non siamo della
Cia, nè lavoriamo per la Cia. Se così fosse, guadagneremmo molto, molto
di
più dei pochi soldi che riceviamo. Una miseria per i rischi che
corriamo"
(l'unico rischio che questi criminali di guerra e di pace hanno corso
finora, in dissonanza con i riconoscimenti e gli osanna di "compagni"
come
Cannavò di "Liberazione" e Dakli e Karol del "Manifesto", sono stati i
calci
in culo ricevuti in Bielorussia, dove, comunque, Lazendic si ripromette
di
tornare a operare). Peccato che lo stesso Lazendic e un altro paio di
ceffi
dirigenti, intervistati da me quando erano installati belli belli nel
cuore
di Belgrado, nel settembre del 2000, ed erano così poveri da riempire di
migliaia di enormi cartelloni e manifesti anti-Milosevic l'intero
paese, mi
abbiano invece detto (come poi confermato da tanti e anche da De Aglio
nel
"diario"): "Siamo orgogliosi di essere aiutati da un servizio di
intelligence di un grande paese democratico". Remondino, sempre
lisciando le
chiappe a questo arnese della canea revanscista, lo inizia a sospettare
cinque anni più tardi.

Questi rifiuti della aggredita e martoriata società serba, al servizio
da
dieci anni del più bestiale imperialismo di ogni tempo, corresponsabili
di
carneficine e spaventosi degradi e impoverimenti, di dittature
colonialiste
e pulizie etniche, lanciati alla disintegrazione dello spazio
euroasiatico
ancora sottratto al dominio e alle rapine dell'imperialismo, si
meritano da
Remondino l'amichevole "Stanko" e la criminale complicità nelle
falsificazioni politiche e umane che tengono rinchiusa un'eroica vittima
all'Aja, insieme a tanti suoi compagni, e che forniscono gli strumenti
per
lo stupro sistematico della verità e della giustizia da parte di
sedicenti
sinistri radicali. A ulteriore accredito della loro genuina origine e
condotta democratiche, questo velinaro delle centrali di diffamazione
sottolinea come, insieme all'opposizione al "despota" Slobodan
Milosevic, i
bravi ragazzi di Otpor criticassero anche i bombardamenti Nato, bontà
loro,
rivendicando falsamente a loro il logo dell'antimperialismo serbo e
mondiale
"target", e quindi facendone dei veri patrioti. Posso solo opporre,
insieme
a tutti coloro che, diversamente da Casarini, Bettin e compagni
disobbedienti precipitatisi a Belgrado per rendere onore all'emittente
Cia
"B-92", avendo sostato per abbastanza tempo sotto quelle bombe Nato in
tutta
la Serbia, e anche dopo, non mi sovviene di un solo manifesto,
volantino,
opuscolo, cartellone, programma radio o TV di paternità Otpor che
esternasse
anche un solo bisbiglio di disapprovazione nei confronti dei bombaroli.
E se
pure ci fosse stato, chi si crede di minchionare questo servo furbo? Se
anche uno solo dei teppisti Otpor avesse osato in quei giorni
applaudire in
pubblico gli assassini di un popolo, non avrebbe avuto modo di uscire
dalla
sua tana a stelle e striscie per il resto dei suoi giorni.
Nota personale che riguarda un bertinottismo non certo di recente
origine.
Quando nel 2000, documentatomi sui fatti e tra protagonisti, da
Belgrado
inviai al mio giornale, "Liberazione", reportages che dettagliatamente e
provatamente riferivano, per primi, delle azioni e della natura di
Otpor, il
caporedattore Salvatore Cannavò, allievo di Sandro Curzi, capofila della
lista civetta trotzkisteggiante "Un'altra Rifondazione è possibile" per
il
prossimo congresso nazionale del PRC, cestinò tutti i miei pezzi e
scrisse
invece di suo pugno un benvenuto ai "compagni di Otpor" e un invito a
partecipare alla prossima sessione del movimento no-global a Nizza, o in
qualunque altra istanza, nientemeno! Invito accolto con entusiasmo dai
mercenari serbi ai microfoni di Radio Sherwood, radio ufficiale a Padova
delle allora "Tute Bianche". Oggi Cannavò è vicedirettore, io sono un
licenziato di "Liberazione" e un condannato di Rifondazione, per aver
detto,
scritto e manifestato "Bertinot-in-my-name". Cosa c'entra Bertinotti
con le
vergogne di Remondino? Al ritorno dalla Jugoslavia distrutta e
frantumata e
dal suo presidente violentato, consegnai nelle mani del sovrano del PRC
un
dossier con tutte le informazioni su Otpor che altri avrebbero
convalidato
anni più tardi e gliene feci a voce una breve sintesi. Mi rispose:"Cosa
vuoi, in ogni movimento rivoluzionario (sic!) ci sono frange strane..."
Sorrise e si voltò sui tacchi. Uomo di grande fascino.
Caro "Manifesto", hai provato a rimediare alle bassezze dei tuoi
interventi
arancioni sull'Ucraina fagocitata dal moloch anti-umanità. Ti ci hanno
costretto le verità che fiottavano a valanga dalla stessa pancia del
mostro,
come Ramsey Clark - oggi ufficialmente avvocato difensore del presidente
Saddam Hussein, come sempre coraggioso combattente, impermeabile a ogni
intimidazione e conformismo - chiama il suo paese. Ma il tuo salto della
quaglia, una volta di più, è stato troppo corto: sei di nuovo finito
nella
merda. Di queste cose lascia scrivere un Manlio Dinucci, o uno Stefano
Chiarini. Eviteresti lo sgretolamento finale di quel logo sotto la
testata:
"quotidiano comunista".

Fulvio Grimaldi
bassottovic@...

Uberto Tommasi – Mariella Cataldo,

Kosovo buco nero d’Europa

Edizioni Achab, Verona,
ottobre 2004, euro 11,00

 
INDICE:

Andrea Catone, Prefazione, pp. 5-8

Uberto Tommasi , Kosovo; Diario di viaggio, pp. 9-87

Prologo

Il Montenegro

La città assediata

Le case rubate

La danza dei cappi

La notte dei cristalli

L’amerikano

Il sogno di un prete

Nella tana dell’Uck

Il testamento di Tito

Il monastero di Decani

Pec

La stanza degli uomini

Uranio 238

Il vecchio rom

L’aquila nera

Un posto da serpenti

Dopo il Kosovo toccherà alla Palestina

 

Mariella Cataldo, Kosovo leti! (Voliamo in Kosovo), pp. 89-131

Dovidenia Jugoslavija, Arrivederci Jugoslavia

Un piano di soluzione politica per il Kosovo

Profughi a Kragujevac

Una Giulietta serba

Nenad il kosovaro

La casa dei doganieri

La peonia rossa

Il buco nero

Oggi arrivano i barbari

Buona notte Kosovo!

Annessi, pp. 133-141

---

Prefazione 

Andrea Catone

 
Kosovo, vi dice niente questa parola?

I riflettori di giornali e TV da tempo si sono spenti su questa
provincia grande all’incirca quanto il Trentino o la Basilicata (poco
più di 10.000 km2), formalmente appartenente ancora alla Serbia, per la
quale diversi anni fa, nell’ormai lontana primavera del 1999, fu
rovesciato dalla NATO, l’alleanza militare più potente del mondo, un
torrente di missili e bombe, bombe a grappolo e proiettili all’uranio
impoverito compresi, su tutto il territorio di quella che si chiamava
ancora Repubblica Federale Jugoslava. Fu la guerra del Kosovo, ma
l’ipocrisia dei leader al governo, allora quasi tutti “democratici” e
“di sinistra”, dall’italiano D’Alema al tedesco Schröder, preferì non
pronunciare la parola “guerra” e parlare di “azione militare”,
“intervento”, “azione di polizia internazionale”. Fu la cosiddetta
“guerra umanitaria”, scatenata contro un paese che non aveva aggredito
nessun altro Stato, che non ne minacciava nessuno, per impedire, così
si disse, una “catastrofe umanitaria”, un “genocidio” dei
kosovaro-albanesi. Non era vero, nessun genocidio era in atto, come un
anno dopo, nel marzo 2000, ammise, in un documentato dossier curato da
Serge Halimi e Dominique Vidal, Le monde diplomatique, uno dei
pochissimi giornali che fecero esplicitamente autocritica sul modo in
cui si era parlato della situazione in Kosovo.

Ma le menzogne, i falsi, le contraffazioni servivano a spianare il
terreno per ottenere il consenso, o quanto meno il non-dissenso, per
l’aggressione armata alla Jugoslavia. Come ebbe a dire il deputato
tedesco della CDU Willy Wimmer, “non era mai successo finora che così
pochi mentissero a così tanti e così a fondo come in rapporto alla
guerra del Kosovo[1]”. La menzogna e la contraffazione hanno preceduto
e accompagnato la guerra della NATO contro la Jugoslavia, dal massacro
di Račak, attribuito alle milizie serbe e smentito da successivi
rapporti e autopsie di funzionari internazionali[2], alle centinaia di
migliaia di kosovaro-albanesi che l’esercito di Milošević avrebbe
massacrato[3], ridottesi, nel dicembre 1999, dopo accurate ricerche
degli osservatori internazionali, a 2018 cadaveri di tutte le etnie[4],
o l’operazione “ferro di cavallo” che il governo jugoslavo avrebbe
ordito per realizzare la pulizia etnica, anche questa inventata di sana
pianta dal governo tedesco, come rivelò in seguito il generale
Loquai[5].

La guerra contro la Serbia, fortemente voluta dai tedeschi e
dall’amministrazione Clinton - come mostrano chiaramente tutte le trame
cui Madeleine Albright ricorse per imporre nelle trattative al castello
di Rambouillet un diktat inaccettabile[6] alla delegazione jugoslava -
serviva a ben altro. Lo spiegava chiaramente ai suoi lettori un
insospettabile Sole 24 ore: serviva allo “sviluppo ed il controllo
delle vie di comunicazione ed energetiche verso e dal Medio Oriente ed
Asia Centrale […] Rifare i Balcani non è solo una questione intricata
di frontiere, ma significa ridiscutere la mappa dei corridoi
trans-europei […] nelle retrovie dei campi di battaglia, ogni Stato sta
spingendo verso una soluzione geopolitica ed economica conveniente”[7].
E accanto e complementare al controllo dei corridoi energetici e delle
vie di comunicazione, il controllo delle risorse minerarie (specie la
lignite, come Uberto Tommasi sottolinea nel suo racconto-inchiesta), di
cui il Kosovo, in particolare nella zona di Trepča, è ricco. Ma, poiché
oggi, nell’età dell’imperialismo più aggressivo, il McDonald non può
prosperare senza McDonnel Douglas, il costruttore dell’F-15 e di tanti
caccia USA, poiché gli interessi economici delle grandi potenze vengono
sostenuti dalla potenza di fuoco dei bombardieri, ecco che la guerra
contro la Jugoslavia frutta agli USA la più grande base militare in
Europa, Camp Bondsteel,che tra soldati e personale esterno può ospitare
fino a 50.000 persone: 25 chilometri di strade, 300 edifici, 14
chilometri di barriere di cemento, 84 chilometri di filo spinato.

           Ma su tutto questo i grandi media tacciono, come tacciono
sul fatto che,ad oltre cinque anni dalla “guerra umanitaria”, che con
pesanti bombardamenti sulla Federazione jugoslava dichiarava di voler
evitare un genocidio, si sta realizzando un etnocidio. Le fanfare
mediatiche che prepararono e accompagnarono con grande fragore di
suoni, immagini, parole, la “guerra umanitaria”, cedono il posto alla
condanna del silenzio. Un silenzio imbarazzato e complice.

Questa regione nel cuore dei Balcani, contesa da secoli, nella quale
all’ombra dei difensori dei diritti umani, delle truppe NATO e
dell’ONU, si sono consumati in cinque anni i più efferati delitti ed
una pulizia etnica radicale e violenta, questa regione è destinata alla
rimozione e all’oblio. Poiché oggi non si può disinformare, poiché oggi
non si può raccontare la favoletta di una ritrovata convivenza tra le
diverse etnie, di una democrazia instaurata in cui viene rispettata la
legalità e uno stato di diritto – qui vige la legge del più forte,
dell’impunità per gli assassini, questo è oggi un grande narcostato che
traffica in armi, schiave, droga[8] – poiché è talmente plateale la
realtà di una discriminazione sostanziale dei serbi, di un’oppressione
senza limiti, di una vita invivibile sotto la permanente minaccia di
violenze, sequestri, assassini, devastazioni, o “semplici” vessazioni
quotidiane come l’abituale lancio di sassi su automobili con targa
serba, ecco che allora è preferibile tacere, stendere un velo spesso di
oblio. Dimenticate il Kosovo, ignorate il Kosovo, non nominatelo, non
parlatene! Perché se ne parlate è una ferita aperta nel cuore
dell’Europa. Perché non si turbino le coscienze di chi la guerra la
promosse , giustificò e sostenne ideologicamente e politicamente,
perché si possa affermare la favola dei diritti umani portati sulle
bocche di fuoco della “guerra umanitaria”, il Kosovo deve essere
ignorato. Dimenticate il Kosovo, dimenticate le migliaia di morti e
distruzioni che furono portate per imporre alla Serbia il “nuovo ordine
mondiale”. Il Kosovo è oggi il luogo dove ammutoliscono i discorsi
retorici della “comunità internazionale”, è la testimonianza vivente e
sanguinante della menzogna della “guerra umanitaria”. Il Kosovo è oggi
il luogo della insicurezza estrema, della mancanza di diritti reali per
le minoranze, è il luogo della sopraffazione, della giustizia negata,
della verità contraffatta. Oggi il Kosovo è il luogo del silenzio.

           Questo silenzio Uberto e Mariella provano a rompere, con la
voce accorata, ma anche lieve, dimessa, familiare, apparentemente e
volutamente non curata, conversevole, talora ironica o sarcastica, ma
sempre partigiana, la voce di chi si sente di stare, con passione e
solidarietà, dalla parte degli oppressi, la voce di chi sente montare
un moto violento d’indignazione, a stento trattenuto, per l’infamia di
una condizione umana che è insicurezza di vita, che è vita senza vita,
una condizione che si vorrebbe gridare con tutto il fiato che si ha in
corpo a un mondo che, indifferente, dopo la “guerra umanitaria”, ha
spento la luce sul Kosovo molto più a lungo di quanto non facciano le
continue interruzioni di corrente elettrica nel paese “liberato” dalla
NATO. I racconti di viaggio di Uberto e Mariella - di un viaggio
compiuto in tempi diversi e in zone diverse, da parti diverse, l’uno,
reporter di guerra nelle zone più esposte dell’ultimo decennio del
secolo, viaggiando con una macchina con targa italiana a incontrare e
intervistare i “vincitori” albanesi (aprendo al lettore improvvise e
folgoranti brecce per comprendere una mentalità in gran parte ignota),
o gli “amerikani” che spadroneggiano, ma anche i rom perseguitati e
costretti ad una vita di stentata sopravvivenza; l’altra, viaggiando
con un’auto con targa serba, cui è consentito muoversi con un minimo di
tranquillità solo nelle enclave serbe, a incontrare il mondo dei
“vinti”, delle donne serbe cui i terroristi dell’UCK hanno rapito o
ucciso il marito sotto lo sguardo indifferente e oggettivamente
complice della KFOR; dei ragazzi serbi che sono costretti per studiare
all’università a farsi 500 chilometri invece di 100 per non incorrere
nelle maglie della ferocia etnica; dei frati degli antichi monasteri
ortodossi rischiosamente sfuggiti agli incendi e devastazioni del
pogrom di marzo – sono squarci di voci che rompono l’assordante
silenzio, sprazzi di luce nella notte in cui i grandi media hanno
avviluppato il Kosovo.


[1]Citazione del deputato tedesco della CDU, Willy Wimmer, riportata
daJürgen Elsässer, in Menzogne di guerra - Le bugie letali della NATO e
le loro vittime nel conflitto per il Kosovo, La Città del Sole, Napoli,
p. 22.

[2] Cfr. oltre al minuziosamente documentato libro di Elsässer,Robin de
Ruiter, Jugoslavia: prima vittima del “nuovo ordine mondiale”, Zambon
editore, Frankfurt a.M., 2003, nonché Enrico Vigna, Kosovo “liberato” –
le menzogne per fare le guerre le ragioni per fare la pace, La città
del sole, Napoli, 2003, cui è annesso il bel film-inchiesta di Michel
Collon e Vanessa Stojlković, Les damnés du Kosovo, che denuncia la
pulizia etnica delle minoranze nel Kosovo governato dall’ONU e dalla
NATO.

[3] 800.000 secondo Standard Vienna (7 aprile 1999), 500.000 secondo un
comunicato del Dipartimento di stato USA del 5 aprile 1999, 300.000
nella comunicazione di D’Alema alla Camera del 13 aprile. Tutti i
principali leader politici e i mass media parlarono di genocidio in
atto.

[4] Cfr. il dossier di Le monde diplomatique, marzo 2003.

[5] Cfr. J. Elsässer, op. cit., capitolo5,Wag the dog. Come la Nato
escogitò una campagna serba di espulsioni – “l’operazione a ferro di
cavallo”.

[6] Si pretendeva, tra l’altro, che l’intera Repubblica federale
jugoslava fosse aperta alle truppe della NATO, cosa che significava una
rinuncia totale alla sovranità statale.

[7] Cfr. Alberto Negri, “Qual è la reale posta in gioco della
ricostruzione dei Balcani?”, in Il sole 24 ore,30 luglio 1999.

[8] Cfr. l’analisi del generale Fabio Mini, già comandante della KFOR
in Kosovo, “Fuga dai Balcani”, in Limes, 2003, n. 6, pp. 35-36.

---

Gazzetta del Mezzogiorno, web

«Kosovo buco nero d’Europa»

[ La giornalista S. Deretic traccia un parallelo tra gli eventi in
Kosmet, dove il terrorista Haradinaj e' stato designato "premier" con
il beneplacito di UE ed USA, e l'Ucraina, dove il demagogo nazionalista
Juschenko e' stato foraggiato da UE ed USA per portare l'Ucraina
all'interno del fronte antirusso. A questo scopo in Ucraina vengono
riportati in vita i fantasmi del nazismo, come prima e' stato fatto per
squartare la Jugoslavia: adesso sono i reduci del movimento di Bandera
ed i fondamentalisti della Chiesa Uniate (fedele al Vaticano) ad essere
usati, proprio come in Croazia gli ustascia ed il clero
romano-cattolico. Pogrom anti-ortodossi furono scatenati nel corso
della II Guerra Mondiale tanto nella "Grande Croazia" quanto in
Ucraina: allora era per il Terzo Reich, adesso e' per la NATO, sempre
comunque in nome del "primato del vescovo di Roma"... ]

http://www.artel.co.yu/en/izbor/jugoslavija/2004-12-29.html

And What After the Elections?

Belgrade, December 10, 2004.
Spomenka Deretic, journalist
informgraf @ yahoo.com

In Serbian:
http://www.artel.co.yu/sr/izbor/jugoslavija/2004-12-20.html

Ramus Haradinaj, former chief of the special terrorist unit "Black
Eagles", renowned for many crimes committed against Serbs and Albanians
loyal to Serbian state, is chosen for the role of the Kosmet
(abbreviation for Kosovo and Metohija) prime minister, with the
blessing of the UN. Haradinaj organized crematory for Serbs in the
village Klecka, is collaborator of Al Quaida, personally killed 67
Serbs and ordered more than 400 abductions of Serbian and other not
Albanian population. Prove about all this was delivered to the Tribunal
at the Hague. Haradinaj is the serpent’s egg of the Albanian
institutional system in Kosmet in spite of the fact that the fighters
of UCK that changed their clothes into to Kosovo protection corps or
Kosovo defense troops earnestly support him. Here we should add that
around hundred Albanians are at present being trained for handling
fighting helicopters, while the army of Serbia and Montenegro since the
coming of DOS to power is being systematically destroyed. On the other
hand, in Kosmet at every moment it is possible to mobilize around half
a million of soldiers, to whom it will not be hard to "liberate" as
well municipalities Medvedja, Presevo and Bujanovac, than Toplica and
Vranje in few years, if demo(n)crates are not going to be ousted from
power.

Albanians in Kosmet are supported by Washington, European Union and
NATO and are covering up all Albanian crimes toward Serbs and not
Albanian residents. Therefore it is pertinent to pose the question why
Brussels and Washington did not advise their Albanian friends (and they
would accept such advice) to choose for the prime minister someone like
Veton Suroi or somebody from Rugova’s party, who did not directly stain
their hands with blood, but also fight to the last drop of blood for
independent Kosmet. Hague Tribunal will raise the indictment against
Ramus Haradinaj or they will show transparently in front of the eyes of
the entire world their bias. Globalistic brokers do not like to be
caught red-handed. If, however, Hague Tribunal takes into custody
Haradinaj, than the Albanian terrorists in Kosmet will trigger of
bloody demonstrations, repeating March 2004 pogrom of Serbs. They will
have to attack even members of KFOR and UMNIK if they attempt at all to
defend Serbs, as it would be their obligation to do. This time KFOR and
UMNIK will not be able to explain to anybody that they were caught by
surprise again. German public is unpleasantly astonished by the recent
statement of one Albanian spy of German secret service and CIA who
declared that he forewarned Bon and Washington in March that pogrom was
being prepared by Albanians. This information is coordinated by
declarations of several Western officials that Haradinaj would give
himself up if Carla del Ponte would raise indictment against him. The
election of Haradinaj for the prime minister of Kosmet could be the
cuckoo’s egg for the bosses of the narkomafia’s and arms dealers’
Empire, what Kosovo and Metohija presently became indeed. This could be
the warning that Albanian narco bosses have become too arrogant and do
not deliver enough to their foreign friends. It should be thought about
the effects for inter-party and American relations if it came to
another scandal in Kosovo and Metohia and ethnic cleansing of Serbs.
Occupation of Kosmet was realized by the Clinton administration,
democrats among whom the most outspoken were Madeleine Albright and
Richard Holbrooke. Albright and Holbrooke supported the presidential
candidate Carry and do not count themselves among friends of George
Bush, even though they still hold administrative apparatus and
analytical groups in State Department. The rebellion in Kosmet would be
the proof that democrats in America are more capable for foreign policy
conducting than Bush’s republicans.

There is no Serb human being in Belgrade that would be able to
negotiate with the terrorist and criminal Haradinaj, except for the
small son of the great father (B. Tadic) and that person to which God
himself took his senses (V. Draskovic), but they are neither Serbs nor
human beings, they are something like the collateral damage, contingent
and dangerous.

AND AFTER BANDERA, BANDERA

The Ukrainians, after the second round of presidential elections in
which Juscenko lost, the pet of the West and terroristrevolutionary
organizations financed by Soros like Otpor and Pore, will again go to
the polls. They will have to choose until they choose Juscenko and
together in the package with him the fake "leftist" Julia Timosenko who
took pictures in the mantel with swastikas, and after whom Russia
raised an international warrant due to her theft and attempts to bribe
Russian officers.

It is the fact that in the second round of presidential elections the
people in a poorer Western Ukraine, in majority voted for the favorite
of Bon and Washington, Victor Juscenko. In Western Ukraine and
especially in and around Lvov and Uzgorod since 1941 and even dozens of
months after the end of the Second world war, fascist Ukrainian army of
Stepan Bandera killed more than sixty thousand civilians and members of
the Red Army. After the war ended, some uniate clerks hid Bandera’s
men, so this is not surprising why some of them died while fighting
together with Bandera’s fighters against Soviet special units. During
the time of the so called "perestroika" the spiritual children of
Stepan Bandera have excavated their supposed mass graves, blaming
Russians and Orthodox people for all the ills of this world and
manipulated with the young in Western Ukraine, creating thus the
appropriate climate for future Juscenkians. By the middle of the
nineties, several hundred of uniate clerks, mostly poor peasant
children, returned to Ukraine from their schooling in America, in order
to diffuse Unite orientation and anti Orthodox and anti Russian
chauvinism.

Several days ago the Russian TV "Planet" showed a documentary film on
the bloody rampage of Bandera’s terrorists. Several interviews were
shown as well with survived Banderians. Some confessed that there were
mobilized by force and some bragged that they fought for the
independent Ukraine without Orthodoxy. Their contemporary idol is
Victor Juscenko with Julia Timoscenko and swastikas. "Planet" emitted
also the pictures of holes filled with bodies of women and children
whom Bandera’s terrorists killed after the end of the Second world war.

Fifteen millions of Ukrainians voted for Victor Janukovic, entire
developed Eastern Ukraine, Kozacs and Crimea. Even if in the third
round at the end of December Juscenko won (and this is possible with
the help of stealing votes) he would not be able to be the factual
President of that more developed part of Ukraine that does not want him.

And what next? I came to the reliable information that Rend Corporation
created analysis for the American army on the provocation of conflicts
from Baltic republics (NATO member states) with Russia. Brussels needs
for this the Ukrainian rear. For the time being this is only an
analysis, but such analyses are not being made just for the fun’s sake.

Juscenko’s demonstrators are retreating from Kiev, which they have for
days besieged and occupied, but the demonstrations of that not
satisfied with election results, began in Bucharest. The losers, if
they are in accordance with the will of Brussels and Washington, they
change the results on the streets in countries of Eastern Europe. What
concerns the West, I did not notice that Democrats in USA organized
demonstrations after the defeat of their candidate on the presidential
elections John Carry. I am convinced that American democrats in the
past decade became very much involved in Europe, in Pristine, in
Belgrade, in Kiev (Prague and Eastern Berlin I do not mention since in
these cases Gorbacov and Jakovljev cooperated). Indeed, globalizers are
true revolutionaries, while Bolsheviks and Che Guevara were naïve like
children in comparison.

Most za Beograd – Un ponte per Belgrado in terra di Bari
Associazione culturale di solidarietà con la popolazione jugoslava
via Abbrescia 97, 70121 BARI - CF:93242490725- tel. 0805562663
e-mail: most.za.beograd @...  - conto corrente postale n.
13087754 

---

Franco Altimari ha scritto:
 
"REPLICA ALL'ARTICOLO KOSOVO, IL LUOGO DEL SILENZIO.
 Fate bene a intervenire per ridare forza a quanti si battono per
creare un Kosovo veramente multietnico e 'plurale'. Ma, con molta
franchezza, devo dirvi anche che per combattere il nazionalismo
albanese non potete basarvi sulla propaganda del nazionalismo serbo,
che - non dimentichiamolo! - è stato all'origine del dramma del Kosovo
e dei Balcani! Ma neppure gli sciovinisti serbi più radicali si erano
sinora spinti al punto, come fa nel suo articolo Mariella Cataldo da
voi acriticamente ripreso, da dichiarare che nel  Kosovo, a causa delle
pesantissime violenze subite, la presenza serba si è ridotta dal 90%
(sic!) all'1,5%!  Cerchiamo di essere seri e di non trasformarci in
megafoni dei nazionalismi balcanici!
Cordialmente
Franco Altimari - Rende"

---

A Franco Altimari
 
    Sulla storia delle guerre jugoslave degli anni 1990 corre da anni
la vulgata che sarebbero state causate dal "nazionalismo serbo". Ma
questa è la storia scritta dai vincitori e dal tribunale dell'Aja. Essa
si fonda sulla demonizzazione dei serbi.
Se vogliamo invece comprenderla e non fare propaganda di guerra per la
NATO, occorre un altro approccio che guardi alle contraddizioni interne
della Jugoslavia, al suo giugulamento economico da parte del FMI sin
dagli anni '80, ai disegni e alle contese tra le grandi potenze per il
controllo di un'area strategicamente importante.
 
    Una precisazione sulle percentuali  nel rapporto tra popolazione
serba e albanese nel Kosmet. Nell'articolo citato è evidentemente
saltato un rigo: quel rapporto, come si può leggere nel libro di Uberto
Tommasi e Mariella Cataldo "Kosovo buco nero d'Europa", si riferisce
alla cittadina di Vitina nel sud del Kosovo, zona controllata dalle
truppe USA, dove ci siamo recati personalmente e abbiamo praticamente
incontrato quasi tutta la minuscola comunità serba rimasta, gli orfani
dei morti ammazzati e dei desaparecidos a partire dall'estate del 1999,
quando, dopo i violenti bombardamenti della NATO, si sono ritirate le
forze della RFJ e sono rientrate, al seguito delle truppe NATO, le
bande dell'UCK, seminando il terrore.
    I rapporti ufficiali dell'ONU, già prima dei pogrom del 17-20 marzo
2004, parlavano di circa 250.000 profughi serbi, rom, gorani e delle
altre minoranze non albanesi e di migliaia di uccisi e desaparecidos.
Quei pochi profughi che hanno provato a rientrare hanno desistito per
il clima insostenibile creato intorno alle minoranze e le continue
vessazioni cui sono sottoposti. I pogrom di marzo hanno reso ancor più
invivibile per le minoranze serbe la terra del Kosovo, in cui abitavano
da generazioni.
    Dopo i pogrom di marzo il parlamento serbo ha avanzato la proposta
di un piano per la soluzione politica del problema del Kosovo", in cui
sostiene che nella situazione attuale l'unica possibilità di garantire
il ritorno delle minoranze è la creazione di zone, prevalentemente ai
confini con la Serbia,  amministrate direttamente dai serbi, poiché
attualmente le istituzioni multietniche sono solo una fictio juris, che
non dà alle minoranze non solo alcun potere, ma nessuna garanzia di
sicurezza. Tutti i partiti albanesi del Kosovo, da quello del
"moderato" Rugova (che non ha sollevato un dito contro i vergognosi
pogrom di marzo 2004) alle filiazioni dirette dell'UCK, hanno respinto
il piano poiché rivendicano immediatamente l'indipendenza. I paesi
della UE, cui il piano è stato presentato, lo hanno anch'essi respinto.
Sicché attualmente non c'è alcuna proposta concreta da parte della
"comunità internazionale"per il rientro degli oltre 250.000 profughi
nelle loro terre. (Allego in calce il capitolo del libro "Kosovo buco
nero d'Europa" in cui si parla del piano).
 
    Le notizie che ci arrivano dal Kosovo in questi ultimi giorni ci
parlano di una situazione ancor più drammatica: lì dove sono le
minoranze serbe non viene erogata la luce; si notano sensibili
movimenti di armi, come se l'UCK, rivestita nei panni rispettabili di
un "primo ministro" Haradinaj, si preparasse al gran botto finale con
l'annunciata proclamazione dell'indipendenza nel 2005. 
    Evocare in questa situazione lo spettro del "nazionalismo grande
serbo" mi sembra qui francamente paradossale. E' una strategia di
diversione per chiudere gli occhi di fronte a questa realtà. La
popolazione serba è oggi trattata come i peggiori paria del mondo; ci
sono circa un milione di persone scacciate dalle Krajne, dalla Bosnia,
dal Kosovo, che vivono in condizioni estremamente precarie e su cui la
"comunità internazionale", così solerte a bombardare la Jugoslavia,
tace.
    Nel sud della Serbia il fuoco del movimento armato separatista
albanese cova sotto la cenere; una situazione non troppo dissimile è
anche nel Sangiaccato (come oggi chiamiamo in occidente la regione di
Novi Pazar tra Montenegro e Serbia dove è presente una consistente
componente di religione musulmana), in cui anche la crisi economica del
settore tessile, che aveva prosperato prima dell'aggressione della NATO
del 1999, viene utilizzata da movimenti separatisti antiserbi.
    Nei Balcani le potenze imperialiste giocano il loro sporco gioco
sulla pelle delle popolazioni. Gli USA sostengono oggi apertamente
l'indipendenza del Kosovo e i movimenti separatisti del Montenegro
contro l'Unione Europea che -  dopo aver regolato i conti con la RFJ,
che con Milosevic si opponeva alla NATO e alle politiche neoliberiste
(a questo proposito si possono leggere utilmente i rapporti degli
istituti strategici e delle banche occidentali degli anni 1997-2000) -
non ha nulla da guadagnare da una nuova esplosione dei Balcani e da una
ridefinizione, certo non pacifica, dei confini e degli stati.
    Tutta l'economia del Kosovo oggi è un'economia drogata (anche nel
senso che si basa sul traffico e raffinazione di droga), di traffici
loschi e in nero. Le statistiche ufficiali parlano di un tasso di
disoccupazione del 70%. I principali proventi non in nero provengono
dalle truppe di occupazione, dalla base americana di Bondsteel (la più
grande in Europa) e dagli aiuti internazionali (che non sono
investimenti in attività produttive). In questa situazione diventa
relativamente facile soffiare sul fuoco dell'indipendenza e farsi
manovrare dalle potenze imperialiste.
 
    Distinti saluti
    Andrea Catone, Bari
 
---

Da "Kosovo buco nero d'Europa", di U. Tommasi e M. Cataldo, edizioni
Achab, Verona, 2004, euro 11,00, pp. 93-96.

[il 50% del prezzo di copertinha dei libri distribuiti direttamente
dalla nostra associazione va al progetto di solidarietà con gli orfani
di Vitina vittime della pulizia etnica antiserba]


Un piano di soluzione politica per il Kosovo

           Il 23 luglio 2004 incontriamo Simić. È un uomo gentile e ci
offre il caffè rendendosi disponibile ad una nostra intervista che dura
parecchio. Lui ringrazia il popolo italiano per le manifestazioni
contro la guerra: “purtroppo, la salvezza degli albanesi è stata una
scusa per i bombardamenti della NATO nella primavera del ’99”. Commenta
tristemente che la politica imperialista ha invaso completamente il
mondo e riconosce nel manifesto di una conferenza che la nostra
associazione, Most za Beograd – Un ponte per Belgrado in terra di Bari,
ha organizzato a marzo, intitolata “Emergenza Kosovo”, la chiesa di San
Nicola a Priština (oggi distrutta dopo i pogrom di marzo) costruita dai
suoi antenati. Ci dice che il governo e il parlamento hanno redatto la
proposta di un “piano per la soluzione politica alla situazione in
Kosovo e Metohija”, che proprio in questi giorni lui e altri esponenti
del governo stanno illustrando ai rappresentanti di alcuni stati
europei. Infatti, Simić è appena rientrato da Parigi.

           Ci spiega che nella situazione attuale, soprattutto dopo i
terribili fatti di marzo, la minoranza serba in Kosovo può sopravvivere
solo se raggruppata in entità di una qualche consistenza. Secondo la
risoluzione 1244 del 10 giugno 1999, le Nazioni Unite avrebbero dovuto
sviluppare in Kosovo istituzioni di autogoverno democratico provvisorio
per assicurare condizioni di vita pacifica e normale per tutti gli
abitanti del Kosovo, facendo sì che tutti i rifugiati e gli sfollati
potessero ritornare senza ostacoli alle loro case. Ma ciò che è
accaduto a marzo di quest'anno, dopo cinque anni di amministrazione ONU
(UNMIK) e di presenza NATO in Kosovo – un vero e proprio pogrom e
pulizia etnica nei confronti dei serbi e dei non albanesi – ha rivelato
il fallimento del mandato delle N.U., che non sono state in grado di
proteggere né la vita, né la libertà, né la sicurezza, né le case, né i
siti religiosi e l'eredità culturale della comunità serba (secondo il
rapporto di aprile 2004 del segretario generale delle N.U., 36 chiese e
monasteri ortodossi sono stati danneggiati o distrutti; dal giugno 1999
sono 115 in tutto). Qualche decina di migliaia di soldati della NATO e
di altri paesi non sono in grado di offrire un'effettiva protezione
fisica a un centinaio di migliaia di serbi, alle loro proprietà e
chiese, sparse attraverso un territorio piuttosto vasto. L'intolleranza
nazionalista dimostrata dalla maggioranza della popolazione albanese è
così forte che minaccia letteralmente l'esistenza fisica dei serbi su
una terra che essi hanno abitato con continuità per oltre dieci secoli.
Non ha funzionato, non funziona, il quadro istituzionale sinora
adottato per il Kosovo, esso non è stato in grado di preservare la pace
e difendere i diritti umani. Perciò, continua il nostro interlocutore,
occorre ripensarlo per creare le condizioni di una vita pacifica e
normale per tutti i serbi e gli altri non albanesi e per assicurare ai
profughi un ritorno sicuro e senza ostacoli nelle terre da cui sono
stati cacciati con la violenza. Si tratta di dotare i serbi e le altre
etnie non albanesi di autonomia territoriale. Questo cambiamento non
minaccerà l'integrità territoriale del Kosovo, o i diritti legittimi
della comunità etnica albanese. Il principio della “autonomia
nell'autonomia” (cioè l'autonomia delle comunità serbe e non albanesi
all'interno della provincia autonoma del Kosovo) non significa
rinunciare ad una società multietnica e multiculturale. Tutt'altro!
Anzi, questa è la sola via per renderla possibile. Multietnicità e
multiculturalismo sono un tratto distintivo della storia del Kosovo e
della Serbia, posti come sono al centro del Balcani. Col tempo
l'autonomia territoriale creerà le condizioni per la riconciliazione e
la fiducia reciproca.

           Ma – chiediamo - quest’autonomia territoriale, questo
“decentramento” – i nostri media lo definiscono comunemente
“cantonizzazione” - che implica che i serbi amministrino le
municipalità in cui vivono i serbi e gli albanesi quelle in cui vivono
gli albanesi, non mette forse in discussione il principio della
multietnicità? L’attuale organizzazione territoriale – e qui Simić fa
riferimento a un’idea-base esposta nel piano - si fonda su un'idea
astratta e rivelatasi fallimentare di società multietnica, un'idea che
non tiene conto della situazione concreta, reale, del Kosovo, dove
siamo di fronte ad una società multietnica ancora profondamente divisa.
E così si presume astrattamente che l’autonomia del Kosovo, come fu
definita dalla costituzione jugoslava del 1974, fosse la soluzione
giusta e razionale per le relazioni etniche tra le due principali
comunità, albanesi e serbi. Ma gli albanesi non furono affatto
soddisfatti di essa – come ben mostrò la vasta ribellione dell’aprile
1981 – né i serbi la trovarono accettabile, poiché non salvaguardava i
loro diritti. Bisogna tener presente, infatti, che, a parte il periodo
dell'immediato dopoguerra, la più grande ondata migratoria dei serbi fu
registrata precisamente nei primi anni '80. E ora, dopo l'ingresso
della NATO, la pulizia etnica di serbi, quella di più vaste proporzioni
nella storia, è avvenuta ben prima del pogrom del 17 marzo: essi sono
stati brutalmente scacciati dalle loro case nelle settimane successive
al giugno 1999. I serbi, i rom, e le altre comunità non albanesi furono
confinati in piccole enclave sparpagliate sul territorio. (Riserve
indiane o peggio, traduco tra me e me). In queste piccole riserve i
serbi stanno lentamente, ma inesorabilmente, scomparendo.

           Di fronte a questo stato di cose a qualcuno potrebbe venire
in mente che un Kosovo indipendente sia la soluzione logica, ma ciò non
farebbe che destabilizzare ulteriormente l'intera regione balcanica,
con rivendicazioni di cambiamento di confini di tutti gli stati: per
l'Europa sarebbe una catastrofe. La creazione di un Kosovo indipendente
sarebbe dal punto di vista internazionale un precedente terribile per
ulteriori separatismi ottenuti con bombe e violenza. L’indipendenza
sarebbe la cosa peggiore anche per gli stessi albanesi e per l’Europa,
ci sarebbe una reazione a catena.

           È necessario sradicare qualsiasi possibilità che si
verifichino di nuovo pogrom e violenze antiserbe e dare la possibilità
a tutti i profughi di ritornare nella provincia. Differire il loro
ritorno per mancanza di sicurezza e libertà di movimento non è più una
scusa plausibile. Per dare effettivamente sicurezza e protezione alle
popolazioni oggi, bisogna far sì che esse possano vivere nelle loro
proprie comunità etniche. Per far questo occorre riorganizzare la
provincia in modo tale da consentire l'autonomia territoriale per i
serbi come per altre comunità etniche che vogliano accettarla (Rom,
Gorani, Bosniaco/mussulmani, ecc.). L'autonomia territoriale non
richiede una divisione del Kosovo, non porta a un cambiamento dei
confini, né al deperimento della multietnicità. Anzi, con la creazione
di condizioni durevoli per la sopravvivenza e il ritorno di serbi e
altri non albanesi, la multietnicità, come valore della civiltà
contemporanea, potrà essere ripristinata e sviluppata in futuro. Ma il
piano di autonomia territoriale incontra forti resistenze. Gli
americani e gli inglesi non vogliono i “cantoni”, tanto meno gli
albanesi - tutti i partiti politici albanesi, da Rugova a Thaqi - che
vedono in esso la minaccia di frantumare il Kosovo.

Alla domanda se le forze europee sostituirebbero quelle dell’Unmik come
in Bosnia, ci risponde che gli albanesi rispettano solo gli americani,
non hanno paura degli europei. Considerando i dati ufficiali sui
profughi (oltre 200.000), gli chiediamo se c’è una possibilità reale di
un loro ritorno e ci risponde che i profughi serbi, soprattutto dopo i
fatti di marzo, sono terrorizzati dall’idea di ritornare nei villaggi e
nelle città senza protezione. Del resto, quell’esigua minoranza (circa
9.000) che negli anni passati aveva osato ritornare è stata rimpiazzata
dal nuovo esodo (circa 4.000) imposto dal pogrom di marzo.

Il consigliere legale del primo ministro ci promette di farci avere un
filmato sulle violenze di marzo,e la nostra intervista si conclude con
una cordiale stretta di mano da parte di questa persona gentile di
animo e di espressione.