Informazione


La truffa lombardo-veneta

1) Nota del Comitato Nazionale dell\'ANPI
2) L’imbroglio del referendum lombardo-veneto, di Giorgio Cremaschi
3) Le regioni andrebbero abolite, di Ugo Boghetta e Mimmo Porcaro
4) 22 ottobre, referendum autonomista lombardo-veneto: c’è chi dice NO, di Fronte Popolare
5) Referendum in Lombardia e Veneto /1. Prepariamoci a votare NO, di Sergio Cararo


Vedi anche:

Die deutsche Ethno-Zentrale / Germania e separatismi: l’economia della secessione (rassegna JUGOINFO del 16.10.2017)

Lombardia e Veneto: referendum inutile? No, utilissimo…a loro! (di Pierluigia Iannuzzi, 30/09/2017)
Tutti i partiti maggiori voteranno e spingono a votare “si” ma certa sinistra si ostina a predicare l’inutilità del referendum autonomista e l’astensionismo. Ma siamo davvero sicuri che sia così?
https://www.lacittafutura.it/dibattito/lombardia-e-veneto-referendum-inutile-no-utilissimo-a-loro.html

Regione Lombardia: referendum sulla autonomia ed “evoluzione” del sistema sanitario lombardo (di Gaspare Jean, su Gramsci Oggi n.3/2017)
...  3 milioni di ammalati cronici lombardi riceveranno entro ottobre 2017 una lettera con indicati i Gestori accreditati che dovranno scegliere; da indiscrezioni sembra che questa lettera abbia il seguente tono: “ La Regione Lombardia fa uno sforzo notevole per far si che i malati cronici non debbano avere lunghe liste d’attesa... avrebbe potuto fare di più se fosse più autonoma e libera di stilare coi MMG una convenzione regionale e coi dipendenti un Contratto regionale invece che nazionale. Scegliete dunque il GESTORE e votate per una maggiore autonomia.”...  I gravi disagi che gli ammalati cronici lombardi hanno non sono dovuti a mancanza di maggior autonomia della Lombardia ma a scelte precise della maggioranza di centro-destra che ha puntato sulla privatizzazione, sulla centralità della medicina ospedaliera e specialistica a scapito dei distretti sanitari che sono stati aboliti, sulla esclusione dei Comuni dal Servizio Sanitario regionale, sulla mancata integrazione tra servizi sociali e sanitari...


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Fonte: ANPI News n. 260 – 10/17 ottobre 2017

Il Comitato Nazionale dell\'ANPI, 
preso atto che il 22 ottobre i cittadini delle Regioni Veneto e Lombardia saranno chiamati a votare sui quesiti proposti dalle due Regioni, con cui, in sostanza, si chiedono maggiore autonomia e maggiori poteri;
sentiti i dirigenti provinciali e regionali delle due Regioni interessate, 
osserva:
i due quesiti, pur diversi nella forma, hanno carattere meramente consultivo e mirano ad ottenere ciò che è previsto, in altra forma, dalla Costituzione italiana, che disciplina il sistema delle autonomie, per quanto interessa in questo caso, con gli artt. 5 e 116 e, in particolare, in quest\'ultimo articolo con la norma che prevede espressamente la possibilità che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre Regioni con legge dello Stato, su iniziativa delle Regioni interessate, sentiti gli Enti locali”. 
Si tratta, dunque, di referendum sprovvisti di qualsiasi utilità e comportanti oneri di spesa notevoli, su obiettivi che possono essere già raggiunti in altro modo, nelle opportune sedi e forme istituzionali. Basterebbe questo per indurre l\'ANPI ad estraniarsi rispetto a tali consultazioni. Non può esimersi, tuttavia, l\'ANPI dall\'osservare che il sistema delle autonomie, non solo è regolato da diverse disposizioni specifiche, a cominciare dall\'art. 5 e da tutta la parte che riguarda i rapporti tra i poteri centrali, le Regioni e i Comuni, ma rientra anche nella disciplina generale di cui all\'art. 2, che impone a tutti (cittadini e istituzioni) “l\'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Ogni questione attinente alle autonomie non può ispirarsi a criteri particolaristi ed egoistici, ma deve potersi ricondurre anche ai doveri di solidarietà di cui, appunto, all\'art. 2.
Ogni cittadino è libero di votare come crede, ma farà bene a tener presente, sempre, i princìpi che si ricavano, in modo indiscutibile e chiarissimo, dalla Carta Costituzionale.

Roma, 14 settembre 2017


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L’imbroglio del referendum lombardo-veneto

di Giorgio Cremaschi, 17 ottobre 2017

Le stesse forze politiche che, contrapposte, si candidano al governo del paese e che si scontrano sulla nuova legge elettorale, sostengono unanimi i referendum per l’autonomia che si terranno in Lombardia e Veneto il 22 ottobre. 

Non è vero dunque che le due consultazioni siano un puro patrimonio leghista, anche se così vengono presentate. In Lombardia il referendum è stato approvato da tutto il centrodestra e dai cinque stelle. Il Partito democratico, inizialmente contrario, ha poi cambiato posizione: il sindaco Sala di Milano, il futuro candidato alla regione ora sindaco di Bergamo, Gori, insieme a tanti altri si sono pronunciati per il SI. 

Nel Veneto il PD si è astenuto sul referendum, poi ha dato indicazione per il SI, tutte le altre formazioni politiche hanno la stessa posizione dei loro omologhi lombardi. In sintesi in Lombardia e Veneto Renzi, Berlusconi, Di Maio e persino Meloni, almeno tramite i loro referenti locali, sono d’accordo con il referendum di Salvini, Maroni e Zaia. È l’unità regionale totale. Che ora il PD vorrebbe estendere anche in Emilia Romagna ed in Puglia, con analoghe consultazioni.

In Lombardia e Veneto le sole voci fortemente contrarie vengono dalla sinistra non rappresentata nei parlamentini regionali, da movimenti sociali, da sindacati di base come USB, voci troppo flebili per rompere la monotonia di una campagna elettorale inquietante, dove è in campo solo il SI sostenuto con ingenti finanziamenti dalle istituzioni regionali. 

Ma se sono tutti d’accordo i principali schieramenti politici delle due regioni, a che serve il referendum? La domanda ha una risposta scontata da parte dei presidenti regionali: il voto serve a far contare il popolo. É vero? Assolutamente no. 

I due quesiti referendari non fanno domande precise, le uniche sulle quali il pronunciamento popolare potrebbe davvero decidere e contare. Avete presente il nostro referendum costituzionale, quello sulla Brexit, quello greco sul memorandum della Troika, quello sulla indipendenza della Catalogna? Ecco, quelle consultazioni con il voto del Lombardo-Veneto non c’entrano nulla. Quelli sono stati pronunciamenti con domande chiare che esigevano altrettante risposte chiare; e infatti la politica poi ha fatto molta fatica a reggere il responso popolare, anzi a volte lo ha rinnegato proprio. 

Questo rischio, per i referendum sull’autonomia, non si corre: essi non chiedono nulla e quindi, quale che sia, la risposta popolare ad essi nulla conterà. Per quelle forze politiche italiane abituate a tradire i propri programmi un minuto dopo averli varati, questo voto è perfetto. Tutti impegnati senza veri impegni. 

Il quesito veneto è semplicissimo: volete più autonomia? Quello lombardo, evidentemente frutto di qualche consulenza giuridica più meditata, accenna al rispetto dell’unità nazionale, della Costituzione e esplicita la richiesta di maggiori risorse. 

Quali? Qui c’è l’ imbroglio. 

L’Italia ha il fiscal compact, quello che Renzi e Salvini dicono di voler cambiare, direttamente inserito nella Costituzione. La modifica dell’articolo 81 è un atto devastante della nostra democrazia, compiuto quasi alla unanimità dal parlamento precedente a quello attuale. Assieme alla costituzionalizzazione dell’austerità ci sono poi il patto di stabilità che distrugge l’autonomia di spesa degli enti locali e il controllo diretto della UE sui bilanci pubblici. 

Come si fa a chiedere più autonomia per le regioni, se tutto il meccanismo di governo imposto dalla austerità europea nega ogni libertà di spesa a tutte le istituzioni della Repubblica? 

Maroni e Zaia sono al governo delle due regioni più ricche del paese, che assieme hanno un quarto della popolazione. Immaginate una loro iniziativa istituzionale per cancellare il fiscal compact e il patto di stabilità. Questa sì che avrebbe bisogno del consenso del popolo, proprio perché si tratterebbe di imporre allo Stato una diversa politica economica, anche in conflitto con i vincoli UE. 

Ma la Lega nord e tutte le principali forze politiche italiane sono oggi “europeiste”. Meglio quindi chiedere una autonomia che in realtà non è permessa a nessuno, meglio fare domande che non vogliono dire nulla nel sistema economico governato dalla troika. Meglio un referendum finto che impegnarsi davvero in un conflitto col potere centrale. Questo si fa sui venti migranti ospitati a San Colombano, non sulle spese per lo stato sociale. 

I referendum lombardo e veneto non propongono alcuna revisione reale delle spese dello Stato e delle regioni, alludono soltanto a più soldi al nord e meno al sud; ma anche in questo imbrogliano, perché con il vincolo europeo di bilancio – che Maroni e Zaia accettano – neanche una redistribuzione iniqua delle risorse potrebbe essere fatta. Si taglia dappertutto e basta. 

Dunque il quesito sull’autonomia è fasullo, però dietro di esso se ne nasconde uno vero, che non a caso ha raccolto grande consenso nel mondo imprenditoriale. La domanda nascosta è: visto che l’austerità istituzionale vincola rigidamente il bilancio della regione, possiamo riconquistare autonomia privatizzando? 

Trasporti, servizi sociali, istruzione e soprattutto la sanità nelle due regioni a guida leghista sono sempre più regalati al mercato. I milioni di malati cronici della Lombardia saranno affidati ad un gestore privato che avrà il compito di amministrare le loro cure, naturalmente trovando il modo di farci profitti. In Veneto l’appalto ai privati della costruzione e della gestione di uno dei più grandi ospedali della regione è diventato un bengodi senza precedenti per gli affari. La regione Lombardia è più sollecita della ministra Fedeli nell’offrire alle aziende il lavoro gratis degli studenti nell’alternanza scuola lavoro.

Il “Si” chiesto da Maroni e Zaia serve dunque prima di tutto a questo: ad approvare la connessione sempre più stretta tra politica ed affari e la privatizzazione dello stato sociale e dei servizi pubblici, ove Lombardia e Veneto sono all’avanguardia. 

I due referendum autonomisti sono un imbroglio a diversi strati di inganni, il cui solo scopo è creare consenso al sistema di potere che governa le due regioni più ricche d’Italia. Che tutte le principali forze politiche delle due regioni siano d’accordo, è solo un ulteriore segno del degrado della nostra democrazia. 


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I referendum in Lombardia e Veneto. Le regioni andrebbero abolite

di Ugo Boghetta - Mimmo Porcaro, 29 settembre 2017

Il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si terranno due referendum promossi dai presidenti (pardon, governatori) leghisti Maroni e Zaia al fine di avere l’avallo per chiedere al Governo e al Parlamento una maggiore autonomia. E già qui si vede che si tratta di referendum farlocchi: una tale richiesta Maroni e Zaia potrebbero tranquillamente farla già da oggi, quindi quello che si vuole è un plebiscito, pura propaganda.

A questi referendum si affiancano le mozioni presentate nelle regioni del sud dall’ormai ineffabile M5S per l’istituzione della giornata della memoria delle vittime dell’Unità d’Italia. Così. Di colpo. Senza nessun preliminare ragionamento sulla complessità del processo unitario e dei suoi effetti, sulla natura di classe dell’unificazione. Aria di elezioni, insomma.

Si tratta sì delle ennesime armi di distrazioni di massa. Ma, in realtà, creano confusione e, per questo, sono cose importanti e pericolose. Sono importanti per la prospettiva del paese e delle classi popolari che lo abitano. Sono pericolose perché coincidono con gli interessi dell’imperialismo statunitense e di quello tedesco (per ora – e ancora per poco? – subordinato al primo, ma per noi non meno letale).

L’Italia vive da tempo una situazione di stallo. Più o meno dall’entrata nell’Unione Europea e dalla firma del trattato di Maastricht: 7 gennaio ’92. Come si vede il periodo coincide con il sorgere della cosiddetta seconda repubblica e degli equivoci ideologici che l’hanno generata ed accompagnata.

Ma tale confusione è entrata in una nuova fase. Da una parte avremo l’implementazione dell’Unione a “due velocità”, che accentuerà il baricentro nordico e la germanizzazione dell’Europa (e il recente risultato elettorale tedesco non interromperà il processo, ma lo renderà per noi più pesante). E tutto ciò con l’aiuto contraddittorio della Francia. È dall’avvio dell’Unione che abbiamo sempre dovuto subire gli intrighi, le volontà e l’estorsione del gatto e della volpe, ed ogni idea nostrana di giocare l’uno contro l’altra si è mostrata finora campata per aria: e non soltanto perché non c’è un Cavour. Sempre più il popolo italiano ha tutto da perdere dall’Unione. I paesi mediterranei diventeranno via via più periferici, e così quelli dell’est, che inoltre accentueranno la loro subalternità agli Usa.

Per l’altro verso, l’elezione di Trump e lo scontro in atto negli Usa, hanno reso più blanda la presa statunitense e accentuato i mutamenti e le tendenze multipolari: la Germania sa benissimo che prima o poi dovrà scegliere di percorrere di nuovo la via della politica di potenza, anche se farà di tutto per realizzarla attraverso l’Unione. Infine, terzo e quarto attore, la Russia si presenta come argine militare alle pericolosissime iniziative occidentali e la Cina come alternativa economica (“via della seta”) al deflazionismo (classista) dell’Unione europea: ed entrambi come vasti mercati per le imprese italiane e come soggetti di un ordine finanziario alternativo.

Questa situazione in sé sarebbe positiva, se soltanto si fosse in grado di sfruttarla. Essa infatti amplia gli spazi per costruire una posizione non subalterna agli uni ed agli altri (un ruolo centrale dei paesi mediterranei, o meglio ancora di una confederazione europea radicalmente modificata). Ma a tal fine dovremmo saper riconquistare un po’ di dignità e di indipendenza. In questo contesto, infatti, potremmo meglio sviluppare gli interessi nazionali (cosa a cui abbiamo fatto cenno in un recente articolo: viva la Catalogna abbasso l’Italia) e dall’altra potremmo lavorare meglio per un mondo multipolare, che è l’assetto migliore per tutti i paesi medio-piccoli e per ostacolare l’assoluta mobilità del capitale, causa prima del pluridecennale arretramento dei lavoratori.

Al contrario, se continua questo confusionismo, col nord leghista che vuole diventare il sud della Baviera, col sud che si accontenta di diventare definitivamente la piattaforma USA nel Mediterraneo, il paese rischia la disgregazione, ed ogni sua parte va incontro ed altri secoli di sudditanza.

Ovviamente queste grandi questioni si mischiano alle miserie interne ai partiti. Maroni e Zaia si muovono contro l’ipotesi nazionale di Salvini. Il PD vota Sì ai referendum al nord ed aderisce alle mozioni dei M5S al sud, da un lato mostrando di essere diventato un partito colabrodo, e dall’altro intestardendosi coerentemente con il federalismo: quello fiscale fu un frutto loro. A questo proposito, non tutti sanno che le richieste per le modifiche della “Bassanini” inserite nel recente referendum sulle modifiche Costituzionali erano state avanzate dalle Regioni stesse perché fonti di caos.

Nemmeno il M5S scherza. Al nord stanno col Sì perché si vota con i computer: uno sballo on-line! Al sud propongono una mozione che apre una questione sull’unificazione dell’Italia (cosa, come abbiamo detto, certamente controversa) scegliendo come data della giornata della memoria quella della fine del regno borbonico: un atto reazionario o di estrema stupidità. Perché non scegliere il giorno del massacro di Bronte, sanguinosa espressione del carattere classista dell’unificazione? In questo caso il messaggio storico-politico sarebbe stato chiaro. Forse troppo chiaro. Perché non celebrare il giorno in cui fu ucciso Pisacane, che al cambiamento sociale credeva davvero, e che fu massacrato da contadini istigati dai Borboni e dagli agrari (gli altri decisivi agenti – questi ultimi – di una unificazione che non fu voluta solo dai “piemontesi”)? È su queste questioni che l’Unità d’Italia al sud ha preso la piega gattopardesca che ha dato i risultati che ha dato.

Come si vede, non c’è nessun contenuto classista,progrsessita, democratico in nessuna delle due posizioni.

In ogni caso, mettere di fatto in discussione l’Unità d’Italia, frammentarla, esporla alle incursioni di interessi stranieri è da criminali. Così come lo è stata l’entrata nell’Unione e nell’euro. Ciò non può che accentuare l’autorazzismo degli italiani sempre pronti a denigrarsi: un popolo che dimentica la propria storia (e la sua complessità) non va data nessuna parte.

Ma a questo quadro generale si deve aggiungere un altro tema.

I referendum chiedono più autonomia regionale. Il fatto è che, (a parte l’uso politico che PCI e PSI ne fecero all’epoca, usando con qualche successo le Regioni da loro governate come contraltare al governo centrale democristiano) queste istituzioni sono un fallimento. Costano davvero una barca di soldi. L’unico loro ruolo è distribuire i denari della sanità, dell’assistenza e dei trasporti (80/90% del bilancio) e, nel farlo, contribuiscono non poco ad acuire le già pesanti differenze trai servizi sociali nelle diverse zone del paese. Rendono volutamente complicato il processo decisionale. Legano strettamente i partiti ed i loro uomini ai diversi gruppi di interesse. Sono composte da territori storicamente eterogenei. Non sono sentite come istituzioni veramente interessanti a livello elettorale: le votazioni importanti sono quelle nazionali e quelle locali.

Se da una parte, dunque, va fatto fallire il referendum-plebiscito chiesto da Maroni e Zaia, dall’altra bisognerebbe proporre un modello istituzionale alternativo adeguato ai tempi. Questo non può che essere uno Stato centrale autorevole ed efficace all’interno, con una politica adeguata, forte e cooperativa all’esterno. Uno Stato che sappia trasferire parte dei poteri e delle risorse delle Regioni a livello locale: Comuni e Province. E abolire le Regioni. Allo Stato quello che è dello Stato. Agli enti locali quello che è meglio che gestiscano loro.

Serve un nuovo Stato per un nuovo e diverso interesse nazionale. In fondo è qualcosa di simile a ciò che ha proposto Melénchon con France insoumise.



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22 ottobre, referendum autonomista lombardo-veneto: c’è chi dice NO 

Appello per il No al referendum consultivo: per contrastare la pericolosa ideologia dei partiti maggiori ma anche per opporsi all’inerzia di quella sinistra che cede le piazze ai fascisti.

di Fronte Popolare  09/09/2017

Il prossimo 22 ottobre gli elettori di Lombardia e Veneto saranno chiamati ad esprimersi in un referendum consultivo sulla cosiddetta autonomia. Fatto salvo che in caso di vittoria del SI oggi non cambierebbe niente (rimandiamo ad altre più puntuali riflessioni le analisi economiche e giuridiche sul tema), con questo contributo vogliamo concentrarci soprattutto sul portato ideologico della consultazione, che merita a nostro parere molta attenzione e su cui, da Milano, siamo a fare un appello alla mobilitazione a tutti i Compagni sparsi per l’Italia

Illustriamo il quadro politico odierno in Lombardia. 

Ovvia è la posizione per il SI dei leghisti promotori, dove comunque il referendum è infine uno “spottone” per Maroni in vista delle “vere elezioni” regionali del 2018.

Non stupiscono, e consideriamo pericolose, le posizioni degli altri partiti padronali, 5 Stelle e PD, che si adeguano al generale spostamento culturale del paese sempre più a destra. Dichiarazioni sulla “razza” da difendere, regole da rispettare, meno dipendenza dallo Stato centrale sono slogan che purtroppo colpiscono e raccolgono facili consensi. Mentre il PD Veneto è direttamente schierato per il SI, quello lombardo fa dichiarazioni non così nette, ma manda avanti i cavalli di razza, vale a dire diversi autorevolissimi sindaci lombardi come Sala a Milano(fra i primi a schierarsi per il SI già a primavera scorsa) oppure Giorgio Gori, Sindaco di Bergamo (e già direttore di Italia 1 anni addietro); quest’ ultimo tra i fondatori di comitati di amministratori del PD per il SI.

5 stelle, a cui va riconosciuto un buon lavoro a livello di consiglio regionale, un giorno attaccano Maroni mentre l’altro sui loro siti ufficiali arrivano a dire che il referendum l’hanno scritto loro, e godono “perché si voterà in maniera elettronica”, ed alla fine del gioco i tablet rimarranno nelle scuole…riesumando antichi slogans alla Berluscones (un computer per ogni scuola, primi anni ’90!). La posizione del sito lombardo grillino (qui è arduo dire “dei loro dirigenti”) è dettata probabilmente e da “studi di settore”, ovvero, visto che l’aria che tira è sempre del tipo “a Roma rubano tutti”, viene loro imposto di schierarsi per il SI, anche se notiamo, da qualche prima inchiesta, che per molti elettori dei 5 stelle non dovrebbe essere semplice votare come lega e PD, ovvero come quella che loro chiamano la “partitocrazia”.

Anche a sinistra la situazione è complessadiverse organizzazioni hanno dichiarato che faranno “astensione attiva”, cioè campagna elettorale per NON andare al voto, “puntando” sulla presunta bassa affluenza alle urne, dove comunque il SI dovrebbe prevalere grandemente, viste le posizioni politiche espresse dei maggiori partiti. 

Noi di Fronte Popolare, quindi, ci siamo chiesti cosa fare. Considerata (purtroppo) la poca influenza, in termini assoluti numerici, della sinistra in Lombardia sul risultato finale della consultazione, noi comunisti, analizzato il quadro politico riassunto qui sopra, abbiamo deciso invece di partecipare e fare campagna elettorale per votare, e votare NO

Il fatto che la consultazione indetta per ottobre abbia carattere puramente consultivo non solo non ne diminuisce la pericolosità, ma ne sottolinea il portato insidiosamente ideologico: pensare di contenere un simile risultato mediante l\'incentivazione della bassa affluenza è pura illusione.

Ci troviamo, per citare il compagno Antonio Gramsci, in quella fase in cui “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. 

Ecco compagni, qui al Nord sentiamo, purtroppo più che altrove, il senso di questa frase di Gramsci. Per chi sta “dalla parte del torto” la situazione non è per niente facile. Chi milita, chi partecipa, chi fa qualcosa e non passa le giornate davanti alla TV, tocca con mano ogni giorno la diminuzione degli spazi di agibilità politica, sia dal punto di vista della repressione ufficiale sia da quello di quella culturale: i casi di aggressioni contro gli antifascisti in Lombardia sono in costante aumento, ancora grida vendetta l’ irruzione di fine Luglio a Palazzo Marino, il Comune di Milano, con conseguente ferimento di due compagni.

Non meno importante ricordare che questo è un referendum promosso da due regioni che contano un quarto degli italiania cui bisogna provare a rispondere e resistere. Perché quello delle maggiori autonomie gestionali di risorse NON è solo un problema lombardo, ma di tutto il Paese (già altre regioni si dicono pronte ad indire simili consultazioni).

Di fronte al consolidarsi del senso comune reazionario e fascistoide che disgrega l\'unità dei lavoratori del nostro Paese, è necessario sviluppare una forte azione democratica e antifascista di contrasto, che esige prese di posizione chiare.

Noi di Fronte Popolare faremo quindi campagna elettorale per il NO. 

Stamperemo manifesti, volantini, e siamo pronti a dare una mano in ogni comune ad ogni sincero antifascista, democratico, comunista che in ottobre, nelle forme che riterrà più opportune, vorrà fare concretamente campagna elettorale e la cui coscienza gli dirà che non si accontenta del concetto di “astensione attiva”, atteggiamento che purtroppo temiamo possa rapidamente scivolare per inerzia verso un più tragico “siccome questo referendum è una presa in giro, ad ottobre ce ne andiamo a funghi”, lasciando totalmente piazza libera a partiti che da diversi anni portano dentro le istituzioni (al governo, sia chiaro) delle grande città individui dichiaratamente fascisti e razzisti

E’ molto probabile che non vinceremo, ma vogliamo e dobbiamo far vedere nelle piazze, nei mercati e nei posti di lavoro che c’e’ ancora qualcuno, qui al nord, che non mette la testa sotto la sabbia. 

E con più calore ci rivolgiamo ai tanti antifascisti sparsi per l’Italia, cui chiediamo di darci concretamente una mano. Come scritto prima, più poteri alle regioni vuol dire meno solidarietà fra tutti i lavoratori italiani , e purtroppo già altre regioni si dicono pronte a seguire questo pessimo esempio. 

Vi chiediamo di “parlare” del 22/10, di organizzare momenti di discussione, anche nelle vostre città lontano dalla Lombardia e dal Veneto. E poi vi chiediamo, (ed oggi i tanti famigerati strumenti tecnologici sono di grande utilità) di indicare ad amici, parenti e compagni che magari vivono nelle nostre regioni, che NON tutti hanno abbandonato la battaglia, e che qui a Milano c’è ancora chi resiste, e chi volesse impegnarsi in campagna elettorale per il NO da noi troverà validi compagni e interessante materiale di propaganda. 

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Referendum in Lombardia e Veneto /1. Prepariamoci a votare NO

di Sergio Cararo, 23 agosto 2017

Il prossimo 22 ottobre, in due strategiche regioni italiane come Lombardia e Veneto si terrà un referendum consultivo sulla “autonomia” dal governo centrale. La materia di questa maggiore autonomia è tutt’altro che chiara, tenendo conto che sarebbero già sufficienti i danni provocati dalla modifica del Titolo V della Costituzione con il federalismo introdotto nel 2001 dall’allora governo di centro-sinistra e peggiorati dal governo di centro-destra nel 2009.

Il riferimento normativo a cui fanno riferimento le forze che sostengono il referendum in Lombardia e Veneto (dalla Lega a gran parte del Pd), è l’articolo 116 della Costituzione, il quale dopo la riforma del 2001 prevede al comma 3: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata”. Ma, come si può leggere, non si fa menzione di alcun referendum. Il problema è che nel 2001 è stata aperta la strada con un referendum confermativo sulla modifica del Titolo V (voluto dal governo Amato per “battere la Lega e la destra” ma che anticipò invece una sonora sconfitta del centro-sinistra.

I referendum in Lombardia e Veneto del prossimo 22 ottobre, fortemente sponsorizzati da Maroni e Zaia ma assecondati dal Pd locale, saranno referendum consultivi per cui non è previsto neppure un quorum. In altre parole una battaglia squisitamente politica in cui le due regioni (oltre all’Emilia-Romagna) in cui si concentra quel 22% di imprese che fanno l’80% del valore aggiunto e delle esportazioni italiane diranno sostanzialmente: “noi siamo agganciati al cuore dell’Unione Europea e il resto del paese si fotta”. In caso di vittoria al referendum le autorità e le classi dominanti di Lombardia e Veneto aprirebbero da una posizione di forza una fase negoziale con il governo centrale.

In un certo senso la trama svelata da questi referendum fotografa una situazione di fatto: la crescente asimmetria del nostro paese. C’è da anni un nucleo geo-economico e sociale costituito da Lombardia, Emilia, Veneto che sia sul piano economico che su quello politico si è sincronizzato con la “locomotiva Germania” lavorando nella sub fornitura alle imprese tedesche e assicurando consenso sociale, ideologico, elettorale al Pd e al blocco politico-trasversale europeista. Lo si è visto con i risultati delle elezioni locali come nei risultati del referendum sulla controriforma costituzionale del 4 dicembre. Una realtà dei fatti che marginalizza Salvini come esponente di questo mondo e che lo ha portato ad abbassare le penne nelle sue ormai rimosse sparate contro l’euro e Bruxelles.

Secondo  un sondaggio realizzato dall’Api (associazione delle piccole imprese), il 74% dei rappresentanti delle piccole e medie imprese intervistati ha risposto si alla domanda se conferire maggiori poteri alla Regione Lombardia possa rappresentare un’opportunità. “Questo referendum farà capire a Roma che in Lombardia e Veneto ci sono piccoli imprenditori manifatturieri che chiedono più rispetto” dicono i padroni e padroncini delle due regioni interessate. Secondo gli intervistati nel sondaggio, al primo posto delle azioni prioritarie che la Regione Lombardia, una volta più autonoma, dovrebbe mettere in atto c’è la diminuzione delle imposte regionali (47%). Al secondo posto l’aumento dei fondi per le imprese (34%) e infine il miglioramento delle infrastrutture (19%). Insomma una regione a totale disposizione delle imprese. Ma se i “padrùn” non vedono oltre i propri interessi di bottega, figuriamoci se la loro visione possa estendersi al resto del paese. Un motivo per schierarsi e battersi per il NO nei referendum regionali in Lombardia e Veneto. (segue)
 


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Rivoluzione d’Ottobre

1) A. Catone: La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva storica
2) D. Losurdo: Rivoluzione d’Ottobre e democrazia


Per iniziative e documentazione nel Centenario della Rivoluzione d\'Ottobre si veda la nostra pagina dedicata:


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La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva storica

di Andrea Catone
12 Ottobre 2017

1. Il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei popoli oppressi

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre consente oggi, con il vantaggio della distanza storica, di trarre un bilancio dei suoi effetti duraturi in tutta la storia del mondo.

La rivoluzione d’Ottobre segna un momento fondamentale nella storia, non solo del movimento operaio, ma dell’intera umanità. Dopo la Comune di Parigi (1871), schiacciata nel sangue dalla repressione della borghesia, la Rivoluzione d’Ottobre è il primo tentativo vittorioso del proletariato e delle classi subalterne di rovesciare i rapporti sociali dominanti e costruire una società socialista. Segna anche l’inizio di un potente processo di emancipazione dei popoli oppressi e lo sviluppo di lotte anti-coloniali e antimperialiste. Le rivoluzioni russa, cinese, vietnamita e cubana – per limitarsi ad alcuni dei più importanti movimenti comunisti – hanno permesso la liberazione di centinaia di milioni di esseri umani dalla miseria e dalla fame e rappresentano il tentativo di costruire società alternative al capitalismo e orientate verso il socialismo. L’importanza di queste esperienze non si è esaurita nei paesi che sono stati teatro dei processi rivoluzionari; queste esperienze hanno dato nuovo impulso alla liberazione che ha coinvolto grandi masse in ogni continente.

Grazie all’Ottobre sulle bandiere del movimento dei lavoratori è scritto non solo “Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!” Ma “Lavoratori di tutti i paesi e popoli oppressi, unitevi!” [1]. La Rivoluzione d’Ottobre, con la creazione della Terza Internazionale (Comintern), lega strettamente il proletariato occidentale e i popoli delle colonie e delle semicolonie in una lotta generale contro l’imperialismo. Grazie all’Ottobre, e al Komintern che da esso si sviluppa, sono nati nei paesi oppressi dall’imperialismo i partiti comunisti. Ottobre apre la strada alla rivoluzione cinese e alla riconquista della dignità nazionale del paese più popoloso del mondo.

Nella storia del capitalismo, come Marx ci ricorda nel capitolo 24 del I Libro del Capitale sulla cosiddetta accumulazione originaria, il contributo della ricchezza saccheggiata nelle colonie ha costituito una base per l’accumulazione del capitale. Il capitalismo è cresciuto insieme con il colonialismo moderno ed è diventato imperialismo. La rottura della catena imperialista avviata con la Rivoluzione di Ottobre è una svolta nella storia dello sviluppo capitalistico e non solo perché la Russia è stata considerata l’anello più debole della catena imperialista, ma perché ha aperto la strada alla lotta di liberazione dei popoli d’Oriente e di tutti i popoli oppressi.

La teoria leninista dell’imperialismo ha un enorme valore scientifico e strategico perché individua il legame necessario tra il movimento dei lavoratori in Occidente e le popolazioni colonizzate. Lenin pensa globalmente, come la Seconda Internazionale non aveva mai fatto. Con l’Ottobre nasce la strategia del fronte unito dei lavoratori dei paesi capitalistici e dei popoli oppressi. Pensare la rivoluzione a livello mondiale significa che il proletariato occidentale sostiene tutte le lotte che possono indebolire il fronte imperialista. Significa anche che ogni situazione nazionale deve essere posta e compresa in un contesto internazionale.

La presenza e il prestigio dell’URSS, vittoriosa sul nazifascismo, e del suo modello di sviluppo che ha costruito un forte paese industriale dotato di armi moderne più potenti di quelle della feroce Germania hitleriana, ha rappresentato, per tutta una fase del secondo dopoguerra, un forte incentivo e un modello per i paesi che intendevano sfuggire al giogo dell’imperialismo (i nazionalismi arabi emergono con un programma avanzato di forti interventi statali – Egitto, Siria Iraq, ma, più tardi, anche Libia) e movimenti di liberazione nazionale (Angola, Mozambico, America Centrale…).

È con la Rivoluzione d’Ottobre che il movimento dei lavoratori viene globalizzato. La I e II Internazionale sono fondamentalmente europee, il Comintern è mondiale.

Da una prospettiva a lungo termine, dopo la dissoluzione dell’URSS e il crollo dei regimi socialisti in Europa nel 1989-91, e il ritorno di questi paesi al sistema capitalistico, il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei popoli oppressi come protagonisti della scena mondiale (la Cina ne è il caso più emblematico).

2. Il crollo del 1989-1991: I partiti comunisti perdono il potere politico nell’URSS e nei paesi dell’Europa orientale

Nel 1989-91, dopo 70 anni in URSS e 40 anni nelle repubbliche popolari dell’Europa orientale e dei Balcani, i partiti comunisti hanno perso il potere politico, che ritorna alle mani dei capitalisti, i rapporti di proprietà borghesi vengono ripristinati e i paesi ex socialisti dell’Europa orientale sono integrati nella NATO e nella UE. Perché è successo questo? La questione rimane aperta su questo tema fondamentale. Numerosi forum internazionali sono stati tenuti dal 1991 e sono state pubblicati anche importanti lavori sulle cause del crollo delle democrazie popolari dell’Europa orientale e dell’URSS. Il sistema sovietico, che le democrazie popolari europee hanno più o meno imitato, è stato analizzato nei suoi vari aspetti: politici economici, sociali e culturali; nelle relazioni internazionali. A mio avviso, la causa principale sta nel deficit politico e ideologico che distrugge la leadership dell’URSS e porta a disastri. Un contributo molto importante in questo senso è stato dato dalla Conferenza di Pechino nel 2011 e dal libro che ne raccoglie gli atti, La storia giudicherà su questo, a cura di Li Shenming.

Il bilancio storico dell’Ottobre richiede anche un bilancio teorico, una ridefinizione critica delle categorie della rivoluzione.

3. La teoria della transizione al socialismo.

Lenin aveva chiarito che la transizione al socialismo è un processo dialettico che richiede un’intera epoca storica [2]. E dove non è stato deciso una volta per tutte chi vincerà. La storia del secolo che ci separa dall’ Ottobre conferma pienamente la concezione di Lenin e nega le teorie anti-dialettiche e ingenue che credono che il socialismo possa sostituire il capitalismo in pochi anni attraverso misure politiche e decreti. La transizione al socialismo richiede la transizione verso una nuova superiore civiltà. Una nuova civiltà non può essere creata in breve tempo, richiede un’intera epoca storica.

Perché Lenin insiste nei suoi ultimi scritti sul tema della creazione di una nuova civiltà? Che cos’è una civiltà? C’è una determinata civiltà quando un popolo ha acquisito determinati comportamenti come sua seconda natura e si è abituato a praticarli senza una coercizione esterna. Il socialismo richiede che le grandi masse di lavoratori e i gruppi subalterni (Gramsci) siano in grado di esercitare effettivamente il potere di direzione e di controllo sulla proprietà sociale ed essere in grado nei fatti di decidere cosa, in che misura e come produrre e distribuire il prodotto, essere in grado di pianificare la produzione.

Nel settembre-ottobre 1917 Lenin scrisse: “Possono i bolscevichi mantenere il potere statale?”, in cui, tra l’altro, pone la questione della capacità reale dei proletari, dei lavoratori non qualificati, di guidare lo Stato. Per l’immediato la risposta è: no. Un compito essenziale per il potere sovietico è quindi quello di costruire le condizioni perché anche una cuoca possa dirigere lo stato.

Anche Gramsci si pone chiaramente su questa scia: il socialismo deve rendere politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di ristretti gruppi intellettuali [Quaderni del carcere, Q11 §12, 1932]. Questo straordinario obiettivo non può essere raggiunto in condizioni di miseria e di basso sviluppo delle forze produttive.

I bolscevichi si trovano ad affrontare il duplice difficilissimo compito: superare l’arretratezza e allo stesso tempo costruire rapporti di produzione socialisti: una doppia transizione. Dovranno affrontare un compito totalmente nuovo nella storia dell’umanità, come la pianificazione e il calcolo economico in un’economia di transizione. I comunisti sovietici devono inventare e sperimentare una nuova economia, organizzare una nuova formazione economica e sociale. E devono farlo in condizioni estremamente difficili.

Lo stesso problema, in misura anche maggiore, avevano i comunisti in Cina dopo la conquista del potere politico nel 1949. La capacità di trovare un modo originale di sviluppo dopo la prima fase della costruzione economica e sociale (1949-1978) è stato il grande merito storico di Deng Xiaoping: quasi 40 anni dopo l’avvio del “socialismo con caratteristiche cinesi”, la RPC è diventata la seconda potenza economica mondiale (calcolando in base al PIL), sviluppando notevolmente le forze produttive.

Lo sviluppo delle forze produttive in una società di transizione verso il socialismo è tuttavia diverso da quello di una formazione economico-sociale capitalistica. La forza produttiva principale è l’essere umano. La transizione al socialismo richiede un essere umano con una conoscenza critica e una cultura politecnica – umanistica e tecnico-scientifica allo stesso tempo – e con uno stile di vita che non può essere la copia del modo di vivere americano, che tende a mantenere i subalterni nella condizione di consumatori subalterni, in uomini a una dimensione, come scrisse oltre 50 anni fa Herbert Marcuse.

Uno dei problemi più gravi che le società di transizione al socialismo si trovano ad affrontare – ognuna sulla base delle proprie caratteristiche nazionali – è quello di sviluppare le forze produttive, ma di governare questo sviluppo nella direzione della formazione di un nuovo tipo umano e di un nuovo legame sociale per una superiore forma di civiltà, la società socialista. Il fattore culturale non è meno importante di quello economico per avanzare verso la civiltà socialista.

4. Il tema della direzione politica del processo di transizione. La questione della democrazia socialista

La transizione verso una forma di democrazia superiore a quella del parlamentarismo borghese è riuscita solo in alcune situazioni e solo in parte nella storia di questo secolo. Dopo la morte di Lenin, la questione del gruppo dirigente e delle modalità e forme di selezione dei quadri non è stata affrontata in modo adeguato.

Il problema dei partiti comunisti al potere consiste nella ricerca di istituzioni e formule che possano garantire la transizione socialista. La transizione al socialismo non è un movimento spontaneo. Questa questione è stata teoricamente affrontata da Marx e sistemata da Lenin: la dittatura del proletariato, necessaria per garantire la transizione. Ma, allo stesso tempo, è necessario assicurare un meccanismo di selezione trasparente e democratico per i gruppi dirigenti, il legame stretto tra il partito e le masse, i governanti e i governati. Occorre sviluppare forme di democrazia partecipativa e crescita delle masse nella partecipazione alla direzione dello stato e dell’economia, un grande “progresso intellettuale di massa” (vedi Gramsci). La corretta selezione dei gruppi dirigenti è una delle questioni più delicate nella società di transizione.

Nella transizione al socialismo, il legame tra economia e politica deve necessariamente essere molto più stretto che nella società borghese, perché la transizione al socialismo non è un processo spontaneo, non avviene automaticamente, ma richiede una direzione politica chiara e forte. La transizione al socialismo richiede la creazione di una nuova cultura di massa, che non sia subalterna all’ideologia capitalista e imperialista: una rivoluzione culturale.

5. Le rivoluzioni socialiste vittoriose non si svolgono nei centri imperialisti, ma solo in periferia.

Il sistema capitalistico nelle sue sovrastrutture politiche e ideologiche si è rivelato più forte del proletariato dei Paesi occidentali. La rivoluzione in Occidente non si realizza, sia per la forza del capitale (si veda l’analisi di Gramsci sull’articolazione delle società borghesi occidentali e quella di Althusser sugli apparati ideologici di Stato), sia per la debolezza della strategia e dell’organizzazione del proletariato e dei partiti comunisti.

Di solito, si hanno situazioni rivoluzionarie in tempi di crisi acuta dello stato borghese. Dopo il 1918, nel primo dopoguerra europeo, nei paesi sconfitti degli imperi centrali (Ungheria, Baviera, Austria, Germania), le rivoluzioni sono rapidamente schiacciate nel sangue prima della presa del potere politico (Germania) o sopraffatte per l’incapacità di governare l’economia dei rivoluzionari (In Ungheria).

Dopo il 1945, nel II dopoguerra, la situazione sembra più favorevole grazie alla vittoria dell’URSS sul nazismo. Nei paesi dell’Europa centrale e orientale, i comunisti vanno al potere o come continuazione della resistenza antifascista nella rivoluzione socialista (Jugoslavia, Albania) o grazie a un consenso popolare fortemente sostenuto dalla presenza dell’armata rossa sovietica: Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Germania orientale. Fatta eccezione per gli ultimi due, si tratta di paesi di capitalismo periferico.

Nei paesi chiave dell’Occidente, anche quando un forte movimento anti-nazista (Italia, Francia) è stato sviluppato dai comunisti o con una forte presenza di essi, la Resistenza non si trasforma in una rivoluzione e dove è tentata ,come in Grecia, è schiacciata nel sangue dall’intervento militare britannico e occidentale.

Dopo il 1945 in Europa occidentale non ci sono crisi rivoluzionarie, anche se in due paesi con un’importante presenza dei comunisti ci sono momenti di mobilitazione di massa e di crisi del potere borghese (maggio 1968 in Francia, decennio 1968-77 in Italia). La migliore opportunità rivoluzionaria è stata in Portogallo, la “Rivoluzione dei garofani” (1974), con un ruolo importante del Partito Comunista guidato da Alvaro Cunhal, ma anche qui la borghesia interna, con il sostegno dell’imperialismo occidentale e della NATO, è in grado di ristabilire il proprio potere politico ed economico. L’ultima occasione, in una situazione di forte crisi economica, è stata in Grecia (2011-2015), dove la coalizione di sinistra ottiene il consenso elettorale e va al governo, ma subito dopo rimane ostaggio della “troika” (BCE , IMF, UE) e si riduce ad essere l’esecutrice dei suoi diktat.

Negli Stati Uniti, il cuore dei paesi imperialisti, nessun movimento di lotta (la rivolta dei campus universitari o le pantere nere negli anni ‘60) ha mai seriamente messo in discussione il potere politico o l’egemonia culturale del grande capitale. In Inghilterra, attraversata anche da grandi lotte dei lavoratori (minatori) il potere borghese non è mai messo in discussione.

Nei cento anni che ci separano dall’Ottobre il movimento comunista e dei lavoratori non riesce nel suo obiettivo principale: avviare nei paesi capitalisti più sviluppati – con la conquista del potere politico – la trasformazione del modo di produzione capitalistico nel modo di produzione socialista basato sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e sulla pianificazione socialista.

Quali sono le cause di questo fallimento storico?

La teoria dell’imperialismo di Lenin può spiegare alcune delle cause che ostacolano la rivoluzione in Occidente: la classe capitalistica, con le briciole della rapina imperialista, nutre “l’aristocrazia operaia” e corrompe i leader di sindacati e partiti operai, che introiettano le teorie revisioniste e negano la possibilità di uscire dall’orizzonte dei rapporti di produzione borghesi.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare il ruolo mondiale dell’imperialismo, che non è solo la rapina dei popoli sottomessi, ma è anche organizzato come un cane da guardia del potere borghese nei paesi centrali del capitalismo. Dopo il 1945, gli USA e la NATO, la più grande alleanza militare del mondo sotto il comando statunitense, hanno svolto un ruolo decisivo nel contrastare il movimento progressista e di emancipazione anche nei paesi occidentali, utilizzando il colpo di Stato (Grecia 1967) o minacciandolo (Italia, anni 1960-70). Inoltre, l’imperialismo, con le sue istituzioni economiche e finanziarie mondiali (FMI, ecc.), controlla e riconquista i paesi che vogliono liberarsi dal sistema imperialista mondiale (l’ultimo caso evidente: la Grecia 2011-2015).

Ci sono stati e ci sono immensi errori strategici e tattici commessi dai partiti comunisti in Occidente, senza una seria comprensione dei quali nessun progresso del movimento operaio sarà possibile. Oggi va preso atto che il capitalismo e il potere politico borghese si sono dimostrati molto più forti del movimento dei lavoratori, nonostante due crisi strutturali generali del capitalismo (negli anni ‘30 del XX secolo e la crisi manifestatasi a partire dal 2007-2008).

La transizione al modo di produzione socialista non è avvenuta nei tempi e nei modi che abbiamo immaginato dopo la vittoria del 1917.

Questa domanda rimane aperta. L’indagine di questo fallimento storico è un compito fondamentale per il movimento operaio e per i suoi intellettuali organici.

Questo non significa che tutta l’attività e l’elaborazione strategica del movimento operaio nei paesi centrali del capitalismo siano stati inutili e inefficaci. In particolare, la “via Italiana al Socialismo”, la strategia sviluppata dal Partito Comunista Italiano dal 1944 sulla base dell’analisi di Gramsci nei Quaderni del carcere, al di là di deviazioni e riduzionismi, è di grande importanza per la possibile transizione al socialismo in Occidente. 

Questa strategia si basava su una lunga “guerra di posizione” in cui i comunisti, al centro di un fronte popolare, di un blocco di forze sociali e politiche, gradualmente conquistano alcune “fortezze” delle istituzioni economiche e politiche capitalistiche, attuando riforme strutturali. Per il successo di questa strategia, tuttavia, il paese deve essere libero dal controllo militare ed economico dell’imperialismo, mentre attualmente tutti i paesi dell’Europa occidentale e gli ex paesi socialisti europei sono sotto il controllo militare della NATO e delle istituzioni economiche imperialiste internazionali.

L’esperienza storica di questo secolo che ci separa dal grande Ottobre russo ci insegna che ci sono possibilità concrete di avviare una transizione socialista solo se la catena imperialista è seriamente indebolita.

Oggi, la situazione mondiale è più favorevole al movimento dei lavoratori che negli anni 1990 e 2000. È gravida di grandi pericoli e minacce, ma è anche aperta alla possibilità di un rapporto di forze più favorevole all’emancipazione delle nazioni oppresse e dei popoli sfruttati. Oggi, in tutto il mondo, le cose stanno cambiando: lo strapotere dell’imperialismo statunitense, che negli ultimi 25 anni ha portato guerre di aggressione per mantenere la sua centralità unipolare, trova un freno e un limite nella ascesa economica della Cina, nell’organizzazione dei BRICS, nel programma di creare una valuta di scambio internazionale alternativa al dollaro, nelle proposte strategiche della Cina che è diventato un attore sul palcoscenico mondiale e offre al mondo un’alternativa strategica per uno sviluppo pacifico (si veda “la nuova via della seta).

Il contesto internazionale è sempre stato importante per il movimento dei lavoratori, non perché le rivoluzioni possono essere esportate (le rivoluzioni possono svilupparsi solo su una effettiva base nazionale e devono fondamentalmente basarsi sulle proprie forze in ciascun paese), ma perché la presenza di un blocco di forze in grado di contenere l’impero americano può limitare la sua aggressività e fornire un sostegno a quei paesi in cui si sviluppa un movimento per il recupero della sovranità nazionale e popolare.

In questa situazione in movimento si possono creare le condizioni per una rinascita della lotta per il socialismo in Occidente.

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NOTE

1 Si veda in proposito Cheng Enfu, Li Wei, “Il marxismo-leninismo è il metodo scientifico e la guida per conoscere e trasformare il mondo”, in Marx in Cina, quaderno speciale di MarxVentuno n. 2-3/2014. Si può anche leggere in rete in http://www.marx21books.com/MARX%20IN%20CINA/Il%20marxisismo%20leninismo%20di%20Cheng%20Enfu.pdf.

2 Su questo, si veda anche la recentissima e fondamentale antologia di scritti di Lenin, curata da V. Giacché, con un’ampia prefazione dello stesso: Economia della rivoluzione, Il Saggiatore, Milano, 2017.


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di Domenico Losurdo

Il testo è la rielaborazione nella forma della Conferenza pronunciata a Napoli, presso la libreria Feltrinelli, il 6 luglio 2007, nell’ambito del ciclo «I venerdì della politica» promosso dalla Società di studi politici. 

Ho sviluppato i temi qui accennati in tre libri ai quali rinvio per gli approfondimenti e i riferimenti bibliografici: Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005); Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007), Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008) (D.L)

L’ideologia e la storiografia oggi dominanti sembrano voler compendiare il bilancio di un secolo drammatico in una storiella edificante, che può essere così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una ragazza fascinosa e virtuosa (la signorina Democrazia) viene aggredita prima da un bruto (il signor Comunismo) e poi da un altro (il signor Nazi-fascismo); approfittando anche dei contrasti tra i due e attraverso complesse vicende, la ragazza riesce alfine a liberarsi dalla terribile minaccia;
divenuta nel frattempo più matura, ma senza nulla perdere del suo fascino, la signorina Democrazia può alfine coronare il suo sogno d’amore mediante il matrimonio col signor Capitalismo; circondata dal rispetto e dall’ammirazione generali, la coppia felice e inseparabile ama condurre la sua vita in primo luogo tra Washington e New York, tra la Casa Bianca e Wall Street. Stando così le cose, non è più lecito alcun dubbio: il comunismo è il nemico implacabile della democrazia, la quale ha potuto consolidarsi e svilupparsi solo dopo averlo sconfitto.

1. La democrazia quale superamento delle tre grandi discriminazioni

Sennonché, questa storiella edificante nulla ha a che fare con la storia reale. La democrazia, così come oggi la intendiamo, presuppone il suffragio universale: indipendentemente dal sesso (o genere), dal censo e dalla «razza», ogni individuo dev’essere riconosciuto quale titolare dei diritti politici, del diritto elettorale attivo e passivo, del diritto di votare per i propri rappresentanti e di essere eventualmente eletto negli organismi rappresentativi. E cioè, ai giorni nostri la democrazia, persino nel suo significato più elementare e immediato, implica il superamento delle tre grandi discriminazioni (sessuale o di genere, censitaria e razziale) che erano ancora vive e vitali alla vigilia dell’ottobre 1917 e che sono state superate solo col contributo, talvolta decisivo, del movimento politico scaturito dalla rivoluzione bolscevica.

Cominciamo con la clausola d’esclusione, macroscopica, che negava il godimento dei diritti politici alla metà del genere umano e cioè alle donne. In Inghilterra, le signore Pankhurst (madre e figlia), che promuovevano la lotta contro tale discriminazione e dirigevano il movimento femminista delle suffragette, erano costrette a visitare periodicamente le patrie prigioni. La situazione non era molto diversa negli altri grandi paesi dell’Occidente. Era Lenin invece, in Stato e rivoluzione, a denunciare l\'«esclusione delle donne» dai diritti politici come una conferma clamorosa del carattere mistificatorio della «democrazia capitalistica». Tale discriminazione veniva cancellata in Russia già dopo la rivoluzione di febbraio, da Gramsci salutata come «rivoluzione proletaria» per il ruolo di protagonista svolto dalle masse popolari, com’era confermato dal fatto che la rivoluzione aveva introdotto «il suffragio universale, estendendolo anche alle donne». La medesima strada era poi imboccata dalla repubblica di Weimar, scaturita dalla «rivoluzione di novembre», scoppiata in Germania a un anno di distanza dalla rivoluzione d’ottobre e sull’onda e a imitazione di quest’ultima. Successivamente, in questa direzione si muovevano anche gli USA. In Italia e in Francia, invece, le donne conquistavano i diritti politici solo dopo la seconda guerra mondiale, sull’onda della Resistenza antifascista, alla quale i comunisti avevano contribuito in modo essenziale o decisivo.

Considerazioni analoghe si possono fare a proposito della seconda grande discriminazione, che ha anch’essa caratterizzato a lungo la tradizione liberale: mi riferisco alla discriminazione censitaria, che escludeva dai diritti politici attivi e passivi i non proprietari, i non abbienti, le masse popolari. Già efficacemente combattuta dal movimento socialista e operaio, pur fortemente indebolita, essa continuava a resistere pervicacemente alla vigilia della rivoluzione d’ottobre. Nel saggio sull’imperialismo e in Stato e rivoluzione Lenin richiamava l’attenzione sulle persistenti discriminazioni censitarie, camuffate mediante i requisiti di residenza o altri «\"piccoli\" (i pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale», che in paesi come la Gran Bretagna comportavano l\'esclusione dai diritti politici dello «strato inferiore propriamente proletario». Si può aggiungere che proprio nel paese classico della tradizione liberale ha tardato in modo particolare ad affermarsi pienamente il principio «una testa, un voto». Solo nel 1948 sono dileguate le ultime tracce del «voto plurale», a suo tempo teorizzato e celebrato da John Stuart Mill: i membri delle classi superiori considerati più intelligenti e più meritevoli godevano del diritto di esprimere più di un voto, ciò che faceva rientrare dalla finestra la discriminazione censitaria cacciata dalla porta. 

Per quanto riguarda l’Italia, sui manuali scolastici si può leggere che la discriminazione censitaria è stata cancellata nel 1912. In realtà continuavano a sussistere le «piccole» clausole di esclusione denunciate da Lenin. Ma non è questo il punto più importante. La legge varata in quell’anno concedeva graziosamente i diritti politici solo a quei cittadini di sesso maschile che, pur di modeste condizioni sociali, si fossero distinti o per «titoli di cultura e di onore» o per il valore militare mostrato nel corso della guerra contro la Libia terminata poco prima. In altre parole, non si trattava del riconoscimento di un diritto universale, bensì di una ricompensa in primo luogo per quanti avevano dato prova di coraggio e di ardore bellico nel corso di una conquista coloniale dai tratti brutali e talvolta genocidi.

In ogni caso, anche là dove il suffragio (maschile) era divenuto universale o pressoché universale, esso non valeva per la Camera Alta, che continuava a essere appannaggio della nobiltà e delle classi superiori. Nel Senato italiano vi sedevano, in qualità di membri di diritto, i principi di Casa Savoia: tutti gli altri erano nominati a vita dal re, su segnalazione del presidente del Consiglio. Non dissimile era la composizione delle altre Camere Alte europee che, a eccezione di quella francese, non erano elettive bensì caratterizzate da un intreccio di ereditarietà e nomina regia. Persino per quanto riguarda il Senato della Terza Repubblica francese, che pure aveva alle spalle una serie ininterrotta di sconvolgimenti rivoluzionari culminati nella Comune, è da notare che esso risultava da un\'elezione indiretta ed era costituito in modo tale da garantire una marcata sovra-rappresentanza alla campagna (e alla conservazione politico-sociale), a danno ovviamente di Parigi e delle maggiori città, a danno cioè dei centri urbani considerati il focolaio della rivoluzione. Anche in Gran Bretagna, nonostante la secolare tradizione liberale alle spalle, la Camera Alta (interamente ereditaria, eccettuati pochi vescovi e giudici), non aveva nulla di democratico, e netto era il controllo esercitato dall’aristocrazia sulla sfera pubblica: era una situazione non molto diversa da quella che caratterizzava Germania e Austria. È per questo che un illustre storico (Arno J. Mayer) ha parlato di persistenza dell’antico regime in Europa sino al primo conflitto mondiale (e alla rivoluzione d’ottobre e alle rivoluzioni e agli sconvolgimenti che hanno fatto seguito a essa)

In quegli anni neppure negli USA erano assenti i residui di discriminazione censitaria. Rispetto all’Europa, però, l’antico regime si presentava in una versione diversa: l’aristocrazia di classe si configurava come aristocrazia di razza. Nel Sud del paese il potere era nelle mani degli ex-proprietari di schiavi, che nulla avevano perso della loro arroganza razziale o razzista e che non a caso erano bollati dai loro avversari quali Borboni; non era certo dileguato il regime talvolta celebrato dai suoi sostenitori e talaltra criticamente analizzato dagli studiosi contemporanei come una sorta di ordinamento castale, in quanto fondato su raggruppamenti etnico-sociali resi impermeabili dal divieto di miscegenation, e cioè dal divieto di rapporti sessuali e matrimoniali inter-razziali, severamente condannati e puniti in quanto suscettibili di mettere in discussione la white supremacy.

2. La duplice dimensione della discriminazione razziale

E veniamo così alla terza grande discriminazione, quella razziale. Prima della Rivoluzione d’Ottobre essa era più viva che mai e manifestava la sua vitalità in due modi. A livello globale il mondo era caratterizzato dal dominio incontrastato, per dirla con Lenin, di «poche nazioni elette» ovvero di un pugno di «nazioni modello» che attribuivano a se stesse «il privilegio esclusivo di formazione dello Stato», negandolo alla stragrande maggioranza dell’umanità, ai popoli estranei al mondo occidentale e bianco e pertanto indegni di costituirsi quali Stati nazionali indipendenti. E dunque, le «razze inferiori» erano escluse in blocco dal godimento dei diritti politici già per il fatto di essere considerate incapaci di autogoverno, incapaci di intendere e di volere sul piano politico. Tale esclusione era ribadita a un secondo livello, a livello nazionale: nell’Unione sudafricana e negli USA (il paese sul quale soprattutto ci soffermeremo), i popoli di origine coloniale erano ferocemente oppressi: essi non godevano né dei diritti politici né di quelli civili. 

Si pensi ad esempio ai linciaggi che, tra Otto e Novecento, negli Stati Uniti erano riservati in particolare ai neri. Un illustre storico statunitense (Vann Woodward) ne ha dato una descrizione secca ma tanto più efficace e raccapricciante:

«Notizie dei linciaggi erano pubblicate sui fogli locali e carrozze supplementari erano aggiunte ai treni per spettatori, talvolta migliaia, provenienti da località a chilometri di distanza. Per assistere al linciaggio, i bambini delle scuole potevano avere un giorno libero.

Lo spettacolo poteva includere la castrazione, lo scoiamento, l\'arrostimento, l\'impiccagione, i colpi d\'arma da fuoco. I souvenir per acquirenti potevano includere le dita delle mani e dei piedi, i denti, le ossa e persino i genitali della vittima, così come cartoline illustrate dell\'evento».

Vediamo qui all’opera non la democrazia propriamente detta di cui favoleggia la storiella edificante di cui ho parlato agli inizi, bensì quella che eminenti studiosi statunitensi hanno definito la Herrenvolk democracy, una democrazia riservata esclusivamente al popolo dei signori, il quale esercitava una terroristica white supremacy non solo sui popoli di origine coloniale (afroamericani, asiatici ecc.) ma talvolta anche sugli immigrati provenienti da paesi (quali l’Italia) considerati di dubbia purezza razziale.

Ancora negli anni ’30 i neri, che pure nel corso della prima guerra mondiale erano stati chiamati a combattere e a morire per la «difesa» del paese, continuavano a subire un regime di terrore che al tempo stesso funzionava come una ripugnante società dello spettacolo. Eloquenti sono di per sé i titoli e le cronache dei giornali locali del tempo. Li riprendiamo dall’antologia (100 Years of Lynchings) curata da uno studioso afroamericano (Ralph Ginzburg): «Grandi preparativi per il linciaggio di questa sera». Nessun particolare doveva essere trascurato: «Si teme che colpi d’arma da fuoco diretti al negro possano andare fuori bersaglio e colpire spettatori innocenti, che includono donne con i loro bambini in braccio»; ma se tutti si atterranno alle regole, «nessuno sarà deluso». L’inedita società dello spettacolo procedeva in modo implacabile. Vediamo altri titoli: «il linciaggio eseguito pressoché come previsto nell’annuncio pubblicitario»; «la folla applaude e ride per l’orribile morte di un negro»; «cuore e genitali recisi dal cadavere di un negro». 

A subire il linciaggio non erano solo i neri colpevoli di «stupro» ovvero, il più delle volte, di rapporti sessuali consensuali con una donna bianca. Bastava molto meno per essere condannati a morte: l’«Atlanta Constitution» dell’11 luglio 1934 informava dell’avvenuta esecuzione di un nero di 25 anni «accusato di aver scritto una lettera “indecente e insultante” a una giovane ragazza bianca della contea di Hinds»; in questo caso la «folla di cittadini armati» si era accontentata di riempire di pallottole il corpo dello sciagurato. Per di più, oltre che sui «colpevoli», la morte, inflitta in modo più o meno sadico, incombeva anche sui sospetti. Continuiamo a sfogliare i giornali dell’epoca e a leggere i titoli: «Assolto dalla giuria, poi linciato»; «Sospetto impiccato a una quercia sulla pubblica piazza di Bastrop»; «Linciato l’uomo sbagliato». Infine la violenza non si limitava a prendere di mira il responsabile o il sospetto responsabile del misfatto a lui attribuito: accadeva che, prima di procedere al suo linciaggio, venisse data alle fiamme e bruciata completamente la capanna in cui abitava la sua famiglia. 

È da aggiungere che la terza grande discriminazione finiva col colpire anche certi membri e certi settori della stessa casta o razza privilegiata. Sfogliando sempre l’antologia relativa ai cento anni di linciaggi negli USA, ci imbattiamo nel titolo di un articolo del «Galveston (Texas) Tribune» del 21 giugno 1934: «Una ragazza bianca è rinchiusa in carcere, il suo amico negro è linciato». Su quella ragazza bianca il regime di terroristica white supremacy si abbatteva in modo duplice: sia privandola della sua libertà personale, sia colpendola pesantemente nei suoi affetti.

3. Movimento comunista e lotta contro la discriminazione razziale

In che direzione, a quale movimento e a quale paese guardavano le vittime di tale orrore, per cercare solidarietà e ispirazione nella lotta di resistenza e di emancipazione? Non è difficile indovinarlo. Subito dopo la rivoluzione d’ottobre, gli afroamericani che aspiravano a scuotersi di dosso il giogo della white supremacy erano spesso accusati di bolscevismo, ma pronta era la replica di un militante nero che non si lasciava intimidire: «Se lottare per i nostri diritti significa essere bolscevichi, ebbene io sono bolscevico e che gli altri si rassegnino una volta per sempre».

Sono gli anni in cui i neri che diventavano militanti del Partito comunista degli USA o che visitavano la Russia sovietica facevano un’esperienza inedita e esaltante: si vedevano finalmente riconosciuti nella loro dignità umana; su un piano di parità con i loro compagni potevano partecipare alla progettazione di un mondo nuovo. Si comprende allora che essi guardassero a Stalin come al «nuovo Lincoln», al Lincoln che avrebbe messo fine questa volta in modo concreto e definitivo alla schiavitù dei neri, all’oppressione, alla degradazione, all’umiliazione, alla violenza e ai linciaggi che essi continuavano a subire. Non c’è da stupirsi per questa visione. Si tenga presente che per lungo tempo, nel periodo in cui la discriminazione razziale e il regime di supremazia bianca infuriavano pressoché indisturbati all’interno degli USA e a livello mondiale nel rapporto tra metropoli capitalistica e colonie, il termine «razzismo» ha avuto una connotazione positiva, quale sinonimo di comprensione sobria e scientifica della storia e della politica, una comprensione scientifica che solo gli ingenui (per lo più socialisti o comunisti) si ostinavano a ignorare o a mettere in discussione.

Quando interveniva il momento di svolta nella storia degli afroamericani? Nel dicembre 1952 il ministro statunitense della giustizia inviava alla Corte Suprema, che era stata chiamata a discutere la questione dell’integrazione nelle scuole pubbliche, una lettera eloquente: «La discriminazione razziale porta acqua alla propaganda comunista e suscita dubbi anche tra le nazioni amiche sull’intensità della nostra devozione alla fede democratica». Già per ragioni di politica estera occorreva sancire l’incostituzionalità della segregazione e della discriminazione anti-nera. Washington – osserva lo storico statunitense (Vann Woodward) che ricostruisce tale vicenda – correva il pericolo di alienarsi le «razze di colore» non solo in Oriente e nel Terzo Mondo ma nel cuore stesso degli Stati Uniti: anche qui la propaganda comunista riscuoteva un considerevole successo nel suo tentativo di guadagnare i neri alla «causa rivoluzionaria», facendo crollare in loro la «fede nelle istituzioni americane». In altre parole, non si poteva arginare la sovversione comunista senza mettere fine al regime di white supremacy. E dunque: la lotta ingaggiata dal movimento comunista e la paura del comunismo finivano con lo svolgere un ruolo essenziale nella cancellazione negli USA (e poi nel Sudafrica) della discriminazione razziale e nella promozione della democrazia.

A questo punto s’impone una riflessione. Le opzioni politiche di ciascuno di noi possono essere le più diverse. E, tuttavia, chi voglia fondare le sue affermazioni su una sia pur elementare ricostruzione storica, deve riconoscere un punto essenziale: la storiella edificante dalla quale abbiamo preso le mosse, e che continua a essere strombazzata dall’ideologia dominante, è per l’appunto una storiella. Se per democrazia intendiamo quantomeno l’esercizio del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni, è chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla Rivoluzione d’Ottobre e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a livello mondiale.

4. La discriminazione razziale tra USA e Terzo Reich

Se da un lato spingeva le sue vittime a riporre le loro speranze nel movimento comunista e nell’Unione Sovietica, dall’altro il regime di white supremacy vigente negli USA e a livello mondiale suscitava l’ammirazione del movimento nazista. Nel 1930, Alfred Rosenberg, che poi sarebbe diventato il teorico più o meno ufficiale del Terzo Reich, celebrava gli Stati Uniti, con lo sguardo rivolto soprattutto al Sud, come uno «splendido paese del futuro» che aveva avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea che si trattava allora di mettere in pratica, «con forza giovanile», senza fermarsi a mezza strada. La repubblica nord-americana aveva coraggiosamente richiamato l’attenzione sulla «questione negra» e anzi l’aveva collocata «al vertice di tutte le questioni decisive». Ebbene, una volta cancellato per i neri, l’assurdo principio dell’uguaglianza doveva essere liquidato sino in fondo: occorreva trarre «le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei».

Non c’è dubbio, il regime di white supremacy ha profondamente ispirato il nazismo e il Terzo Reich. È un’influenza che ha lasciato tracce profonde anche sul piano categoriale e linguistico. Proviamo a interrogarci sul termine-chiave suscettibile di esprimere in modo chiaro e concentrato la carica di de-umanizzazione e di violenza genocida insita nell’ideologia nazista. In questo caso non c’è bisogno di ricerche particolarmente tormentose: è Untermensch il termine-chiave, che in anticipo priva di qualsiasi dignità umana quanti sono destinati a essere schiavizzati al servizio della razza dei signori o a essere annientati quali agenti patogeni, colpevoli di fomentare la rivolta contro la razza dei signori e contro la civiltà in quanto tale. Ebbene, il termine Untermensch, che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, non è altro che la traduzione dall’americano Under Man! Lo riconosce Rosenberg, il quale esprime la sua ammirazione per l’autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come sottotitolo (The Menace of the Under Man) di un libro pubblicato a New York nel 1922 e della sua versione tedesca (Die Drohung des Untermenschen) apparsa tre anni dopo. Per quanto riguarda il suo significato, Stoddard chiarisce che esso sta a indicare la massa di «selvaggi e barbari», «essenzialmente incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili», con i quali bisogna procedere a una radicale resa dei conti, se si vuole sventare il pericolo che incombe di crollo della civiltà. Elogiato, prima ancora che da Rosenberg, già da due presidenti statunitensi (Harding e Hoover), Stoddard è successivamente ricevuto con tutti gli onori a Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri dell’eugenetica nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime, compreso Adolf Hitler, ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e schiavizzazione degli «indigeni» ovvero degli Untermenschen dell’Europa orientale, e impegnato nei preparativi per l’annientamento degli Untermenschen ebraici, considerati i folli ispiratori della rivoluzione bolscevica e della rivolta degli schiavi e dei popoli delle colonie. 

Ben lungi dal poter essere assimilate l’una all’altra quali nemiche mortali della democrazia, Unione Sovietica e Germania hitleriana si sono storicamente collocate su posizioni contrapposte: la prima ha svolto un ruolo d’avanguardia nella lotta contro la terza grande discriminazione (quella razziale), mentre la seconda si è distinta nella lotta per radicalizzare ed eternizzare la terza grande discriminazione e, nel far ciò, si è richiamata all’esempio costituito dagli USA. Nel complesso, l’analisi storica costringe a riconoscere il contributo essenziale o decisivo fornito dal movimento scaturito dalla rivoluzione d’ottobre al superamento delle tre grandi discriminazioni e dunque alla realizzazione di un presupposto ineludibile della democrazia.

5. Un incompiuto processo di democratizzazione

Conviene ora porsi un’ultima domanda: le tre grandi discriminazioni sono oggi del tutto dileguate? Già diversi anni fa, un eminente storico statunitense, Arthur Schlesinger Jr, che è stato anche consigliere del presidente John Kennedy, tracciava un quadro ben poco lusinghiero della democrazia nel suo paese: «L\'azione politica, una volta imperniata sull\'attivismo, s’impernia ora sulla disponibilità finanziaria». Dati i «costi spaventosamente alti delle recenti campagne elettorali», si delineava nettamente la tendenza a «limitare l’accesso alla politica a quei candidati che hanno fortune personali o che ricevono denaro da comitati d’azione politica», ovvero da «gruppi di interessi» e lobbies varie. In altre parole, era come se la discriminazione censitaria, cacciata dalla porta, fosse rientrata dalla finestra. Conviene prenderne atto: la campagna neoliberista contro i «diritti sociali ed economici», solennemente proclamati e sanciti dall\'ONU nel 1948 ma denunciati da Friedrich August von Hayek quali espressione dell\'influenza (da lui considerata rovinosa) della «rivoluzione marxista russa», ha finito con l‘investire anche i diritti politici.

Nell’atto di accusa contro la Rivoluzione d’Ottobre formulato dal patriarca del neoliberismo (e premio Nobel per l’Economia nel 1974) si può e si deve leggere un grande riconoscimento. Quella rivoluzione ha contribuito alla realizzazione dei diritti economici e sociali e all’edificazione anche in Occidente; non a caso, ai giorni nostri, al venire meno della sfida del movimento comunista corrisponde lo smantellamento dello Stato sociale nella stessa Europa, con il risultato che la discriminazione censitaria finisce col ripresentarsi in forme nuove.

E per quanto riguarda le altre due grandi discriminazioni? Non c’è tempo per un’analisi approfondita, ma non posso fare a meno di una breve osservazione a proposito della terza grande discriminazione. Certo, la storia non è l’eterno ritorno dell’identico, come pretendeva Nietzsche. Sarebbe errato e fuorviante ignorare i mutamenti intervenuti e i risultati conseguiti dalla lotta di emancipazione. Ai giorni nostri nessuno oserebbe fare professione di razzismo e proclamare ad alta voce la necessità di difendere o ristabilire la white supremacy. Non bisogna però dimenticare che, storicamente, un aspetto essenziale della terza grande discriminazione è stato la gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni. L’ha ben compreso Lenin che abbiamo visto definire l’imperialismo come la pretesa di «poche nazioni elette» ovvero di poche «nazioni modello» di riservare esclusivamente a se stesse il diritto di costituirsi in Stato nazionale indipendente. È stata abbandonata una volta per sempre tale pretesa? In occasione di gravi conflitti politici e diplomatici, l’Occidente e in particolare il suo paese-guida si rivolgono al Consiglio di Sicurezza dell’ONU perché autorizzi l’intervento militare da loro auspicato o programmato, ma al tempo stesso dichiarano che, anche in assenza di autorizzazione, essi si riservano il diritto di scatenare sovranamente la guerra contro questo o quel paese. E’ evidente che, arrogandosi il diritto di dichiarare superata la sovranità di altri Stati, i paesi occidentali si attribuiscono una sovranità dilatata e imperiale, da esercitare ben al di là del proprio territorio nazionale, mentre per i paesi da loro presi di mira il principio della sovranità statale è dichiarato superato e privo di valore. In forme nuove si riproduce la dicotomia (nazioni elette e realmente fornite di sovranità/popoli indegni di costituirsi in Stato nazionale autonomo) che è propria dell’imperialismo e del colonialismo. Con la forza delle armi continua a esser fatto valere il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni. 

Nel caso degli USA questa sedicente gerarchia è proclamata ad alta voce e viene persino religiosamente trasfigurata. Nel settembre del 2000, nel condurre la campagna elettorale che l’avrebbe portato alla presidenza, George W. Bush enunciava un vero e proprio dogma: «La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo». È un dogma ben radicato nella tradizione politica statunitense. Bill Clinton aveva inaugurato il suo primo mandato presidenziale, con una proclamazione ancora più enfatica del primato degli USA e del diritto-dovere a dirigere il mondo: «La nostra missione è senza tempo»!

Si direbbe che alla white supremacy sia subentrata la western supremacy ovvero l’American supremacy. Resta fermo il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni, una gerarchizzazione naturale, eterna e persino consacrata dalla volontà divina, come nella monarchia assoluta dell’Antico regime! Almeno per quanto riguarda la sua dimensione internazionale, la terza grande discriminazione non è dileguata. Detto altrimenti: almeno per quanto riguarda i rapporti internazionali, siamo ben lontani dalla democrazia. Il processo di democratizzazione iniziato con la rivoluzione d’ottobre è ancora ben lungi dalla sua conclusione.

Testo pubblicato dalla Casa editrice «La Scuola di Pitagora», Napoli. Ringraziamo Domenico Losurdo, Presidente dell\'Associazione Marx XXI, per la richiesta di pubblicazione nel nostro sito.

LEGGI IN FORMATO PDFhttp://www.marx21.it/documenti/losurdo_Rivoluzioneottobredemocrazia.pdf



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(italiano / english / deutsch)

Die deutsche Ethno-Zentrale


1) Die deutsche Ethno-Zentrale
2) The Power in the Center / Die Macht in der Mitte
[Muovendo dal conflitto secessionista in Catalogna, il sito web del settimanale tedesco Die Zeit ha pubblicato uno sferzante appello per lo smembramento degli Stati-nazione in Europa:
3) Die Ökonomie der Sezession / The Economy of Secession / Germania e separatismi: l’economia della secessione


=== 1 ===


Die deutsche Ethno-Zentrale
 
06.10.2017
BERLIN/FLENSBURG
 
(Eigener Bericht) - Beflügelt vom katalanischen Sezessionsreferendum treiben Mitglieder einer in Deutschland ansässigen Ethno-Organisation Autonomieforderungen für die ungarischsprachige Minderheit in Rumänien voran. In der vergangenen Woche haben bekannte Politiker der Südtiroler Volkspartei (SVP) eine Delegation der extrem rechten Partei Jobbik aus Ungarn empfangen, um ihr die Besonderheiten der Südtiroler Autonomie nahezubringen. Die SVP gehört der Föderalistischen Union Europäischer Nationalitäten (FUEN) mit Sitz in Flensburg an, einem Zusammenschluss, der größere Sonderrechte für völkisch definierte Minderheiten fordert, von staatlichen Stellen finanziert wird und eng mit dem Bundesinnenministerium kooperiert. Jobbik, eine für ihre rassistisch-antisemitische Agitation berüchtigte Partei, kündigt an, sich in Rumänien, aber auch in der Slowakei, in der Ukraine und in Serbien für eine formelle Autonomie der dortigen ungarischsprachigen Minderheiten einzusetzen. Jobbik wird nach eigenen Angaben in dieser Frage von einem Angehörigen der deutschsprachigen Minderheit Ungarns beraten, der neun Jahre lang in führender Funktion für die FUEN tätig war und in der Organisation zu den zentralen Ansprechpartnern deutscher Regierungsstellen gehörte. Bundespräsident Frank-Walter Steinmeier hat der FUEN am gestrigen Donnerstag einen persönlichen Besuch abgestattet.
In völkischer Tradition
Bei der Föderalistischen Union Europäischer Nationalitäten (FUEN) handelt es sich um einen Zusammenschluss von aktuell über 90 Organisationen aus 33 Ländern Europas, des Kaukasus und Zentralasiens, die jeweils Sprachminderheiten vertreten. Die FUEN, einst unter Führung vormaliger NS-Antisemiten gegründet, sieht sich selbst in der Tradition der deutschen Minderheitenpolitik der 1920er Jahre, die Sprachminderheiten ethnisch definierte (german-foreign-policy.com berichtete [1]); bis vor kurzem nannte sie sich selbst Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen (FUEV). Entsprechend setzt sich die FUEN bis heute dafür ein, ethnisch-\"national\" definierten Minderheiten weitreichende Sonderrechte zu verleihen. Als vergleichsweise vorbildlich gilt bei der FUEN die Autonomie der norditalienischen Provinz Bolzano-Alto Adige/Südtirol, in der die deutschsprachige Minderheit Italiens fast zwei Drittel der Bevölkerung stellt. Stärkste politische Kraft ist die Südtiroler Volkspartei (SVP), die seit dem Ende des Zweiten Weltkriegs durchweg den Landeshauptmann stellt; sie ist Mitglied der FUEN, stellt einen ihrer Vizepräsidenten und beteiligt sich an der Finanzierung der Organisation. Die FUEN, die ihre Zentrale in Flensburg hat, erhält ihre Mittel unter anderem von den Bundesländern Schleswig-Holstein und Sachsen, vom Land Kärnten und von der Deutschsprachigen Gemeinschaft Belgiens; projektbezogene Gelder kommen vom Bundesinnenministerium und der ungarischen Regierung.
Schutzmacht Deutschland
Für die Berliner Regierungspolitik ist ein Zusammenschluss innerhalb der FUEN von besonderer Bedeutung, der sämtliche deutschsprachigen Mitgliedsverbände bündelt: die Arbeitsgemeinschaft Deutscher Minderheiten in der FUEN (AGDM). Ihr gehören Organisationen aus Staaten von Dänemark bis Kirgisistan an. Die AGDM, die 1991 in Budapest gegründet wurde, trifft sich jedes Jahr zu einer Jahrestagung, die gewöhnlich im Bundesinnenministerium abgehalten wird; fester Programmpunkt sind Gespräche mit dem Beauftragten der Bundesregierung für Aussiedlerfragen und nationale Minderheiten und mit anderen für die deutschsprachigen Minderheiten zuständigen Ministerialbeamten aus dem Innenministerium und dem Auswärtigen Amt. Dadurch wird die Anbindung der Minderheiten an die Berliner Politik gesichert. Die Bundesregierung tritt dabei als Schutzmacht der deutschsprachigen Minderheiten auf und nutzt dies, um Einfluss auf die innere Politik fremder Staaten zu nehmen. So berichtete Bundeskanzlerin Angela Merkel bei einer Reise nach Polen am 7. Februar Vertretern der dortigen deutschsprachigen Minderheit, sie habe bei Ministerpräsidentin Beata Szydło zu ihren Gunsten interveniert. Hauptredner der AGDM-Tagung im Juni dieses Jahres in Berlin war ein ehemaliger Führungsfunktionär der deutschsprachigen Minderheit Rumäniens, Klaus Johannis. Johannis, der als Minderheitenvertreter über Jahre hin regelmäßiger Gast in Berlin war, amtiert seit dem 21. Dezember 2014 als rumänischer Präsident.
\"Juden erfassen\"
Am 28. September haben nun prominente Politiker des FUEN- und AGDM-Mitglieds SVP eine vierköpfige Delegation der ungarischen Partei Jobbik im Landtag in Bolzano empfangen. Die extrem rechte Jobbik ist für ihre rassistisch-antisemitische Agitation und für ihre glühende Verehrung des NS-Kollaborateurs Miklós Horthy berüchtigt.[2] Márton Gyöngyösi, Abgeordneter im ungarischen Parlament und Leiter der nach Bolzano gereisten Delegation, machte vor einigen Jahren von sich reden, als er forderte, \"Menschen jüdischen Ursprungs\" in Ungarn zu \"erfassen\", weil sie \"ein gewisses Risiko für die nationale Sicherheit Ungarns\" darstellten.[3] Gyöngyösi und seine Parteikollegen trafen nun unter anderem den Vizepräsidenten des Südtiroler Landtags, Thomas Widmann (SVP), den früheren langjährigen Ministerpräsidenten Luis Durnwalder (SVP) sowie den langjährigen Leiter des Südtiroler Volksgruppen-Instituts, Christoph Pan, um sich von ihnen über Geschichte und Funktionsweise der Südtiroler Autonomie beraten zu lassen. Jobbik kündigte anschließend an, dieselben Autonomierechte für die ungarischsprachigen Minderheiten Rumäniens, der Slowakei sowie weiterer Nachbarstaaten Ungarns erkämpfen zu wollen.[4] Die SVP-Politiker und Pan wurden zu einem Gegenbesuch nach Budapest eingeladen. Pan, ein prominenter Vertreter völkischer Minderheitenkonzepte, amtierte von 1994 bis 1996 als FUEN-Präsident.
\"Ausgesprochen minderheitenfreundlich\"
Wie Jobbik berichtet, lässt sie sich in Minderheitenfragen inzwischen von Koloman Brenner beraten. Brenner, Germanistik-Dozent an der philosophisch-humanwissenschaftlichen Fakultät der Eötvös-Loránd-Universität (ELTE) in Budapest, ist ein langjähriger Funktionär der Landsmannschaft der Ungarndeutschen und als solcher seit Mitte der 1990er Jahre in der FUEN aktiv. Von 2007 bis 2016 amtierte er zudem als Vorsitzender der AGDM; in dieser Funktion war er nicht nur ein wichtiger Ansprechpartner für alle AGDM-Mitgliedsverbände, darunter die SVP, sondern auch eine zentrale Kontaktperson für die Bundesregierung. Brenner urteilt heute, Jobbik sei eine \"ausgesprochen minderheitenfreundliche\" Organisation.[5] Laut Angaben der Partei wird er bei den ungarischen Parlamentswahlen in seiner Geburtsstadt Sopron für sie kandidieren.[6]
Neue Grenzen
Während die SVP Jobbik beim Forcieren von Autonomieforderungen in Ungarns Nachbarstaaten behilflich ist, hat das Auswärtige Amt erstmals einen Vertreter der Süd-Tiroler Freiheit in Berlin empfangen. Die Süd-Tiroler Freiheit steht in direkter Tradition zu den sogenannten Südtiroler Freiheitskämpfern, die seit den 1950er Jahren regelmäßig Terroranschläge in Italien verübten, um den Anschluss Südtirols an Österreich zu erzwingen. Die Partei, die bei den letzten Wahlen zum Südtiroler Landtag 7,2 Prozent erreichen konnte, zeigt, wie fließend der Übergang zwischen Autonomie- und Sezessionsforderungen ist. Sie hat kürzlich mit der Publikation eines \"Merkhefts für Schüler\" Aufsehen erregt. In dem Pamphlet, das kostenlos in Italien und in Österreich verteilt werden soll, ist eine Landkarte abgedruckt, die Südtirol als Teil Österreichs zeigt. Schüler sollten sich \"an diesen Anblick gewöhnen\" und auch \"daran ..., dass Südtirol nicht Italien ist\", wird der Fraktionsvorsitzende der Partei im Südtiroler Landtag, Sven Knoll, zitiert.[7] Bereits vor einem Jahr, am 24. Oktober 2016, konnte der Landesjugendsprecher der Süd-Tiroler Freiheit, Benjamin Pixner, im Auswärtigen Amt auf Einladung des Ministeriums an einer Diskussionsveranstaltung zum Thema \"Welches Europa wollen wir?\" teilnehmen. Pixner, der dabei auch mit Außenminister Frank-Walter Steinmeier zusammentraf, hatte gar nicht damit gerechnet, nach Berlin gebeten zu werden: Er war von den zuständigen Berliner Stellen als einziger Südtiroler geladen worden.[8]
[1] S. dazu Hintergrundbericht: Die Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen.
[2] S. dazu Die Ära des Revisionismus (III).
[3] Ungarischer Politiker wegen judenfeindlicher Äußerungen in der Kritik. www.welt.de 27.11.2012.
[4] As shown by the example of South Tyrol, wage union and autonomy are vital for integrating Central Europe. jobbik.com.
[5] Jobbik auf Studienreise in Südtirol. unser-mitteleuropa.com 02.10.2017.
[6] As shown by the example of South Tyrol, wage union and autonomy are vital for integrating Central Europe. jobbik.com.
[7] Schüler-Merkheft zeigt Südtirol als Teil Österreichs. diepresse.com 31.08.2017.
[8] Junge Süd-Tiroler Freiheit bei Gesprächen über Zukunft Europas in Berlin. www.suedtiroler-freiheit.com 25.10.2016.


=== 2 ===

ORIG.: Die Macht in der Mitte (11.10.2017)



The Power in the Center
 
2017/10/11
BERLIN
 
(Own report) - Using the secessionist conflict in Catalonia as a backdrop, the website of the German weekly Die Zeit published a fiery appeal for dismembering Europe\'s nation-states. For quite some time, the author, Ulrike Guérot, has been promoting the \"disappearance of the nation-state\" in Europe. The nation-state should be replaced by regions with their \"own respective identities\" that could be \"ethnically\" defined. As examples, Guérot lists regions with strong separatist tendencies such as Flanders and Tyrol. The author sees herself upholding the tradition of the \"European Federalists\" of the early post-war period, who - under the guidance of western intelligence services - drew up plans for establishing of a European economic space with free circulation of commodities as a bulwark against the East European socialist countries. Wolfgang Schäuble, as President of the Association of European Border Regions (AEBR) in the early 1980, was also promoting regionalist plans. Inspired by former Nazi functionaries, the AEBR criticized the \"nation-state\'s barrier effect\" of borders in the interests of large corporations. Current economic maps indicate which areas in the EU would form the continent\'s most powerful block if regionalization should take effect: south and central Germany as well as its bordering regions from Flanders to Northern Italy.
From the CDU to the Greens
Yesterday, the website of the German weekly, Die Zeit, published a fiery appeal to dismember Europe\'s nation-states, authored by the political scientist Ulrike Guérot. Guérot had been employed by CDU parliamentarian Karl Lamers in the first half of the 1990s and participated in formulating the Schäuble/Lamers paper, propagating the establishment of a core Europe. She subsequently became collaborator for the EU Commission President at the time, Jacques Delors, and an expert of several think tanks (German Council on Foreign Relations, German Marshall Fund, and the European Council on Foreign Relations). In 2014, she founded a European Democracy Lab at the European School of Governance. Once member of the CDU; today, she is politically close to the Greens.[1]
\"Ethnic Region\"
Since some time, Guérot has been peddling an allegedly new political concept to the German public, based on the dismemberment of Europe\'s nation-states. According to her, \"the nation-state will disappear\" [2] and will be replaced by \"50 to 60\" regions in Europe, with \"their own respective identity.\"[3] She is referring to the concept of \"ethnic regions,\"[4] i.e. an ethnically defined community of shared origins. As Guérot writes \"ethnic region and statehood are not congruent\" for example in Ireland or Cyprus; Flanders, Venetia and Tyrol are further examples. In Flanders and Venetia, respectively more prosperous regions, defining themselves linguistic-ethnic (\"Netherlander\" or \"Venetian\") are dissociating themselves from poorer regions of the country, whereas the German speaking construct \"Tyrole\" encompasses areas of Austria and Northern Italy. According to Guérot, Catalonia is also one of the regions to be liberated from its constraints under the nation-state. The Catalan movement currently pushing for secession is in fact largely defining itself ethnically. The autonomous movement has been closely cooperating with French citizens, who live outside the Spanish region of Catalonia, but also consider themselves \"ethnic Catalans.\" At their rallies one can hear \"Neither France nor Spain! Only one country, Catalonia!\"[5] Last weekend the spokesperson of the left CUP party in Spanish Catalonia complained that Spaniards from outside Catalonia had come to Barcelona to participate in a demonstration. To demonstrate in Catalonia as a \"Spaniard\" corresponds to a \"colonial logic.\"[6]
Europe of the Regions
According to Guérot, only a \"European Republic,\" wherein \"the regions assume the role of the central constitutional actors,\" can save an EU shaken by national conflicts.[7] For example, the regions should constitute \"a second chamber\" in the European Parliament - \"a European Senate.\" Guérot has repeatedly said that political competence must be redistributed between the EU and its regions. According to this concept, a center of power will be set up in Brussels, in control of foreign and military policy, while the regions - for example, in charge of commercial taxes - would financially maintain independent latitude. Of course, the latter would depend on the economic power of the respective region. Besides its ethnic constitution, a \"Europe of the Regions\" would lead to a complete disenfranchisement of its smallest units. Guérot criticizes the fact that \"the EU is full of large regions (such as North Rhine-Westphalia) which are not permitted to participate in EU decision making, while on the other hand, small countries (such as Luxembourg or Malta) are.\" That must change. For example, rather than having one vote out of 28 in the European Council, Malta would only have one out of \"50 or 60\" votes in the \"European Senate.\" It would not be able to counter any measures proposed by the EU\'s economically predominating centers.
United States of Europe
Guérot\'s concept has precursors, which had been promoted, on the one hand, by intelligence agency circles of the post-war period and by interested business circles, on the other, serving however, entirely different interests under cover of promoting an alleged regional democracy.
Guérot says herself that her model is based on the \"European Federalists,\" particularly the Swiss Denis de Rougement. Since the mid-1940s, the \"European federalists\" sought to found a \"United States of Europe,\" as a unified economic realm - serving as a bulwark against the socialist countries, in the process of forming. It was also seen as a defense against the idea of abandoning the previous economic approach, which, at the time, was also rather popular in Western Europe. This is why the federalists had initially been supported and controlled by the CIA predecessor, the Office of Strategic Services (OSS) and its director, Alan Dulles, residing in Bern, and later by the CIA itself.[8] Rougement, an OSS-affiliate and professed federalist, complained in a 1948 \"Message to the Europeans,\" that \"Europe\" was \"barricaded behind borders impeding the circulation of its commodities,\" and because of this, is threatened with economic ruin. On the other hand, \"united,\" it could, already \"tomorrow, build the greatest political entity and the largest economic unit of our times.\" From 1952 - 1966, Rougemont continued his activities also as president of the CIA-financed \"Congress for Cultural Freedom.\"
\"Loss of Identity\"
Wolfgang Schäuble has also promoted regionalist concepts. Guérot had been in contact with him in 1994 during work on the Schäuble-Lamers paper. In 1979, Schäuble became president of the Association of European Border Regions (AEBR), an organization with the objective of downgrading the significance of borders in Europe. Business interests played an important role, which is why the AEBR could find reliable supporters in industry. A \"European Charter on Border and Cross-Border Regions,\" passed by the AEBR in 1981, stipulated that the \"elimination of economic and infrastructural barriers\" must urgently be pursued. For example, the \"expansion and construction of coordinated, combined cross-border freight transport terminals\" is necessary to \"close current gaps in cross-border traffic.\" In addition, the expansion of cross-border energy networks must be promoted. This is being overblown with allegations of Europe having emerged from a \"patchwork of historical landscapes,\" with borders creating \"scars\" on Europe\'s regions, and leading to the population\'s \"loss of identity.\" The current \"nation-state\'s barrier effect\" must be reduced - if not abolished, according to the paper drawn up under Schäuble\'s AEBR presidency.[9]
German Continuities
Former Nazi functionaries were actively participating both on the AEBR\'s committees and in the immediate entourage of its planning of the \"regionalization\" of the border regions, including Gerd Jans, the former member of the Waffen SS in the Netherlands, Konrad Meyer, responsible for the Nazi\'s \"Generalplan Ost,\" Hermann Josef Abs, of the Deutsche Bank, as well as Alfred Toepfer, described by the publicist Hans-Rüdiger Minow as \"infamous for his border subversion of France\'s Alsace.\" In an extensive study, Minow describes the continuities of the Nazi\'s concepts.[10]
Germany\'s Supremacy
Guérot ultimately argues in favor of her regionalization concepts, using the allegation that through the removal of nation-states, \"Germany\'s supremacy ... can be overcome.\" The opposite is the case. Economic maps by the EU\'s Eurostat statistics administration show the regions where 
Europe\'s wealth and, therefore, Europe\'s economic power is concentrated, a block with its centers in southern and central Germany, to the west, in Flanders and spreading to segments of the Netherlands, and to the South to parts of Austria and Northern Italy and in various separate regions of Western and Northern Europe. A number of these regions maintain close relations to Germany, or to the German regions. (german-foreign-policy.com reported.[11]) This clearly German-dominated block would hardly have any difficulty controlling a \"Europe of the Regions.\"
(Here, german-foreign-policy.com documents two Eurostat economic maps. The upper map shows the brut GDP per capita, according to the Purchasing Power Parity (PPP), while the lower map depicts the primary household incomes. The colors for Germany\'s south indicate the highest values, while the colors for the furthest southwestern and eastern EU indicate the lowest. Source: Eurostat.)

For more information on this subject see: The Economy of Secession (II).
[1] Ulrike Guérot: Adorno liest man nicht am Schwimmingpool. blogs.faz.net 17.03.2015.
[2] Steffen Dobbert, Benjamin Breitegger: \"Der Nationalstaat wird verschwinden\". www.zeit.de 03.01.2017.
[3] Ulrike Guérot: Europa einfach machen - einfach Europa machen. agora42.de 25.09.2017.
[4] Ulrike Guérot: In Spaniens Krise offenbart sich eine neue EU. www.zeit.de 10.10.2017.
[5] Morten Freidel: Die Brüder im Süden haben es besser. www.faz.net 08.10.2017.
[6] Hunderttausende kontern Unabhängigkeitspläne in Katalonien. www.zeit.de 08.10.2017.
[7] Ulrike Guérot: In Spaniens Krise offenbart sich eine neue EU. www.zeit.de 10.10.2017.
[8], [9], [10] Hans-Rüdiger Minow: Zwei Wege - Eine Katastrophe. Flugschrift No. 1. Aachen 2016.
[11] See The Economy of Secession (II).



=== 3 ===


Die Ökonomie der Sezession (I)
 
04.10.2017
MILANO/VENEZIA/BOLZANO/ANTWERPEN
 
(Eigener Bericht) - Separatisten in diversen EU-Staaten begreifen das Sezessionsreferendum in Katalonien als Ansporn und intensivieren ihre Aktivitäten. Bereits am 22. Oktober werden die beiden reichsten Regionen Italiens, die Lombardei und Venetien, je ein eigenes Referendum über eine Ausweitung ihrer Autonomie gegenüber der Regierung in Rom abhalten. Zentrale Ursache ist wie in Katalonien das Bestreben, den eigenen Wohlstand zu wahren und die Umverteilung ihrer Steuergelder an ärmere Gebiete insbesondere im Süden des Landes zu reduzieren oder zu beenden. Identische Motive befeuern Sezessionisten im niederländischsprachigen Teil Belgiens, in Flandern; die dortige Regionalregierung unterhält gute Beziehungen zur Regionalregierung Kataloniens. Auch im deutschsprachigen Separatismus Norditaliens (Südtirol), der bei den letzten Landtagswahlen über 25 Prozent der Stimmen auf sich vereinen konnte, werden neue Forderungen nach einer Abspaltung von Italien und dem Anschluss an Österreich laut. Viele Separatismen in der EU sind von Deutschland jahrzehntelang direkt oder indirekt gefördert worden - ökonomisch und politisch.
Die nächsten Referenden
Die nächsten Referenden, die den inneren Zusammenhalt eines EU-Staates beschädigen dürften, finden bereits in weniger als drei Wochen in Norditalien statt. Am 22. Oktober werden die Bürger der Lombardei und Venetiens entscheiden, ob die beiden Regionen größere Autonomierechte erhalten sollen. Mit Blick auf die Eskalation in Katalonien beschwören italienische Medien derzeit die Unterschiede zwischen den Referenden: Während es in Katalonien unter Bruch der spanischen Verfassung um die Abspaltung der Region ging, werden in der Lombardei und in Venetien nur Autonomieverhandlungen mit der Zentralregierung angestrebt - strikt im Rahmen der italienischen Verfassung. Allerdings ist die Dynamik der Entwicklung mit derjenigen in Katalonien, wo vor gut einem Jahrzehnt ebenfalls noch nicht die Abspaltung, sondern lediglich eine größere Autonomie mehrheitsfähig war, durchaus vergleichbar.
Die reichsten Regionen
Sowohl die Lombardei wie auch Venetien zeichnen sich durch einen weit überdurchschnittlichen Reichtum aus, der - wie im Falle Kataloniens - mit Umverteilungsleistungen zugunsten ärmerer Gebiete meist im Süden des Landes verbunden ist; das wiederum schürt Wohlstandschauvinismus und führt zu Bestrebungen, den Abfluss der Gelder zu stoppen. Die Lombardei verfügt nach eigenen Angaben über das höchste Bruttoinlandsprodukt pro Kopf in Italien; in der Rangliste der EU-Staaten schöbe sie sich mit 36.600 Euro pro Einwohner im Jahr auf Platz fünf - noch vor Deutschland (35.800 Euro) und weit vor dem Durchschnitt Italiens (27.800 Euro). Die Lombardei exportierte im Jahr 2015 Waren im Wert von 111,23 Milliarden Euro; das waren 27,2 Prozent der italienischen Gesamtausfuhr (408,66 Milliarden Euro), mehr als jede andere italienische Region erreichte. Auf Platz zwei lag mit Exporten im Wert von 57,52 Milliarden Euro Venetien, das das drittgrößte Bruttoinlandsprodukt Italiens erzielt - nach der Lombardei und der Hauptstadtregion Latium. Aus der Lombardei fließen, wie es in einer von ihrer Regionalregierung verbreiteten Broschüre heißt, jährlich 54 Milliarden Euro netto an den Zentralstaat ab, ein Vielfaches des Vergleichswerts in Katalonien, den die Publikation auf rund acht Milliarden Euro beziffert. Aus Venetien werden demnach ebenfalls hohe Nettosummen an Rom gezahlt - um die 15,5 Milliarden Euro pro Jahr.[1]
Von der Autonomie zur Abspaltung
Das Bestreben, die Mittelabflüsse zu verringern, begünstigt schon seit Jahrzehnten politische Kräfte, die zwischen dem Verlangen nach größerer Autonomie und der Forderung, sich von Italien abzuspalten, changieren. Bereits 1984 entstand mit der Lega Lombarda die Keimzelle der späteren Lega Nord, die lange für die Abspaltung Norditaliens plädierte, aktuell allerdings eher auf stärkere Autonomie setzt. Die Übergänge sind fließend. Parteichef Matteo Salvini zieht gegenwärtig die Ausdehnung der Lega Nord auf die Mitte und den Süden des Landes in Betracht und würde dazu wohl Zugeständnisse in puncto Autonomie machen; doch auch in dieser Frage ist der Machtkampf in der Partei nicht entschieden. Die Lega Nord stellt aktuell die Regierungschefs in der Lombardei sowie in Venetien. In Venetien sind dabei Abspaltungstendenzen deutlich erkennbar. Dort wurde 2014 ein informelles, nicht repräsentatives und weithin kritisiertes Online-Referendum abgehalten, dessen Resultate zwar nicht zuverlässig waren, in der Tendenz allerdings von Umfragen bestätigt wurden. Demnach gäbe es in der Bevölkerung Venetiens eine knappe Mehrheit für die Abspaltung der Region von Italien. Von der Entwicklung in Katalonien wird der Separatismus nun auch hier befeuert.
Der flämische Separatismus
Dasselbe trifft auf die belgische Region Flandern zu. Der niederländischsprachige Separatismus in dem Gebiet hat alte Wurzeln, die bis ins 19. Jahrhundert zurückreichen; er wird jedoch seit einigen Jahrzehnten ebenfalls durch Wohlstandschauvinismus und durch den Kampf gegen staatliche Umverteilung an die Hauptstadtregion Brüssel sowie vor allem an die Region Wallonie geprägt. Flandern erwirtschaftete 2014 rund 58 Prozent des belgischen Bruttoinlandsprodukts, die französischsprachige Region Wallonie lediglich 24 Prozent; für die verbleibenden 18 Prozent kam die Hauptstadtregion Brüssel auf, die zweisprachig ist. Das Bruttoinlandsprodukt pro Kopf lag in Flandern mit 36.300 Euro im Jahr weit über dem Vergleichswert in der Wallonie (26.100 Euro), deren Arbeitslosenquote (rund zwölf Prozent) diejenige Flanderns (rund fünf Prozent) beträchtlich übertraf. Mehrere Parteien, insbesondere der extrem rechte Vlaams Belang und die konservative Nieuw-Vlaamse Alliantie (N-VA), setzen sich prinzipiell für die Abspaltung Flanderns von Belgien ein, wobei die N-VA, die nicht nur den Ministerpräsidenten der flämischen Regionalregierung und den Bürgermeister der größten flämischen Stadt, Antwerpens, sondern auch einige Minister in der aktuellen belgischen Regierung stellt, sich gegenwärtig aus taktischen Gründen zurückhält. Die Region Flandern kooperiert seit 1992 mit der Region Katalonien; beide Seiten haben im Juli 2015 eine gemeinsame Erklärung unterzeichnet, die eine weitere Intensivierung ihrer Zusammenarbeit vorsieht. Die beiden Regionen haben sich im Vorfeld des katalanischen Sezessionsreferendums eng miteinander abgestimmt; vergangene Woche etwa traf sich die katalanische Parlamentspräsidentin vor der Abstimmung zu letzten Absprachen mit ihrem flämischen Amtskollegen Jan Peumans.
Präzedenzfall Katalonien
Neben den großen Sezessionsbewegungen in Norditalien und Belgien ziehen auch kleinere Abspaltungsorganisationen Nutzen aus dem katalanischen Referendum, darunter etwa Separatisten in Norditaliens Autonomer Provinz Bolzano-Alto Adige (Südtirol). \"Heute Katalonien, morgen Süd-Tirol!\", heißt es etwa in einem gestern publizierten Manifest der \"Süd-Tiroler Freiheit\", einer Partei der deutschsprachigen Minderheit Norditaliens, die in direkter Tradition zu den sogenannten Südtiroler Freiheitskämpfern steht; diese verübten seit den 1950er Jahren immer wieder Sprengstoffanschläge in Italien, um den Anschluss der Provinz Bolzano-Alto Adige an Österreich zu erzwingen. Die Süd-Tiroler Freiheit erhielt bei den letzten Wahlen zum Südtiroler Landtag 7,2 Prozent der Stimmen; rechnet man die 17,9 Prozent hinzu, die die Partei \"Die Freiheitlichen\" erhielt, dann liegen die deutschsprachigen Separatisten in Südtirol insgesamt bei rund 25 Prozent. Wie die Süd-Tiroler Freiheit berichtet, habe sie im Jahr 2013 ein Referendum abgehalten, bei dem sich 92 Prozent der Teilnehmer für die Abspaltung von Italien ausgesprochen hätten.[2] Sei damals oft erklärt worden, eine Sezession sei rechtlich nicht möglich, so beweise der \"Präzedenzfall Katalonien\" nun \"das Gegenteil\", erklärt die Partei, die mitteilt, \"enge Kontakte zu Katalonien\" zu unterhalten.
Von Deutschland gefördert
Aktuell laufen die Separatismen in der EU deutschen Interessen zuwider: Sie schwächen die Union und relativieren damit deren Nutzen als machtpolitische Basis für die ausgreifende deutsche Weltpolitik. Entsprechend mahnt die Bundesregierung, eine Einigung für den Sezessionskonflikt in Katalonien zu finden. Dabei hat die Bundesrepublik die Voraussetzungen für das Erstarken der Separatismen selbst geschaffen, indem sie sie jahrzehntelang auf verschiedenste Weise förderte - teils über völkische Vorfeldorganisationen, teils auch durch eine regionalistische Wirtschaftspolitik. german-foreign-policy.com berichtet am morgigen Donnerstag.

Mehr zum Thema: Unter Separatisten.
[1] Scopri perché la Lombardia è Speciale. Regione Lombardia 2017.
[2] Selbstbestimmung nicht mehr aufzuhalten: Heute Katalonien, morgen Süd-Tirol! www.suedtiroler-freiheit.com 03.10.2017.


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Der zweite Teil: Die Ökonomie der Sezession (II) (GFP 05.10.2017)

ENG.: The Economy of Secession (II) (GFP 2017/10/05)
As can be seen in an analysis of the separatist movements in Catalonia, Lombardy and Flanders, the deliberate promotion of exclusive cooperation between German companies and prosperous areas in countries with impoverished regions has systematically facilitated the autonomist-secessionist movements in Western Europe. According to this study, Flanders, as well as Lombardy - two already economically prosperous regions - have been able to widen the gap between themselves and the impoverished regions of Belgium and Italy, also because they have played an important role in the expansion of the German economy, the strongest in the EU. Through an exclusive cooperation with the state Baden Württemberg, Catalonia and Lombardy have been able to expand their economic lead over more impoverished regions of Spain and Italy, which has spurred their respective regional elites to seek to halt their financial contributions for federal reallocations through greater autonomy or even secession. The consequences of deliberate cooperation - not with foreign nations - but only with prosperous regions, can be seen with Yugoslavia...
http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/59064



Germania e separatismi: l’economia della secessione

DI STEFANO SOLARO - OTTOBRE 13, 2017

Mentre in Catalogna e, di riflesso, in tutta la Spagna è in atto una vera e propria crisi politica e civile a seguito del referendum sull’indipendenza, il sito German Foreign Policy pubblica un’analisi dei rapporti economici della Germania con alcune delle regioni che in questo momento storico sono al centro di rivendicazioni per l’autonomia.  A emergere è un quadro in cui si evidenzia come il Paese guida dell’Unione Europea abbia prima spinto e poi consolidato una relazione di interdipendenza con le zone più ricche di alcuni Stati Europei, alimentandone gli squilibri e, di conseguenza, le tensioni secessioniste.

 

 

di redazione German Foreign Policy, 05 Ottobre 2017.

 

BERLINO/BARCELONA/MILANO/ANVERSA 

 

In Europa occidentale la promozione mirata di una collaborazione esclusiva tra imprese tedesche e le regioni più ricche di nazioni ove ampie parti del paese sono in condizioni di impoverimento, ha sistematicamente favorito il rafforzamento dei movimenti autonomisti-secessionisti. Questa evidenza è frutto di un’analisi dei separatismi in Catalogna, Lombardia e Fiandre. Mentre giocavano un ruolo decisivo nell’espansione della più forte economia Europea, quella tedesca, due regioni economicamente rilevanti come Fiandre e Lombardia aumentavano il già consistente divario con le zone più povere di Belgio e Italia.

 

Attraverso un’esclusiva collaborazione con il Land del Baden-Württemberg, Catalogna e Lombardia hanno lasciato indietro le regioni più in difficoltà di Spagna e  Italia.

 

Ciò ha alimentato gli sforzi delle rispettive élite regionali per bloccare il flusso di redistribuzione nazionale dei fondi statali attraverso la strada di una maggiore autonomia o, in ultima analisi, della secessione. Le conseguenze di una cooperazione mirata non con interi Stati stranieri, ma solo con le regioni economicamente più avanzate, sono già note dall’esperienza dell’ex Jugoslavia.

 

“Forte Germania, forte Anversa”

 

La regione delle Fiandre, la parte olandese del Belgio, le cui spinte separatiste sono state per lungo tempo tra le più forti all’interno dell’UE, ha tratto particolare guadagno dalla sua stretta collaborazione con la Germania. La Repubblica Federale Tedesca è l’acquirente principale dell’export fiammingo; lo scorso anno, su un valore totale delle esportazioni di 302,4 miliardi di dollari, il contributo della Germania è stato di oltre 50 miliardi. Inoltre, le imprese tedesche sono tra i più importanti investitori del Paese. Il nucleo delle relazioni economiche tedesche-fiamminghe è il porto di Anversa, il secondo più grande d’Europa dopo il porto di Rotterdam. La sua importanza per l’economia delle esportazioni tedesca è evidente dal fatto che, di 214 milioni di tonnellate, quasi un terzo, ben 68 milioni, sono state spedite dalla Germania o trasportate nel Paese tedesco. Inoltre, numerose aziende tedesche, come BASF e Bayer, hanno investito miliardi in sedi o magazzini nei pressi del porto di Anversa.

 

Senza una forte Germania non può esistere una forte Anversa“, affermava con forza qualche anno fa il rappresentante del porto nella Repubblica federale. Considerato che l’economia tedesca prospera e gode di ininterrotti benefici grazie alla zona Euro, anche l’economia delle Fiandre sperimenta una crescita più rapida rispetto a quella della Vallonia – l’area meridionale è infatti maggiormente focalizzata sui rapporti con la Francia.

 

In questo modo in Belgio il divario di ricchezza tra regioni finisce per animare sempre più le rivendicazioni secessioniste.

 

“Allineati con la Germania”

 

Anche la Lombardia, la regione economicamente più ricca d’Italia, ha vantaggi considerevoli dai suoi rapporti con la Repubblica Federale tedesca. La Germania è il principale partner commerciale, con un volume di scambi pari a quasi 40 miliardi di euro. Secondo gli esperti, le imprese lombarde sono tradizionalmente “allineate per una stretta cooperazione con la Germania meridionale“, che è “un gateway fondamentale per l’Europa settentrionale e orientale“. In realtà è la regione a rappresentare il punto di snodo centrale per le aziende tedesche in Italia, raccogliendo circa un terzo delle esportazioni dalla Germania sul territorio nazionale. Di un totale di circa 3.000 aziende tedesche che hanno una filiale in Italia, circa la metà si sono stabilite in Lombardia. Società di primo piano come BASF, Bayer, Bosch, BMW, Deutsche Bank, SAP e Siemens hanno aperto la propria sede italiana a Milano o nei dintorni cittadini. Inoltre, si trova a Milano anche la sede di Unicredit, il più importante gruppo bancario italiano, che ha acquisito la Hypovereinsbank di Monaco di Baviera nel 2005.

 

La forza dell’economia tedesca contribuisce significativamente alla crescita della Lombardia, in particolare rispetto alle regioni più deboli del Paese.

Punto di appoggio principale

 

Il commercio con la Germania è di grande importanza anche per la Catalogna. Nel 2015 sono arrivate dalla Repubblica Federale il 18,3 % delle importazioni catalane, decisamente più che da qualsiasi altro Paese. Allo stesso tempo la Germania è il secondo più grande acquirente delle esportazioni catalane. In Catalogna oltre il 10% degli investimenti provengono dalla Repubblica Federale. La regione è poi il principale punto di appoggio per le aziende tedesche in Spagna. La metà delle 1.600 aziende spagnole con partecipazione tedesca hanno la sede in Catalogna, come ad esempio, BASF, Bayer, Boehringer, Henkel, Merck e Siemens. Anche Seat, la consociata di Volkswagen, ha sede a Martorell, vicino a Barcellona. Come Fiandre e Lombardia, la Catalogna trae benefici dalla prosperità del suo partner commerciale più importante, ovvero l’economia tedesca. Nonostante la crisi dei Paesi del Sud Europa, questa tendenza è diventata ancora più marcata negli ultimi anni per via della posizione dominante della Repubblica federale nell’UE.

 

A chi ha venga dato

 

Il fatto che le aziende tedesche cooperino esclusivamente con le regioni economicamente forti e, quindi, contribuiscano ad aumentare ulteriormente il divario di ricchezza nei Paesi in questione, non è soltanto la conseguenza di un processo naturale, quanto una dinamica incoraggiata da obiettivi politici. Un esempio è la comunità di lavoro “Quattro Motori per l’Europa”, fondata nel 1988 e che comprende, oltre al Land tedesco del Baden-Wuerttemberg, le regioni della Catalogna, Lombardia e Rodano-Alpi (Francia). Il suo obiettivo è quello di estendere la cooperazione economica tra le aree coinvolte, concentrandosi, ad esempio, sul miglioramento delle infrastrutture di trasporto e di telecomunicazione, e promuovendo una stretta collaborazione in materia di ricerca e tecnologia. La finalità dell’accordo?

 

Aumentare notevolmente “la competitività” dei “quattro motori”.

 

I membri del gruppo accettano, almeno implicitamente, che in nazioni da regioni economicamente asimmetriche, come Spagna e Italia, crescano significativamente le differenze tra i membri dei “Quattro Motori”, già relativamente benestanti, e le aree più povere dei rispettivi Paesi.
 
Come in Jugoslavia

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1937-2017 – 80 ANNI DALLA NASCITA DEL PARTITO COMUNISTA CROATO


Oltre 100 persone si sono riunite ad Anindol, presso Zagabria, per celebrare l\'ottantesimo anniversario della nascita del Partito Comunista Croato. Tra i partecipanti, il rappresentante del comune di Samobor, promotore dell\'evento, il rappresentante del principale partito di opposizione SDP, vari altri partiti socialisti, comunisti e di sinistra, oltre alle formazioni antifasciste e partigiane di Croazia, Slovenia, Bosnia ed Erzegovina, e il Coro partigiano di Zagabria che si è esibito con canzoni rivoluzionarie, tra cui “Padaj Silo i Nepravdo”.


Le formazioni antifasciste e socialiste croate hanno commemorato questo evento che vide Tito, in segreto assieme ad altri 16 comunisti, fondare il partito che si sarebbe poi federato agli altri partiti comunisti jugoslavi e assieme ai quali sconfisse i fascisti ed instaurò uno stato socialista.


Gli intervenuti hanno voluto ricordare come il movimento socialista in questi territori fosse iniziato al seguito della I Guerra mondiale, sull\'eco della Rivoluzione d\'ottobre; che alle elezioni nel Regno di Jugoslavia il Partito Comunista finì in terza posizione, prima di venir messo fuorilegge; che Tito al ritorno dall\'URSS negli anni \'30 si occupò di diffondere le organizzazioni del partito in tutta la Jugoslavia, fondando anche partiti comunisti nazionali, al fine di creare con successo un fronte unico contro il fascismo.


In particolare il compagno Kapuralin (Partito Socialista dei Lavoratori) ha ricordato che il partito all\'inizio era piccolo, ma ben organizzato qualitativamente, e che seppe sfruttare l\'occupazione straniera non solo per condurre la liberazione nazionale, bensì per industrializzare il nuovo stato ed elevare il livello culturale del popolo:

Se non ci fosse stato il compagno Tito, l\'unità e la fratellanza, i suoi comunisti, il coraggio e la convinzione, già allora gli stivali stranieri ci avrebbero calpestato, e altra gente avrebbe governato sopra noi, come succede oggi.


La rappresentante dello SRP, Vesna Konigsknecht, ha brillantemente riassunto cosa significa la lotta antifascista:


Per mascherare le contraddizioni sociali, e sconfiggere l\'unità della classe lavoratrice, le società capitaliste ricorrono a mistificazioni sull\'unità nazionale, incoraggiano la convinzione che l\'appartenenza nazionale è d\'importanza critica, insistono sulle differenze tra i popoli.

Il fascismo compare nel capitalismo; è la conseguenza del modo in cui il capitalismo funziona, della sua volontà di sconfiggere l\'unità e la solidarietà di classe attraverso il mito dell\'unità nazionale.

Maggiori le differenze all\'interno di una società, maggiore la tensione. Con una recrudescenza delle tensioni, più ferocemente si tira in ballo l\'unità nazionale. L\'esplosione avviene non là dove necessario – nel campo degli interessi contrapposti tra capitale e lavoro – ma là dove la tensione è canalizzata, nel campo del nazionalismo. Degli interessi nazionali si parla sempre più aggressivamente ed esclusivamente, e molto facilmente si scivola – nel fascismo.


Da noi l\'antifascismo è arrivato assieme al socialismo. Ogni antifascismo, se pensato coerentemente, dev\'essere anticapitalista, perché il fascismo è figlio del capitalismo. E perciò, chi non vuole affrontare il capitalismo, che taccia sul fascismo!


Il Partito Comunista Croato, come frazione del PC Jugoslavo, si era chiaramente schierato dalla parte degli interessi della classe lavoratrice. Non voleva creare un movimento di resistenza (per combattere il fascismo e ripristinare lo status quo ante) ma condurre una guerra di liberazione popolare. Mentre combatteva l\'occupatore, si organizzava, sviluppava un nuovo potere, e creava un nuovo sistema sociale – il socialismo.


Commemorando l\'80esimo anniversario del PC Croato, ci ricordiamo che i nostri antifascisti lottarono sì per liberare il paese, ma anche per modificare i rapporti di classe. L\'antifascismo è lotta di classe. Doveva e deve esserlo. Ieri, oggi, per sempre!


Di seguito alcuni estratti dei discorsi degli altri partecipanti.


Non ci arrenderemo mai, la lotta è continua, non vi sfiduciate. Alle persone di sinistra dico – uniamo le nostre forze perché solo così la Lotta Popolare di Liberazione fu vinta.


Tutte le conquiste del sistema socialista – la solidarietà, il lavoro sicuro, l\'educazione e sanità universali e gratuiti, pensioni dignitose – oggi vengono affidate al mercato. Ogni giorno siamo testimoni dell\'inumanità del capitale, del mercato, della corsa alla produttività e al profitto. Per questo vengono distrutti i monumenti al mondo diverso che fu – per cercare di perpetuare il più a lungo possibile questo sistema che serve solo una minoranza.


La lotta condotta dal Partito Comunista fu non solo lotta di liberazione, ma allo stesso tempo lotta per la libertà dei lavoratori.


Noi a Samobor con onore ci ricordiamo del giorno in cui 80 anni fa un gruppo di uomini coraggiosi con a capo il compagno Tito fondò il Partito Comunista Croato. Con l\'obiettivo di una società migliore, per l\'uguaglianza delle donne e per correggere tutte le inguistizie.


Bisogna difendere gli interessi della classe lavoratrice, ma anche la libertà nazionale, l\'uguaglianza e la fratellanza tra i popoli.



--- A cura di Andrea Degobbis.
Sulla celebrazione di questo anniversario si veda anche: https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8765



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