Informazione


Iniziative sull'internazionalismo partigiano

1) ISLAFRAN: presentazione a Torino il 27/9
2) PARTIZANI: La Resistenza italiana in Montenegro. Presentazioni a Rimini, San Marino, Monfalcone, Udine


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Torino, martedì 27 settembre 2016
alle ore 18:00 presso la Biblioteca civica Natalia Ginzburg, Via C. Lombroso 16

presentazione del libro 

ISLAFRAN 
di Ezio Zubbini

... Sulle colline delle Langhe ha combattuto una brigata internazionale di cui pochi conoscono l'esistenza:
ISLAFRAN ( I=italiani, SLA=slavi, FRAN=francesi). 
Questo racconto vuole recuperare alla memoria la vicenda, esaltate e drammatica, di questi giovani stranieri giunti da terre lontane per combattere la barbarie nazifascista.

- Interviene CLAUDIO CANAL
- letture a cura di VESNA SCEPANOVIC ...

Evento facebook: https://www.facebook.com/events/159553687826473/


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Segnaliamo le prossime presentazioni del documentario

Partizani. La Resistenza italiana in Montenegro
Durata: 65′
Regia: Eric Gobetti

Nikšić, Montenegro, 9 settembre 1943. Poco dopo l’alba l’artigliere Sante Pelosin, detto Tarcisio, fa partire il primo colpo di cannone contro una colonna tedesca che avanza verso le posizioni italiane. Nelle settimane successive circa ventimila soldati italiani decidono di non arrendersi e di aderire alla Resistenza jugoslava.
I partigiani della divisione Garibaldi raccontati in questo documentario sono eroi semplici, che hanno combattuto il freddo, la fame e una devastante epidemia di tifo, pagando con tremende sofferenze una scelta di campo consapevole e coraggiosa.

Produzione: Istoreto – Istituto piemontese per la Storia della Resistenza, Torino
Musiche originali: Massimo Zamboni
Riprese: Andrea Parena, Francesca Frigo, Domenico Scarpino, Eric Gobetti
Montaggio: Andrea Parena, Enrico Giovannone
Postproduzione: Babydocfilm

RIMINI
26 settembre, ore 17.00, alla Cineteca comunale di via Gambalunga 27, Rimini

SAN MARINO
27 settembre, ore 21.00, all’ex chiesetta dell’antico monastero di Santa Chiara, contrada Omerelli 20, San Marino città
Ingresso gratuito. Evento facebook: https://www.facebook.com/events/254631401604464/

MONFALCONE (GO) 
giovedì 29 settembre 2016 alle ore 20,30 presso la Sede ANPI di via Valentinis 84
Organizza ANPI Provinciale Gorizia in collaborazione con Forum Gorizia
UDINE
venerdì 30 settembre 2016 alle ore 20:30 presso Visionario, Via Fabio Asquini 33
La proiezione, patrocinata dall''Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, sarà introdotta da interventi dell'autore Eric Gobetti, autore di numerosi studi sull'area ex Jugoslava e da Federico Tenca Montini, dottorando presso l'Università di Zagabria. Il costo del biglietto, ridotto, è di 3 euro.



(srpskohrvatski / français / italiano)

Panturchìa / 5
La Bosnia bosgnacca

1) Il nuovo volto della Bosnia Erzegovina. Dopo quasi tre anni di attesa pubblicati i dati del censimento 2013 (Rodolfo Toè)
2) Enver Kazaz: la turcofilia nello spazio mentale bosgnacco. Le reazioni dell’élite politica e accademica bosgnacca al recente tentativo di colpo di stato in Turchia (Eldin Hadžović)

Sullo stesso tema si vedano anche i documenti raccolti alla nostra pagina:

Altri link:

BOSNA I HERCEGOVINA: DVIJE GODINE OD POPISA REZULTATA NI NA VIDIKU (Marija Arnautović – Radio Free Europe, 30.09.2015)
... Problem je i dalje metodologija na osnovu koje će biti određen broj rezidentnih odnosno stalnih stanovnika BIH. Oko ovog pitanja tri statističke agencije, entietske i državna, ne mogu da nađu kompromis...
http://www.slobodnaevropa.org/content/dvije-godine-cekanja-na-rezultate-popisa/27279757.html

BOSNIE-HERZÉGOVINE : LA COUR EUROPÉENNE RECONNAÎT QUE LA CONSTITUTION EST « DISCRIMINATOIRE » (Courrier des Balkans | De notre correspondant à Sarajevo | mardi 14 juin 2016)
Oui, la Constitution de la Bosnie-Herzégovine est bien discriminatoire. C’est ce que confirme encore une fois la Cour européenne de Strasbourg, en donnant raison à Ilijaz Pilav, un médecin bosniaque de Srebrenica qui n’a pas pu présenter sa candidature à la présidence tripartite du pays car il réside en Republika Srpska. Un jugement historique...
http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/ilijaz-pilav.html

BOSNIE-HERZÉGOVINE : LES RÉSULTATS DU RECENSEMENT 2013 ENFIN PUBLIÉS (Courrier des Balkans, 30 juin 2016)
La Bosnie-Herzégovine a finalement publié ce jeudi les résultats complets du recensement de 2013. Les données confirment le changement démographique après la guerre dans les années 1990 et soulignent le nouvel équilibre entre les trois « nations constitutives » du pays, au risque de provoquer une nouvelle rupture entre Banja Luka et Sarajevo...
http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/bosnie-recensement-resultats.html

RECENSEMENT EN BOSNIE-HERZÉGOVINE : L’APRÈS-GUERRE A PARACHEVÉ LES DIVISIONS (Courrier des Balkans, lundi 4 juillet 2016)
Un pays vieillissant qui se vide de sa jeunesse, des villes et des régions ethniquement homogènes, des communautés nationales de plus en plus fermées sur elles-mêmes. Tel est le visage de la Bosnie-Herzégovine aujourd’hui, après les résultats du recensement de 2013, enfin publiés la semaine dernière...
http://www.courrierdesbalkans.fr/articles/recensement-en-bosnie-herzegovine-l-apres-guerre-a-paracheve-les-divisions.html

BAKIR IZETBEGOVIĆ À NOVI PAZAR POUR UNIFIER LES BOSNIAQUES, SCANDALE EN SERBIE (Radio Slobodna Evropa | Traduit par Jovana Papović | samedi 30 juillet 2016)
Bakir Izetbegović, président du Parti de l’action démocratique (SDA) et membre bosniaque de la Présidence collégiale de Bosnie-Herzégovine, était vendredi à Novi Pazar pour lancer une « coalition régionale du SDA ». Sa comparaison de Novi Pazar avec Banja Luka a provoqué un scandale en Serbie...
http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/izetbegovic-a-novi-pazar.html


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Il nuovo volto della Bosnia Erzegovina

Dopo quasi tre anni di attesa, e a più di un ventennio dall'ultimo censimento effettuato nel paese, le autorità bosniache hanno pubblicato i dati completi del censimento 2013

05/07/2016 -  Rodolfo Toè

La sala della conferenza stampa allestita all'interno dell'Hotel Europa, a Sarajevo, pare quasi colta di sorpresa quando sullo schermo si materializza la diapositiva che tutti, visibilmente, aspettavano. Evo ih, eccoli, mormora qualcuno, riscuotendosi e iniziando febbrilmente a prendere appunti, scrivendo le cifre - le nuove cifre - che finalmente sono lì, nero su bianco, ufficialmente, dopo mesi e mesi d'illazioni.

Non importa il fatto che alle tre domande relative ad appartenenza etnica, lingua e religione, rispondere non fosse obbligatorio. Né tanto meno conta la raccomandazione di Eurostat, che aveva addirittura esortato le autorità bosniache a tralasciare la questione. Perché quello che importa alle decine di reporter presenti, ma anche alla maggior parte dell'opinione pubblica bosniaca, sono soprattutto le nuove percentuali relative alla composizione etnica della popolazione.

Le precedenti, quelle relative al 1991, erano assurte negli anni a un'importanza quasi feticistica, in una Bosnia Erzegovina dominata dagli Accordi di Dayton e dall'equilibrio delle tre "nazioni costitutive": bosgnacchi (musulmani), 43,47%; serbi 31,21%; croati 17,38 %; jugoslavi 5,54%; altre minoranze 2,4%. Questo aveva sancito l'ultimo censimento condotto prima dell'indipendenza del paese, e prima dei tre anni di guerra.

Da giovedì 30 giugno, da quando cioè l'Agenzia statistica di Bosnia Erzegovina ha pubblicato i risultati, queste percentuali possono essere aggiornate. A dichiararsi bosgnacco è infatti ora ben il 50,11% della popolazione; i serbi sono il 30,78%; i croati il 15,43%. Il resto - 2,73% del totale - è rappresentato dagli ostali, gli altri, categoria nella quale in Bosnia Erzegovina si fa ricadere chi appartiene a una minoranza oppure chi rifiuta di dichiararsi come membro delle tre nazioni costitutive. [Ma in quanti stavolta si sono rifiutati di rispondere? ndCNJ]

Venticinque anni di pulizia etnica ed emigrazione

Il primo dato che salta agli occhi, comunque, è la diminuzione della popolazione totale della Bosnia Erzegovina, come effetto congiunto del conflitto e della stagnazione del dopoguerra, che ha spinto decine di migliaia di persone a emigrare.

I dati finali sono ancora più drammatici di quanto avevano fatto presagire quelli parziali, rilasciati a novembre 2013, e che già avevano fatto parlare di "catastrofe demografica". La popolazione bosniaca è oggi di sole 3.531.159 persone, il che significa che dal 1991 il paese ha perduto 845.874 abitanti, praticamente uno su cinque.

Se la diminuzione dei residenti può essere considerata come il primo tra i lasciti della guerra e dei problemi del ventennio successivo, il secondo è però sicuramente la composizione etnica delle differenti nazioni costitutive sul territorio bosniaco. Si tratta di dati che non stupiscono nessuno, visto che la situazione sul terreno era già chiara, ma la cui contabilità è resa ufficiale per la prima volta.

Appare così chiaro che le due entità del paese, la Federazione di Bosnia Erzegovina e la Republika Srpska, sono tracciate secondo precisi confini etnici: se nella prima i bosgnacchi rappresentano infatti il 70,4% della popolazione e i croati il 22,44%; in RS la maggior parte degli abitanti si sono dichiarati come serbi (81,51%), mentre i bosgnacchi sono il 13,99% e i croati soltanto il 2,41%.

Lo stesso discorso vale anche per le municipalità: a ribadire il fatto che la pulizia etnica ha prevalso in Bosnia Erzegovina contribuisce la statistica che soltanto in sei comuni (tra cui i principali sono Mostar, Jajce e Brčko) su un totale di 143 non c'è un gruppo nazionale che costituisce la maggioranza assoluta della popolazione.

Una tendenza confermata anche nelle principali città: a Sarajevo è crollato il numero di residenti serbi e croati e la maggior parte della popolazione (80,74%) è costituita da bosgnacchi, mentre Banja Luka, il centro amministrativo della RS, è abitata quasi esclusivamente da serbi (89,57%). Mostar, la città principale dell'Erzegovina, ha visto aumentare il numero dei propri residenti bosgnacchi e croati, ma il numero di serbi è crollato, passando da 23.846 a 4.420. Il censimento, infine, conferma anche la dimensione della pulizia etnica avvenuta nei centri urbani della valle della Drina, con la popolazione di etnia bosgnacca drasticamente ridimensionata a Zvornik (da 48.102 a 19.855), Višegrad (da 13.471 a 1.043) o ancora a Srebrenica (da 27.572 a 7.248).

Questi dati, che da giorni campeggiano sui giornali bosniaci, hanno comprensibilmente attirato la maggior parte dell'attenzione dell'opinione pubblica, mettendo in secondo piano altre statistiche che pure sarebbero più importanti per stabilire quali debbano essere le priorità della politica bosniaca nell'immediato futuro. Grazie al censimento, si è infatti visto che l'età media della popolazione bosniaca è sensibilmente aumentata, da 34 anni nel 1991 a 39; o ancora che la Bosnia Erzegovina ha un tasso di analfabetismo del 2,82%, più elevato che nei paesi vicini - dati importanti (e che sono consultabili in internet a questo indirizzo), ma che, come ha sottolineato il Primo Ministro bosniaco Denis Zvizdić, "non è interesse di nessuno commentare."

Pubblicare i dati, ma a che prezzo?

La pubblicazione dei dati finali del censimento, per quanto rappresenti un passo essenziale per la Bosnia Erzegovina, secondo molti commentatori locali non è stata fatta nel migliore dei modi.

Per mesi, infatti, trovare un accordo per permettere la pubblicazione dei risultati è stato impossibile, a causa dell'opposizione dell'Istituto statistico di Republika Srpska, che contestava il metodo utilizzato per calcolare il numero di residenti stabili in una determinata area.

Alla metà del mese di maggio, tuttavia, dopo innumerevoli incontri senza risultato il direttore dell'Agenzia statistica nazionale di Bosnia Erzegovina (l'unica che, secondo la legge, è responsabile di pubblicare i dati finali) Velimir Jukić ha deciso di pubblicare i risultati finali senza trovare un compromesso con le autorità di Banja Luka.

L'effetto di una tale decisione unilaterale è che, come hanno ripetuto tutti gli esponenti dell'establishment serbo-bosniaco, questi risultati non verranno riconosciuti in Republika Srpska. La quale, anzi, starebbe pianificando di pubblicare autonomamente i dati del censimento relativi al proprio territorio.

Ciò che potrebbe rivelarsi più grave, comunque, è il fatto che la decisione di Jukić potrebbe causare una grave paralisi istituzionale, dal momento che Mladen Ivanić, il rappresentante serbo della Presidenza bosniaca, ha annunciato che assumerà delle posizioni più intransigenti su alcune questioni essenziali per la Bosnia Erzegovina al fine di proseguire nel proprio percorso di integrazione europea, in reazione alla decisione dell'Agenzia statistica bosniaca, presa senza tenere conto dell'opinione di Banja Luka.

Così, nelle settimane scorse, Ivanić ha ostacolato l'approvazione da parte della Presidenza collegiale bosniaca di due provvedimenti ritenuti essenziali per ottenere lo status di candidato UE, dopo che la Bosnia Erzegovina ha presentato la propria domanda in febbraio: l'aggiornamento dell'Accordo di Stabilizzazione e di Associazione, e la creazione di un meccanismo di coordinamento che è richiesto al paese per implementare le politiche richieste da Bruxelles.

Pubblicare i risultati del censimento è una conquista importante per uno stato che li attendeva da venticinque anni, e che ora avrà delle statistiche più affidabili per implementare le proprie politiche. Il modo in cui essi sono stati resi pubblici, tuttavia, rischia di creare nuove paralisi istituzionali nel paese - e di incrementare la distanza tra Banja Luka e Sarajevo.



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Enver Kazaz: la turcofilia nello spazio mentale bosgnacco


Enver Kazaz insegna presso la Facoltà di Filosofia di Sarajevo. In quest'intervista le reazioni dell’élite politica e accademica bosgnacca al recente tentativo di colpo di stato in Turchia

29/08/2016 -  Eldin Hadžović 

(Originariamente pubblicato dal portale Novosti   il 31 luglio 2016, titolo originale Enver Kazaz: Turkofilija je premrežila bošnjački mentalni prosto  

Professor Kazaz, è rimasto sorpreso dall’appoggio quasi unanime che l’establishment politico bosgnacco ha espresso al presidente turco Recep Tayyp Erdoğan a seguito del tentato golpe che ha recentemente scosso la Turchia – e questo nonostante giungano notizie di una crudele rappresaglia intrapresa contro i presunti golpisti, durante la quale si è arrivati persino alla sospensione della Convenzione europea dei diritti umani?

Non mi ha sorpreso tanto l’appoggio in quanto tale, perché anche altre potenze mondiali, più o meno forti, hanno espresso il loro sostegno all’autocrate di Ankara, quanto i suoi contenuti e toni. Detto ironicamente, questi semi-istruiti esponenti politici bosgnacchi hanno gridato così forte il loro appoggio a Erdoğan che sembrava che il tentato golpe fosse avvenuto in casa loro, se non addirittura nella loro camera da letto.

Da dove vengono un tale appoggio e servilismo? Che derivino dal loro amore per la democrazia è da escludere del tutto. Non hanno mai pronunciato una parola contro un regime nefasto come quello dell’Arabia Saudita, dove i poeti vengono condannati alla pena di morte solo perché sospettati di non credere in Dio.

Il cosiddetto establishment bosgnacco, che in realtà non è altro che un demi-monde politico, chiama affettuosamente Saudia quel paese. Per loro la democrazia è solo un mezzo per gonfiare i propri conti correnti. Perché allora hanno gridato? Soltanto perché volevano, ancora una volta, compiacere servilmente Erdoğan, “leader di tutti i musulmani” (come lo definì tempo fa Bakir Izetbegović), colui al quale Alija Izetbegović sul letto di morte lasciò “la Bosnia in eredità”.

Reagendo ai fatti più recenti, il figlio di Alija ha dichiarato che Erdoğan è “suo fratello”, “il nostro leader” e che “il popolo turco difende la democrazia e ha fatto sapere chi vuole al potere”. Ma non sono stati solo i politici a gridare. Lo hanno fatto anche alcuni esponenti della comunità accademica, come ad esempio Esad Duraković, o una certa Amina Šiljak-Jasenković, che si presenta come turcologa, nonostante il suo curriculum scientifico difficilmente possa esserne prova. Duraković ha parlato come se fosse il portavoce di Erdoğan, sostenendo che dietro al tentato colpo di stato ci sono i sionisti, mentre la Šiljak-Jasenković ha accusato Gülen di essere ispiratore e mandante del fallito golpe, esattamente come ha fatto lo stesso Sultano del Bosforo, come i media liberali occidentali chiamano Erdoğan.

E nessuno ha offerto neanche un singolo argomento a sostegno delle proprie affermazioni. Si è trattato solo di propaganda. Nessuno ha pronunciato nemmeno una parola sul carattere autocratico del regime di Erdoğan, sul suo tentativo di modificare la costituzione per dare più potere al Presidente, sul totale abbandono della tradizione kemalista e secolarista su cui è stata fondata la Turchia moderna, sul palese tentativo di imporre alla società turca l’islamismo come ideologia normativa, sulla cancellazione delle narrazioni umanistiche e razionalistiche a cui attinse già il tardo Impero Ottomano, come scrive intelligentemente Orhan Pamuk  nel suo romanzo “Istanbul”.

Nella discussione bosgnacca si tace del tutto sul fallito colpo di stato, sugli arresti e purghe di massa che il regime di Erdoğan sta attuando in questi giorni contro coloro che vengono bollati come “gulenisti”, scagliandosi contro professori, giudici, rettori, giornalisti e sottoponendo decine di migliaia di persone al terrore di stato, esattamente come avveniva nei regimi totalitari più tetri. La rappresaglia mediatica, poliziesca e religiosa è di tali dimensioni che si può parlare di Erdoğan come di uno stalinista di orientamento islamico. Questo lato oscuro dell’erdoganismo resta completamente invisibile nello spazio pubblico bosgnacco, in cui a discapito di un’analisi argomentata prevalgono l’emozionalismo politico e una turcofilia immedesimatrice che vuole trasformare i bosgnacchi odierni in turchi pro-Erdoğan.

Direi che l’erdoganismo e una turcofilia/islamofilia superficiale, basata sull’emozionalismo, il tutto accompagnato dal fantasma neo-ottomano, sono elementi salienti dell’attuale discussione in seno alle élite politiche, accademiche, religiose e mediatiche bosgnacche.

Ovviamente, ogni forma di violenza, e soprattutto un colpo di stato, deve essere condannata pubblicamente se si pretende di difendere i valori democratici. Ma allo stesso modo deve essere condannata anche la violenza di un apparato statale repressivo nei confronti delle persone la cui colpa non è stata provata. Le presunte élite bosgnacche, col loro tifare all’unisono per Erdoğan, tengono il proprio popolo in una specie di schiavitù mentale, impedendogli ogni emancipazione dalle loro narrazioni militariste.


Durante la guerra in Bosnia, gli sciovinisti serbi e croati bollavano i bosgnacchi con l’epiteto ingiurioso di “turchi”, mentre l’establishment musulmano di allora, compreso lo stesso Alija Izetbegović, insisteva sull’esistenza di una specifica identità bosgnacca, rigettando con disgusto il paragone con i turchi. Con la fine della guerra questo atteggiamento è cambiato, sicché siamo stati testimoni di varie manifestazioni della “turchizzazione dei bosgnacchi”. Da dove viene questa turcofilia così marcata dei bosgnacchi?

Non sono sicuro che il signor Izetbegović abbia mai perseguito una politica sistematica, tantomeno tesa a delineare una forma moderna dell’identità nazionale bosgnacca. Prima di morire lasciò la Bosnia in eredità a Erdoğan, come ho già menzionato. Le uniche caratteristiche persistenti della sua concezione politica dell’identità nazionale bosgnacca sono antimodernismo e anticomunismo, oltre alla nozione di Islam come fondamento dell’identità nazionale.

Parliamo di un personaggio che nel 1994, proprio in Arabia Saudita, fu insignito del premio “Pensatore islamico dell’anno”, e che con l’avanzare della guerra scelse di abbandonare i principi contenuti nella cosiddetta Piattaforma della Presidenza della Repubblica di Bosnia Erzegovina, un documento adottato nel 1992 con il quale ci si proponeva di definire gli obiettivi della difesa del paese dall’aggressione, pensando la Bosnia, in termini ideologici, come un paese civile, laico e multietnico.

È vero che a quel tempo Izetbegović padre spese qualche stentata parola sul fatto che i bosgnacchi non erano turchi, come se la questione fosse in discussione, ma al contempo si apprestava, ben volentieri, a formare le brigate musulmane. Disse quella cosa solo per contrastare quell’ideologia aggressiva e sciovinista propagata dalle autorità serbe e croate che, alimentandosi dall’islamofobia e turcofobia, costituiva una sorta di preparazione propagandistica dei crimini di guerra contro la popolazione bosgnacca.

Alija Izetbegović non perseguiva una politica sistematica, bensì cercava di togliere autorità agli organi dello stato, creando un intero sistema di istituzioni parastatali che avevano il compito di fornire appoggio logistico all’esercito della BiH. Detto in parole povere, la sua politica identitaria era caotica e inconsistente, quindi un calembour narrativo e simbolico che suo figlio ridurrà ad un erdoganismo volgare e un fantasma ideologico neo-ottomano. Per essere del tutto precisi: Bakir Izetbegović non offre nessuna ideologia, solo un fantasma erdoganista. Egli è uno schietto e autoritario pragmatico. La turchizzazione aggressiva dei bosgnacchi, come la chiama lei, a me sembra piuttosto un’erdoganizzazione volgare delle élite bosgnacche, smarrite nella propria semi-ignoranza. In più, questo amore tra Erdoğan e Izetbegović non è accompagnato da una cooperazione economica. Oggi la Turchia investe capitali irrisori in Bosnia, mentre aiuta in maniera notevole l’economia di alcuni altri paesi della regione, come la Serbia o la Romania.


Quanta ironia vi è nel fatto che sia proprio il figlio di Alija Izetbegović ad essere paladino della diffusione della turcofilia tra i bosgnacchi, che poi assomiglia irresistibilmente alla russofilia dei nazionalisti serbi?

Sì, le odierne élite bosgnacche, seppur inclini all’(auto)vittimizzazione, nel costruire la propria identità nazionale si ispirano al modello narrativo delle élite scioviniste serbe. Ed è un vero paradosso: l’allora vittima sta copiando il modello narrativo della costruzione identitaria dal proprio carnefice. La turcofilia ha avviluppato come una rete lo spazio mentale bosgnacco, esattamente come la russofilia avviluppa quello serbo, e la germanofilia quello croato. La guerra mentale tra queste “filie” dimostra che tutte e tre le etnie costituenti la Bosnia in realtà si stanno autocolonizzando. Semplicemente non riescono ad andare oltre, perché il loro potenziale intellettuale equivale al nulla.


Cosa ci dice tutto ciò sull’identità nazionale bosgnacca?

Dal calembour narrativo a cui assistiamo è possibile estrapolare processi di arcaizzazione, ghettizzazione, vittimizzazione, reislamizzazione, clericalizzazione, arabofilizzazione, turchizzazione, militarizzazione, mascolinizzazione, debosnizzazione dell’odierna identità nazionale bosgnacca. Ma per descrivere questi processi servirebbe molto più spazio di quanto ne abbiamo a disposizione. Ciò che è comunque importante sottolineare è che l’identità nazionale bosgnacca cominciò a formarsi nel XIX secolo parallelamente al processo di deottomanizzazione e accettazione dei valori del razionalismo e dell’umanesimo europeo. Il paradosso sta nel fatto che le odierne élite bosgnacche sono più arcaiche e conservatrici di quelle del XIX secolo che cercarono di europeizzare la comunità musulmana bosniaca di allora, ponendo le fondamenta del suo evolversi in una nazione.


È d’accordo sul fatto che, parallelamente ai processi da lei elencati, il nazionalismo bosgnacco sia diventato più aggressivo, e manifestamente più simile all’isteria nazional-sciovinista che nei primi anni Novanta pervase Belgrado e Zagabria, oppure pensa che questa spinta nazionalista sia da sempre esistita nella comunità bosgnacca?

Nei Balcani ogni nazionalismo è aggressivo, e basta poco perché si trasformi in sciovinismo. Nel momento in cui un’ideologia nazionalista conquista un considerevole potere, e quella bosgnacca lo ha di fatto conquistato nei territori su cui esercita la propria influenza, diventa aggressiva nei confronti di ogni forma di alterità.

Il carattere militante del nazionalismo bosgnacco si rispecchia maggiormente nel modo in cui i media controllati prima da Alija e successivamente da Bakir Izetbegović prendevano, e continuano a prendere di mira gli intellettuali non-bosgnacchi distintisi per il loro enorme capitale simbolico – intellettuale, letterario e filobosniaco: Marko Vešović, Ivan Lovrenović, Miljenko Jergović, e più di recente anche Nenad Veličković.


La Facoltà presso la quale lei insegna, così come l’intera Università di Sarajevo, ha un ruolo fondamentale nei processi di cui abbiamo parlato. Può indicarci quali sono i principali attori di questi processi e quali i loro ruoli?

La Facoltà di Filosofia di Sarajevo condivide il destino dell’intera società bosniaca, afflitta da una grave decadenza dei valori. Senza nulla togliere alle lodevoli eccezioni, vi è da sottolineare che molti professori della suddetta facoltà contribuiscono con la propria produzione scientifica a plasmare l’immaginario simbolico dell’identità collettiva dei bosgnacchi radicali.

In questo senso, l’Università di Sarajevo e altre università chiamiamole “bosgnacche” non si distinguono affatto da quelle “serbe” e “croate” nella Bosnia Erzegovina. Le università bosniache, esattamente come l’intero sistema educativo, sono fucina di narrazioni nazionaliste, ma anche luogo dove nascono le loro critiche scientificamente responsabili, seppur poche. Ed è per questo che, giocando con la lingua, io chiamo le università bosniache uniZVERiteti invece che univerziteti [zver in bosniaco significa bestia, ndt.], o nella variante croata sveMUČILIŠTA invece che sveučilišta [dal termine mučilište che significa luogo di tortura, ndt.].


Qual è, in questo contesto, il ruolo della Comunità islamica della Bosnia Erzegovina?

Dopo essere stata dispoticamente guidata da Mustafa Cerić, la più grande peste sociale bosgnacca a cavallo dei due millenni, il nuovo reis Kavazović è in gran parte riuscito a depoliticizzare questa comunità. Tuttavia, nemmeno lui è immune dal fare escursioni in campo politico. Le istituzioni religiose degli slavi meridionali sono inclini a impossessarsi del potere politico. Il reis Kavazović si distingue per aver assunto un atteggiamento diverso nei confronti di questo fascino della religione politica, che tende a trasformare il Dio metafisico in una bandiera politica. La religionizzazione dell’ideologia e l’ideologizzazione della religione hanno cancellato il Dio metafisico dall’ortodossia, dal cattolicesimo e dall’islam. Perché una comunità religiosa dovrebbe rinunciare al potere seducente di un Dio politico e ideologico per ritornare a quello metafisico?


I dati dell’ultimo censimento della popolazione della Bosnia Erzegovina sono stati pubblicati quasi tre anni dopo il suo svolgimento, indicando ciò di cui siamo tutti ormai da tempo consapevoli: la Bosnia Erzegovina non è più una società multietnica, bensì un semplice insieme di tre territori monoetnici. Come commenta il fatto che le élite bosgnacche preferiscono compiacersi della “vittoria dei bosgnacchi nel censimento”, piuttosto che preoccuparsi per la “purezza etnica” di Sarajevo?

Sulla morte di una Bosnia multietnica, confermata dai dati del censimento, ho scritto recentemente. Il censimento ha mostrato come la Bosnia Erzegovina di oggi sia una federazione trietnica composta dai territori etnicamente più omogenei al mondo. Le élite bosgnacche, così come quelle serbe e croate, di questo non parlano affatto, bensì cercano di usare i risultati del censimento per dimostrare la sussistenza del proprio diritto ad abitare un territorio etnicamente omogeneo.

Dietro ai discorsi delle élite bosgnacche sulla “vittoria dei bosgnacchi” nel censimento si cela un retroscena ideologico che affonda le sue radici nel fantasma di un grande stato. E la Bosnia trietnica si presenta come compimento delle aspirazioni belliche. Per quanto possa suonare amaramente ironico, se nel censimento c’è un vincitore, questo è il criminale di guerra Radovan Karadžić. La Bosnia Erzegovina di oggi vive in bilico tra il desiderio delle élite politiche di modificare la costituzione in modo da poter raggiungere, in tempo di pace, gli obiettivi rimasti irrealizzati durante la guerra e un percorso verso l'Unione europea che sembra irrealizzabile. Questa incertezza sta facendo scomparire gli ultimi rimasugli di quello che una volta era un paese multietnico.  




GUERRA GUERRA GUERRA

1) Siria e dintorni
– Siria: Obama bombarda la tregua (LINKS)
– Perche' non aderiamo all'appello ed alla manifestazione del 24 settembre (Lista Comitato No Guerra No Nato e Rete No War Roma)
– I crimini degli Usa in Siria e quei sedicenti 'sinistri alternativi" sempre dalla parte sbagliata della storia... (Mauro Gemma)
2) Libia e dintorni
– L’Italia e’ in guerra (Rete campana contro la guerra e il militarismo)
– I miliziani di Misurata che l’Italia va a curare sono criminali di guerra (Marinella Correggia, Il Manifesto del 16.9.2016)
3) Esplosive mail della Clinton (Manlio Dinucci, Il Manifesto del 20.9.2016)


Si veda anche:

Videocorso per smascherare le bufale di guerra (SiBiaLiRia 9.9.2016)
“Tu dammi le fotografie e io ti darò la guerra” tuonava l’editore William Hearst al suo fotografo Frederick Remington che, nel 1898, non trovava a Cuba nessuna scena che giustificasse una invasione USA.
Da allora molte cose sono cambiate, ovviamente in peggio. E oggi, secondo Sheldon Rampton – già autore di un libro che ha fatto scuola – soltanto negli USA, le organizzazioni governative e gli istituti, organizzazioni e fondazioni ad esse aggregate spenderebbero annualmente più di un miliardo di dollari per promuovere, tramite la Rete, le guerre dell’Impero. Un lavoro condotto, spesso con maestria, da legioni di giornalisti, pubblicitari, esperti in video… e che gli ignari utenti della Rete (un miliardo e mezzo di persone solo Facebook) provvedono a diffondere in ogni dove.
Per cercare di arginare questo fiume di menzogne, pochi attivisti NoWar e qualche giornalista ancora onesto si industriano nell’analizzare e smascherare le “bufale” che – sopratutto dopo la guerra alla Libia del 2011 – ci vengono tutti i giorni propinate. E per far crescere questa fondamentale rete di controinformazione Sibialiria ha realizzato un videocorso che illustra alcuni segreti di bottega per smascherare queste bufale.
Qui sotto le prime due puntate.
Prima puntata (Sibia Liria, 8 set 2016)
Seconda puntata (Sibia Liria, 8 set 2016)


=== 1: Siria e dintorni ===

ISIS Air Force: gli aerei di Obama fanno strage di soldati siriani (PandoraTV, 18 set 2016)
Mentre l'attenzione del mondo è deviata da un attentato a Manhattan, è in atto una svolta drammatica della guerra siriana. Un raid aereo USA uccide decine di militari e all'istante parte l'offensiva ISIS. Mosca accusa Washington: li protegge...

Siria: Obama bombarda la tregua. Usa in (colpevole) confusione (di Marco Santopadre, 19 settembre 2016)
... Un grosso, ennesimo regalo dell'amministrazione Obama ai cosiddetti 'ribelli moderati', dopo la pioggia di milioni che sono spesso serviti ad armare e addestrare miliziani passati poi ad al Qaeda o a Daesh...

Attacco Usa sulle truppe siriane, il racconto delle vittime (PandoraTV, 20 set 2016)
Sabato 17 settembre, a soli cinque giorni dall’accordo tra Russia e Usa sulla tregua in Siria, due caccia F-16 jet e due aerei di supporto A-10 della coalizione occidentale hanno lanciato quattro attacchi aerei contro le postazioni dell’esercito siriano nella montagna di Al-Tharda. Sessantadue le vittime tra i soldati siriani. Oltre 100 i feriti. La zona è ora sotto il controllo dello Stato Islamico...

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Comunicato della Lista Comitato No Guerra No Nato e della Rete No War Roma

 

PERCHE' NON ADERIAMO ALL'APPELLO ED ALLA MANIFESTAZIONE DEL 24 SETTEMBRE

Pur avendo sostenuto per anni la lotta del popolo curdo, siamo molto preoccupati delle scelte che una parte della sua dirigenza ha imposto in Siria. Queste scelte e le loro conseguenze non sono assolutamente messe in discussione dall’appello per il 24 settembre:

 

1)     Non viene minimamente condannato il fatto che l'esercito turco ha invaso uno stato indipendente, la Siria, in cui gli stessi Curdi vivono, violandone platealmente la sovranità.

2)     Non viene chiarito che gli stessi Curdi della Siria, ed i loro alleati delle "forze democratiche siriane" (spezzoni di vecchie formazioni jihadiste facenti capo al sedicente Esercito Libero Siriano), hanno per primi essi stessi violato la sovranità del loro paese consegnando nelle mani dell'alleato esercito statunitense una serie di basi su suolo siriano. 

3)     Viene taciuto che gli stessi statunitensi si servono di queste basi per attaccare e minacciare l'esercito nazionale siriano che difende l'unità, l'indipendenza e la sovranità del paese, mentre contemporaneamente l'esercito nazionale viene bombardato anche da Israele, che cura anche i feriti di Fateh al-Sham (ex al-Nusra) e dell'ISIS nei propri ospedali..
L'ultimo deliberato bombardamento dell'esercito USA sulle posizioni  dell'esercito siriano a Deir Es Zor, città assediata dalle bande dell'ISIS,  che ha causato decine di morti, favorendo così gli attacchi dell'ISIS, dovrebbe far riflettere sulle reali intenzioni degli USA. Gli Statunitensi stanno anche sabotando la tregua umanitaria concordata con la Russia, non onorando l'impegno preso di costringere le formazioni armate da loro controllate a cessare il fuoco ed a distaccarsi dai terroristi estremisti dell’ex al-Nusra ed ISIS. 


Fin dagli anni '90 i neocons USA nei loro documenti indicavano una serie di paesi da distruggere perché non compatibili con i loro sogni di domino mondiale, tra cui la Siria, la Jugoslavia, l'Iraq, l'Iran, la Libia e altri paesi. A partire dall'amministrazione di Bush jr le indicazioni dei neocons sono state adottate ufficialmente come strategia della politica estera statunitense. Di questo ci sono oltre che i fatti, varie testimonianze, a partire da una famosa intervista rilasciata nel 2008 dal generale Wesley Clark.  
Come conseguenza, fin dal 2011 è stata formata una vasta alleanza filo-imperialista con l'intento di distruggere lo stato siriano laico e progressista, uscito dalle lotte anticoloniali, così come già è stato fatto per la Jugoslavia, Libia, Iraq, Ucraina, Somalia, Costa d'Avorio, Sudan.
Di questa alleanza fanno parte USA, UE, NATO, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, e bande di mercenari jihadisti terroristi che fanno capo all’ex al-Nusra, ISIS, e presunte formazioni "moderate" legate agli USA.
Il movimento curdo siriano, che dichiara di voler lottare per una Siria democratica, dovrebbe precisare se intende portare avanti le proprie rivendicazioni nell'ambito dello stato laico e progressista siriano, che ha assicurato pieni diritti alle donne, e alle numerose religioni ed etnie presenti nel paese,  o cercare illusoriamente di realizzare le proprie aspirazioni a costo della distruzione della Siria, programmata da tempo dall'imperialismo,  con la creazione di uno staterello fantoccio, stile Kosovo.
Altrettanta chiarezza richiediamo a tutte quelle organizzazioni sedicenti pacifiste e di sinistra, che non mancano occasione di attaccare e demonizzare il governo della Siria, e che oggi trovano un facile alibi nell'adesione all'ambigua manifestazione del 24.

                        

                        Roma 19/9/2016         Lista Comitato No Guerra No Nato,   Rete No War Roma

                        Per adesioni: comitatononato@...


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I crimini degli Usa in Siria e quei sedicenti 'sinistri alternativi" sempre dalla parte sbagliata della storia...

di Mauro Gemma*

90 soldati dell'esercito del governo legittimo siriano sono stati uccisi da un raid statunitense, per stessa ammissione delle autorità USA. In compenso, la convocazione da parte russa del Consiglio di Sicurezza dell'ONU viene definita "un atto di cinismo" da parte della rappresentante americana. 

E intanto, mentre l'imperialismo statunitense prosegue la sua aggressione alla Siria in aperta violazione della tregua raggiunta in questi giorni, c'è chi, nella "sinistra" cosiddetta "radicale", si appresta a manifestare il 24 settembre con comunicati che contengono affermazioni di questo tipo: "(...) sosteniamo la lotta dei settori democratici e progressisti siriani contro il dittatore Assad. Stati Uniti e Russia, riavvicinatasi alla Turchia, hanno trovato un fragile accordo per il cessate il fuoco fatto sulle spalle della popolazione siriana (...)" (dal comunicato di adesione di "Sinistra anticapitalista" alla manifestazione della rete Kurdistan).

Siamo alle solite. Quando la situazione richiede chiarezza e determinazione da parte di tutte le forze antimperialiste e progressiste a fianco di stati e popoli che combattono per affermare la propria sovranità e diritto a decidere del proprio futuro, ecco che arrivano le sconclusionate truppe di certa "sinistra radicale" ad aggiungere la propria voce di "utili idioti" di aggressioni imperialiste, disegni secessionisti e rivoluzioni colorate.  

Nei momenti decisivi è sempre stato così. Fin dai tempi in cui, certi ultra-rivoluzionari (i signori dell'attuale "Sinistra anticapitalista", per primi) non esitavano a schierarsi con i tagliagole dell'UCK, con i bombardieri di Radio B92 di Belgrado, con i "ribelli di Bengasi", con le Pussy Riots e chi più ne ha più ne metta. Sempre dalla parte sbagliata. Sempre con chi è finanziato e foraggiato dall'imperialismo yankee.

E adesso aspettiamo solo che i sostenitori delle bande terroriste siriane al servizio degli USA, sabato prossimo riempiano le piazze di Roma, sotto lo sguardo compiaciuto di tanti sedicenti "sinistri alternativi" di casa nostra.

*Direttore di Marx 21. Fonte: L'Antidiplomatico



=== 2: Libia e dintorni ===


Una presa di posizione della Rete campana contro la guerra  sulla decisione dello scorso 13 settembre con la quale l'Italia torna ad avventurarsi in Libia. Il documento è stato pensato e formulato anche nel percorso di sostegno e diffusione della mobilitazione NO MUOS del 2 Ottobre.

Rete campana contro la guerra e il militarismo
 

L’ITALIA E’ IN GUERRA

Con la decisione dello scorso 13 settembre, l'Italia torna ad avventurarsi in Libiaoltre 300 militari, di cui 200 paracadutisti della Folgore, una portaerei, uno stormo di cacciabombardieri, diversi droni e tre basi militari impegnate in Italia (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella), per una missione che, ipocritamente spacciata come missione “umanitaria” dal nome evocativo di Ippocrate (in onore del “padre” della medicina), si configura a tutti gli effetti come una missione di guerra, con un impegno pesante in uomini e mezzi, che espone ancora di più l'Italia al rischio di ritorsioni ed accelera la militarizzazione in corso nel Mediterraneo.

L'Italia era già attivamente presente in Libia dallo scorso 10 febbraio, con l’intervento di forze speciali, al fianco di quelle britanniche, presso Misurata, in un'altra operazione dal nome altisonante (Solida Struttura), a difesa dei pozzi e delle infrastrutture petrolifere. Con lo schieramento di questo ulteriore contingente militare,  proprio nel momento in cui cresce la battaglia tra le fazioni libiche ed i loro sponsor internazionali per l’accaparramento della cosiddetta “Mezzaluna Petrolifera”,  l'Italia si conferma protagonista nell’aggressione ai Paesi dell’Africa, nord e sub-sahariana, e del Medio e Vicino Oriente. 

Oltre alla Libia, infatti, i soldati italiani sono presenti in Afghanistan, dove il contingente italiano si è addirittura rafforzato superando i 700 militari, e anche massicciamente in Iraq, non solo con un proprio contingente (500 uomini) a difesa della Diga di Mosul, ma anche nell'operazione strategica (Prima Parthica) di addestramento dell'esercito iracheno e nell'operazione delle forze speciali (Centuria) che impegna circa 100 uomini, di base a Taqaddum, non distante da Ramadi e da Falluja, con compiti di coordinamento e di sostegno alle forze armate irachene. In totale oltre 1000 militari, vale a dire, la seconda forza militare straniera nel Paese dopo quella USA.

A tutto ciò si deve aggiungere la presenza italiana nell'ambito della “Coalizione Internazionale”, a guida USA, in Siria, con compiti di appoggio logistico e di supporto militare, nella guerra civile e per procura che, da più di cinque anni a questa parte, ha già provocato più di 250 mila vittime, e il rinnovato attivismo militare del nostro Paese in Africa. La cosiddetta “lotta ai trafficanti di uomini” e la strategia di “contenimento” dei flussi migratori e di militarizzazione delle rotte dei migranti lanciata proprio durante il semestre italiano di presidenza della Unione Europea (“Processo di Karthoum”), sta “legittimando”, oltre alla massiccia partecipazione e al coordinamento delle missioni militari nel Mar Mediterraneo, gli accordi bilaterali di collaborazione militare con diversi Paesi dell’area.  

All'inizio dello scorso mese di agosto, ad es., Italia e Sudan hanno sottoscritto un protocollo di cooperazione anti-migranti, che prevede il blocco e il rimpatrio, vere e proprie deportazioni forzate, verso il Sudan. Il governo italiano, insieme a quello tedesco, sta finanziando, addestrando e supportando i reparti scelti delle forze armate sudanesi per bloccare con ogni mezzo il flusso di migranti, in fuga da guerre e povertà, verso il Mediterraneo. 

Non meno significativo è l'impegno del governo Renzi per un riarmo in grande stile dell'Europa: va in questa direzione il piano elaborato dai Ministri Gentiloni e Pinotti, anticipato nella lettera a “Le Monde” e già portato al tavolo del summit con Merkel e Hollande, per una “Schengen della Difesa”. Il piano prevede che un’avanguardia di Paesi - la troika costituita da Italia, Francia e Germania - lavori in tempi rapidi all’integrazione europea nel campo della difesa per rafforzare le capacità militari comuni ed accrescere l’autonomia di azione dell’Europa con la costituzione di un vero e proprio Esercito Europeo ed un'aggressiva struttura di Difesa Militare dell'Unione. Insieme a questo andrebbe rilanciata anche l'industria europea della difesa.  Ad es. c’è  l’accordo per lo sviluppo del drone europeo Euromale tra Francia, Germania e Italia e procede il completamento del sistema satellitare europeo Galileo che renderà i paesi aderenti alla Ue – e non solo – del tutto indipendenti dal sistema satellitare Usa, il Gps.

Ovviamente, gli stanziamenti necessari per tutto saranno fuori dal Patto di Stabilità, quotidianamente invocato per avallare le politiche antisociali di tutti i  governi europei. Già oggi, la spesa militare europea ammonta a centinaia di miliardi e i dati SIPRI ed il rapporto (http://www.iai.it/sites/default/files/pma_report.pdf) stimano per i 31 Paesi europei presi in considerazione un aumento in media nel 2016 pari all’8,3 per cento rispetto al 2015. Solo in Italia spendiamo in strutture militari, armamenti, missioni all'estero, circa 100 milioni al giorno.

Anche il fatturato militare nel continente è stratosferico; solo l’Italia nel 2015 ha esportato per un valore di oltre 8,2 miliardi di euro, un boom del 186 per cento rispetto al 2014! Si tratta di armi vendute,  per esempio,  agli Emirati Arabi e all’Arabia Saudita, che le usano per armare i gruppi della jihad e per la guerra contro lo Yemen; oppure alla Turchia e all’Egitto, dove vengono violati in modo scandaloso i diritti umani.

La necessità del riarmo dell'Europa e dell'esercito europeo è stata richiamata da un’altra italiana, Federica Mogherini. Nel minaccioso intervento dello scorso 3 settembre, a Bratislava, l'Alto Rappresentante UE, da una parte ha confermato il “pieno sostegno” al governo turco (nei giorni stessi dell'invasione della Siria da parte dell'esercito turco e della durissima repressione che in Turchia sta colpendo il popolo curdo, gli attivisti e gli oppositori al regime di Erdogan); dall'altra ha auspicato un rafforzamento, anche e soprattutto militare, dell'Unione Europea, una vera e propria “Fortezza Europa”.

A dispetto, quindi, della propaganda renziana sulla cooperazione civile e la “inclusione attraverso la cultura”, l'Italia, con i suoi oltre 7000 militari impegnati nelle missioni internazionali, è oggi uno dei Paesi al mondo più attivi sul fronte della guerra e della militarizzazione. La presenza delle forze armate italiane negli scenari più sensibili degli approvvigionamenti strategici e delle risorse energetiche (Libia, Iraq, Afghanistan) mostra chiaramente il carattere strategico ed imperialistico di questa proiezione internazionale, che nulla ha di difensivo né, tanto meno, di “umanitario”.

L’utilizzo strumentale della lotta al terrorismo, la paura diffusa a piene mani nei confronti del “pericolo islamico”, le campagne razziste e xenofobe contro gli immigrati, sono parte della macchina di propaganda finalizzata ad ottenere il consenso a questa politica di aggressione ed al militarismo crescente e ad arginare e criminalizzare qualsiasi opposizione. 

Perfino la modifica del processo decisionale e del modo come vengono discusse in Parlamento le missioni militari è coerente con questa esigenza di compattamento sciovinistico e militare. 

Nel silenzio tombale dei media, lo scorso 14 luglio, è stata approvata in via definitiva la nuova “legge quadro sulle missioni internazionali”, la quale disciplina (art. 1) «la partecipazione delle forze armate, delle forze di polizia … e dei corpi civili di pace a missioni internazionali istituite nell'ambito dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) o di altre organizzazioni internazionali cui l'Italia appartiene» (in particolare, come ben si comprende, la NATO), toglie (art. 2) al Parlamento, che può intervenire solo con generici “atti d'indirizzo”, la facoltà di approvare o respingere, in modo vincolante, le missioni militari, e dà, viceversa, al Governo (art. 2 e art. 3), pieni poteri nella realizzazione e nella conduzione delle missioni di guerra del nostro Paese. 

In pratica il Parlamento italiano (che certo non si è distinto nell’opposizione alle missioni militari passate e presenti) è stato esautorato (o meglio, votando questa legge, si è autoesautorato) da qualsivoglia potere decisionale in merito alle iniziative militari, delegando totalmente ogni decisione sulla guerra al potere esecutivo, che può agire senza, in alcuni casi, che il Parlamento venga neppure messo al corrente di tali iniziative. 

A questa accelerazione nella svolta autoritaria si accompagna la crescente repressione di quanti lottano contro la guerra e la militarizzazione del territorio. Solo poche settimane fa, proprio mentre il governo Renzi imponeva il dissequestro del MUOS, decine e decine di attivisti NO MUOS sono stati denunciati per la loro strenua opposizione a questo micidiale strumento di guerra.

Contro la messa in funzione del MUOS, contro l’uso delle basi militari presenti in Sicilia, contro le politiche razziste, gli hotspot e i CIE, il movimento NO MUOS ha indetto la manifestazione del 2 ottobre

Come “Rete campana contro la guerra ed il militarismo” siamo schierati al loro fianco. Facciamo appello a tutti gli antimilitaristi, ai comitati, alle associazioni, ai compagni tutti a sostenere e rafforzare questa mobilitazione anche con iniziative sui propri territori per rilanciare sul piano nazionale un movimento contro la guerraOpporsi al governo Renzi, contrastare questo stato di cose significa, oggi più che mai, lottare contro la guerra e la militarizzazione. 

Non possiamo, infatti, illuderci di difendere i nostri diritti e di contrastare gli attacchi alle nostre condizioni di vita rimanendo indifferenti o dimostrandoci concilianti con l’oppressione e la violenza del “nostro” Paese su altri Paesi. Le aggressioni economiche e militari verso altri popoli e la politica dei continui sacrifici per “uscire dalla crisi economica” che ci impoverisce quotidianamente, sono due facce della stessa medaglia e hanno identici responsabili.

Diciamo NO all’intervento militare in Libia e chiediamo il rientro delle truppe italiane impegnate nelle missioni all’estero.

Diciamo NO alle spese militari  che continuano a crescere  mentre si continuano a tagliare  le spese sociali.

Schieriamoci dalla parte dei dannati della terra rivendicando il diritto all’accoglienza per tutti gli immigrati. 

 

Rete campana contro la guerra ed il militarismo

Napoli, 16/09/2016


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I miliziani di Misurata che l’Italia va a curare sono criminali di guerra

di Marinella Correggia

Chissà cosa pensano dell’«operazione Ippocrate» i libici di Tawergha. Cinque anni fa, i 40mila cittadini di pelle nera che popolavano questa città furono oggetto di pulizia etnica: parecchi uccisi e imprigionati, tutti gli altri deportati in massa proprio dalle milizie dichiaratamente razziste di Misurata che l’Italia va a soccorrere. In effetti dei molti gruppi armati libici ai quali l’operazione Nato «Unified Protector» nel 2011 fece da forza aerea, le Misrata Brigates – decine di migliaia di combattenti, già parte essenziale della compagine islamista Fajr sostenuta dal Qatar – sono forse il peggio. Altro che gli «eroi in ciabatte», prima protagonisti della «rivoluzione» libica nel 2011, poi della «lotta contro Daesh a Sirte» nel 2016.

Dall’agosto 2011 Tawergha, in fondo un simbolo della «nuova Libia», è una città fantasma e semidistrutta. Gli abitanti fuggirono in massa mentre i «ribelli» vittoriosi uccidevano molti di loro, ne imprigionavano altri – accusandoli di stupri senza prove e chiamandoli mercenari – e davano fuoco alle case, con il pubblico consenso dell’appena insediato primo ministro libico Mahmoud Jibril, capo del Consiglio nazionale di transizione (Cnt). I fuggiaschi si rifugiarono nel sud della Libia e in campi profughi sparsi in diverse città oppure si spostarono in Tunisia ed Egitto. Da allora hanno condotto una vita grama.


Il 31 agosto scorso il rappresentante dell’Onu per la Libia Martin Kobler ha propiziato a Tunisi un accordo di riconciliazione fra Misurata e Tawergha che prevede fra l’altro il ritorno in condizioni di sicurezza degli sfollati, il ripristino a cura del governo libico di un minimo di servizi sociali – compresa la rimozione delle mine-, risarcimenti per gli uccisi e le proprietà danneggiate.

Non sarà facile rendere operativo ed equo un patto che risulta leonino fin dall’esordio: richiama infatti la dichiarazione del 23 febbraio 2012 con la quale «i leader delle tribù di Tawergha porgevano le scuse a Misurata per qualunque azione compiuta da qualunque residente di Tawergha». Nessuna scusa, invece, da parte degli autori della pulizia etnica.

Nel mirino dei misuratini, autori anche della cacciata di molte famiglie dall’area di Tamina, sono finiti poi un numero importante di cittadini non libici, africani subsahariani linciati o imprigionati senza processo né prove. La caccia al nero non è storia solo del 2011. L’inviato del New Statesman pochi mesi fa si è sentito rispondere dal guardiano dell’obitorio di Misurata che i corpi nella stanza erano di africani uccisi, magari per un telefonino.

Gli armati di Misurata hanno compiuto stragi di civili e attacchi indiscriminati anche durante l’assedio, nel 2012, alla città di Bani Walid accusata di ospitare sostenitori del passato regime. E al tempo dell’assedio di Sirte, con Misurata sempre in prima linea, fu impedito l’accesso alla Croce rossa nella città. Nell’agosto 2014 fioccarono invano altre accuse di crimini: le milizie Fajr guidate da Misurata, nel prendere il controllo di Tripoli e delle aree circostanti avevano costretto alla fuga migliaia di civili distruggendone le proprietà.

Impunità assoluta per i «ribelli» di Misurata anche rispetto ai crimini compiuti nelle loro carceri autogestite, con maltrattamenti e torture all’ordine del giorno e nessuna garanzia di equo processo a carico di detenuti qualificabili come politici. E mentre l’Ue chiudeva gli occhi per anni al traffico di armi verso le coalizioni jihadiste di Fajhr Libia, la città di Misurata rimane un hot spot, con ovvie complicità, in un altro traffico: quello di esseri umani.

Marinella Correggia – Il Manifesto del 16 settembre 2016


=== 3 ===

L’arte della guerra 

Esplosive mail della Clinton 

Manlio Dinucci 


Ogni tanto, per fare un po’ di «pulizia morale» a scopo politico-mediatico, l’Occidente tira fuori qualche scheletro dall’armadio. Una commissione del parlamento britannico ha criticato David Cameron per l’intervento militare in Libia quando era premier nel 2011: non lo ha però criticato per la guerra di aggressione che ha demolito uno stato sovrano, ma perché è stata lanciata senza una adeguata «intelligence» né un piano per la «ricostruzione». 

Lo stesso ha fatto il presidente Obama quando, lo scorso aprile, ha dichiarato di aver commesso sulla Libia il «peggiore errore», non per averla demolita con le forze Nato sotto comando Usa, ma per non aver pianificato «the day after». 

Obama ha ribadito contemporaneamente il suo appoggio a Hillary Clinton, oggi candidata alla presidenza: la stessa che, in veste di segretaria di stato, convinse Obama ad 
autorizzare una operazione coperta in Libia (compreso l’invio di forze speciali e l’armamento di gruppi terroristi) in preparazione dell’attacco aeronavale Usa/Nato. 

Le mail della Clinton, venute successivamente alla luce, provano quale fosse il vero scopo della guerra:  bloccare il piano di Gheddafi di usare i fondi sovrani libici per creare organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana e una moneta africana in alternativa al dollaro e al franco Cfa. 

Subito dopo aver demolito lo stato libico, gli Usa e la Nato hanno iniziato, insieme alle monarchie del Golfo, l’operazione coperta per demolire lo stato siriano, infiltrando al suo interno forze speciali e gruppi terroristi che hanno dato vita all’Isis. Una mail della Clinton, una delle tante che il Dipartimento di stato ha dovuto declassificare dopo il clamore suscitato dalle rivelazioni di Wikileaks, dimostra qual è uno degli scopi fondamentali dell’operazione ancora in corso. 

Nella mail, declassificata come 
«case number F-2014-20439, Doc No. C05794498», la segretaria di stato Hillary Clinton scrive il 31 dicembre 2012: «È la relazione strategica tra l’Iran e il regime di Bashar Assad che permette all’Iran di minare la sicurezza di Israele, non attraverso un attacco diretto ma attraverso i suoi alleati in Libano, come gli Hezbollah». Sottolinea quindi che «il miglior modo di aiutare Israele è aiutare la ribellione in Siria che ormai dura da oltre un anno», ossia dal 2011, sostenendo che per piegare Bashar Assad, occorre «l’uso della forza» così da «mettere a rischio la sua vita e quella della sua famiglia».

Conclude la Clinton: «Il rovesciamento di Assad costituirebbe non solo un immenso beneficio per la sicurezza di Israele, ma farebbe anche diminuire il comprensibile timore israeliano di perdere il monopolio nucleare». La allora segretaria di stato ammette quindi ciò che ufficialmente viene taciuto: il fatto che Israele è l’unico paese in Medio Oriente a possedere armi nucleari. 

Il sostegno dell’amministrazione Obama a Israele, al di là di alcuni dissensi più formali che sostanziali, è confermato dall’accordo, firmato il 14 settembre a Washington, con cui gli Stati uniti si impegnano a fornire a Israele i più moderni armamenti per un valore di 38 miliardi di dollari in dieci anni, tramite un finanziamento annuo di 3,3 miliardi di dollari più mezzo milione per la «difesa missilistica». 

Intanto, dopo che l’intervento russo ha bloccato il piano di demolire la Siria dall’interno con la guerra, gli Usa ottengono una «tregua» (da loro subito violata), lanciando allo stesso tempo una nuova offensiva in Libia, camuffata da operazione umanitaria a cui l’Italia partecipa con i suoi «parà-medici». Mentre Israele, nell’ombra, rafforza il suo monopolio nucleare tanto caro a Hillary Clinton.
 
(il manifesto, 20 settembre 2016)




(deutsch / english / italiano)


Panturchìa / 4
Auxiliary Troops Against Moscow

1) Jamala ha “vinto” cantando le lodi delle SS Naziste Tartare (F.W. Engdahl, 28.5.2016)
2) Hilfstruppen gegen Moskau / III (GFP 20.05.2016)
3) Washington accusa la Russa di perseguitare i Tartari (23.4.2016)


See also: Auxiliary Troops Against Moscow / I (GFP 2016/05/17)
One of Berlin's government advisors is calling for Russia's expulsion from the Council of Europe. The Russian government's actions against the Crimean Tatars and its banning their Mejlis - a political organization - along with other measures, make it "no longer possible to justify continuing Russian membership in the Council of Europe," ... In 1942, "every tenth Tatar on the Crimean Peninsula was in the military" - on the side of Nazi Germany. Crimean Tatars fought on the side of the German Wehrmacht against the Soviet Union, excelling in the notorious "efforts to crush the partisan movement" and turned their Jewish neighbors over to the Nazis' henchmen. Already in the 1920s, leading Tatar functionaries had complained of a "Jewification" of their communities, in their protests against Moscow's resettlement measures of Jewish families. Later, exiled Crimean Tatars volunteered their services for the West's cold war efforts to destabilize Moscow. The Mejlis, which today is quite controversial among the Crimean Tatars, stands in this tradition...

Per la stessa serie si vedano:
Panturchìa / 1: Poverini i Tartari di Crimea! (english / italiano, 17.5.2016)
Panturchìa / 2: Krimtataren als Hilfstruppen gegen Moskau (deutsch, 17.5.2016)
Panturchìa / 3: Aspirazioni neo-ottomane (italiano, 20.5.2016)
ed anche:
Towards A New War Of Crimea (english / deutsch / italiano, 30.11.2016)


=== 1 ===


Jamala ha “vinto” cantando le lodi delle SS Naziste Tartare

Scritto da F. William Engdahl

Non voglio discutere dei meriti musicali di chi avrebbe dovuto vincere il recente festival musicale per dilettanti di Stoccolma. E’ assolutamente evidente che Jamala, di etnia Tartaro-Ucraina, è stata fatta vincere in una gara truccata per farne un caso politico. Come lei stessa ha ammesso successivamente, si è voluto accomunare le azioni di Stalin durante la Seconda Guerra Mondiale contro i Tartari di Crimea con quelle di Mosca in Crimea nel 2014. La canzone di Jamala era palesemente politica e, secondo le regole dell’Eurovisione, bisognerebbe privarla del titolo, a prescindere dal suo talento canoro (dalla mancanza di esso). Quello che manca in maniera così evidente nella copertura mediatica occidentale, in quella che da molti viene considerata una palese politicizzazione di un festival musicale, è chi veramente fossero quelli contro cui, nel lamento di Jamala, combattevano i Tartari di Crimea nel 1944. La risposta potrebbe essere per molti una sorpresa.

La canzone di Jamala “1944” commemora le sofferenze patite dai Tartari mussulmani di Crimea che erano stati deportati a migliaia da Stalin nell’Asia Centrale. L’immagine lasciata da Jamala è quella di una barbara crudeltà da parte del dittatore sovietico nei confronti degli innocenti Tartari. Volendo però fornire un’immagine storicamente corretta, i Tartari di Crimea, in quella guerra, tutto sono stati meno che innocenti civili. Decine di migliaia di loro erano stati organizzati, per ordine di Hitler, nelle brigate delle SS tartare-crimeane.

Il problema qui non è se Stalin abbia reagito con brutalità alla situazione dei Tartari nel 1944. Questo è stato riconosciuto dalla stessa Unione Sovietica già dopo la morte di Stalin. Quello che i media di oggi ignorano profondamente è la realtà storica del 1944, che la canzone della trentaduenne tartara crimeana Jamala lascia fuori.

La Crimea occupata dai Nazisti

Dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa, l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica nel giugno del 1941, la Crimea era caduta sotto l’occupazione nazista. La sua popolazione di allora era etnicamente costituita da Tartari e da Russi.

Secondo un resoconto d’archivio del quotidiano russo “Pravda Report”, alle origini della deportazione di decine di migliaia di Tartari crimeani nel 1944 c’era il fatto che la Wehrmacht e le forze naziste di occupazione avevano arruolato migliaia di tartari crimeani per opporsi alla liberazione della Crimea da parte dell’Armata Rossa:“Nell’aprile-maggio del 1944 il Battaglione Tartaro di Crimea prese parte alle battaglie contro l’Armata Rossa in Crimea. Le unità che erano state evacuate dalla Crimea nel giugno del 1944 vennero reinquadrate nei tre battaglioni del Reggimento SS Truppe da Montagna Tartare. Un mese dopo, il gruppo divenne la prima Brigata SS Truppe da Montagna Tartare (2.500 uomini) al comando del SS Standartenfuhrer Fortenbaf. Il 31 dicembre 1944 l’unità fu smantellata, inglobata nel distaccamento SS Turchia Orientale ed inserita nel gruppo da battaglia della Crimea: due battaglioni di fanteria ed un centinaio di cavalli”.

Nella sua testimonianza al Tribunale di Norimberga il Feldmaresciallo tedesco Erich von Manstein aveva testimoniato sull’utilità per i Nazisti dei feroci battaglioni tartari: “La maggior parte della popolazione tartara della Crimea era molto amichevole nei nostri confronti. Eravamo anche in grado di allestire compagnie di auto-difesa formate da Tartari, il cui compito era quello di proteggere i villaggi dai partigiani che si nascondevano sulle montagne. Una forte mobilitazione partigiana (favorevole all’Unione Sovietica) si era venuta a formare in Crimea fin dagli inizi, e la cosa ci causava parecchi fastidi. La ragione di questa forte mobilitazione era dovuta al fatto che nella popolazione della Crimea vi erano molti Russi”.

Von Manstein aveva continuato: “I Tartari si erano subito schierati dalla nostra parte. Nel dicembre del 1941 erano stati istituiti in Crimea i Comitati Mussulmani Tartari per aiutare l’amministrazione degli occupanti tedeschi. Il Comitato Centrale dei Mussulmani di Crimea aveva cominciato ad operare a Simferopoli. La loro organizzazione e le loro attività erano sotto la diretta supervisione delle SS”.

I Tartari crimeani delle brigate SS mussulmane combatterono contro i Russi dal 1941 fino alla riconquista della Crimea da parte dell’Armata Rossa nel 1944, dopodiché Stalin ordinò la deportazione di 240.000 Tartari mussulmani. (Fonte Bundesarchiv)

I terroristi mussulmani radicali delle SS

Nel mio ultimo libro: “L’Egemone perduto: chi sarà distrutto dagli dei”, descrivo i retroscena poco conosciuti, ma assai importanti, delle relazioni fra il Terzo Reich ed alcuni gruppi mussulmani. All’inizio della guerra, nel 1941, la figura di spicco della fratellanza Mussulmana, Amin al-Husseini, allora Gran Mufti di Gerusalemme era stato ricevuta a Berlino da Hitler e da Himmler. Non se ne era allontanato per tutta la durata della guerra, organizzando la propaganda anti-ebraica e formando brigate filo-naziste, composte da fanatici mussulmani, nelle zone orientali dell’Unione Sovietica, in Egitto, in Palestina ed altrove, affinché combattessero a favore del Terzo Reich.

A Berlino, la Fratellanza Mussulmana del Gran Mufti ebbe uno dei ruoli meno conosciuti e più macabri nello sterminio nazista di milioni di Ebrei. Divenne intimo amico di Heinrich Himmler, il Reichsfuhrer degli appartenenti al temuto culto della morte nazista, conosciuto come Schultzstaffel (SS). Himmler è stato forse il più diretto responsabile della messa in pratica dell’Olocauto da parte del Terzo Reich.

Il Gran Mufti stringe la mano ad Himmler nel 1943

Nella sua testimonianza al Processo di Norimberga dopo la guerra, Dieter Wisliceny, il vice di Adolf Eichmann, aveva testimoniato, prima di essere condannato all’impiccagione per crimini contro l’umanità: “Il Mufti è stato uno degli iniziatori dello sterminio sistematico degli Ebrei europei e un collaboratore e un consigliere di Eichmann e Himmler nell’esecuzione di questo piano… Era uno dei migliori amici di Eichmann e lo spronava costantemente ad accelerare il processo di sterminio”.

Al Gran Mufti era stato ordinato da Himmler di organizzare le brigate SS mussulmane, come quelle dei Tartari di Crimea. Le aveva costituite in Bosnia e in tutte le zone dell’Est europeo occupate dai Nazisti, compresa la Crimea. E’ significativo, e lo ribadisco nel libro, come i fanatici di al-Qaeda, dell’ISIS e degli altri gruppi radicali terroristici mussulmani odierni si possano far risalire direttamente all’organizzazione delle SS naziste mussulmane di quella guerra, compreso il terrorismo turco, bosniaco e dei Tartari di Crimea.

In guerra non ci sono vincitori. Comunque, nell’interesse della verità storica e dell’onestà, il Ministro degli Esteri svedese e tutti quelli in Occidente che hanno intessuto lodi a Jamala e alla sua canzone “1944” farebbero meglio a completare il quadro. Ma allora, il desiderato effetto politico, voluto dalla divisione propaganda della NATO per demonizzare ulteriormente Putin e la Russia, colpevoli di aver acconsentito nel 2014 all’annessione della Crimea, dopo la schiacciante approvazione da parte del 93% della popolazione crimeana, perderebbe tutta la sua efficacia. Non sarebbe triste? La Hedda Hopper odierna, la guerrafondaia del Dipartimento di Stato Victoria Nuland, o il Segretario alla Difesa Ash Carter, o il Capo degli Stati Maggiori Riuniti “Fighting Joe” Dunford e tutto il complesso militare industriale americano sarebbero molto infelici se ciò dovesse accadere.

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Articolo di F. William Engdahl, pubblicato da New Eastern Outlook il 28 Maggio 2016
Tradotto in Italiano da Mario per SakerItalia.it



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Hilfstruppen gegen Moskau (III)
 
20.05.2016
BERLIN/KIEW
 
(Eigener Bericht) - Berlin baut seine Zusammenarbeit mit dem Medschlis der Krimtataren trotz dessen Verwicklung in Gewaltaktionen aus. Erst kürzlich ist der Vorsitzende des Medschlis, Refat Tschubarow, zu politischen Gesprächen im Auswärtigen Amt gewesen. Dem Treffen stand nicht entgegen, dass Tschubarow im September eine eigenmächtige Blockade des ukrainischen Handels mit der Krim angekündigt hatte - und auch nicht, dass Tschubarow im Oktober die für die Krim-Bevölkerung schädlichen Folgen der Tataren-Blockade, nämlich Mangel und empfindliche Preiserhöhungen bei Grundnahrungsmitteln, ausdrücklich gepriesen hatte. Sogar die Sprengung von Strommasten durch Aktivisten aus dem Umfeld des Medschlis, die die Krim in hohem Maß von der Stromversorgung abgeschnitten hat, lässt das deutsche Außenministerium nicht auf Distanz zu der Vereinigung gehen. Deutsche Ethno-Organisationen haben schon vor Jahren gute Beziehungen zu Tschubarow und zu seinem Amtsvorgänger Mustafa Dschemiljew aufgebaut, die von 2010 an intensiviert wurden, um nach dem Regierungswechsel in Kiew antirussische Kreise in der Ukraine zu stärken. Die Kooperation mit dem Medschlis-Milieu, das unter den Tataren auf der Krim durchaus umstritten ist, erfolgt in enger Abstimmung mit den USA, der Türkei unter Erdoğan und anderen NATO-Staaten. Die Parallelität von Kooperation mit den Krimtataren und deren teils gewalttätigen Protesten erinnert an die Entwicklung im Frühjahr 2013 in der Ukraine.
Für den Friedensnobelpreis nominiert
Die deutschen Beziehungen zum Medschlis der Krimtataren können auf ein bereits seit Jahren gewachsenes Fundament im Milieu völkischer Organisationen aufbauen. So steht zum Beispiel die Gesellschaft für bedrohte Völker (GfbV), die sich für Sonderrechte ethnisch definierter Minderheiten in aller Welt einsetzt, schon lange in Kontakt zum Medschlis. Im Jahr 2005 hat sie dessen damaligem Vorsitzenden Mustafa Dschemiljew ihren "Victor-Gollancz-Preis" verliehen; die Laudatio hielt Erika Steinbach (CDU), damals Präsidentin des Bundes der Vertriebenen (BdV). Die GfbV betreibt nicht nur Öffentlichkeitsarbeit für die Krimtataren; sie hat dem Medschlis auch geholfen, Kontakte ins Auswärtige Amt zu knüpfen: Im Sommer 2009 beteiligte sie sich an Gesprächen, die eine Delegation in Deutschland lebender Krimtataren im Auswärtigen Amt führte; im Ergebnis sagten zuständige Stellen im Außenministerium zu, "Beratung bei der Suche nach politisch-diplomatischen Partnern in Deutschland" zu leisten.[1] Zudem hat die von Flensburg aus gesteuerte und mit dem Bundesinnenministerium kooperierende Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen (FUEV), der Ethno-Organisationen aus Europa, dem Kaukasus und Zentralasien angehören [2], den Medschlis unter ihre Mitglieder aufgenommen und promotet seine Interessen. 2011 unterstützte sie die Nominierung des damaligen Medschlis-Vorsitzenden Mustafa Dschemiljew, der mehrmals an ihren Kongressen teilgenommen hatte, für den Friedensnobelpreis.
Im Strategiezentrum
Nach der Abwahl des prowestlichen ukrainischen Staatspräsidenten Wiktor Juschtschenko im Jahr 2010 hat es Versuche gegeben, die deutsch-krimtatarischen Kontakte auch auf staatlicher Ebene auszubauen. Hintergrund waren Bemühungen, auf allen Ebenen Kräfte zu stärken, die sich für die Anbindung der Ukraine an die EU einsetzten; es war die Zeit, als die Konrad-Adenauer-Stiftung (CDU) daran ging, die Partei UDAR des späteren Majdan-Anführers Witali Klitschko zu fördern [3], und als Berlin und Brüssel auf die Unterzeichnung des Assoziierungsabkommens der EU mit der Ukraine drangen. Am 28./29. Juni 2011 kam, mitorganisiert von der GfbV, der erste "deutsch-krimtatarische Dialog" in Berlin zusammen; es gehe bei der Kooperation nicht zuletzt darum, "die Frage der Krimtataren als Teil ... der Annäherung an EU-Strukturen diskutieren", hieß es anschließend in einem Bericht.[4] Am Rande des "Dialogs" trafen der damalige Medschlis-Chef Dschemiljew, sein ab 2013 amtierender Nachfolger, Refat Tschubarow, und der Medschlis-Beauftragte für Außenbeziehungen, Ali Khamsin, auf Bundestagsabgeordnete und Vertreter des Auswärtigen Amts sowie des Bundesinnenministeriums. Im Rahmen des dritten "deutsch-krimtatarischen Dialogs", den auch krimtatarische Politiker besuchten, stellte die Bundesakademie für Sicherheitspolitik am 19. September 2013 ihre Räume für eine Diskussionsveranstaltung zur Verfügung, auf der nicht zuletzt krimtatarische Themen debattiert wurden. Die Bundesakademie dient als außen- und militärpolitisches Strategiezentrum Berlins.[5]
Exklusive Gespräche
Seit der Übernahme der Krim durch Russland haben die deutsch-krimtatarischen Beziehungen sich auf offizieller Ebene rasant intensiviert. Dabei halten deutsche Politiker und staatliche Stellen lediglich Kontakt zum Medschlis und zu ihm nahestehenden Kreisen; diejenigen Kräfte unter den Krimtataren, die die prowestlich-antirussische Politik des Medschlis ablehnen (german-foreign-policy.com berichtete [6]), werden von Berlin ebenso wie von Brüssel und Washington weitgehend ignoriert. Bereits am 10. April 2014 empfing Erika Steinbach,Vorsitzende der Arbeitsgruppe Menschenrechte der CDU/CSU-Bundestagsfraktion, den Medschlis-Außenbeauftragten Ali Khamsin zu Gesprächen in Berlin. Anfang Juli 2014 traf der CSU-Bundestagsabgeordnete Bernd Fabritius, der wenig später Steinbach im Amt des BdV-Vorsitzenden folgte [7], in Straßburg mit dem früheren Medschlis-Chef Dschemiljew zusammen. Bei einer Kurzvisite in der Ukraine am 23./24. Juli 2014 besprach sich auch eine Delegation der Europäischen Volkspartei (EVP), in der CDU und CSU eine starke Stellung innehaben, mit Vertretern der Krimtataren. Für den 17. März 2015 kündigte die Konrad-Adenauer-Stiftung in Brüssel ein exklusives "Adenauerforum" mit dem einstigen Medschlis-Vorsitzenden Dschemiljew an - "Teilnahme nur auf persönliche Einladung". Am 21. Oktober letzten Jahres folgte eine Podiumsdiskussion mit dem Medschlis-Vorsitzenden Tschubarow in der Berliner Zentrale der Adenauer-Stiftung, bei der diverse Personen aus dem außenpolitischen Establishment der deutschen Hauptstadt zugegen waren.
Antirussische Interessen
Gleichzeitig intensivieren die Krimtataren ihre Beziehungen zu weiteren EU- und NATO-Staaten. Der ehemalige Medschlis-Vorsitzende Dschemiljew reiste im April 2014, unmittelbar nach der Übernahme der Krim durch Russland, zu politischen Gesprächen nach Washington, wo er am 4. April unter anderem mit Wendy Sherman, Unterstaatssekretärin für Politische Angelegenheiten im US-Außenministerium, zusammentraf.[8] Ende September 2015 flog der Medschlis-Vorsitzende Tschubarow ebenfalls zu politischen Gesprächen in die US-Hauptstadt. Im Dezember 2015 trafen Dschemiljew und Tschubarow in Ankara mit Staatspräsident Recep Tayyip Erdoğan und mit Ministerpräsident Ahmet Davutoğlu zusammen; dem Termin kam besondere Bedeutung zu, da die Türkei sich als "Schutzmacht" der turksprachigen Krimtataren versteht und wegen der Eskalation ihres Konflikts mit Russland erhebliches Interesse daran hat, antirussische Kräfte um sich zu scharen. Dschemiljew hat in der Türkei nicht nur einige Ehrendoktorwürden, sondern am 15. April 2014 auch den höchsten staatlichen Verdienstorden erhalten. Am 3. Juni 2014 wurde ihm darüber hinaus in Polen der erste "Lech Wałęsa-Solidaritätspreis" verliehen.
Gewalt: kein Hinderungsgrund
Dabei steht dem Ausbau der gegen Moskau gerichteten Zusammenarbeit mit dem Medschlis der Krimtataren nicht entgegen, dass dessen Aktivisten Gewaltaktionen organisieren. So kündigte der Medschlis-Vorsitzende Tschubarow am 16. September 2015 an, ab dem 20. September würden Krimtataren den Warenhandel zwischen der Ukraine und der Krim blockieren. Die Blockade kam tatsächlich zustande - und beeinträchtigte die gesamte Bevölkerung der Krim erheblich. Am 8. Oktober lobte Tschubarow die illegale Maßnahme, da sie spürbaren Mangel sowie empfindliche Preiserhöhungen bei Grundnahrungsmitteln auf der Krim verursache - und auf diese Weise die Halbinsel wieder ins Zentrum der internationalen Aufmerksamkeit rücke.[9] Nur vier Tage später traf er bei den "Kiewer Gesprächen", die die Konrad-Adenauer-, die Friedrich-Naumann- (FDP) und die Heinrich-Böll-Stiftung (Bündnis 90/Die Grünen) "mit freundlicher Unterstützung des Auswärtigen Amts" organisierten, mit der Grünen-Fraktionsvorsitzenden im Europaparlament, Rebecca Harms, dem Leiter des "Arbeitsstabes Ukraine" im Auswärtigen Amt, Johannes Regenbrecht, und dem Leiter des OSZE-Menschenrechtsbüros (ODIHR), dem Deutschen Michael Link, zusammen. Die Blockade zu Lasten der Krim-Zivilbevölkerung, die die Tataren gemeinsam mit ukrainischen Faschisten vom "Rechten Sektor" durchführten, wurde fortgesetzt; nur wenige Tage nachdem Tschubarow und Dschemiljew am 9. November mit der EU-Außenbeauftragten Federica Mogherini über die "De-Okkupation der Krim" konferiert hatten, sprengten Aktivisten Strommasten im Süden der Ukraine und schnitten die Krim damit weitgehend von der Stromversorgung ab.
Wie 2013 in Kiew
Die Parallelität von gewalttätigen Protesten auf der einen, Verhandlungen mit deutschen und EU-Politikern auf der anderen Seite erinnert fatal an die Entwicklung in der Ukraine, als von Dezember 2012 bis Mai 2013 - ein Jahr vor den Majdan-Unruhen - Parlaments- und Straßenproteste mit Gesprächen der Opposition mit Diplomaten aus Deutschland und der EU einhergingen (german-foreign-policy.com berichtete [10]). Die weitere Entwicklung in der Ukraine ist bekannt.
Ein erstes Echo
Dabei intensiviert Berlin die Kontakte weiter. Wie die Botschaft der Ukraine in der deutschen Hauptstadt Ende April mitteilte, hatte Tschubarow soeben an einer Diskussionsveranstaltung der Deutschen Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP) teilgenommen und sich vor allem mit Politikern und Diplomaten im Auswärtigen Amt ausgetauscht.[11] Nach dem Treffen gab die Menschenrechtsbeauftragte der Bundesregierung, Bärbel Kofler, einen Appell zugunsten der Krimtataren an die Medien. Laut der ukrainischen Botschaft handelte es sich dabei um ein erstes unmittelbares "Echo" auf die Gespräche der deutschen Diplomaten mit Tschubarow. Was darüber hinaus besprochen wurde, ist nicht bekannt.
[1] Verständnis und Unterstützung. Vertreter tatarischer Vereine waren eingeladen ins Auswärtige Amt. www.gfbv.de 17.09.2009.
[2] S. dazu Hintergrundbericht: Die Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen.
[3] S. dazu Unser Mann in Kiew.
[4] Mieste Hotopp-Riecke: Der lange Schatten Stalins über den Stiefkindern Eurasiens. www.eurasischesmagazin.de.
[5] S. dazu Alle für Deutschland.
[6] S. dazu Hilfstruppen gegen Moskau (II).
[7] S. dazu Kurs auf Osteuropa.
[8] S. dazu Die Belagerung der Krim (II).
[9] Crimean blockade getting Moscow's attention. euromaidanpress.com 08.10.2015.
[10] S. dazu Termin beim Botschafter.
[11] Parlamentsabgeordneter Chubarov spricht in Berlin über die Menschenrechtslage auf der Krim. germany.mfa.gov.ua 29.04.2016.


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Washington accusa la Russa di perseguitare i Tartari



RETE VOLTAIRE | 23 APRILE 2016 
Il 13 aprile 2016, la giustizia russa ha vietato le attività del “Parlamento tartaro”, un’organizzazione separatista di Crimea, sostenuta da Turchia e Ucraina. Secondo l’atto di accusa, trattasi dell’associazione che – come già da noi pubblicato – ha organizzato il blocco dei camion provenienti dall’Ucraina e ha fatto saltare le linee elettriche ad alta tensione, piombando la penisola nell’oscurità e nel freddo.
Viste le sue attività terroristiche, la giustizia russa ha ritenuto di dover revocare al “Parlamento tartaro” il diritto d’associazione.
Contrariamente a quanto potrebbe far pensare il nome, il “Parlamento tartaro” non è un organo rappresentativo, ma un consiglio direttivo composto di 33 membri eletti dai 220 aderenti all’associazione politica del Qurultay.
Il presidente del “Parlamento tartaro” è Refat Choubarov (Çubarov in turco), suo animatore il deputato ucraino e agente Cia Moustafa Djemilev (Cemiloğlu in turco), fondatori entrambi della “Brigata islamica internazionale” e del “Governo di Crimea in esilio”, basate entrambe a Kershon e dedite al sabotaggio della base militare di Crimea [1].
La maggior parte dei membri di queste organizzazioni aderisce peraltro a Hizb ut-Tahrir, una costola dei Fratelli mussulmani, attiva soprattutto a Londra e in Asia Centrale. L’Organizzazione di Cooperazione di Shangai è nata inizialmente proprio per lottare contro questa confraternita terroristica.
Lo scorso 21 aprile, il portaparola del Dipartimento di Stato Usa, John Kirby, ha accusato la Russia di agire senza basi legali e di attentare alla libertà di espressione dei tartari.
Dopo la riunificazione della Crimea alla Russia, Mosca ha riconosciuto la lingua tartara, ha riabilitato i 180.000 tartari che Stalin aveva deportato in massa e ha destinato alla Penisola 10 miliardi di rubli. La maggioranza dei tartari di Crimea – circa 250.000 – ha accolto con favore la riunificazione, mentre una minoranza – circa 20.000 (ossia l’8%) – ha ripreso la lotta contro Mosca, iniziata durante la Seconda guerra mondiale e proseguita con la Guerra fredda.
L’Ucraina si appresta a suo modo a mediatizzare la questione tartara, presentando al concorso di Eurovisione del prossimo 14 maggio la cantante crimeana Jamala, con una canzone dedicata alla deportazione di massa del 1944 dei Tartari, che però non ricorda il collaborazionismo dei loro capi con i nazisti, i cui successori sono oggi al potere a Kiev.

Traduzione 
Rachele Marmetti
Il Cronista 

[1] « L’Ukraine et la Turquie créent une Brigade internationale islamique contre la Russie » (L’Ucraina e la Turchia creano una Brigata internazionale islamica contro la Russia), Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 12 août 2015.