Informazione


Ci associamo al giornale online Contropiano – http://contropiano.org/documenti/item/32720-giu-le-mani-dalla-siria-no-alla-guerra-contro-la-siria-e-contro-il-popolo-siriano – riproponendo il testo del documento cui abbiamo dato a suo tempo, e riconfermiamo oggi, la nostra adesione. 
Scrive Contropiano: Ripubblichiamo, a tre anni di distanza, un documento unitario (era il luglio del 2012) su "Il movimento contro la guerra e la situazione in Siria". Ci sembra, alla luce degli eventi in corso, un contributo di grande utilità e lungimiranza che può aiutare a capire e a mobilitarsi contro la guerra nelle prossime settimane. E' soprattutto un documento collettivo, ampiamente discusso e concordato dalle forze politiche e sociali che lo hanno sottoscritto.
Il documento è anche sul nostro sito: https://www.cnj.it/INIZIATIVE/DISARMIAMOLI.htm#siria2012
(CNJ onlus)
--------

Giù le mani dalla Siria!

Il movimento contro la guerra e la situazione in Siria. Un documento collettivo mette i piedi nel piatto sulla funzione di una coerente opposizione alla guerra, anche quella “umanitaria”.

La grave situazione in Siria, pone i movimenti che in questi anni si sono battuti contro la guerra di fronte a nuovi e vecchi problemi che producono lacerazioni, immobilismo e un vuoto di iniziativa.

Siamo attivi in reti, realtà politiche e movimenti che in questi anni – ed anche in questi mesi – non hanno esitato a schierarsi contro l’escalation della guerra umanitaria con cui l’alleanza tra potenze della Nato e petromonarchie del Golfo, sta cercando di ridisegnare la mappa del Medio Oriente.

a) Interessi convergenti e prospettive divergenti al momento convivono dentro questa alleanza tra le maggiori potenze della Nato e le potenze che governano “l’islam politico”. E’ difficile non vedere il nesso tra l’invasione/disgregazione della Libia, l’escalation in Siria, la repressione saudita in Barhein e Yemen e i tentativi di normalizzazione delle rivolte arabe lì dove sono state più impetuose (Tunisia, Egitto). La dottrina del Dipartimento di Stato Usa “Evolution but not Revolution” aveva decretato quello che abbiamo sotto gli occhi come l'unico sbocco consentito della Primavera Araba. Da queste gravi responsabilità è impossibile tenere fuori le potenze dell'Unione Europea, in particolare Francia, Gran Bretagna e Italia, che hanno prima condiviso l’aggressione alla Libia, hanno mantenuto intatto il loro sostegno politico e militare ad Israele ed oggi condividono la stessa politica di destabilizzazione per la Siria.

b) I movimenti che si oppongono alla guerra, in questi ultimi anni hanno dovuto fare i conti con diverse difficoltà. La prima è stata la rimozione della guerra dall’agenda politica dei movimenti e delle forze della sinistra o, peggio ancora, una complice inerzia verso le aggressioni militari come quella in Libia. Dalla “operazione di polizia internazionale in Iraq” del 1991 alla “guerra umanitaria in Jugoslavia” nel 1999 per finire con le “guerre per la democrazia” del XXI Secolo, le guerre asimmetriche scatenate dai primi anni Novanta in poi dalle coalizioni di grandi potenze contro paesi più deboli (Iraq, Somalia, Afghanistan, Jugoslavia, Costa d'Avorio, Libia), hanno sempre cercato una legittimazione morale che poco a poco sembra essere penetrata anche nella elaborazione e nel posizionamento di settori dei movimenti pacifisti e contro la guerra. I sostenitori della “guerra umanitaria” statunitensi ma non solo, stanno cercando di definire una cornice legale agli interventi militari attraverso la dottrina del “Rights to Protect” (R2P). Gli obiettivi di queste guerre sono stati sempre presentati come la inevitabile rimozione di capi di stato o di governi relativamente isolati o addirittura resi invisi alla cosiddetta “comunità internazionale” sia per loro responsabilità che per le martellanti campagne di demonizzazione mediatiche e diplomatiche.

c) Saddam Hussein, Aydid, Milosevic, il mullah Omar, Gbagbo, Gheddafi e adesso Assad, sono stati al centro di una vasta operazione di cambiamento di regime che è passata attraverso gli embarghi, i bombardamenti e le invasioni militari da parte delle maggiori potenze della Nato e i loro alleati regionali, operazioni su vasta scala che hanno disgregato paesi immensamente più deboli perseguendo la “stabilità” degli interessi occidentali attraverso la destabilizzazione violenta di governi o regimi dissonanti. A prescindere dalle maggiori o minori responsabilità di questi leader verso il benessere e la democrazia dei loro popoli, le maggiori potenze hanno agito sistematicamente per la loro rimozione violenta attraverso aggressioni militari e imposizione al potere di nuovi gruppi dirigenti subordinati agli interessi occidentali.

d) Seppure negli anni precedenti la consapevolezza che la divisione tra “buoni e cattivi” non sia mai stata una categoria limpida e definita – anzi è servita a occultare le vere motivazioni delle guerre - nel nostro paese ci sono stati movimenti di protesta che si sono opposti alla guerra prescindendo dai soggetti in campo e che si sono posizionati sulla base di una priorità: quel no alla guerra senza se e senza ma che in alcuni momenti ha saputo essere elemento di identità e mobilitazione straordinario. Sembra però che la coerenza con questa impostazione si stia sempre più affievolendo e in alcuni casi ribaltando. La macchina del consenso alle guerre ha visto infatti crescere gli elementi di trasversalità. Prima erano solo personalità della destra a sostenere gli interventi militari, adesso vi si arruolano anche uomini e donne della sinistra. Questa difficoltà era già emersa nel caso dell'aggressione militare alla Libia ed oggi si rivela ancora più lacerante rispetto alla possibile escalation in Siria.

e) Le iniziative contro la guerra che ci sono state in questi mesi, seppur minoritarie, sono riuscite a ostacolare l’arruolamento attivo di alcuni settori pacifisti nella logica della guerra umanitaria, hanno creato una polarizzazione che in qualche modo ha esercitato un punto di tenuta di fronte alla capito lazione politica, culturale del pacifismo e dell'internazionalismo. Ma la realtà sta incalzando tutte e tutti, ragione per cui è necessario affrontare una discussione nel merito dei problemi che la crisi in Siria ci porrà davanti nei prossimi mesi.

Nel merito della situazione in Siria

1. In tutte le guerre asimmetriche – che di fatto sono aggressioni unilaterali - le potenze occidentali hanno sempre lavorato per acutizzare le contraddizioni e i contrasti esistenti nei paesi aggrediti. La questione semmai è che l'ingerenza esterna da parte delle potenze della Nato e dei loro alleati ha agito sistematicamente per una deflagrazione violenta dei contrasti interni che consentisse poi l'intervento militare e servisse a legittimare la “guerra umanitaria”. La guerra mediatica ha bisogno sempre di sangue, orrori, cadaveri, stragi da gettare nella mischia e negli occhi dell'opinione pubblica. Di solito le notizie su questo vengono martellate nei primi venti giorni. Smentirle o dimostrarne la falsità o la maggiore o minore manipolazione, diventa poi difficile se non impossibile. Ciò significa che tutto viene inventato o manipolato? No. Ma un conflitto interno senza ingerenze esterne può trovare una soluzione negoziata, se le ingerenze esterne lavorano sistematicamente per impedirla si arriva sempre ai massacri e poi all'intervento militare “stabilizzatore”. Chiediamoci perchè tutti i piani e gli accordi di pace in questi venti anni sono stati fallire (ultimo in ordine di tempo quello di Kofi Annan sulla Siria). Il loro fallimento è funzionale al fatto che l'unico negoziato accettabile per le potenze occidentali è solo quello che prevede la resa o l'uscita di scena – anche violenta – della componente dissonante. Questo è quanto accaduto ed è facilmente verificabile da tutti.

2. Le soluzioni avanzate dalle sedi della concertazione internazionale (Consiglio di Sicurezza dell’Onu, organizzazioni regionali come Unione Africana, Lega Araba e Alba), non state capaci di opporsi alle politiche di “cambiamento di regimi” decise dagli Usa o dalla Ue. I leader dei regimi o dei governi rimossi, hanno cercato in più occasioni di arrivare a compromessi con gli Usa o la Nato. Per un verso è stata la loro perdizione, per un altro era una strada sbarrata già dall'inizio. Più cercavano un compromesso e maggiori diventavano le sanzioni adottate negli embarghi. Più si concretizzavano le condizioni per una ricomposizione dei contrasti interni e più esplodevano autobombe o omicidi mirati che riaprivano il conflitto. Se l'unica soluzione proposta diventa il suicidio politico o materiale di un leader o lo sgretolamento degli Stati, qualsiasi negoziato diventa irrilevante.

3. Dalla storia della Siria non sono rimovibili le modalità autoritarie con cui in varie tappe è stata affrontata la domanda di cambiamento di una parte della popolazione siriana. Non è possibile ritenere che la leadership siriana sia l’unica a aver gestito in modo autoritario le contraddizioni e le aspettative nel mondo arabo. Questa caratteristica è comune a tutti i paesi del Medio Oriente ed è una conseguenza dell'imposizione dello Stato di Israele nella regione e un retaggio del colonialismo. Ciò non giustifica la leadership siriana ma ci indica anche chiaramente come la sua sostituzione non corrisponderebbe affatto ad un avanzamento democratico o rivoluzionario per il popolo siriano. E’ sufficiente guardare quale tipo di leadership si è impossessata del potere una volta cacciati Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia, Gheddafi in Libia o chi sta imponendo il tallone di ferro su Barhein, Yemen, Oman. Sono paesi in cui c’è gente che ha lottato seriamente per maggiore democrazia e diritti sociali più avanzati, ma chi ne sta gestendo le aspettative sono le potenze della Nato, le petromonarchie del Golfo e le componenti più reazionarie dell’islam politico. Le componenti progressiste della Primavera Araba sono state – al momento – isolate e sconfitte da questa alleanza tra potenze occidentali e le varie correnti dell’islam politico.

4. Dentro la crisi in corso in Siria, la leadership di Bashar El Assad ha conosciuto due fasi: una prima in cui ha prevalso la consuetudine autoritaria, una seconda in cui è cresciuto il peso politico delle forze che spingono verso la democratizzazione. I risultati delle ultime elezioni legislative non sono irrilevanti: ha votato il 59% della popolazione nonostante la guerra civile in corso in diverse parti del paese (in Francia, in condizioni completamente diverse, alle ultime elezioni ha votato il 53%, in Grecia nelle elezioni più importanti degli ultimi decenni ha votato il 62%); per la prima volta si è rotto il monopolio politico del partito di governo, il Baath, e nuove forze sono entrate in Parlamento indicando questa rottura come obiettivo pubblico e dichiarato, si è creato cioè l'embrione di uno spazio politico reale per un processo di democratizzazione del paese; le forze che si oppongono alla leadership di Assad vedono prevalere le componenti armate e settarie, un dato che si evidenzia nei massacri e attentati che vengono acriticamente e sistematicamente addossati alle truppe siriane mentre più fonti rivelano che così non è. Le forze di opposizione con una visione progressista sono ridotte a ben poca cosa e non potranno che essere stritolate dall’escalation in corso; infine, ma non per importanza, l’ingerenza esterna è quella che sta facendo la differenza. Non è più un mistero per nessuno che le forze principali dell’opposizione ad Assad siano sostenute, armate e finanziate dall’alleanza tra le potenze della Nato (Turchia inclusa) e i petromonarchi di Arabia Saudita e Qatar. E’ un’alleanza già sperimentata in passato sia in Afghanistan che nei Balcani e nel Caucaso, un’alleanza che si è rotta alla fine degli anni Novanta e poi ricomposta dopo il discorso di Obama al Cairo che annunciava e auspicava gli sconvolgimenti nel mondo arabo. Queste forze e l’alleanza internazionale che li sostiene puntano apertamente ad una guerra civile permanente e diffusa per destabilizzare la Siria. I corridoi umanitari a ridosso del confine con Turchia e Libano e la No fly zone, saranno il primo passo per dotare di retrovie sicure i miliziani dell’Esercito Libero Siriano, spezzare i collegamenti tra la Siria e i suoi alleati in Libano (Hezbollah soprattutto), destabilizzare nuovamente il Libano e rompere il Fronte della Resistenza anti-israeliana. Se il logoramento e la destabilizzazione tramite la guerra civile permanente non dovesse dare i risultati desiderati, è prevedibile un aumento delle pressioni sulla Russia per arrivare ad un intervento militare diretto delle potenze riunite nella coalizione ad hoc dei “Friends of Syria” guidata dagli Usa ma con molti volonterosi partecipanti come la Francia di Hollande o l’Italia di Monti e del ministro Terzi.

5. In questi anni, nelle mobilitazioni in Italia contro la guerra o per la Palestina, abbiamo registrato ripetuti tentativi di gruppi e personaggi della vecchia e nuova destra di aderire e partecipare alle nostre manifestazioni. Un tentativo agevolato dall’abbassamento di molte difese immunitarie nella sinistra e nei movimenti sul piano dell’antifascismo ma anche dalla voragine politica lasciata aperta dall’arruolamento di molta parte della sinistra dentro la logica eurocentrista, dalla subalternità all’atlantismo e dalla complicità – o al massimo dall’equidistanza – tra diritti dei palestinesi e la politica di Israele. Se la sinistra e una parte dei movimenti hanno liberato le piazze dalla mobilitazione contro la guerra, dal sostegno alla resistenza palestinese e araba ed hanno smarrito per strada la loro identità, è diventato molto più facile l’affermazione di alcuni gruppi marginali della destra e della loro chiave di lettura esclusivamente geopolitica ed eurasiatica della crisi, dei conflitti e delle relazioni sociali intesi come lotta tra potenze. I gruppi della destra veicolano un antiamericanismo erede della sconfitta subita dal nazifascismo nella seconda guerra mondiale e completamente avulso da ogni capacità di lettura dell’egemonia imperialista sia nel suo versante statunitense che in quello europeo. Una chiave di lettura sciovinista e reazionaria che nulla a che vedere con una identità coerentemente anticapitalista ed internazionalista. Non solo. La paura di gran parte della sinistra di declinare la solidarietà con i palestinesi come antisionista e anticolonialista, ha regalato a questa destra e alla sua declinazione razzista e antiebraica uno spazio di iniziativa, cultura e solidarietà che storicamente ha sempre appartenuto alle forze progressiste. Se si cede su un punto decisivo si rischia di capitolare poi su tutto lo scenario mediorientale. Se questo è già visibile anche negli altri ambiti dell’agenda politica e sociale nel nostro paese, è difficile immaginare che non avvenga anche sul piano della mobilitazione contro la guerra e sui problemi internazionali. Sulla Palestina e nella mobilitazione contro la guerra abbiamo sempre respinto ogni tentativo di connivenza con i gruppi della destra. Intendiamo continuare a farlo ma vogliamo anche segnalare che – come sul piano sociale o giovanile – è l’assenza di iniziative e la debole identità della sinistra a facilitare il compito ai fascisti, non viceversa. E’ necessario dunque che alla coerenza con le posizioni e il ruolo svolto dalle nostre reti, associazioni, organizzazioni in questi venti anni e che ha visto schierarci sempre contro la guerra senza se e senza ma, si affianchi un recupero di identità e di contenuti.

f) La seconda difficoltà che abbiamo dovuto registrare è stata quella di una lettura superficiale del nesso tra la crisi che attanaglia le maggiori economie capitaliste del mondo (Stati Uniti ed Unione Europea soprattutto) e il ricorso alla guerra come strumento naturale della concertazione e della competizione tra le varie potenze e i loro interessi strategici. Una concertazione evidente quando si tratta di attaccare e disgregare gli stati deboli (Libia, Jugoslavia, Afghanistan) , una competizione quando si tratta di capitalizzare a proprio favore i risultati delle aggressioni militari (Georgia, Iraq. Libia). Se il colonialismo classico è andato all’assalto del Sud del mondo per accaparrarsi le risorse, il neocolonialismo è andato a caccia di forza lavoro a basso costo. Ma dentro la crisi di sistema che attanaglia le maggiori economie capitaliste del mondo, queste due dimensioni oggi si sono ricomposte nella loro sintesi più alta e aggressiva. Alcuni di noi la definiscono come imperialismo, altri come mondializzazione, comunque la si chiami oggi si è riaperta una competizione a tutto campo per accaparrarsi il controllo di risorse, forza lavoro, mercati e flussi finanziari. Questa conquista ha come obiettivo soprattutto l'economia dei paesi emergenti e quelli in via di sviluppo che molti ritengono poter essere l’unica via d’uscita e valvola di sfogo per la crisi di civilizzazione capitalistica che sta indebolendo Stati Uniti ed Unione Europea. In tale contesto, la guerra come strumento della politica e dell’economia è all’ordine del giorno. Se pensiamo di aver visto il massimo degli orrori in questi anni, rischiamo di doverci abituare a spettacoli ben peggiori. L’alleanza – non certo inedita – tra potenze occidentali, petromonarchie e movimenti islamici ha rimesso in discussione molti schemi, a conferma che il processo storico è in continua mutazione e che limitarsi a fotografare la realtà senza coglierne le tendenze è un errore che rischia di paralizzare l’analisi e l’azione politica.

I firmatari di questo documento declinano in modo diverso categorie come imperialismo, mondializzazione, militarismo, disarmo, antisionismo, anticapitalismo, pacifismo, solidarietà internazionale e internazionalismo, ma convergono su un denominatore comune sufficientemente chiaro nella lotta contro la guerra e le aggressioni militari.

Per queste ragioni condividiamo l'idea di promuovere:

•   Il percorso comune di riflessione che ha portato a questo documento

•   La costituzione di un patto di emergenza per essere pronti a scendere in piazza se e quando ci sarà una escalation della Nato e dei suoi alleati contro la Siria al quale chiediamo a tutti di partecipare

•   l’impegno ad un lavoro di informazione e controinformazione coordinato che contrasti colpo su colpo e con ogni mezzo a disposizione la manipolazione mediatica che spiana la strada a nuove “guerre umanitarie”, anche in Siria


Adesioni:

Rete Romana No War
Rete Disarmiamoli
Militant
Rete dei Comunisti
Partito dei Comunisti Italiani
Forum contro le guerre
Comitato Palestina, Bologna
Comitato Palestina nel Cuore, Roma
Gruppo d'Azione per la Palestina, Parma
Collettivo Autorganizzato Universitario, Napoli
Csa Vittoria, Milano
Alternativa
Federazione Giovani Comunisti
Forum Palestina
Associazione Oltre Confine
Associazione amici dei prigionieri palestinesi, Italia
Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella 
Brigate di Solidarietà e per la Pace-Brisop- Toscana
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia – onlus
Collettivo G. Tanas Tifiamo Rivolta
"Gruppo Siria: No ad un'altra Libia"
Federazione Napoletana del Partito della Rifondazione Comunista
Redazione ALBAinFormazione
SLAI COBAS per il sindacato di classe coordinamento nazionale
Federazione Giovani Comunisti Italiani Torino
Circolo culturale " Il minatore rosso "
Brindisi per Gaza
Coordinamento II Policlinico Napoli
'Ass.ne "La Casa Rossa" Milano
Associazione Ita-Nica circolo C.Fonseca Livorno
Rete Antifascista di Brescia
Comunisti Uniti
UDAP Unione Democratica Arabo palestinese
Partito dei CARC
Redazione di Marx21.it
Lotta e Unità 
Laboratorio Politico Iskra
Partito Comunista del Canton Ticino (Partito Svizzero del Lavoro)
Gioventù Comunista (GC) del Cantone Ticino (Svizzera)
Sezione PdCI "Domenico Di Paolo" di Campomarino (Cb)







http://www.diecifebbraio.info/2015/09/le-violenze-per-trieste-italiana/


LE VIOLENZE PER TRIESTE ITALIANA


Le violenze per Trieste italiana, ovvero la strategia della tensione a Trieste sotto il Governo militare alleato (1945-1954): i finanziamenti dell’Ufficio Zone di Confine alle organizzazioni paramilitari fasciste e xenofobe, le squadre di teppisti organizzate dagli ex dirigenti del CLN giuliano e futuri gladiatori, il ruolo della Osoppo, l’invio dall’Italia di armi per preparare la destabilizzazione della Zona A, il ruolo dei neofascisti negli scontri del 1953 prima del ritorno dell’amministrazione italiana in città...

SCARICA IN FORMATO PDFhttp://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2015/09/le-violenze-per-trieste-italiana.pdf







(deutsch / english / italiano)

Prepararsi a un futuro di guerra

1) Esercitazione NATO "Swift Response" (17/8–13/9/2015):
* Quei parà sulle nostre teste – di Manlio Dinucci
2) Esercitazione NATO "Trident Juncture" (21/10 – 6/11/2015):
* Botschaft an die Weltöffentlichkeit / Message to the World – GFP
* Costruiamo l’opposizione all’esercitazione Nato Trident Juncture: Assemblea a Napoli il 2/9 u.s.
3) Intervista al generale Fabio Mini
"Cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali... Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più."



=== 1 ===


Quei parà sulle nostre teste

L'arte della guerra. In arrivo la Swift Response, «la più grande esercitazione Nato di forze aviotrasportate dalla fine della guerra fredda»

di Manlio Dinucci
ilmanifesto.info 25 agosto 2015 / Global Research, August 28, 2015


Coperti dal blac­kout politico/mediatico, stanno scen­dendo in Europa nugoli di para­ca­du­ti­sti in pieno assetto di guerra. È la «Swift Response» (Rispo­sta rapida), «la più grande eser­ci­ta­zione Nato di forze avio­tra­spor­tate, circa 5mila uomini, dalla fine della guerra fredda». Si svolge dal 17 ago­sto al 13 set­tem­bre in Ita­lia, Ger­ma­nia, Bul­ga­ria e Roma­nia, con la par­te­ci­pa­zione anche di truppe sta­tu­ni­tensi, bri­tan­ni­che, fran­cesi, gre­che, olan­desi, polac­che, spa­gnole e por­to­ghesi. Natu­ral­mente, con­ferma un comu­ni­cato uffi­ciale, sotto «la dire­zione dello U.S. Army».

Per la «Rispo­sta rapida» lo U.S. Army impiega, per la prima volta in Europa dopo la guerra con­tro la Jugo­sla­via nel 1999, la 82a Divi­sione avio­tra­spor­tata, com­presa la 173a Bri­gata di stanza a Vicenza. Quella che adde­stra da aprile, in Ucraina, i bat­ta­glioni della Guar­dia nazio­nale di chiara com­po­si­zione neo­na­zi­sta, dipen­denti dal Mini­stero degli interni, e che ora, dopo una eser­ci­ta­zone a fuoco effet­tuata sem­pre in Ucraina il 6 ago­sto, ini­zia ad adde­strare anche le forze armate «rego­lari» di Kiev.

La «Swift Response» è stata pre­ce­duta in ago­sto dall’esercitazione bila­te­rale Usa/Lituania «Uhlan Fury», accom­pa­gnata da una ana­loga in Polo­nia, e dalla «Allied Spi­rit» svol­tasi in Ger­ma­nia, sem­pre sotto comando Usa, con la par­te­ci­pa­zione di truppe ita­liane, geor­giane e per­fino serbe. E, poco dopo la «Swift Response», si svol­gerà dal 3 otto­bre al 6 novem­bre una delle più grandi eser­ci­ta­zioni Nato, la «Tri­dent Junc­ture 2015», che vedrà impe­gnate soprat­tutto in Ita­lia, Spa­gna e Por­to­gallo forze armate di oltre 30 paesi alleati e part­ner, con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 140 aerei.

Quale sia lo scopo di que­ste eser­ci­ta­zioni Nato sotto comando Usa, che si svol­gono ormai senza inter­ru­zione in Europa, lo spiega il nuovo capo di stato mag­giore dello U.S. Army, il gene­rale Mark Mil­ley. Dopo aver defi­nito la Rus­sia «una minac­cia esi­sten­ziale poi­ché è l’unico paese al mondo con una capa­cità nucleare in grado di distrug­gere gli Stati uniti» (audi­zione al Senato, 21 luglio), nel suo discorso di inse­dia­mento (14 ago­sto) dichiara: «La guerra, l’atto di poli­tica con cui una parte tenta di imporre la sua volontà all’altra, si decide sul ter­reno dove vive la gente. Ed è sul ter­reno che l’esercito degli Stati uniti, il meglio armato e adde­strato del mondo, non deve mai fal­lire». Il «ter­reno» da cui ven­gono lan­ciate le ope­ra­zioni Usa/Nato verso Est e verso Sud, ancora una volta, è quello euro­peo. In senso non solo mili­tare, ma politico.

Emble­ma­tico il fatto che alla «Tri­dent Junc­ture 2015» par­te­cipa (nel silen­zio poli­tico gene­rale) l’Unione euro­pea in quanto tale. Non c’è da stu­pir­sene, dato che 22 dei 28 paesi della Ue sono mem­bri della Nato e l’art. 42 del Trat­tato sull’Unione euro­pea rico­no­sce il loro diritto a rea­liz­zare «la difesa comune tra­mite l’Organizzazione del Trat­tato del Nord Atlan­tico», che (sot­to­li­nea il pro­to­collo n. 10) «resta il fon­da­mento della difesa col­let­tiva della Ue».

La Nato — in cui il Coman­dante supremo alleato in Europa è sem­pre nomi­nato dal pre­si­dente degli Stati uniti e sono in mano agli Usa gli altri comandi chiave — serve a man­te­nere la Ue nella sfera d’influenza sta­tu­ni­tense. Se ne avvan­tag­giano le oli­gar­chie euro­pee, che in cam­bio della «fedeltà atlan­tica» dei loro paesi par­te­ci­pano alla spar­ti­zione di pro­fitti e aree di influenza con quelle sta­tu­ni­tensi. Men­tre i popoli euro­pei sono tra­sci­nati in una peri­co­losa e costosa nuova guerra fredda con­tro la Rus­sia e in situa­zioni cri­ti­che, come quella del dram­ma­tico esodo di pro­fu­ghi pro­vo­cato dalle guerre Usa/Nato in Libia e Siria.

Manlio Dinucci


=== 2 ===

AUF DEUTSCH:
Botschaft an die Weltöffentlichkeit (Bundeswehr führt größtes NATO-Manöver seit mehr als zehn Jahren – GFP 03.09.2015)
Die Bundeswehr übernimmt eine Führungsrolle bei dem für Ende September anberaumten NATO-Großmanöver "Trident Juncture". Die Leitung der Kriegsübung, an der sich mehr als 36.000 Soldaten beteiligen werden, liegt bei dem deutschen NATO-General Hans-Lothar Domröse; für die Koordination ist das im baden-württembergischen Ulm stationierte "Multinationale Kommando Operative Führung" der deutschen Streitkräfte maßgeblich verantwortlich. Geprobt wird eine Militärintervention in einem fiktiven Staat am Horn von Afrika unter Einsatz der vorrangig aus Bundeswehrangehörigen bestehenden "Speerspitze" der NATO-Eingreiftruppe. Dem Manöverszenario zufolge sehen sich die westlichen Einheiten dabei sowohl mit regulären Truppen als auch mit einer Guerillaarmee konfrontiert und haben außerdem mit "mangelnder Ernährungssicherheit", "Massenvertreibungen", "Cyberattacken", "chemischer Kriegsführung" und "Informationskrieg" zu kämpfen. Wie der Befehlshaber des "Multinationalen Kommandos Operative Führung", Generalleutnant Richard Roßmanith, erklärt, geht von "Trident Juncture" eine nicht zuletzt an Russland gerichtete "Botschaft" aus: "Jeder sollte sich gut überlegen, wie er mit uns umgeht" - schließlich sei die NATO das "stärkste Militärbündnis der Welt" und verfüge über einen Aktionsradius von "360 Grad"...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59189



Message to the World
 
2015/09/03
BERLIN/ULM/BRUNSSUM
 
(Own report) - The German Bundeswehr will play a leading role in "Operation Trident Juncture," a large scale NATO exercise, set for late September. German NATO-General Hans-Lothar Domröse will command the exercise involving more than 36,000 soldiers. The German Armed Forces' "Multinational Joint Headquarters" based in Ulm (Baden-Württemberg) will be the main coordinator. "Trident Juncture" will exercise a military intervention in a fictitious country at the Horn of Africa with NATO's "Spearhead" response force, comprised mainly of Bundeswehr soldiers. According to the training scenario, not only will western troops be confronting a regular army and guerilla fighters, but will also encounter "food insecurity," "massive population displacements," "cyber-attacks," "chemical warfare," and "information warfare." According to Lt. Gen. Richard Rossmanith, commander of the "Multinational Joint Headquarters Ulm," "Operation Trident Juncture" will not only send a "message" to Russia: "Everyone should consider carefully about how they deal with us" - because NATO is "the strongest military alliance in the world" with a "360 degree" orientation.
Flagship
The Bundeswehr announced its participation in NATO's "Trident Juncture" (TRJE 15) exercise, with around 3,000 soldiers, warships, fighter jets, and amphibious armored assault vehicles. Scheduled for September 28 to November 6, TRJE 15 will be the western alliance's largest military exercise in more than a decade, involving 36,000 personnel from NATO member countries and officially neutral "partner countries," such as Austria and Sweden. They will train an invasion of a fictitious country at the Horn of Africa. The maneuver will be commanded by German NATO-General Hans-Lothar Domröse, commander of the "Allied Joint Force Command" in Brunssum (Netherlands) and will take place in Portugal, Spain, Italy, in the Mediterranean and the Atlantic. This exercise seeks to demonstrate NATO's Response Force/NRF and its "Spearhead," the Very High Readiness Joint Task Force/VJTF, comprised mainly of Bundeswehr soldiers, as the Alliance's global "flagship" - also through a "deliberate broad exposure in the media."[1]
Threat
The fact that the TRJE 15 is not only aimed at preparing NATO forces for future wars of aggression, but to create also a credible threat, was confirmed by Lt. Gen. Richard Rossmanith. Rossmanith commands the German Armed Forces' Multinational Joint Headquarters Ulm, which was conceived to serve as the headquarters for both NATO and EU military missions, (german-foreign-policy.com reported [2]) and also coordinates the facility serving as the TRJE 15 headquarters in San Gregorio, near Saragossa Spain. As Rossmanith explained it, TRJE 15 "will demonstrate the broad spectrum of contingencies and NATO's effective capabilities." These include, according to the general, "high-intensity combat situations" which are "conceivable in many contexts," which is why "Russia is closely observing the preparations for Trident Juncture." According to Rossmanith, the West's military ambitions are not "only" about Russia. "NATO is also looking to the South with its exercise - to the Mediterranean, Africa and to the Middle East. The alliance has a 360 degree orientation." The most important TRJE 15 message is, therefore, "NATO is the strongest military alliance in the world…everybody should consider carefully about how they deal with us."[3]
Hybrid Scenario
The scenario for the exercise TRJE 15 complies with NATO's claim to that global power, formulated by Lt. Gen. Rossmanith. The scenario goes under the name "SOROTAN" and enacts a western military intervention in the fictitious "Cerasia" region at the Horn of Africa. According to NATO's "Joint Warfare Center's" script, developed in Norway's Stavanger, an armed conflict has erupted between the countries "Kamon" and "Lakuta." "In the Cerasia region, the quest for drinking water is enflaming the conflict. With desertification, dry aquifers, and riparian disputes, Kamon - the aggressor of the region - rejecting international mediation, invades southwards to seize key dams in Lakuta, which was caught ill-prepared to counter the invasion."[4] According to the Bundeswehr, NATO, therefore, "is called upon to help restore peace and order,"[5] however, western troops will find themselves confronted with a "highly complex threat environment," with methods of "hybrid warfare." "The SOROTAN scenario sees a standoff in East Cerasia causing a legion of problems, including growing regional instability, violation of territorial integrity and a deteriorating humanitarian situation. Additionally, enemy ships and aircraft, threatening freedom of navigation, pose a constant risk of an escalation of the conflict in the Red Sea." Therefore NATO units find themselves confronting a regular army and guerilla fighters, as well as "food insecurity, massive population displacements, cyber-attacks, chemical, and information warfare," according to the scenario.[6] According to NATO, these are "lessons" that should have been learned from military operations in Afghanistan and "contemporary conflicts" for example in Ukraine. (german-foreign-policy.com reported.[7])
Comprehensive Approach
The "fielding of merely military means" to counter these "hybrid threats, is not very promising," according to the Bundeswehr. "Therefore, already at the central TRJE 15 planning conference, organized by the Multinational Joint Headquarters Ulm, a "consolidation of civilian, humanitarian, judicial, administrative, political and economic approaches for resolving conflicts" was called for.[8] This so-called "comprehensive approach" has become an integral element of NATO's military doctrine. Accordingly, both confederations such as the EU or the African Union (AU) will be participating alongside emergency service organizations, such as the Red Cross. Arms manufacturers from fifteen NATO countries will also be on hand seeking inspiration from the maneuver, for developing new products. Referring to the "Joint Warfare Center," the Bundeswehr gives an idea of what this means, in the battle "against a sophisticated, hybrid threat" it ultimately boils down to the "coherency between lethal and non-lethal weapons."[9]
Permanent Warfare
NATO is obviously seeking to use the "Trident Juncture" exercise to prepare itself for a permanent state of global war. As one of its spokespersons recently declared, the challenge is to assure that, as an alliance, it is clear that "we're never fighting the last war, whether the last war was ten years ago or ten minutes ago." In this context, the German NATO General Hans-Lothar Domröse, who will command the "Trident Juncture" exercise, said "speed matters- you will see it in the air, at sea, and on land."[10]
[1] Vorgestellt: Trident Juncture 2015. www.bundeswehr.de 29.07.2015.
[2] See Alleinstellungsmerkmal and Der deutsche Weg zur EU-Armee (IV).
[3] Interview: Trident Juncture sendet klare Signale. www.bundeswehr.de 17.08.2015.
[4] Übungsszenario: Hybrider Krieg als Herausforderung. www.bundeswehr.de 21.07.2015.
[5] Interview: Trident Juncture sendet klare Signale. www.bundeswehr.de 17.08.2015.
[6] Übungsszenario: Hybrider Krieg als Herausforderung. www.bundeswehr.de 21.07.2015.
[7] See 21st Century Warfare.
[8] Konferenz in Ulm bereitet größte NATO-Übung seit Jahren vor. www.kommando.streitkraeftebasis.de 14.04.2015.
[9] Übungsszenario: Hybrider Krieg als Herausforderung. www.bundeswehr.de 21.07.2015.
[10] NATO Prepares to Throw Its Trident. natocouncil.ca 20.07.2015.


---

Vedi anche:

Costruire l’opposizione all’esercitazione Nato Trident Juncture 2015. Indetta riunione a Napoli il 2/9 (Contropiano, 29 Agosto 2015)
... si svolgerà in Italia, Spagna e Portogallo la «Trident Juncture 2015» (TJ15), definita dallo U.S. Army Europe «la più grande esercitazione Nato dalla caduta del Muro di Berlino». Con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 200 aerei da guerra di 33 paesi (28 Nato più 5 alleati), questa esercitazione servirà a testare la forza di rapido intervento  - Nato Response Force (NRF) - (circa 40mila effettivi) e soprattutto il suo corpo d’élite (5mila effettivi), la Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), enfaticamente soprannominata Spearhead (punta di lancia), in grado di essere schierata in meno di 48 ore per rispondere “alle sfide alla sicurezza sui nostri fianchi meridionale e orientale”...



Napoli. Costruiamo l’opposizione all’esercitazione Nato Trident Juncture

5 settembre 2015

La riunione indetta dal Comitato napoletano “Pace e disarmo” e dalla Rete Napoli No War, ha visto la partecipazione di molte realtà, napoletane e non, impegnate contro la guerra e la militarizzazione del territorio. A partire  dagli interventi introduttivi, tutti hanno evidenziato il significato aggressivo di questa esercitazione che non solo è la più

grande esercitazione militare del dopoguerra ma esplicita i tre fronti verso cui la NATO ritiene legittimo un suo dispiegamento “preventivo”.  Meglio e più di quelle che si stanno susseguendo ininterrottamente ai confini russi,  questa esercitazione, quindi, si presenta come la prova generale della terza guerra mondiale. Da qui la condivisa necessità di costruire una opposizione nazionale a questa esercitazione con iniziative diffuse ed una grande manifestazione a Napoli. Per consentire la massima partecipazione e l’adesione di realtà di base, comitati o singoli - a partire dai No Muos, No F35 o i comitati sardi contro l'occupazione e le attività militari – è stata condivisa la proposta fatta  dal Comitato napoletano “Pace e disarmo” e dalla Rete Napoli No War di lanciare un appello nazionale con cui chiamare ad una RIUNIONE  nazionale IN DATA DA DEFINIRSI ed alla manifestazione  da tenersi il 24 ottobre (la fase “dal vivo” dell’esercitazione partirà dal 21/10 per finire il 6/11) entrambe a Napoli.

Su questa scelta si è voluto precisare che alcune preoccupazioni di altri comitati riportate nella riunione, non trovano ragione d’essere. La scelta di Napoli come sede della riunione nazionale e della manifestazione è legata esclusivamente al fatto che il Jfc Naples è al comando della Trident Juncture 2015 e, insieme a Brunssum (Olanda), comanderà la forza di rapido intervento (Nato Response Force) della Nato.

Quasi tutti nei loro  interventi hanno sottolineato la necessità di legare il tema dell’esercitazione Nato e della guerra alla questione degli immigrati. Questo non solo perché la cosiddetta lotta contro i trafficanti di esseri umani viene ormai puntualmente usata come pretesto  per legittimare la militarizzazione del Mediterraneo e le nuove aggressioni  ai paesi da cui gli immigrati partono, come la Libia;  ma anche per denunciare l’ignobile trattamento riservato dai paesi europei, nessuno escluso, a chi scappa da guerre e fame di cui i governi occidentali sono i primi responsabili. Più di un intervento ha chiesto di esplicitare  la condanna  a quanti (v. la Lega) alimentano campagne razziste e xenofobe e rivendicare la libera circolazione per i migranti. Questo anche nella direzione di segnalare uno spartiacque con una destra che, come già è capitato, prova ad insinuarsi in queste battaglie esprimendo un antimperialismo nazionalista e razzista.

Quasi tutti gli intervenuti hanno sottolineato le difficoltà che si frappongono alla riuscita della mobilitazione. La questione della guerra è un tema poco sentito così come non è scontata l’avversione della gente comune alla presenza di apparati militari sul proprio territorio. Significativa è l’assenza di qualsiasi opposizione alla base Nato di Lago Patria percepita localmente da molti come un volano di occupazione e di crescita del territorio. Un’assenza che segnala, però, anche la disattenzione se non l’indifferenza per queste questioni anche da parte degli attivisti, il cosiddetto movimento, che non vedono nelle aggressioni ad altri paesi, nelle spese militari, nella militarizzazione dei territori, l’altra faccia della medaglia delle politiche di austerity portate avanti dal nostro governo contro cui, invece, sono impegnanti.

Per questo da più parti si è auspicato di evidenziare i costi di questa esercitazione per l’Italia e delle spese militari in generale che rappresentano risorse sottratte alle spese sociali. Esattamente come si è fatto per gli F35, questo elemento deve entrare nella campagna mediatica che va costruita contro l’esercitazione e sulle nostre ragioni.

Insieme alla  campagna, che deve sfruttare tutti i canali possibili, la manifestazione nazionale deve essere preparata da iniziative territoriali, a Napoli come altrove. Nei diversi interventi sono emerse alcune proposte:

-          Una iniziativa da fare a Lago Patria a ridosso della festa di S. Francesco  provando a coinvolgere l’aria di Giugliano

-          Un’assemblea cittadina che potrebbe vedere la presentazione del libro di Dinucci (saranno presi i contatti con l’autore per verificarne la disponibilità)

-          Una mobilitazione a favore degli immigrati e contro il razzismo

-          Presidi e volantinaggi. Il primo potrebbe essere davanti al Duomo di Napoli in occasione del concerto della banda della Nato

-          Un presidio sotto la RAI a ridosso della manifestazione

 

Poiché qualcuno, ricordando la dichiarazione di disponibilità del Sindaco de Magistris a deliberare per vietare l’ingresso nel porto di Napoli di navi e sommergibili a propulsione nucleare, ha  proposto di  risottoporre la questione al Sindaco,  più di un intervento ha sottolineato quanto fosse vecchia tale promessa  evidenziando che la sua riproposizione potrebbe legarsi alla già iniziata campagna elettorale. Si è concordato sul fatto che la sollecitazione al Sindaco a mantenere il suo impegno deve essere fatta pubblicamente (con modalità ancora da decidere) sfidandolo a prendere parola anche come Sindaco della città metropolitana in cui rientra la base di Lago Patria.

 

Dal momento che altre realtà in maniera del tutto autonoma hanno già messo in cantiere iniziative contro l’esercitazione Nato e la guerra (si veda, ad es., il campeggio antimilitarista del 9 – 10 – 11 Ottobre della “rete no basi né qui né altrove”  in Sardegna) si è concordato sull’assunzione di tutte le iniziative che si daranno sul piano nazionale nell’ambito di un percorso quanto più coordinato possibile che rafforzi l’opposizione alla Nato ed alla guerra.  Dai primi contatti sia i comitati sardi che quelli siciliani sembrano interessati. L’obiettivo espresso da tutti gli interventi è quello di creare un coordinamento di forze che, ben oltre l’appuntamento in occasione dell’esercitazione Nato,  prosegua nel lavoro di sensibilizzazione e nella mobilitazione contro le aggressioni militari ed al fianco dei popoli  colpiti. In questa direzione si proverà a contattare anche comitati di altri paesi a partire da quelli coinvolti nella Trident e che hanno già messo in cantiere iniziative contro la Nato (si vedano, ad es., gli antimilitaristi spagnoli di Zaragoza).

Uno degli interventi ha ribadito che sul tema della guerra è importante puntare alla crescita della mobilitazione dal basso e non contare o legittimare finte opposizioni sponsorizzate da pezzi istituzionali o antimilitaristi da campagna elettorale.

Proprio per l’enorme lavoro da fare per la riuscita della manifestazione e per preparare le iniziative proposte, si è convenuto di rivedersi giovedì 10. Nel frattempo oltre al report si farà girare una bozza di appello che sarà varato definitivamente nella prossima riunione.




=== 3 ===


Guerra, politica, verità. La visione di Fabio Mini

Redazione Contropiano, 5 Settembre 2015

Rimossa dall'orizzonte della quotidiana discussione teorica e politica – soltanto a sinistra, bisogna dire – la guerra è sempre al centro della riflessione, anche critica, dell'establishment di ogni paese. 

Ma, appunto, è diventata una discussione fuori dalla comunicazione mainstream, condotta soprattutto tra addetti ai lavori o tra studiosi di varia competenza, che non si accontentano di pensare all'interno del parco giochi infantile allestito sui giornali.

A sinistra, dicevamo, il bertinottismo ha compiuto uno dei suoi molti crimini, facendo passare la scelta del pacifismo come una scelta valoriale assoluta e quindi condannando a prescindere, in via preventiva, persino qualsiasi ragionamento mirante a fare laicamente i conti con ciò che nel cerchietto magico della “pace perpetua” proprio non riesce ad entrare.

La conseguenza? Trattare la guerra come un oggetto “irrazionale”, un'incomprensibile deviazione dall'ordinato scorrere del mondo, uno strappo da condannare senza rifletterci sopra. Il che, anche per chi come noi odia la guerra, rende imbecilli, più che pacifisti.

Proponiamo perciò questa intervista assai poco letta con il generale Fabio Mini, uno dei pochi militari pensanti di questo paese – almeno a livello divulgativo – che fa i conti con l'attualizzazione di vecchie formulazioni che si pensava immutabili. A cominciare dalla “guerra, continuazione della politica con altri mezzi”, che appartiene all'era della modernità politica, dunque al confine logico-politico-ideale-sociale dello “stato nazione”.

Perché nello spazio imperialista attuale, quantomeno nella dimensione minima dell'Unione Europea, il centro decisionale è irrimediabilmente spostato dalla sfera della politica a quello dell'amministrazione contabile-finanziaria (come ampiamente dimostrato dalla disgraziata esperienza greca). Ma se non c'è possibilità di alternativa “politica”, perché non c'è politica rinnovata che possa mettere in discussione trattati e/o assetti istituzionali, quale senso assume la guerra guerreggiata che in ogni angolo della Terra è tornata ad essere pratica quotidiana?

*****

Generale di Corpo d’Armata, capo di Stato Maggiore della NATO, capo del Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani e comandante della missione in Kosovo. 

Fabio Mini è uno dei più grandi conoscitori delle questioni geopolitiche e militari, su CS parla delle crisi attuali ma non solo. 

  1. Gen. Mini, nel suo libro “La guerra spiegata a…” afferma che non esistono guerre limitate, o meglio che una potenza che si impegna in una guerra limitata ne prepara in realtà una totale. Nell’attuale situazione di conflittualità diffusa, che sembra seguire una specie di linea di faglia che va dall’Ucraina allo Yemen passando per Siria e Irak, dobbiamo quindi aspettarci lo scoppio di un conflitto totale?

R1. La categoria delle guerre limitate, trattata dallo stesso Clausewitz, intendeva comprendere i conflitti dagli scopi limitati e quindi dalla limitazione degli strumenti e delle risorse da impiegare. Doveva essere il minimo per conseguire con la guerra degli scopi politici. E la guerra era una prosecuzione della politica. Erano comunque evidenti i rischi che il conflitto potesse degenerare ed ampliarsi sia in relazione alle reazioni dell’avversario sia in relazione agli appetiti bellici, che vengono sempre mangiando. Con un’accorta gestione delle alleanze e delle neutralità, un conflitto poteva essere limitato nella parte operativa e comunque avere un significato politico più ampio. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla e chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali. Quindi, a cominciare dalla guerra fredda che i paesi baltici hanno iniziato contro la Russia, dalla guerra “coperta” degli americani contro la stessa Russia, dai pretesti russi contro l’Ucraina, alla Siria, allo Yemen e agli altri conflitti cosiddetti minori o “a bassa intensità” tutto indica che non dobbiamo aspettare un altro conflitto totale: ci siamo già dentro fino al collo. Quello che succede in Asia con il Pivot strategico sul Pacifico è forse il segno più evidente che la prospettiva di una esplosione simile alla seconda guerra mondiale è più probabile in quel teatro. Non tanto perché si stiano spostando portaerei e missili (cosa che avviene), ma perché la preparazione di una guerra mondiale di quel tipo, anche con l’inevitabile scontro nucleare, è ciò che si sta preparando. Non è detto che avvenga in un tempo immediato, ma più la preparazione sarà lunga più le risorse andranno alle armi e più le menti asiatiche e occidentali si orienteranno in quel senso. E’ una tragedia annunciata, ma, del resto, abbiamo chiamato tale guerra condotta per oltre cinquant’anni “guerra fredda” o “il periodo di pace più lungo della storia moderna”. Dobbiamo quindi essere felici di questa “pace annunciata”. O no?

 Un’altra sua interessante considerazione riguarda il fatto che la guerra porti sempre ad una politica diversa da quella che l’ha preceduta e preparata, dobbiamo dunque prepararci ad un mondo diverso da quello che sta generando i conflitti attuali? E se sì, ha idea della direzione in cui ci stiamo muovendo?

R2. Direi di si, ma non credo che ci si possano fare molte illusioni sui risultati. Stiamo vivendo un periodo di transizione storica molto importante: il sistema globale voluto dai vincitori della seconda guerra mondiale sta scricchiolando, i blocchi sono scomparsi, molti regimi politici voluti dalle potenze coloniali sono in crisi, l’Africa si sta svegliando un giorno e regredendo il giorno successivo, le istanze economiche hanno il sopravvento su quelle politiche, sociali e militari, le periferie delle grandi potenze e i loro vassalli stanno cercando indifferentemente o maggiore autonomia o una servitù ancora più rigida. I conflitti attuali sono i segnali più evidenti di questo processo che porterà ad una nuova formulazione dei rapporti e degli equilibri internazionali. Tuttavia non è detto che questo passaggio porti al cosiddetto “nuovo ordine mondiale”. Le spinte al cambiamento e alla stabilità sono ancora flebili e rischiano di cronicizzare i conflitti e le situazioni, altrettanto pericolose, di post-conflitto instabile. Ci sono segnali di forte resistenza al cambiamento in senso multipolare da parte delle nazioni più ricche ed evolute come da parte di quelle più povere. Quelle più ricche si stanno di nuovo orientando verso una politica di potenza affidata soprattutto agli strumenti militari; quelle più povere si stanno orientando verso la rassegnazione alla schiavitù. Il cosiddetto “nuovo ordine” potrebbe essere quello vecchio del modello coloniale e le forze armate si stanno sempre di più orientando verso il sistema degli “eserciti di polizia” (constabulary forces). In molti paesi dell’Africa si parla da tempo di “nostalgia” del periodo coloniale o si accusano le potenze coloniali di averli abbandonati. La potenza e la schiavitù sono complementari. Un filosofo cinese diceva del suo popolo:“ ci sono stati secoli in cui il desiderio di essere schiavo è stato appagato e altri no.”

 Venendo alla situazione italiana, se è vero che una comunità che ospiti anche una sola base militare straniera è da considerarsi “sotto occupazione”, la presenza di basi USA sul territorio nazionale ci rende una nazione sotto occupazione o comunque non libera?

R3. I regolamenti dell’Aja del 1907, stabiliscono i criteri dell’occupazione militare non tanto sulla presenza militare in un paese ma nella sua funzione. Se una presenza militare anche minuscola si assume la responsabilità della sicurezza del territorio (non importa di quale estensione) in cui è stanziata, si ha l’occupazione “de facto”. Le basi degli Usa non garantiscono la nostra sicurezza, ma la loro. Non servono i nostri interessi ma i loro e quindi non sono legalmente “occupanti”. Il fatto che si dichiarino basi Nato o facciano riferimento agli accordi di Parigi del 1963 è una foglia di fico che nasconde la realtà: alcune basi italiane sono aperte anche ai paesi Nato nell’ambito degli accordi dell’Alleanza, ma le basi americane più grandi sono precedenti agli accordi Nato e sono state concesse con accordi bilaterali in un periodo in cui l’Italia non aveva alcuna forza di reclamare autonomia; anzi andava cercando qualcuno da servire in America e in Europa. In queste basi decidono gli americani (e non la Nato) a chi consentirne l’uso temporaneo. Si ha così un doppio paradosso: molti italiani anche di alto lignaggio politico e militare tentano di giustificare le basi con la funzione di sicurezza che svolgono a nostro favore. E avallano la condizione di occupazione militare. Gli americani sono più espliciti, ma non meno paradossali: ogni anno il Pentagono invia una relazione al Congresso nella quale indica e traduce in termini monetari il contributo dei paesi ospitanti delle basi “agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti”. Dovrebbe essere un accordo fra pari, ma si avalla la nostra condizione di tributari.

  1. Nel suo libro ha mostrato come la guerra si sia evoluta nel corso dei secoli, adesso siamo giunti a teorizzare una guerra di quinta generazione o guerra senza limiti, una guerra cioè che non deve essere percepita come tale e che coinvolge anche mezzi finanziari. Possiamo dire di essere nel corso di una guerra di questo tipo?

R4. Senza dubbio. Ma anche questa quinta generazione sta trasformandosi nella sesta: la guerra per bande. Non essendoci più soltanto fini di sicurezza e non soltanto attori statuali, siamo nelle mani di “bande” con fini propri e senza alcuno scrupolo se non quello verso la propria prosperità a danno di quella altrui. Le bande si muovono senza limiti di confini e di mezzi, senza rispetto, solo all’insegna del profitto. Tendono ad eludere il diritto internazionale e la legalità, tendono a piegare gli stessi Stati ai loro interessi e a controllarne la politica e le armi. Oggi il problema degli eserciti e degli apparati di polizia non è quello di capire perché lavorano, ma per chi. Se lo Stato, per definizione, deve (o dovrebbe) pensare al bene pubblico, la banda pensa soltanto al bene privato, non statale e spesso contro lo stato. Quando nel 2004 chiesero ad un colonnello americano che tipo di guerra stesse combattendo in Iraq, quello rispose candidamente: “è una guerra per bande e noi siamo la banda più grossa”. Anche lui aveva capito che non stava lavorando per uno stato o un bene pubblico ma per qualcosa che esulava dal suo stesso “status” di difensore pubblico: era un mercenario, come tanti altri, al servizio di uno che pagava. E per questo si riteneva un “professionista” delle armi. La finanza è l’unico sistema veramente globale ed istantaneo e si avvale di mezzi leciti e illeciti: esattamente come fa ogni moderna banda di criminali. La struttura di comando delle bande ha due modelli di riferimento: il modello paternalistico e verticale e il modello comiziale e orizzontale. Quest’ultimo sta prevalendo sul primo anche se a certi livelli della gerarchia si ha comunque uno più forte degli altri. Il modello orizzontale è anche quello che meglio riesce a mascherare le guerre intestine e quelle esterne. Ci sono interessi contingenti che spesso portano gli avversari dalla stessa parte.

  1. Dal suo libro emerge anche il concetto di guerra come “strumento d’imposizione”, cioè uno strumento per obbligare una determinata parte a compiere azioni contro la propria volontà, nel recente caso della Grecia in cui la volontà popolare ha dovuto cedere alle richieste di segno opposto dell’Europa, possiamo parlare di un atto di guerra?

 R5. Anche in questo caso dobbiamo riferirci alla guerra senza limiti e, purtroppo, a quella per bande. La Grecia ha subito un’imposizione che piegando la volontà del governo e della stessa popolazione è senz’altro un atto di guerra. Ma il vero scandalo della Grecia non è nell’imposizione subita, ma nell’apparente lassismo in cui è stata lasciata proprio dagli organismi internazionali che ne avrebbero dovuto controllare lo stato finanziario. La guerra finanziaria alla Grecia è la guerra per bande quasi perfetta. Solo qualche sprovveduto può pensare veramente che la Grecia abbia alterato i propri bilanci senza che né Unione europea, né Banca Centrale Europea, né Fondo Monetario, né Federal Reserve, né Banca Mondiale, né le prosperose e saccenti agenzie di rating se ne accorgessero. E’ molto più realistico pensare che al momento del passaggio all’Euro gli interessi politici della stessa Europa prevalessero su quelli finanziari e che gli interessi finanziari fossero quelli di far accumulare il massimo dei debiti a tutti i paesi membri più fragili. Abbiamo la memoria molto corta, ma ben prima del 2001 il dibattito sull’euro escludeva che molti paesi della periferia europea e quelli di futuro accesso (Europa settentrionale e orientale) potessero rispettare i parametri imposti. Non è un caso se proprio i paesi della periferia siano stati prima indotti a indebitarsi e poi a fallire, o ad essere “salvati” dalla padella per essere gettati nella brace. Irlanda, Gran Bretagna, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia sono stati gli esempi più evidenti di una manovra che non è stata né condotta né favorita dagli Stati, ma gestita da istituzioni che si dicono superstatali e comunque sono improntate al sistema privatistico degli interessi del cosiddetto “mercato”.

 La “narrativa”, la fiction, gli spin doctors, giocano un ruolo fondamentale nella guerra di nuova generazione, può indicarci qualche caso concreto in cui ultimamente ha visto questi elementi in azione?

R6. In ambito militare ogni operazione è aperta, condotta e accompagnata dalla guerra dell’informazione e da quella psicologica. Dal 2000 in poi in Afghanistan e Iraq furono disseminate dall’alto migliaia di manifestini e radioline con le quali la coalizione tentava di dare la propria versione del conflitto. L’aereo C-130 destinato alla guerra d’informazione, chiamato “Commando Solo”, continua a sorvolare paesi come Iran, Iraq, Afghanistan, Yemen e Siria trasmettendo giornali radio e telegiornali dando la propria versione dei fatti. L’efficacia di tali mezzi tecnologici è minata dal dilettantismo. I primi volantini in Afghanistan e Iraq erano incomprensibili sia nella forma sia nella lingua. Le radioline furono acquistate in fretta dopo aver notato che gli afghani erano immuni alle trasmissioni radio visto che non avevano radio. E quando furono disseminate le radio gli americani si accorsero che oltre il 90% degli afghani non capiva la lingua usata. In Kosovo ho dovuto raddrizzare una campagna d’informazione, condotta tramite materiale edito da Kfor, dopo aver constatato che una rivista non veniva distribuita ai kosovari ma nelle caserme. In pratica si faceva guerra psicologica sui nostri stessi soldati. Più professionali, ma meno centrate sugli scopi militari, sono le trasmissioni radio della VOA (Voce dell’America) che parla in molte lingue e perfino dialetti centro asiatici. La Russia è entrata nel mondo della moderna guerra dell’informazione con nuove reti di stampa, internet, radio e televisione. I cinesi hanno interi canali dedicati all’informazione in varie lingue. Il programma Confucio, col quale s’insegna la lingua cinese all’estero, è ormai presente in tutto il mondo. Gli spin doctors del Pentagono avevano già immaginato nel 2011 come gestire la caduta di Bashar Assad in Siria e uno studio cinematografico ne stava realizzando il film. Il progetto è stato accantonato, ma il Pentagono spera che il film possa uscire nel 2016 (a Bashar Assad piacendo). Lo scopo di queste iniziative è difficilissimo perché la narrativa (la versione dei fatti) che si vuole fornire dovrebbe contrastare quella dell’avversario e della gente del luogo. In realtà nella comunicazione il messaggio più accettato è quello che conferma i fatti o le percezioni e non quello che le contrasta. La narrativa dell’avversario pur non avvalendosi di mezzi sofisticati e basandosi sulla trasmissione orale è molto più efficace anche perché racconta quello che si vede o ciò che qualcuno appartenente alla stessa comunità dice di aver visto. In Iraq, Afghanistan e altrove non è stato infrequente il grido di allarme dei vertici delle coalizioni occidentali: “stiamo perdendo la guerra della narrativa”. Fuori dal contesto militare, la stessa crisi greca è un esempio attuale di guerra dell’informazione accomunata alla guerra delle percezioni e alle operazioni d’influenza. In Grecia, come altrove, l’eccesso di debito pubblico e internazionale di uno stato non è di per sé un fattore fondamentale d’instabilità né d’insolvenza. E’ invece importante la credibilità che può ampliare a dismisura il credito. Per questo la guerra alla Grecia si è sviluppata sul piano della guerra psicologica con un’azione forte di discredito e di delegittimazione di tutto il paese. La delegittimazione che si è vista in maniera palese nel caso greco, non è avvenuta per altri paesi in via di fallimento, come il nostro; anzi, a dispetto dei dati oggettivi (debito, crescita, disoccupazione, investimenti), ci sono paesi che beneficiano di crediti oltre ogni ragionevole misura. Ogni volta che in Italia c’è un’asta di titoli pubblici, i media plaudono al “collocamento” di tutto il pacchetto sottacendo che in realtà si tratta di un aumento di debito. Anche il fatto che il debito di tale tipo sia “interno” viene manipolato e sottovalutato spacciandolo per una cosa senza valore. Come se il debito interno (quello nei confronti degli italiani che hanno acquistato titoli pubblici) non dovesse mai essere restituito (e di fatto, così è), quasi che il rastrellamento costante del risparmio privato da parte dello stato non penalizzasse la disponibilità di denaro destinata agli investimenti produttivi. Oltre alle bande finanziarie internazionali, in Grecia, come in Italia e altrove, ci sono bande privatistiche interne che monopolizzano la finanza e la comunicazione. In Grecia, come altrove, queste bande hanno sperato e tuttora sperano in un ribaltone politico che le renda più potenti. E’ già successo, anche in maniera violenta.

  1. Pochi anni fa il fisico Emilio dei Giudice e il giornalista Maurizio Torrealta parlarono di armi nucleari estremamente miniaturizzate, di armi di nuova generazione che sarebbero state già impiegate sui campi di battaglia in Irak e in medio Oriente, e il cui uso sarebbe stato nascosto dietro la radioattività dei proiettili all’uranio impoverito. Crede che esistano elementi per ritenere fondata questa affermazione?

 R7 Non mi risultano casi concreti, ma ho sentito le stesse storie in altri casi. Una caratteristica delle guerre moderne è anche la perdita di consapevolezza sulla verità. Di certo c’è che la moderna tecnologia, anche fuori dal campo sperimentale consente questo ed altro. Se tali armi sono state veramente impiegate, si tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle vittime. Purtroppo, ogni violazione (anche del buon senso, come nel caso della tortura) è così frequente che non rappresenta più un ostacolo. C’è da sperare che lo abbiano fatto gli americani: almeno tra trent’anni i segreti di stato saranno derubricati e ci diranno la verità. Se le avessero usate i russi o altri paesi, come il nostro, non lo sapremmo mai. Dovremmo aspettare che diventasse un segreto di Pulcinella.

 CS è un sito che si occupa molto delle problematiche dell’informazione ed è noto che la prima vittima della guerra è la verità, può dare ai nostri lettori un consiglio per difendersi e cercare di distinguere tra realtà e manipolazione?

R8. Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più.




(francais / italiano)


TRA I RESPONSABILI DELL'ESODO VERSO L'EUROPA

L'ex Ministro degli Esteri francese Laurent Fabius è stato denunciato da un gruppo di 14 cittadini siriani per le sue responsabilità nell'attizzare la guerra civile in Siria e, di conseguenza, per avere causato l'esodo di massa dei loro connazionali. In prima istanza il Tribunale ha riconosciuto le ragioni di merito ma ha ritenuto non siano perseguibili penalmente; lunedì 7 settembre p.v. si tiene l'udienza di appello, dove i denuncianti sosterranno che il sostegno al terrorismo prestato da Fabius va punito per il grave danno procurato non solo ai siriani ma agli stessi francesi...


From: EditionsDémocrite 
Sent: Thursday, September 3, 2015 7:07 PM
 
 

 

 

Communiqué de Presse                         Diffusion immédiate

 

Procès en appel des civils syriens contre Fabius

Attiser la guerre civile, la politique de la France ?

 

De même que les récentes déclarations de François Hollande, les propos tenus par Laurent Fabius depuis sa prise de fonction au ministère des affaires étrangères ont eu pour effet, sur le terrain en Syrie, de relancer l’agression dont les civils de toutes religions et confessions sont les premières victimes.

 

Quatorze civils syriens demandent à l’ État français la réparation du dommage dont elles souffrent à cause des fautes graves commises par l’agent Fabius à l’occasion de l’exercice de ses fonctions.

 

Le Tribunal Administratif de Paris, le 19 décembre 2014, tout en reconnaissant que les déclarations et les prises de position du ministre ont « attisé la guerre civile en Syrie et encouragé la lutte armée contre le pouvoir en place », a pu néanmoins rejeter les requêtes au motif que ces déclarations et prises de position « se rattachent à la conduite de la politique extérieure de la France ».

 

La question qui se pose en appel est de savoir si l’on peut rejeter sur l’ État la responsabilité d’agissements qui consistent à soutenir le terrorisme, si l’on peut imputer à la France pareille politique, alors que la population française en est aussi bien la victime.

 

 

Audience publique

Lundi 7 Septembre 2015 à 10h00

Cour administrative d’appel de Paris

68 rue François Miron - Paris IVème

 

Ferney, 26 août 2015

BARDECHE – CHAMY – JUNOD - – STENNLER – VIGUIER –YON

 

RAPPEL des déclarations du ministre

29 mai 2012, la France interviendra contre le régime syrien.

17 août 2012, Bachar El Assad ne méritait pas d’être sur terre.

14 décembre 2012, le front Al-Nosra fait du bon boulot.

13 mars 2013, France et Grande Bretagne vont livrer des armes aux rebelles.

22 août 2013, appel à réaction de force, sous prétexte du coup monté de l’attaque chimique.







http://it.sputniknews.com/mondo/20150504/339043.html

Il patto sovietico-tedesco di non aggressione: chi aiutò i nazisti?

Zinoviev Club, Oleg Nazarov – 4.5.2015


Piu di 75 anni fa, il 23 agosto 1939, venne firmato uno dei più famosi documenti diplomatici nella storia dell'umanità, il Patto sovietico-tedesco di non aggressione.

Ignorando il nome ufficiale del documento, i politici e gli storici occidentali lo chiamano "il Patto Molotov-Ribbentrop". Hanno accusato l'Unione Sovietica ed oggi se la prendono con la Russia, sostenendo che stipulando un accordo con la Germania nazista, il Cremlino ha reso il nostro Paese complice dei nazisti nello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Questa tesi è una bugia sfacciata e cinica, ideata per scaricare la responsabilità della Seconda Guerra Mondiale da sé stessi su di noi, da una testa malata ad una sana.

Chi ha liberato Hitler dalle "catene di Versailles"

In realtà il nazismo tedesco è un sottoprodotto della civiltà occidentale, così come i complici di Adolf Hitler nello scoppio della "Seconda Guerra Mondiale" erano le cosiddette "democrazie occidentali", come provato da una valanga di fatti ben determinati. Non è un caso che l'Occidente cerchi di evitarli, come il diavolo con l'acqua santa.

Le prime tracce del cammino verso una nuova guerra sono state lasciate dagli inglesi e francesi subito dopo che i nazisti salirono al potere in Germania. In meno di sei mesi, il 15 luglio 1933 a Roma, la Gran Bretagna, la Francia, l'Italia fascista e la Germania nazista firmarono il "Patto a quattro." Se i leader della Repubblica di Weimar Londra e Parigi li tenevano al "guinzaglio", la Germania di Hitler è subito entrata nel circolo delle grandi potenze ed hanno iniziato a parlare con essa da pari a pari!
Le democrazie occidentali non avevano trascurato il fatto che Hitler aveva da molto tempo sollecitato i tedeschi a marciare verso Est per conquistare le risorse e lo "spazio vitale." Con la firma del "Patto a quattro", il fuhrer del Terzo Reich non solo ottenne un grande successo diplomatico, ma guadagnò il "Drang nach Osten" ("Spinta verso Est") verso "le vaste distese della Russia", piano coerente con gli interessi di Londra e Parigi. Proprio loro spinsero i nazisti in questa direzione! È interessante notare che, demonizzando il "Patto Molotov-Ribbentrop", l'Occidente mette in secondo piano il "Patto a quattro", che ha dato il via alla politica di "appeasement" ("accomodamento dell'aggressore") a scapito dei territori e degli interessi di Paesi terzi.
E' finito nell'oblio l'accordo navale anglo-tedesco — estremamente vantaggioso per Berlino- firmato il 18 giugno 1935 dai ministri degli Esteri di Gran Bretagna e Germania Samuel Choir e Joachim von Ribbentrop con uno scambio di note. Questa firma concesse alla Germania l'opportunità di creare una flotta tedesca pari al 35% delle forze navali del Regno Unito e dei Paesi del Commonwealth britannico e il diritto di intraprendere un ambizioso programma di costruzione di sottomarini, sconfessando di fatto il Trattato di Versailles.

Il successivo colpo alle "catene di Versailles" Hitler lo inflisse nel 1936, occupando militarmente la Renania, lasciata dalla Germania nel 1919. Londra e Parigi non reagirono. Dopodichè con la Guerra Civile Spagnola, in cui la Germania e l'Italia diedero il loro sostegno al generale Franco, la Spagna divenne il terreno dove i "superuomini" tedeschi acquisirono una preziosa esperienza di combattimento.

Patti di Monaco

Il picco della politica di "appeasement" fu l'accordo firmato nel settembre 1938 a Monaco di Baviera tra Hitler, il duce Benito Mussolini e i primi ministri di Gran Bretagna e Francia Neville Chamberlain ed Edouard Daladier. La regione dei Sudeti che apparteneva alla Cecoslovacchia venne strappata via e trasferita con tutti i beni materiali di valore al Terzo Reich. Pezzi di Cecoslovacchia se li sono presi l'Ungheria e la Polonia, che Winston Churchill paragonava ad una iena.
Chamberlain e Daladier non si sono preoccupati di aver fatto spartire a dittatori sanguinari il territorio di una democratica e pacifica Cecoslovacchia, in assenza dei capi di Stato ed in violazione della Costituzione della Repubblica Cecoslovacca. Li rendeva felici che l'Unione Sovietica non potesse venire in soccorso della Cecoslovacchia, sebbene ci avesse provato, e che in campo internazionale Mosca rimase isolata.
Giunto euforico, Chamberlain si era "dimenticato" che prima di partire per Monaco di Baviera aveva promesso alle autorità della Cecoslovacchia di tenere conto dei loro interessi. In realtà ha ricordato né più né meno come avevano ricordato le loro promesse al presidente ucraino Viktor Yanukovych i ministri degli Esteri di Germania, Francia e Polonia nel mese di febbraio 2014. Dopodichè Chamberlain non si dimenticò il 30 settembre di firmare con Hitler un patto di non aggressione. Secondo lo storico Oleg Rzheshevsky, come l'accordo analogo tra Parigi e Berlino del 6 dicembre 1938, entrambi "erano essenzialmente dei patti di non aggressione."
Dopo le grandi potenze, hanno firmato con la Germania patti di non aggressione anche Danimarca, Lituania, Lettonia ed Estonia. È interessante notare che gli stessi paesi baltici non rinnegano di aver firmato patti di non belligeranza con la Germania nazista.

Nel settembre 2013 i patti di Monaco e l'accordo "Chamberlain-Hitler" hanno compiuto 75 anni. I motivi per cui la ricorrenza è stata ignorata dall'Occidente e dalla sua "quinta colonna" in Russia sono chiari. Più difficile da capire, perché l'evento più determinante nel cammino verso la Seconda Guerra Mondiale sia stato ignorato da quasi tutti i media nazionali… Ai colleghi smemorati ricordo che contro la Russia si conduce una guerra psicologica di massa e implacabile e continuare a fare concessioni all'Occidente nel terreno storico del fronte dell'informazione è più che un errore.

La trave e il fuscello

Per tutti gli anni '30, fino al 23 agosto 1939, il regime stalinista dell'Unione Sovietica insistentemente e costantemente aveva perseguito la politica di "sicurezza collettiva". Non è né per colpa né per disgrazia di Mosca che gli sforzi della politica di "appeasement" l'avevano costretta a rinunciarvi. La svolta in politica estera del Cremlino era stata preceduta dai negoziati trilaterali delle delegazioni militari di Gran Bretagna, Francia ed Urss a Mosca. La responsabilità del loro fallimento ricade sugli inglesi e i polacchi. I primi, con l'obiettivo di evitare il ravvicinamento tra l'Unione Sovietica e la Germania, hanno negoziato solo per il bene di condurre negoziati. I secondi, sperando in vano in Parigi e Londra, si erano categoricamente rifiutati di accettare aiuti militari dall'Unione Sovietica, nonostante l'ascia tedesca era già stata puntata sul loro Paese.
E' importante capire che nell'agosto 1939, il discorso non riguardava la spartizione della Polonia, dell'Europa o del mondo tra l'Urss e la Germania, ma piuttosto dove dopo l'inevitabile sconfitta della Polonia Hitler avesse mosso le sue orde: ad Est o ad Ovest. Si può avere qualsiasi giudizio su Stalin e sulla sua politica interna, ma non si può non ammettere che sia stato spinto in un angolo ed abbia fatto la scelta giusta. Inoltre ha battuto gli arroganti e troppo sicuri di sé inglesi, vincitori più volte di battaglie diplomatiche. Concludendo l'accordo con la Germania, Stalin ha fatto assaggiare a Parigi e Londra il frutto amaro della politica di "appeasement", ha guadagnato tempo per prepararsi alla resa dei conti finale con la Germania ed ha evitato al Paese la minaccia di una guerra su due fronti: era appena scoppiato il conflitto di confine sovietico-giapponese ed era in corso la battaglia di Khalkhin Gol.

"Il patto sovietico- tedesco non era un'alleanza, è stato solo un reciproco scambio di promesse di non aggressione e neutralità… In Occidente è stato fatto clamore sui crimini della Russia sovietica, che ha firmato un patto con la potenza fascista. E' stato difficile capire al contrario le accuse dei politici britannici e francesi che attivamente avevano contribuito alla divisione della Cecoslovacchia ed avevano anche cercato un nuovo accordo con la Germania a spese della Polonia,"- osserva lo storico britannico Alan John Percivale Taylor.

Tuttavia tali accuse da persone che vedono il fuscello nell'occhio di altri e non scorgono la trave nel proprio risuonano ancora oggi.
Il 31 agosto 1939 si svolse la sessione straordinaria del Soviet Supremo dell'Urss. Nel suo intervento il presidente dei Commissari del Popolo dell'Urss e Commissario del Popolo per gli Affari Esteri Vyacheslav Molotov disse:

"Il patto di non aggressione tra la Germania e l'URSS è un punto di svolta nella storia d'Europa, e non solo in Europa… Questo accordo, così come i naufragati negoziati anglo-franco-sovietici,  dimostrano che è ormai impossibile affrontare le questioni importanti in Europa orientale senza il coinvolgimento attivo dell'Unione Sovietica e che qualsiasi tentativo di aggirare l'Unione Sovietica e di risolvere tali questioni dietro l'Unione Sovietica è destinato al fallimento."

L'Urss, emarginata dall'Occidente nella soluzione della crisi cecoslovacca, un anno dopo tornò sulla scena mondiale, diventando uno dei principali protagonisti. Fu un successo sensazionale della diplomazia sovietica. C'è ragione di pensare che non valga la pena ricordare il 23 agosto nel calendario storico della Russia. Naturalmente, questa idea provocherà un acceso dibattito. Indiscutibilmente si tratta di altro: 75 anni fa le autorità sovietiche non hanno fatto nulla di cui dovremmo vergognarci o pentirci.

 
Oleg Nazarov, Dottore in Scienze Storiche e membro del Club Zinoviev per l'agenzia russa di stampa internazionale "Rossiya Segodnya"






La prossima volta che vi comprate una maglietta


Miniature dal mondo. A Venezia il mecenatismo alla Benetton”. Troneggia così sulla Home Page di Repubblica l’ennesima marchetta dedicata alle iniziative filantropiche di questa famiglia di “imprenditori illuminati”, già padroni di autostrade e aeroporti (ad essi regalati, anzi “privatizzati”, dal PD) e, quindi, padroni del Gruppo editoriale Espresso-La Repubblica. Della mostra e del servilismo dei Maître à penser del PD verso i Benetton non credo valga la pena di parlarne, non così di un’altra notizia riguardante (passata quasi sotto silenzio): Benetton è l’unico dei grandi marchi a non aver ancora versato nemmeno un dollaro al fondo ONU per risarcire le vittime del Rana Plaza. Rana Plaza? Chi se lo ricorda più? Nell’aprile 2013 morirono 1.100 operai, seppelliti nel crollo di una fabbrica. Una fabbrica, come tante, fatiscente posta nel Bangla Desh. Dove, per un dollaro l’ora realizzavano magliette per conto dei Benetton. Ricordatelo la prossima volta che vi comprate una maglietta, o Repubblica.

Francesco Santoianni

www.francescosantoianni.it

28 Agosto, 2015

http://pecorarossa.tumblr.com/post/127800141934/la-prossima-volta-che-vi-comprate-una-maglietta



(deutsch / italiano / english)

Farewell to Catalonia

1) Ein inoffizielles Plebiszit / An Unofficial Plebiscite (GFP 7.8.2015)
... the EU's currency, the Euro, can, in the long run, only be maintained within a uniform economic area. This would exclude Spain, but include a seceded Catalonia...
2) Risoluzione della Conferenza Nazionale del PCPC sulla questione nazionale (27/09/2014)
... Il Partito Comunista del Popolo di Catalogna chiama tutti i lavoratori e lavoratrici della Catalogna a non lasciarsi ingannare dal nazionalismo spagnolo e catalano...


Auch zu lesen:

Los von Madrid (Berliner Experten plädieren für Abspaltung Kataloniens – GFP 30.10.2014)
Kurz vor der unverbindlichen Abstimmung über die Abspaltung Kataloniens von Spanien am 9. November [2014] fordern Berliner Außenpolitik-Spezialisten Madrid zur Zustimmung zur Sezession auf. Die Loslösung Kataloniens, einer der wohlhabendsten Regionen des Landes, werde zwar zu gravierenden Problemen vor allem für die ärmeren Gegenden Spaniens führen und neue Spannungen im Sezessionsgebiet selbst auslösen, heißt es in einem aktuellen Papier aus der Deutschen Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP). Dennoch solle die Abtrennung nicht verhindert werden. Der katalanische Separatismus, über Jahrzehnte gewachsen, erstarkt vor allem, seit die Finanzkrise im Jahr 2008 Spanien erfasst hat; gefördert wird er von dem Gedanken, den relativen Reichtum der Region nicht mehr für die Umverteilung an ärmere Gebiete Spaniens zur Verfügung stellen zu wollen. Auf kulturpolitischem Wege hat auch Deutschland den katalanischen Separatismus unterstützt. Ein Mitglied im Wissenschaftlichen Beirat des Wirtschaftsministeriums urteilt, die katalanische Sezession stärke "den wirtschaftspolitischen Wettbewerb" und sei deshalb zu befürworten...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58980


=== 1 ===

Ein inoffizielles Plebiszit (Wahlen in Katalonien als Sezessions-Referendum – GFP 07.08.2015)
Mit gemischten Gefühlen reagiert das deutsche Establishment auf die Ankündigung eines inoffiziellen Plebiszits zur Abspaltung Kataloniens von Spanien. Der katalanische Regierungschef Artur Mas hat die Regionalwahl am 27. September zum De-facto-Referendum über die Sezession des Gebiets erklärt. Erhält seine Einheitsliste die absolute Mehrheit, will er binnen acht Monaten die Trennung von Spanien verkünden. Die Bundesrepublik hat in der Vergangenheit immer wieder eine Abspaltung Kataloniens begünstigt; zuletzt haben sich einflussreiche deutsche Think-Tanks dafür ausgesprochen, der Sezession keine Steine in den Weg zu legen. Widerstände gibt es hingegen aus Wirtschaftskreisen. Katalonien ist ein zentraler Standort deutscher Unternehmen in Spanien, die ihre Geschäfte jedoch nicht auf die Region beschränkt sehen wollen, sondern auf den Handel mit ganz Spanien zielen; dafür wäre eine Loslösung des Gebiets von Madrid womöglich hinderlich. Regierungsberater halten die Probleme allerdings für lösbar. Manche Ökonomen wenden zudem mit Blick auf die EU-Währung ein, der Euro könne langfristig wohl nur in einem einheitlicheren Wirtschaftsgebiet erhalten bleiben. Dazu würde nach Lage der Dinge Spanien nicht gehören - möglicherweise aber ein abgespaltenes Katalonien, die stärkste Wirtschaftsregion der iberischen Halbinsel...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59178



An Unofficial Plebiscite
 
2015/08/07

BERLIN/BARCELONA
 
(Own report) - The German establishment is sending mixed signals in reaction to the announcement of an unofficial plebiscite on Catalonia's secession from Spain. Catalan Prime Minister Artur Mas has declared the September 27 regional elections a de facto plebiscite on the region's secession. Should his alliance secure the absolute majority, he will proclaim independence from Spain within 8 months. In the past, Germany had repeatedly supported Catalan secession. Influential German think tanks are demanding that secession not be obstructed. However, there is opposition rising from within business circles. Catalonia is a central site for German companies in Spain. Engaged in trade throughout Spain, they do not want to see their business possibilities limited to one region and Barcelona's secession from Madrid could possibly prove an obstacle. According to German government advisors, on the other hand, these problems could be solved. Some economists contend that the EU's currency, the Euro, can, in the long run, only be maintained within a uniform economic area. This would exclude Spain, but include a seceded Catalonia, the strongest economic zone on the Iberian Peninsular.

The Election as a Referendum

Artur Mas, Prime Minister of Spain's autonomous community of Catalonia, declared Catalonia's September 27, regional elections to be an unofficial plebiscite on the province's secession from Spain. "This date will go down in the history of Catalonia," predicted Mas at the beginning of the week, referring to the voting. This will far surpass an ordinary election, because the unified slate comprised of Mas' governing Convergència Democràtica de Catalunya (CDC) and the leftwing Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) have sworn to declare Catalonia's unilateral independence from Spain, within eight months, should they receive more than 50 percent of the votes. In the Catalan establishment, this commitment is rather controversial, causing a rearrangement in the spectrum of political parties. The Christian democratic Unió Democràtica de Catalunya (UDC), which had been a long-standing alliance partner with the CDC, has now left this Convergència i Unió (CiU) alliance, because it is opposed to unilateral secession. Recent polls show the unified slate slightly lagging behind. However, given the support of prominent personalities - such as the soccer star, Pep Guardiola (currently with Bayern München) - it would not be surprising if they successfully bypass their rivals.

A Feast for Separatists

The German establishment has been sending mixed signals recently in response to Catalonia's planned secession. In the past, the Federal Republic of Germany has systematically promoted Catalan separatism. For example, Catalonia was received as "guest of honor" - unprecedented for a region - at the Frankfurt Book Fair in 2007, a symbolically highly effective gesture, and a feast for secessionists. (german-foreign-policy.com reported.[1]) Two years ago, the German Chancellery-financed Institute for International and Security Affairs (SWP) publicly put into question Spain's territorial integrity. According to the SWP paper, the EU could "reach the point, where a negotiated separation is more preferable than a situation of permanent instability."[2] Last year the German Council on Foreign Relations (DGAP) seconded this opinion in a brief analysis. Even if Catalonia's secession could engender problems, this does not mean that the region "should forever remain a part of Spain," according to the DGAP analysis. Madrid "should work toward an agreement" that "accommodates the new state."[3] Support for secessionists corresponds to an old German foreign policy tradition of seeking to weaken potential rival nations, even without hesitating to use ethnic chauvinism to destroy their territorial cohesion.[4]

Spain's Economic Powerhouse

However, last year contrary views were also being heard. This is because of Catalonia's economic significance. The Region makes up only 6.3 percent of Spain's territory and a mere 16.1 percent of Spain's population, however it accounts for 19 percent of the country's GDP, and 26 percent of its exports. Germany imports 11.5 percent of Catalonia's exports and supplies 17.3 percent of its imports, becoming thereby, the most important trade partner and primary supplier of the region. Altogether, about 5,600 foreign companies have invested in Catalonia, which amounts to around 25 percent of all foreign direct investments in Spain. 18 percent of these are from Germany and France, who share first place, even though Germany has a slight lead.[5] Catalonia, Spain's economic powerhouse, maintains particularly strong economic ties to Germany. This is also due to the cooperation program "Four Motors for Europe." Established in 1988 on the initiative of Germany's state of Baden Wurttemberg, it has intensified economic cooperation. Four economically prosperous regions of four EU member countries are cooperating in this program - alongside Baden Wurttemberg, Rhone-Alpes (France), the Lombardy (Italy) and Catalonia.[6]

Spain's Market

Therefore, in Spain, Catalonia has a particular significance for German enterprises, also because it is part of the Spanish market. German companies "came to Catalonia for a market of 40 million Spaniards, not merely for the seven million Catalans," Andrés Gómez, Chair of the Barcelona-based Circle of German-Speaking Executives (kdf) was quoted saying at the beginning of 2014.[7] Kdf members are executives in Spain from business, politics and culture, including a Thyssen manager, a former German ambassador to Spain and a staff member of the Fundación Bertelsmann. In early 2014, predominantly German initiators had also published a "Barcelona Declaration" explicitly warning against the "devastating consequences" of secession. If the region secedes from Spain, it will no longer be an EU member, will no longer be able to trade freely with EU member nations and may be forced to give up the Euro, according to reasoning behind this admonition. The declaration's signers included Gerhard Esser, former Thyssen manager and Erwin Rauhe, Vice President of BASF-Spain.

Competition in Economic Policy

Government advisors see these difficulties as resolvable. Following secession, it simply must be attempted, using flexible means, "to, at least, avoid the formation of impermeable borders, for example for freight traffic or the four freedoms of the [EU's] Single Market," according to an analysis published by the SWP. The question whether Catalonia may continue to use the Euro, should also be flexibly approached.[8] Economists are adding more arguments in favor of secession. Secession would reinforce "the competition in economic policy" and should therefore be supported, explained, last fall, Roland Vaubel, professor of economics in Mannheim and a member of the German Ministry of the Economy's Academic Advisory Board. Besides, "today's European nations," are simply "the results of centuries and millennia of despotism and force," Vaubel continues, "the right of secession" is therefore " ultimately necessary to establish political units corresponding to the citizens' wishes."[9]

A Uniform Economic Culture

Alongside Vaubel, the economic historian, Werner Abelshauser, proposes a concept depicting Germany's long-term advantages from Catalonia's secession. Abelshauser declared that in Central Europe, there is "a relatively uniform economic culture." "For centuries, from Scandinavia to Northern Italy and from the Seine to the Oder, it has evolved through concentrated markets." This "economic culture" has been sustainably characterized by "the way of thinking and acting, the rules of the game and types of organization, constituting the social system of production." For example, their "working relations" are "cooperative," whereas elsewhere - particularly in Southern Europe - they are "conflict oriented." In times of crisis, this creates problems with a common currency.[10] Abelshauser is, therefore, in favor of maintaining only those EU regions within the common currency, that show evidence of "a relatively uniform economic culture." As the "Four Motors for Europe" demonstrate, along with Northern Italy (Lombardy), Catalonia could possibly join such a currency region - under the condition, it is no longer part of Spain.
[1] See Language Struggle and Ethnic Europe.
[2] Kai-Olaf Lang: Katalonien auf dem Weg in die Unabhängigkeit? Der Schlüssel liegt in Madrid. SWP-Aktuell 50, August 2013.
[3] Cale Salih: Catalonia's Separatist Swell. DGAPkompakt No 12, October 2014.
[4] See MinderheitenrechteDer Zentralstaat als Minusgeschäft and Hintergrundbericht: Die Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen.
[5] Katalonien zeigt sich dynamisch und generiert einen Mehrwert für die europäische Wirtschaft. www.cataloniavotes.eu 14.05.2014.
[6] See The Federal State - A Loss-Making Business (II).
[7] Karin Finkenzeller: Der Preis der Freiheit. www.zeit.de 16.06.2014.
[8] Susanne Gratius, Kai-Olaf Lang: Das katalanische Labyrinth. SWP-Aktuell 5, Januar 2015.
[9] Roland Vaubel: Katalonien und das Recht auf Sezession. www.anc-deutschland.cat Oktober 2014. Regarding Vaubel see Brüche im Establishment (II).
[10] Werner Abelshauser: Politische Union bedroht deutsche Wirtschaftsinteressen. www.cicero.de 22.07.2012. "Bruchstellen auch mit Milliarden nicht zu kitten". Westfalen-Blatt 14.07.2012. See Wirtschaftskulturen.


=== 2 ===

http://www.resistenze.org/sito/te/po/sp/pospei30-015081.htm
www.resistenze.org - popoli resistenti - spagna - 30-09-14 - n. 513

Risoluzione della Conferenza Nazionale del PCPC sulla questione nazionale

Partito Comunista del Popolo di Catalogna (PCPC) | pcpc.cat
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

27/09/2014

Il Partito Comunista del Popolo di Catalogna, nel quadro della Conferenza Nazionale sulla questione nazionale e del cosiddetto processo "sovranista", prende posizione davanti alla consultazione convocata per il prossimo 9 novembre dalla maggioranza delle forze politiche del Parlamento catalano.

In primo luogo, il PCPC ribadisce che ha sempre difeso e sempre difenderà il diritto del popolo di Catalogna all'autodeterminazione, in virtù del carattere nazionale della Catalogna e pertanto del carattere di soggetto politico del popolo catalano.

In secondo luogo, il PCPC intende che il diritto all'autodeterminazione della Catalogna non è un diritto meramente formale, e che il suo esercizio non deve avere restrizioni politiche e temporali, e che pertanto, questo diritto include la capacità del popolo di Catalogna a rendersi indipendente dallo Stato spagnolo.

In terzo luogo, il PCPC chiama la classe operaia catalana a partecipare alla consultazione.

Infine, il PCPC, davanti al doppio quesito referendario e in generale davanti a tutto il processo sovranista, considera che esso sia funzione degli interessi della borghesia catalana al fine di far partecipare la Catalogna al polo imperialista europeo e alla NATO. La classe operaia catalana non ha nulla da guadagnare sotto il progetto della borghesia e dell'imperialismo, e pertanto chiama durante l'esercizio di voto in segno di protesta introdurre schede che manifestino il rifiuto all'UE e alla NATO.

Nel capitalismo, all'interno delle strutture economiche, politiche e militari dell'imperialismo europeo e nord-americano non c'è sovranità. Non possiamo parlare di una Catalogna sovrana sotto lo stivale dell'imperialismo.

La classe operaia catalana dietro le bandiere della borghesia, non troverà altro che miseria, guerra e sfruttamento.

Il Partito Comunista del Popolo di Catalogna chiama tutti i lavoratori e lavoratrici della Catalogna a non lasciarsi ingannare dal nazionalismo spagnolo e catalano. C'è solo una classe internazionale e la classe operaia catalana troverà la libertà e la sovranità solo nel Socialismo ed esercitando l'internazionalismo proletario, archiviando il capitalismo nel passato.





(francais / italiano)

I profughi siriani scappano da noi

1) Siria: l'Occidente ha fatto uccidere l'archeologo (M. Correggia)
2) Le guerre imperialiste distruggono il patrimonio culturale mondiale (G. Raccichini)
3) François Hollande continue d’ouvrir la route de Damas aux coupeurs de têtes (S. Cattori)


=== 1 ===

Palmyra. L'Occidente ha armato la mano degli assassini. Ipocrisia del Pd e di tutti gli altri sostenitori di guerre

Dopo l’ennesimo indicibile orrore, l’esecuzione a Palmyra dell’82enne archeologo siriano Khaled al Asaad, per mano dei terroristi del sedicente Stato islamico, in Occidente è una corsa da parte di tutti – governi, giornalisti, politici - a fregiarsi della sua memoria.  Strumentalizzando la sua morte. Ad esempio il martire sarà commemorato alle feste del Pd, ha comunicato il premier Renzi.
Peccato che molte delle organizzazioni e persone che ora si dichiarano commosse e indignate, in testa a tutti il Pd, da anni sostengano in vario modo la guerra in Siria e nel 2011 abbiano appoggiato la guerra Nato in Libia. A questi smemorati va ricordato quanto segue:
-          Il sedicente Stato islamico (nato in Iraq dopo il 2003 grazie alla guerra di Bush) è cresciuto perché in Libia la Nato (Italia compresa) è stata la forza aerea delle milizie terroriste e razziste che hanno distrutto il paese e poi sono dilagate in Africa subsahariana e in Siria;
-          In Siria lo Stato islamico è cresciuto (espandendosi dal 2014 anche in Iraq) con l’arrivo di combattenti stranieri grazie al flusso di aiuti materiali e all’appoggio politico dei paesi della Nato e delle petro-monarchie del Golfo, uniti nel cosiddetto gruppo di “Amici della Siria” (ora “Gruppo di Londra”), a vantaggio dei vari gruppi armati di opposizione. Questo ha alimentato – anche a colpi di propaganda e menzogne - una guerra che ha ucciso la Siria. E ha boicottato la pace. 
-          Eppure già dal 2012, come dimostrano documenti Usa desecretati e come tutti sapevano, l’opposizione armata era dominata da gruppi che miravano alla formazione di un califfato in Siria.
-          Gli aiuti Nato/Golfo all’opposizione armata sono aiuti a gruppi estremisti, perché sono evidenti le porte girevoli fra le diverse formazioni, che sul campo o si alleano o cedono armi e uomini ai più forti. Il cosiddetto Esercito siriano libero è un guscio vuoto. 
-          L’appoggio a estremisti presenti o futuri continua: Usa e Turchia sono impegnati nel programma di addestramento e fornitura militare alla “Nuova forza siriana” (i cui adepti poi rifiutano di combattere contro l’Isis o si arrendono ad Al Nusra); Arabia saudita e Qatar continuano nell’appoggio finanziario perché la guerra vada avanti. 
-          L’Italia sta zitta. Pochi giorni fa il ministro  Gentiloni ha accolto l’omologo saudita, impegnato anche a distruggere lo Yemen con la connivenza internazionale.

Marinella Correggia, Torri in Sabina


=== 2 ===

http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/25971-le-guerre-imperialiste-distruggono-il-patrimonio-culturale-mondiale.html#sthash.2cB06b45.dpufhttp://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/25971-le-guerre-imperialiste-distruggono-il-patrimonio-culturale-mondiale.html

Le guerre imperialiste distruggono il patrimonio culturale mondiale

25 Agosto 2015 – di Giorgio Raccichini, PCdI Fermo
da pdcifermano.wordpress.com

La recente brutale esecuzione di Khaled al Assad, anziano ed eroico archeologo siriano, ha generato un’indignazione in Occidente e in Italia a dir poco ipocrita. Da una parte si compiange lo scienziato morto per difendere la cultura, in quanto ha celato alla furia devastatrice dello Stato islamico i tesori dell’antica Palmira, dall’altra ci si è resi responsabili nel determinare una situazione che sta mettendo a rischio sia le vite umane e l’esistenza e l’indipendenza della Siria, sia un patrimonio storico-artistico e culturale di ineguagliabile importanza. Infatti, dal momento in cui i l’Occidente – insieme ad Israele, alla Turchia, all’Arabia Saudita e alle monarchie del Golfo – ha posto nel suo mirino l’obiettivo di cancellare la sovranità di un Paese troppo indipendente, non ha fatto altro che armare e finanziare organizzazioni antigovernative, costituite in gran parte da guerriglieri islamici provenienti spesso dall’estero, i quali hanno finito per alimentare il fenomeno dell’Isis.
Così questa organizzazione ha avuto la possibilità di agire e conquistare vasti territori distruggendo molte testimonianze storiche del passato dell’umanità, comportandosi come il califfo Omar, quando nel VII secolo d.C. venne conquistata Alessandria d’Egitto; dovendo decidere il destino della famosa biblioteca, come ricorda Luciano Canfora nel suo libro “La biblioteca scomparsa” (Sellerio, 2009), il califfo si pronunciò nel seguente modo: “Se il loro contenuto si accorda con il libro di Allah, noi possiamo farne a meno, dal momento che, in tal caso, il libro di Allah è più che sufficiente. Se invece contengono qualcosa di difforme rispetto al libro di Allah, non c’è alcun bisogno di conservarli. Procedi e distruggili”. Nel caso dell’approccio dell’ISIS alle testimonianze della storia e della cultura, sospetto tuttavia che entri in gioco, oltre ad un funesto e arcaico bigottismo, una più moderna volontà di guadagnare attraverso la vendita sul mercato nero dei reperti. E non mi meraviglierei che gli acquirenti si trovassero proprio in Occidente!

Il ministro Franceschini urla impotente: “Questo orribile atto non può rimanere senza risposta”. Renzi annuncia che Khaled al Assad verrà ricordato in tutte le feste dell’Unità, perché “non bisogna rassegnarsi alla barbarie”. Eppure il Partito Democratico fin dagli inizi del conflitto siriano ha diffuso la favola secondo la quale la guerra siriana sarebbe stata una rivolta degli oppressi dal regime sanguinario di Bashar al Assad, non denunciando, quindi, ma appoggiando le manovre internazionali che destabilizzavano la Siria e facevano emergere l’ISIS. Le stesse posizioni del PD sono in realtà condivise dalla maggior parte delle testate giornalistiche e delle forze politiche italiane, tanto che SEL, invece di prendere apertamente posizione o contro o a favore dell’imperialismo, nel pieno della recrudescenza del conflitto faceva appello ad un presunto movimento non violento e nella sostanza equiparava aggressori ed aggrediti.

Se poi spostiamo il nostro sguardo alla Libia, dove era chiaro fin dall’inizio che il rovesciamento violento del regime di Gheddafi avrebbe provocato solo un tremendo caos, possiamo constatare che altri siti archeologici di importanza mondiale sono a rischio distruzione, come quello dell’antica Leptis Magna, città natale di Settimio Severo. Pure in questo caso gran parte della politica italiana, anche di sinistra, esultava più o meno esplicitamente per la fine del “dittatore”, dimostrando di essere o serva cosciente delle logiche imperiali o incapace di abbozzare una riflessione storica riguardo alle caratteristiche di un dato Paese.

Le guerre imperialiste, anche quelle per procura come è quella in Siria, hanno tra le loro conseguenze il saccheggio dei beni culturali. Chi si ricorda della guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003? Sì, proprio quella che, come nei casi più vicini a noi della Libia e della Siria, è stata giustificata con una serie di vili e assurde menzogne. In particolare, ci si ricorda, in aggiunta alle distruzioni causate dalle bombe occidentali, del saccheggio dell’Iraq Museum di Baghdad, avvenuto senza che le truppe degli invasori facessero nulla per evitare che i beni lì esposti fossero depredati. È risaputo che, quando si vuole cancellare una nazione, è necessario distruggerne anche la memoria storica e le testimonianze culturali. È ciò che è avvenuto nel Kosovo, dove i guerriglieri albanesi dell’UCK, alleati della NATO nella guerra scatenata da quest’ultima nel 1999 in seguito alla messa in scena del finto massacro di Racak, cominciarono una massiccia distruzione delle chiese e dei monasteri serbo-ortodossi, alcuni patrimonio dell’UNESCO, in un territorio che vide svolgersi nel 1389 la battaglia della Piana dei Merli, un evento molto importante per la storia serba e, in generale, per il cristianesimo europeo.

I pochi esempi addotti dimostrano quanto le aggressioni imperialiste della NATO siano all’origine delle distruzioni e dei saccheggi del patrimonio culturale dei popoli aggrediti e della morte di coloro che, come Khaled al Assad, si sono battuti per preservarlo.

L’imperialismo, però, non produce solo la distruzione o il saccheggio del patrimonio culturale attraverso la guerra; in quanto risorse sempre più lucrative i beni culturali diventano appetibili per il grande capitale, come sta accadendo in Grecia, dove il ricatto finanziario viene agitato per costringere a privatizzare, in primis a favore del capitale tedesco, tutto il patrimonio pubblico, tra cui i beni culturali. Se ciò non è saccheggiare, poco ci manca. Graecia capta ferum victorem cepit: il capitale moderno è molto più brutale dei Romani e il patrimonio culturale della Grecia moderna gli interessa solo ed esclusivamente per i profitti che può trarne.

Piuttosto che piangere lacrime di coccodrillo di fronte alla morte di Khaled al Assad, magari mettendo inutilmente le bandiere a mezz’asta, bisognerebbe denunciare le guerre per le risorse e i mercati scatenate dall’Occidente a guida statunitense e far uscire l’Italia da quell’Alleanza atlantica che è un’organizzazione chiaramente contraria al rispetto dei tanto decantati diritti umani, tra i quali rientra anche la salvaguardia della cultura mondiale.


=== 3 ===


François Hollande continue d’ouvrir la route de Damas aux coupeurs de têtes 

Par Silvia Cattori le 26 août 2015

En entendant le chef de l’Etat français, François Hollande, le mardi 25 août, dire qu’une solution politique à la crise en Syrie implique la « neutralisation » de Bachar el-Assad on pouvait se demander quel sens il donne à ce mot.
« Nous devons réduire les emprises terroristes sans préserver Assad. Les deux ont partie liée. »
« En même temps, il nous faut chercher une transition politique en Syrie, c’est une nécessité. 
La première, c’est la neutralisation de Bachar el-Assad ».
La diplomatie française a toujours mis comme préalable à toute solution le départ du « boucher Assad » [*] qui « ne mériterait pas d’être sur la terre » [**].
Elle aurait voulu le liquider. Elle n’a pas réussi. Sa « neutralisation » n’est-elle qu’une variante de la liquidation ?
Par ailleurs, comment Hollande peut-il faire une symétrie entre les groupes terroristes et Bachar el-Assad qui – fort de son gouvernement et du soutien de la grande majorité des Syriens – les combat depuis quatre ans et demi ?
Comment peut-il se contenter de « réduire les emprises terroristes » ?
Les Syriens qui les craignent et subissent leurs atrocités ont-ils leur mot à dire?
Quoi qu’il en soit, par son obstination à écarter Assad, la France continue d’ouvrir la route de Damas aux coupeurs de têtes d’al-Nosra et compagnie[***].
Silvia Cattori | 26 août 2015
* François Hollande et Manuel Valls ont qualifié Bachar el-Assad de « boucher« .
**  Laurent Fabius a déclaré le 17 août 2012: «Le régime syrien doit être abattu et rapidement... Bachar ne mériterait pas d’être sur la terre».
 ***  Exécutions et décapitions de soldats de l’armée gouvernementale syrienne bien avant l’arrivée de l’EI
FOTO: Le New York Times a mis en ligne une vidéo tournée dans le nord de la Syrie au printemps 2012 montrant des « rebelles » exécutant sept soldats de l’armée régulière syrienne
FOTO: Décapitations de soldats de l’armée régulière en 2014





Civitavecchia, Giovedì 27 agosto 2015

alle ore 18:30 al Parco dell'Uliveto – nell'ambito della festa dell'Unità


PIETRO BENEDETTI

in

DRUG
GOJKO

REGIA DI

ELENA MOZZETTA


TRATTO DAI RACCONTI 
DEL PARTIGIANO NELLO MARIGNOLI
IDEATO DA GIULIANO CALLISTI E SILVIO ANTONINI
TESTI TEATRALI - PIETRO BENEDETTI
CONSULENZA LETTERARIA - ANTONELLO RICCI
MUSICHE - BEVANO QUARTET E FIORE BENIGNI
FOTO - DANIELE VITA
UN RINGRAZIAMENTO PARTICOLARE A NELLO MARIGNOLI



Drug Gojko (Compagno Gojko) narra, sottoforma di monologo, le vicende di Nello Marignoli, classe 1923, gommista viterbese, radiotelegrafista della Marina militare italiana sul fronte greco - albanese e, a seguito dell’8 settembre 1943, Combattente partigiano nell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo. Lo spettacolo, che si avvale della testimonianza diretta di Marignoli, riguarda la storia locale, nazionale ed europea assieme, nel dramma individuale e collettivo della Seconda guerra mondiale. Una storia militare, civile e sociale, riassunta nei trascorsi di un artigiano, vulcanizzatore, del Novecento, rievocati con un innato stile narrativo, emozionante quanto privo di retorica.


«QUELLO CHE DICO, DICO POCO»
Note di Antonello Ricci sullo spettacolo Drug Gojko di Pietro Benedetti

L’inizio è sul dragamine Rovigno: una croce uncinata issata al posto del tricolore. Il finale è l’abbraccio tra madre e figlio, finalmente ritrovati, nella città in macerie.
Così vuole l’epos popolare. Così dispiega la sua odissea di guerra un bravo narratore: secondo il più convenzionale degli schemi, in ordine cronologico.
Ma mulinelli si aprono, di continuo, nel flusso del racconto. Rompono la superficie dello schema complessivo, lo increspano, lo fanno singhiozzare magari fino a contraddirlo: parentesi, divagazioni, digressioni, precisazioni, correzioni, rettifiche, commenti, esempi, sentenze, morali.
Così, proprio così Nello racconta il suo racconto di guerra. Nello Marignoli da Viterbo: gommista in tempo di pace; in guerra, invece, prima soldato della Regia Marina italica e poi radiotelegrafista nella resistenza jugoslava.
Nello è narratore di straordinaria intensità. Tesse trame per dettagli e per figure, una dopo l’altra, una più bella dell’altra: la ricezione in cuffia, l’8 settembre, dell’armistizio; il disprezzo tedesco di fronte al tricolore ammainato; l’idea di segare nottetempo le catene al dragamine e tentare la fuga in mare aperto; il barbiere nel campo di prigionia: «un ometto insignificante» che si rivela ufficiale della Decima Brigata Herzegovaska; le piastrine degli italiani trucidati dai nazisti: poveri figli col cranio sfondato e quelle misere giacchette a -20°; il cadavere del soldato tedesco con la foto di sua moglie stretta nel pugno; lo zoccolo pietoso del cavallo che risparmia i corpi senza vita sul sentiero; il lasciapassare partigiano e la picara«locomotiva umana», tutta muscoli e nervi e barba lunga, che percorre a piedi l’Italia, da Trieste a Viterbo; la stella rossa sul berretto che indispettisce i camion anglo-americani e non li fa fermare; la visione infine, terribile, assoluta, della città in macerie.
Ma soprattutto un’idea ferma: la certezza che le parole non ce la faranno a tener dietro, ad accogliere e contenere, a garantire forma compiuta e un senso permanente all’immane sciagura scampata dal superstite (e testimone). «Quello che dico, dico poco».
Da qui riparte Pietro Benedetti col suo spettacolo Drug Gojko. Da questa soglia affacciata su ciò che non si potrà ridire. Da un atto di fedeltà incondizionata al raffinato artigianato del ricordo ad alta voce di Nello Marignoli. Il racconto di Nello è ripreso da Pietro pressoché alla lettera, con tutti gli stigmi e i protocolli peculiari di una oralità “genuina” e filologica, formulaica e improvvisata al tempo stesso. Pausa per pausa, tono per tono, espressione per espressione. Pietro stila il proprio copione con puntiglio notarile, stillandolo dalla viva voce di Nello.
Questa la scommessa (che è anche ipotesi critica) di Benedetti: ricondurre i modi di un canovaccio popolare entro il canone del copione recitato, serbando però, al massimo grado, fisicità verace del narrare e verità delle sue forme.
Anche per questo la scena è scarna. Così da rendere presente e tangibile il doppio piano temporale su cui racconto e spettacolo si fondano (quello dei fatti e quello dei ricordi): sul fondo un manifesto antipartigiano firmato Casa Pound, che accoglie al suo ingresso Nello-Pietro in tuta da lavoro; sulla sinistra un pneumatico da TIR in riparazione; al centro il bussolotto della ricetrasmittente.
Andiamo a cominciare.

Sulla testimonianza di Nello Marignoli, partigiano italiano in Jugoslavia, si vedano anche:
* il libro "Diario di guerra" (Com. prov. ANPI, Viterbo 2004)
* il documentario-intervista "Mio fratello Gojko" (di Giuliano Calisti e Francesco Giuliani - DVD_60’_italia_2007) 

Lo spettacolo è ora anche un libro per i tipi di Davide Ghaleb Editore



(srpskohrvatski / deutsch / francais / italiano)

Bosnia ieri e oggi

1) Сви учесници Дејтонског споразума (Ж. Јовановић)
2) Kravica: una strage impunita e obliata (E. Vigna)
3) Erinnerungen – ein Serbe erzählt. Alexander Dorin über das Massaker in Kljevci bei Sanski Most, 1941
4) U Sarajevu je najmanje ubijeno 8.255 Srba u periodu od 1992. do 1995. godine, a mogućnost greške je tri odsto
5) Daesh (ISIS) se niche au plein cœur de l’UE / Trois camps de Daesh en Bosnie


A lire aussi:

ISLAM RADICAL EN BOSNIE-HERZÉGOVINE : L’ATTRAIT PUISSANT DE LA GUERRE EN SYRIE (CdB, 20 août 2015)
Un nouveau rapport vient d’être publié par l’Atlantic Initiative sur les ressortissants bosniens qui se sont rendus en Syrie et en Irak depuis 2012. L’étude révèle pour la première fois le nombre de citoyens partis au front : 217 personnes, dont 25 enfants et 36 femmes...


=== 1 ===

ОПАСНО ОМАЛОВАЖАВАЊЕ ДЕЈTОНСКОГ СПОРАЗУМА

Сви учесници Дејтонског споразума

 

Из разговора Председника Београдског форума за свет равноправних Живадина Јовановића, са новинарком Новинске агенције СРНА Миленом Гачевић, 5. августа 2015.

Необично је да препоруке о уређењу БиХ и уставној реформи, као услову ЕУ, саопштава амерички амбасадор. Правно посматрано то личи на «неовлашћено обављање туђих послова», а политички на мешање у унутрашње послове ЕУ и БиХ - оцјењује бивши министар спољних послова СР Југославије Живадин Јовановић.

Дејтонски мировни споразум је нормативни међународни правни акт трајног значаја и није временски ограничен, па су покушаји његовог омаловажавања неосновани и опасни.
Коментаришући недавну колумну америчког амбасадора у БиХ Морин Кормак, Јовановић оцјењује да су "покушаји омаловажавања тог споразума опасни и не доприносе стибилности нити учвршћивању мира на Балкану. На једној, бошњачкој страни, то подгрејава тежњу за унитарном БиХ, на другој, српској, подстиче страховања од укидања равноправности и стечених права".

Кормакова је у ауторском тексту за "Независне новине" навела да
је првобитни циљ Дејтона био да се оконча рат и да се сада
поставља питање његове улоге. Она је, у име евроинтеграција, писала како би требало да буде уређена БиХ, а поједини аналитичари у Србији њено писање протумачили су као признање да Америка никада није жељела Дејтонски споразум какав је постигнут компромисом и потписан, већ су га сматрали само фазом у наметању онога за што је по вољи Сарајева.

Живадин Јовановић за Срну напомиње да "Дејтонски споразум није дело једне земље, макар она била иницијатор, посредник, или домаћин преговора који су довели до његовог прихватања. У Дејтону где је парафиран 21. новембра 1995., а потом и у Паризу где је потписан 14. децембра 1995., овај Спорзум су потврдиле све чланице Контакт групе, сталне чланице Савјета безбједности УН (изузев Кине), као и сама Европска унија. Посебан значај има чињеница да је Савет безбедности УН једногласно прихватио и потврдио Дејтонски споразум својом резолуцијом број 1031, од 15. децембра 1995. Нема, дакле, никакве сумње да је тај међународни уговор, вољом уговорних страна, великих сила и Саавета безбедности УН, постао трајни интегрални део међународног правног поретка заснованог на Повељи УН.
У погледу трајности и правне снаге Дејтонски споразум се не разликује од сличних споразума у систему међународног права. Свако ко би тај Споразум релативизовао, омаловажавао или накнадно временски ограничавао доводио би у питање кредибилитет међународног преговарања, међународног права и правног поретка у целини. У конкретном случају, то би озбиљно угрожавало мир и стбилност на Балкану и у Европи.
Када је ријеч о притисцима на Српску, треба их такође посматрати у светлу заоштравања глобалних односа Истока и Запада. САД не желе да у Европи, па ни на Балкану, постоји ни једна самостална држава или ентитет изван њихове пуне контроле. Када је реч о притисцима за унитаризацију Босне и Херцеговине уз обезбеђивање доминације Бошњака, треба имати у виду и сталну потребу САД да се конзервативним режимима муслиманских земаља покажу као «принципијелни» заштитници мусиламана на Балкану не би их придобили у сузбијању антиамеричког расположења на Блиском Истоку и у муслиманском свету уопште.
Јовановић сматра да је необично да препоруке о уређењу БиХ и уставној реформи, као услову ЕУ, саопштава амерички амбасадор.
"Ако постоје неки услови за чланство у ЕУ нормално је да их саопшти легитимно тело Европске уније – Савет, Комисија, или њихов представник, а не амбасадор земље нечланице"- примећује Јовановић. 
Притисци изван БиХ, а пре свега, из Вашингтона, да се промени уставни поредак у БиХ, да се наруше основни принципи Дејтонско-париског споразума, као што су равноправност три констутивна народа и два ентитета, као и принцип консенсуса, обично се образлажу тезом да је улога Дејтона била «само» да оконча рат, да успостави мир. А шта су циљеви притисака да се омаловажава и напушта Дејтон? Зар поштовање и доследна примена тог споразума не чува мир и безбедност данас и у будуће? Може ли се мир очувати рушењем темеља на коме почива? У свету апсурда у коме живимо, вероватно би се нашао неко коме би користила још једна «контролисана» дестабилизација дела Европе? У таквом свету, можда, неко верује да се Срби, Република Српска и Србија, морају данас одрећи статуса и права стечених пре 20 година? Ако су притисци били делотворни да се Србија практично одрекне резолуције СБ УН 1244 да би се удовољило Албанцима на Косову и Метохији, Ердутског споразума да би се задовољила Хрватска, зашто је непритиснути да сарађује у у збацивању Милорада Додига и развлашћивању Републике Српске у корист Бошњака? То је и тако практично проглашено као «европски» стандард. 
Када се добро размисли ко и шта све захтева од Србије, Републике Српске, српског народа уопште, шта су стварни циљеви уставних промена у БиХ, (па и у Србији), онда није далеко од памети да се човек упита – да ли Империја уопште жели Србију и српски народ као политички фактор на Балкану, или чини све да се он раздроби, утопи и претвори у пуку монету за поткусуривање у исцртавању увек нове «просторне ситуације»? Ако слаби и разара географску осу и центар Балкана, да ли уопште има интереса за напретком, миром и стабилношћу, или њеним геостратешким нацртима, можда, више одговара продужена дестабилизација овог дела Балкана и држање Србије на још краћем поводцу? Империја има све сложеније проблеме у односима са Русијом, Кином, Латинском Америком... На Блиском Истоку и Северу Африке даље се распламсавају сукоби, хаос, убијање. Масовне миграције избеглица и азиланата произведених њеним агресивним ратовима све више притискају Европу и Балкан, а воље за стварно решавање нема на видику. Да ли би нова дестабилизација Балкана могла да скрене пажњу са свега тога? Захваљујући недавном руском вету у Савету безбедности, Република Српска, Србија и српски народ нису жигосани као геноцидни. Неће ли, ако већ није почела, англо-саксонска осовина ненавикнута на праштање, тражити «асиметричне» одговоре? Порука од априла 2000. да Србију треба трајно држати изван европског развоја није орочена!



=== 2 ===


Bosnia, Kravica 1993-2013: una strage impunita e obliata, ed un Natale di dolore e solitudine per i serbi di Enrico Vigna

 

Banja Luka, Rep. Srpska di Bosnia, 5 gennaio 2013 

Nel villaggio di Kravica nei pressi di Bratunac si è celebrato con una funzione funebre, il 20° anniversario, del ricordo delle 49 vittime massacrate nel Natale ortodosso del 1993; una strage efferata commessa da unità dell’Armija Bosniaca musulmana secessionista, sotto il comando di Naser Oric,.
La cerimonia funebre è stata officiata nella chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo (che fu vandalizzata) , e poi corone e fiori sono stati posti presso il monumento centrale in Kravica.

Nel Natale ortodosso di 20 anni fa, membri dell'esercito secessionista della BH, sotto il comando di Naser Oric uccisero a Kravica e nella vicina Kravica Zasa, 49 serbi, 80 civili e soldati furono feriti; sette persone furono rapite, di cinque delle quali ancora non sono stati ritrovati i corpi.

Due giorni dopo il Natale del 1993, furono trovati e sepolti sette corpi di civili serbi, mentre i resti delle altre 42 vittime sono stati trovati,  identificati e sepolti dopo due mesi.
In quel giorno furono saccheggiate e bruciate 688 case serbe, circa 200 imprese ed edifici ausiliari  e 27 edifici pubblici. Circa 1.000 persone rimasero senza casa. 101 Bambini persero uno o entrambi i genitori. Gli uccisi in quei giorni, compresi altri villaggi vicini attaccati, furono 158 serbi; in questa regione, i serbi uccisi documentati, furono 3267.

"…Alle famiglie delle vittime fa male la dura verità che nessuno è stato ritenuto responsabile dei crimini contro i serbi in quel giorno di Natale 1993…. ", ha detto il presidente dell'Organizzazione delle famiglie dei soldati e civili uccisi o scomparsi, di Bratunac, Radojka Filipovic .
Oltre al dolore per i familiari, per i vicini e amici caduti, gli abitanti sono indignati che per questo crimine di Kravica, anche dopo 20 anni, nessuno ne ha risposto.

In un primo momento Naser Oric fu mandato al TPI dell’Aja ( poi prosciolto e rimandato a casa, oggi vive tranquillo e ricco in Bosnia…), e tra le decine di accuse di omicidi, stupri, mutilazioni, saccheggi, vi era anche quella per questa strage; così recitava l'atto di accusa contro di lui da parte del Tribunale dell'Aia:  "…Un massacro brutale di civili nel villaggio di Kravica, nel Natale ortodosso il 7 gennaio dell’anno  1993…”.In una seduta del Tribunale egli disse: “…Abbiamo fatto crimini, sono stati commessi  crimini. Ma chi può giudicare chi ha commesso più crimini ?...”.

Esiste un video che mostra l’orrore perpetrato:  all'ingresso del villaggio, due teschi umani furono messi per terra ad uso dei pneumatici delle automobili dei terroristi che andavano e venivano; per le strade del villaggio: mucchi di corpi mutilati collocati uno  accanto all'altro. Il più giovane aveva 20 anni: Risto Popovic gli spararono in bocca;  dentro la scuola primaria 'Kravica' ... Ljubica Baskić, aveva settant’anni, ucciso con un colpo di pistola sotto il torace e poi un colpito con un oggetto contundente sulla destra  della testa .... Lazzaro Veselinovic, gli mozzarono la testa ... Corpi pugnalati, percossi a morte, mutilati atrocemente…  Animali bruciati o impiccati, come i maiali… Sui muri graffiti con scritto “ Naser, Turchia, Bosnia, Ali, Srebrenica ". .. Per la Corte Internazionale, materiale  non sufficientemente importante da farlo vedere in aula…

Nessun rappresentante di alcuna istituzione della Comunità Internazionale europea, del mondo della cosiddetta “società civile” o umanitaria (presenti in centinaia di sigle e ONG in Bosnia), ha partecipato, e nemmeno esponenti della Bosnia-Erzegovina.

Ancora una volta persa, da parte di tutti (… soprattutto dei “tifosi” occidentali di questa Bosnia) , un occasione per condividere il dolore della gente e lanciare un segno che indichi la denuncia ed il rifiuto degli orrori e dei crimini, la di là di religioni o etnie, da qualsiasi parte siano commessi. Invece il “razzismo” culturale e politico contro i serbi come etnia, ha ancora una volta avuto la meglio; ed un processo per una riconciliazione e un avvicinamento tra i popoli…è ancora più lontano.

Essere presenti per testimoniare in un luogo memoriale della miseria e della sofferenza di questo angolo della terra e sostenere il diritto alla verità, alla giustizia soprattutto verso coloro che hanno perso la vita in quella guerra fratricida. Per dire Gloria eterna a tutti i morti ed eterno rispetto per chi è caduto innocente, di qualsiasi parte esso sia. 

Ma forse per certi “tifosi”, è troppo difficile sentire nell’anima questi valori e questa coscienza civile, sono troppo impegnati a soddisfare proprie peculiarità esistenziali ed il dolore non lo conoscono, non nella loro carne ed anima, ma solo “mediaticamente” o professionalmente.

 “…Poi i dominanti inventeranno misere bugie, per scaricare le colpe su chi viene attaccato, ed ogni persona del reame sarà felice di quelle falsità che gli alleviano la coscienza, e le studierà accuratamente, e si rifiuterà di esaminare qualsivoglia loro confutazione. E così ringrazierà Iddio per i sonni migliori che potrà dormire, in seguito a questo grottesco processo  auto ingannatore…” .    (M. Twain)



=== 3 ===

[Mit dem folgenden, sehr informativen und eindruecksvollen Text stimmen wir fast voellig ueberein, wenn es nicht für die Beurteilung um die Haltung sozialistischer Jugoslawien gegenueber den Genozid der Serben: die Tatsache, dass das Kljevci-Denkmal, das in den Fotos gezeigt wird, in der Zeit Titos-Jugoslawien errichtet worden war, spricht allein. Italienische Koord. fuer Jugoslawien]



Erinnerungen – ein Serbe erzählt

August 11, 2015


Als ich zum ersten Mal von den Büchern des Autors Alexander Dorin hörte, war ich misstrauisch, weil er gebürtiger Serbe ist. Dann geriet ich in einen Konflikt, denn ich wollte doch nie ein Rassist sein – vorurteilsfrei erzog ich schließlich auch meine Kinder. Zwei Jahre zuvor hatte ich zwar schon kritische Bücher über die Balkankriege gelesen, jedoch von deutschsprachigen Autoren. Hier war es anders und das Thema Srebrenica galt schließlich auch für mich bis Ende 2010 als unumstößliches und bewiesenes Massaker an Tausenden moslemischen Männern. Also begann ich gegen mein entdecktes Vorurteil anzukämpfen, ohne eine Ahnung zu haben woher dieses kollektive Misstrauen gegen die serbische Bevölkerung entstanden war.

Das Buch „Jasenovac – das jugoslawische Auschwitz und der Vatikan“ von Vladimir Dedijer, ein Kampfgefährte und Biograph Titos (Josip Broz), habe ich erst vor zwei Jahren gelesen. Im Vorwort erzählt Alexander Dorin seine Erinnerungen:


Ich schaue oft zurück und erinnere mich mit etwas Wehmut an die zahlreichen Aufenthalte in Bosnien während meiner Kindheit. Meine Eltern nutzten jede Gelegenheit, um mit mir ihre alte Heimat zu besuchen. Das Leben als Gastarbeiter in der Schweiz hatte bei ihnen die Sehnsucht nach ihren Wurzeln genährt.

Ich kann es ihnen nachempfinden, denn wenn ich heute an das »alte« Bosnien denke, so erinnere ich mich an grüne Hügel, Wälder und Wiesen, wie auch an quirlige Bäche und Flüsse, und überall zierten die Heuhaufen der Bauern die malerische Landschaft. Anstelle von Traktoren zogen noch oft Pferde die Wagen mit den verschiedenen Gütern und verliehen dem Land einen Hauch von einer längst vergangenen Zeit. Viele Male ritt ich mit Freunden und Bekannten durch die schöne Gegend, vorbei an Quellen mit Trinkwasser und Wäldern voller essbarer Pilze, die wir oft einsammelten. Ich erinnere mich auch an den weit verbreiteten Duft, wenn mich die Dorfbewohner auf die Felder mitnahmen, um mit ihnen während warmen Sommertagen das Heu auf die Wagen zu laden. Es war aber nicht nur das Heu, das diesen Duft ausmachte, sondern auch das bosnische Basilikum, das oft wild wuchs, von den Bewohnern »Bosiljak« genannt wird und das zusammen mit dem Heu zum »Duft Bosniens« verschmolz.

Es führten damals noch keine Straßen zum Geburtsdorf meines Vaters, so dass wir uns den Zugang dorthin mit dem Auto nur mühsam und über holperige Stein- und Schlammwege bahnen konnten, vorbei an schlichten, weiß getünchten Häusern und an verwitterten Holzschuppen. Die Dorfbewohner waren sehr nett und für ihre Gastfreundschaft bekannt. Tagelang wurde gekocht, gegessen und getrunken, wenn ich mit meinen Eltern zu Besuch war. Von morgens bis abends rief uns jemand ins Haus auf ein Getränk, zum Essen oder auch nur zum Plaudern. Oft streiften wir auch mit Pferdewagen durch die Wälder und überquerten Flüsse, wenn Ausflüge und Essen in der freien Natur organisiert wurden. Begleitet wurden diese Feierlichkeiten natürlich von lebendiger Musik und Tanz. Einige Male konnte ich auch alte Bräuche miterleben, während denen die Dorfbewohner nachts mit brennenden Fackeln ausgestattet durch die Gegend zogen.

Ich genoss damals als Kind diese Atmosphäre und Aufmerksamkeit, die einem von diesen Menschen entgegengebracht wurden. Erst mit der Zeit stellte ich mir die Frage, weshalb ich eigentlich nur so wenige Verwandte besaß. Wo waren denn die Großeltern, Onkel, Tanten und andere Verwandte, die meine gleichaltrigen Schulkollegen in der Schweiz besaßen. Weshalb hatte ich nur eine Großmutter, während der Rest der Familie, bis auf einige Halbverwandten, nicht vorhanden war? Zur gleichen Zeit fiel mir auf, dass überall dieser Harmonie und Liebenswürdigkeit auch eine tiefe Trauer schwebte, die sich vor allem in den Augen der älteren Menschen spiegelte. Oft sah ich meine Großmutter, wie sie, auf einer Bank vor dem bescheidenen Häuschen sitzend, mit glänzenden Augen sehnsüchtig in die Ferne schaute. Wo waren ihr Mann, ihre Kinder und ihre Verwandten geblieben?

Eines Tages – ich war schon viele Male nach Bosnien gereist – stellte ich meiner Mutter die Frage, wo denn die anderen Familienmitglieder aus Vaters Familie geblieben sind. Der ansonsten immer liebliche Gesichtsausdruck meiner Mutter veränderte sich schlagartig zu einer seltsam versteinerten, von tiefer Betroffenheit gezeichneten Miene, und es folgte längeres Schweigen, bis sie schließlich leise und zögerlich antwortete: »Es war während des letzten Krieges, als böse Menschen hier eindrangen und schlimme Verbrechen verübten.« »Ja aber wer denn? «, wollte ich wissen. »Die Nazis, mein Junge, die Nazis«, antwortete sie und atmete dabei tief durch. Erst viele Jahre später sollte ich erfahren, dass das nur die halbe Wahrheit gewesen ist.

[Der Journalist Zoran Jovanovic erklärte mir im August 2011, als wir in Vlasenica einen Friedhof besuchten, auf dem serbische Opfer aus den Neunzigern bestattet sind und sich Gedenksteine der serbischen Opfer aus WWII befinden, dass die Verbrechen im Zweiten Weltkrieg, die von kroatischen und moslemischen Nazi-Kollaborateuren an Serben verübt worden sind, Tabuthemen waren. Man kannte nur die deutschen Faschisten.]

Ich befragte auch meinen Vater zu den damaligen Ereignissen, doch er wollte noch weniger dazu sagen. Er wandte sein Gesicht von mir ab, und ich begriff, dass ihn irgend etwas an meiner Frage tief erschütterte und alte Wunden aufgerissen hatte. Was um Himmels willen war nur geschehen? Und wieso wollte niemand darüber reden?

Erst einige Jahre vor Ausbruch der jüngsten jugoslawischen Kriege – ich war so um die zwanzig Jahre alt – erhielt ich endlich von einem entfernten Verwandten die lang ersehnte Antwort. 1941 waren deutsche Truppen in Bosnien eingedrungen und hatten Massenmorde an serbischen Zivilisten verübt. Bosnien gehörte damals – so erfuhr ich – zum großkroatischen Staat, der, nebst Kroatien, auch Bosnien und Teile Serbiens umfasste. In diesem großkroatischen Staat wüteten kroatische Soldaten besonders grausam und übertrafen an Sadismus die Soldaten der Wehrmacht, die die Serben, Zigeuner und Juden meist erschossen, während die faschistische kroatische Ustascha sich durch besonders abscheuliche Folterungen und Massaker hervortat. Ich las später, dass diesen Verbrechen Hunderttausende Serben, Zigeuner und Juden zum Opfer fielen. Ich erfuhr weiter, dass in Jasenovac das berüchtigtste war und in denen die Opfer dermaßen brutal gequält und ermordet wurden, dass sogar einige Nazis dagegen protestierten.

Den kroatischen Ustaschen und den Nazis schlossen sich auch viele bosnisch-moslemische Einheiten an, die sich an den Greueltaten beteiligten. Und so trieben im Jahr 1941 deutsche Soldaten, unterstützt von moslemischen Bewohnern aus der Region, im Dorf Kljevci (nahe der Stadt Sanski Most) 280 serbische Zivilisten zusammen und erschossen sie an Ort und Stelle. Unter den Opfern waren auch mein Großvater, drei ältere Brüder meines Vaters und weitere Verwandte. Meine Großmutter und mein Vater mussten sich das grausige Geschehen aus einiger Entfernung anschauen. Oft ergötzten sich die Täter, so berichtete mir mein Gesprächspartner, am Leid der Familienmitglieder, die sich diese Verbrechen an ihren Verwandten anschauen mussten, und ließen einige von ihnen völlig gebrochen zurück. Und so wurde auch meine Großmutter mit ihrem jüngsten Sohn zurückgelassen.

Für diese Opfer wurde beim Dorf Kljevci ein Denkmal errichtet, das 1995 während des jüngsten Bosnienkrieges von der moslemischen Armee fast völlig zerstört wurde. Ein Halbcousin von mir (meine Großmutter heiratete nach dem Krieg noch einmal) erzählte mir eines Tages, dass mein Vater während jedes Besuches regelrecht zum Denkmal geschoben werden musste und anschließend für mindestens einen Tag nicht mehr ansprechbar war. Ab 1992 verstarb er aufgrund des hohen Alkoholkonsums im Alter von einundsechzig Jahren.

Meine Mutter erging es 1941 als Zweijährige noch ein wenig schlechter als meinem Vater. Die Deutschen und die Ustascha überfielen ihr Dorf Devetaci bei Novi Grad nahe der Grenze zu Kroatien. Dabei wurden viele ihrer Verwandten und Bekannten verschleppt und ermordet, darunter auch ihre beiden Eltern. Sie selber wurde von einer Großtante kurz vor dem Angriff weggebracht. Sie verbachte eine gewisse Zeit mi den Partisanen von Josip Broz »Tito« im Kozara-Gebirge, geriet jedoch während der Kriegshandlungen in deutsche Gefangenschaft. Sie wurde für einige Zeit in ein kroatisches Konzentrationslager gesperrt, bevor sie, zusammen mit ihrer Großtante, als Kriegsgefangene nach Deutschland transportiert wurde (2004, ein Jahr vor ihrem Tod und ihrem sechsundsechzigsten Geburtstag, erhielt meine Mutter von der deutschen Bundesregierung als Entschädigung für Deportation, Unterbringung in einem Konzentrationslager und Zwangsarbeit 7669 Euro und 36 Cent, ausbezahlt von der »International Organisation for Migration« [IOM] aus Genf im Rahmen des »German forced labour compensation«. Nicht ganz 7670 Euro für eine zerstörte Kindheit und eine fast ausgerottete Familie! Serbisches Leben scheint nicht so teuer zu sein). Nach Kriegsende wurde sie wieder nach Jugoslawien gebracht, wo sie als Kriegswaise aufwuchs. Später, als junger Mensch – sie lebte und arbeitete mittlerweile in Belgrad -, lernte sie meinen Vater kennen, der mit ihr das gleiche Schicksal teilte.

Meine Eltern redeten kaum jemals über diese traumatischen Ereignisse, wie die meisten serbischen Kriegsopfer aus dem Zweiten Weltkrieg im ehemaligen Jugoslawien. Im einstigen jugoslawischen Vielvölkerstaat unter Josip Broz »Tito« war es verpönt, über diese Verbrechen zu reden. Eine Geschichtsaufarbeitung fand im Interesse der »Brüderlichkeit und Einigkeit« nicht statt. Es wurde ganz einfach ein Deckel über den zweiten Völkermord am serbischen Volk innerhalb weniger Jahrzehnte gelegt. Auch die Tatsache, dass der Vatikan damals während des an den Serben verübten Massenmords im katholischen Großkroatien maßgeblich beteiligt war, wurde nach Kriegsende bis heute in der Weltöffentlichkeit nahzu tabuisiert, ganz zu schweigen von der Tatsache, dass der Vatikan ab 1991 dem kroatischen Staat wieder tatkräftig unter die Arme griff.

Meine Mutter fing erst zu Beginn der jüngsten jugoslawischen Kriege über die Schrecken des Zweiten Weltkrieges an zu reden, als sie mitansehen musste, wie in ihrer alten Heimat wieder der Krieg tobte. Doch wie schon damals, so hörte auch dieses Mal niemand die Stimmen der serbischen Opfer. Was nach dem Ende des Zweiten Weltkrieges im Namen der »Brüderlichkeit und Einigkeit« verschwiegen wurde, wurde während der jüngsten Kriege erneut tabuisiert, dieses Mal von den führenden westlichen Massenmedien. In einem Anfall von völligen Tatsachenverdrehungen, zrückgehaltenden Fakten und auch schamlosen Lügen Kreierten »unsere« Medien bewusst ein völlig verzerrrtes Bild der letzten Balkankriege. Die Serben wurden kollektiv zu einem Volk von nationalistischen Verbrechern und Massnemöprdern erklärt, während man die anderen Völker Ex-Jugoslaweiens quasi zu heiligen Unschuldslämmern und Opfern des »großserbischen« Wahns erklärte. Es wurde die Perversion vollbracht, die einstigen serbischen Völkermordopfer zu Faschisten umzulügen. Damit wurden die ehemaligen Opfer der Achse Nazideutschland/Großkroatien gleich zweimal getötet.

Ich erinnere mich daran, wie sich meine Mutter, im Sterbebett liegend, weinend darüber beklagte, dass sie ihre Eltern nie kennenlernen durfte und als Serbin von ihrem Umfeld bis kurz vor ihrem Tod angegriffen und schlechtgemacht wurde. Worin lag ihre Schuld für das erlebte Unglück und das Schweigen in der Weltöffentlichkeit über solche Schicksale? Was haben Menschen wie sie den NATO-Staaten und den westlichen Massenmedien angetan, dass diese sich ab 1991 das Recht herausnahmen, Millionen von Serben in einer beispiellosen Hetz- und Desinformationskampagne zu demütigen, zu denunzieren und niederzumachen? War es ihre orthodoxe Religionszugehörigkeit? Oder war es ihr serbischer Name? Ist jemand schuldig, zu sein? Wird uns seit dem Ende Nazideutschlands nicht immer und immer wieder eingetrichtert, dass die Zeit des Rassenhasses vorbei sei? Sind unsere »Neuzeithumanisten« tatsächlich der Meinung, dass diese Regel in bezug auf alle Völker gilt, mit Ausnahme des serbischen Volkes?

Gegenwärtig scheint die Weltherrschaft der USA ohne Konkurrenz und von unabsehbar langer Dauer zu sein. Möge das vorliegende Buch eines Tages, wenn sich die politische Situation weltweit zuungunsten der momentan einzigen Weltmacht und all ihrer negativen Begleiterscheinungen wie z.B. Aggressionskriege gegen »Schurkenstaaten«, totalitäre Massenmedien und Angriffe gegen Andersdenkende – was ja von vielen europäischen Staaten vom großen »US-Bruder« dankbar übernommen und auch angewandt wurde – dazu beigetragen, dass die serbischen Opfer wiederholter Völkermorde während des letzten Jahrhunderts späte Gerechtigkeit erfahren. Und man mag auch zaghaft hoffen, dass der Westen in der Zukunft nicht noch einmal von der letzten Großmacht und den von ihr beeinflussten Massenmedien erzeugten Sturm des antiserbischen Rassenhasses heimgesucht wird.

Alexander Dorin


[FOTOS: Diese Fotos sind der Facebookseite von Alexander Dorin entnommen: Das Denkmal befindet sich auf dem Weg in das Dorf Kljevci. Es ist 300 Serben gewidmet, die 1941 getötet worden sind, darunter befand sich ein großer Teil der Familie von Alexander Dorins verstorbenen Vater.
Das Monument wurde während des Krieges in den Neunzigern zerstört. ]


=== 4 ===


O OVOM GENOCIDU NAD SRBIMA SVI ĆUTE
уторак, 14 јул 2015 

Evo koliko srpskih civila su BOŠNJACI BRUTALNO UBILI u Sarajevu!

U Sarajevu je najmanje ubijeno 8.255 Srba u periodu od 1992. do 1995. godine, a mogućnost greške je tri odsto

Najmanje 8.255 Srba ubijeno je u Sarajevu od 1992. do 1995. godine, popisao je Institut za istraživanje srpskih stradanja u 20. veku iz Beograda. Još 860 osoba vodi se kao nestalo, a iz Instituta navode da je mogućnost greške u popisu tri odsto i da se spisak još proverava.
Saradnici Instituta podatke su prikupljali uz pomoć svedoka koji su bili po logorima, ljudi koji su živeli u Sarajevu za vreme rata i članova porodice koji su preživeli zločine, a tamo gde su pobijene čitave porodice, svedočili su njihove komšije i prijatelji.
Jedan od saradnika Instituta, Strahinja Živak, rekao je da se spisak još proverava i da će za svaku žrtvu sadržati ime i prezime, godinu rođenja i smrti.
– U tako velikom spisku može biti oko tri odsto greške, zato što su neki ljudi posle razmenjeni ili pobegli iz logora, a mi te kasnije podatke nismo našli. Moguće su greške, ali 97 odsto podaci su provereni i tačni – rekao je Živak za "Novi reporter".
On je najavio da će uskoro biti objavljena knjiga "Srpska stratišta Sarajeva".


=== 5 ===


Daesh se niche au plein cœur de l’UE


19 juil. 2015


Daesh achète en secret des terrains entourés de forêt près du village d’Osve en Bosnie. Les agences de renseignement bosniaques sont persuadées que l’EI cherche à créer une base à partir de laquelle l’organisation terroriste attaquera l’UE.

Les terrains achetés par l’EI ont un atout sans précèdent : leur proximité avec la mer Méditerranée. Cela signifie que les terroristes peuvent facilement y arriver depuis la Syrie, l’Irak et l’Afrique du Nord en traversant illégalement la Grèce, la Turquie, la Macédoine et la Serbie.

Le village d’Osve est situé sur une colline à 96 kilomètres de Sarajevo. On ne peut pas trouver ce village sur les cartes GPS et il est plus commode d’y arriver à pied car les routes sont trop sinueuses et étroites pour les voitures. Les services de sécurité de la Bosnie croient que Daesh utilise ces territoires pour y entraîner ses nouvelles recrues loin des yeux de la communauté internationale.

Un autre atout de la Bosnie pour Daesh, c’est la vente illégale d’armes qui dure depuis le conflit des années 1990. 

L'Etat islamique appelle au djihad dans les Balkanshttp://francais.rt.com/international/2982-daesh-appelle-jihad-dans-BALKANS 

Il y a cinq mois, les forces anti-terroristes bosniaques ont aperçu pour la première fois le drapeau de Daesh sur les maisons d’un autre village, celui de Gornja Maoca.

L’extrémisme a toujours été un sujet sensible pour les Bosniaques. Selon les estimations des services de renseignements, depuis 2012, environ 200 de ses ressortissants sont partis rejoindre les rangs de Daesh en Syrie et en Irak. Une trentaine seraient morts et quarante environ, rentrés en Bosnie.

En septembre dernier, la police fédérale bosniaque (SIPA), a procédé à l’arrestation de deux leaders salafistes Bilal Husein Bosnić et Nusret Imamović. Mais malgré ces arrestations, des centaines de fidèles à travers le pays se sont ralliés à trois autres dirigeants. Il s’agit de Harun Mehicevic, qui était parti en Australie dans les années 1990 mais qui poursuit aujourd’hui ses activités en Bosnie, Jasin Rizvic et Osman Kekic, qui, selon les rumeurs, se battent maintenant en Syrie et Irak. Ils sont soupçonnés d’avoir acheté ces terrains.

Selon l’enquête menée par le Mirror, les résidents des villages voisins entendent régulièrement des tirs et voudraient bien quitter la région le plus rapidement possible.

«Je m’inquiète pour l’éducation de mes enfants ici. Il vaudrait mieux partir maintenant mais il n’est pas si facile de vendre la maison», a déclaré un habitant interrogé par le journal britannique.


---


Trois camps de Daesh en Bosnie

RÉSEAU VOLTAIRE  | 23 JUILLET 2015

En 2012, des jihadistes ont acquis des terres en Bosnie-Herzégovine, à Gornja Maoča, Ošve et Dubnica, pour y installer des camps de formation, sous le commandement de Nusret Imamović.
D’abord affilié à al-Qaïda, Nusret Imamović est devenu le numéro 3 de sa branche syrienne, le Front al-Nosra. Il a ajourd’hui rejoint l’Émirat islamique (Daesh) et les communautés jihadistes bosniaques l’ont suivi dans sa démarche.
Les jihadistes bosniaques se divisent en deux groupes :
 d’une part les anciens combattants de la Légion arabe d’Oussama Ben Laden qui participèrent à la guerre de Bosnie de 1992 à 1995 (on se souvient qu’à l’époque Ben Laden était conseiller militaire du président Alija Izetbegović, qui avait également comme conseiller politique Richard Perle et comme conseiller en communication Bernard-Henri Lévy). 
 d’autre part de nouveaux convertis, généralement de moins de 30 ans.
Depuis les Accords de Dayton, la Bosnie-Herzégovine est dirigée par un Haut Représentant international, actuellement l’Autrichien Valentin Inzko, représentant les intérêts de l’union européenne, assisté de l’ambassadeur états-unien David M. Robinson. Ce dernier, après avoir été impliqué dans le soutien aux Contras du Nicaragua a été chargé d’influer sur les élections vénézuéliennes de 2008, puis a poursuivi sa carrière en Afghanistan. Il devrait prendre prochainement d’importantes fonctions au département d’État.







Itinerari
Suggerimenti per gli escursionisti...




Lettera inviata a Montagne360, periodico del Club Alpino Italiano

Gentile Redazione,
 
L'interessante articolo di Gillian Price apparso su Montagne360 di Luglio 2015, dedicato ai sentieri percorsi dai prigionieri alleati [POW] in fuga dai campi di prigionia, opportunamente integrando le recenti iniziative editoriali dedicate ai sentieri partigiani nel 70.mo della Liberazione, ci porta a conoscenza di quella che è in effetti solo la punta di un iceberg. Gli storici hanno iniziato in tempi recenti a ricostruire quello che fu l' "universo concentrazionario" italiano: si parla di 876 tra luoghi di internamento, prigionia, lavori forzati o confino, sul solo territorio nazionale (cfr. http://www.campifascisti.it/ )... In questi luoghi, i prigionieri anglosassoni erano solo una delle presenze, e nemmeno maggioritaria: tra i prigionieri stranieri erano soprattutto numerosi gli jugoslavi. In Appennino centrale oltre ai campi marchigiani di Servigliano e Sforzacosta menzionati nell'articolo, se ne contavano numerosi altri, e al confine con l'Umbria nell'incantevole altipiano di Colfiorito sorgono tuttora le "Casermette", dove erano rinchiusi migliaia di montenegrini che in gran parte evasero da un varco nella recinzione nella notte tra il 22 e il 23 settembre 1943. Erano invece soprattutto sloveni i reclusi del campo della Motina a Renicci, presso Anghiari, che presero la fuga il 14 settembre 1943. Ancora in Umbria, oltre alle numerose destinazioni per i lavori forzati dove gli jugoslavi erano impiegati in grande numero, vale la pena di ricordare soprattutto il carcere della Rocca di Spoleto, da cui centinaia di detenuti evasero in maniera rocambolesca e romanzesca a più riprese dopo l'8 Settembre. Più a sud, in Abruzzo, confluirono dai campi di Corropoli, Tossicia, Civitella ed altri ancora quegli stranieri – tra cui 60 inglesi e 45 jugoslavi – che ebbero un ruolo centrale nei fatti di Bosco Martese, dove si svolse "la prima battaglia in campo aperto della Resistenza italiana" (Ferruccio Parri).
Proprio in Abruzzo furono tanti gli antifascisti slavi che, nel tentativo di passare le linee e recarsi nell'Italia meridionale sotto controllo alleato, rimasero bloccati sulle montagne dove spesso trovarono la protezione delle famiglie locali, ma talvolta – come nel caso di Radusinović e Radonjić – perirono drammaticamente per assideramento.

Diversamente dagli inglesi, che hanno curato la memoria creando enti dedicati, gli antifascisti jugoslavi sono stati vittime di un oblio che trova spiegazione nelle note vicende politiche passate e presenti. Il ricordo delle loro imprese è sopravvissuto solo grazie alla passione di alcuni singoli, tra i quali meritano riconoscenza Vlado Vujović e Drago Ivanović. Eppure, ripercorrendo i destini di tutti loro, è possibile tracciare itinerari di grande interesse escursionistico e storico. 
Una direttrice fondamentale è quella del crinale appenninico tra Umbria e Marche: in particolare, da Colfiorito lungo il versante ovest dei Sibillini fino ai Monti della Laga e al Gran Sasso; con una possibile variante, storicamente importante, sul versante opposto dei Sibillini, fino a Sarnano.
Da Spoleto si possono invece idealmente seguire le sorti degli evasi della Rocca salendo alla Forca di Cerro per poi attraversare la Valnerina e risalire sul Monte Coscerno, teatro della prima grande strage nazifascista in quel comprensorio (Mucciafora 29/11/1943), per eventualmente proseguire verso gli altri luoghi che videro protagonista la locale Brigata Gramsci, in cui gli slavi confluirono: Norcia, Cascia, Monteleone, Leonessa, Polino.
Da Anghiari possiamo "seguire" gli sloveni verso nord, in montagna, o verso sud, lungo la valle del Tevere.
In tutti i casi, ripercorrere quelle direttrici ci riporta ad un mondo sul quale non solo le vicende storiche del secondo dopoguerra, o i devastanti terremoti, ma soprattutto i cambiamenti socio-economici (urbanizzazione in primis) hanno infierito come vere schiacciasassi. L'escursionista attento può comunque riconoscere su quei sentieri non solo i segni oramai labili dei valori di un tempo, tra giustizia sociale e pietas rurale, ma anche l'opera super-storica della Natura, che si è trionfalmente riconquistata ampie porzioni del nostro Appennino.
 
Andrea Martocchia, 6 agosto 2015




Itinerari partigiani sulla montagna abruzzese

A L'Aquila, "l’assessorato alla Cultura del Comune ha sposato in pieno il progetto, ideato dalla sezione dell’Aquila dell’ANPI e realizzato grazie alla collaborazione del CAI, dell’Istituto Abruzzese per la Storia della Resistenza e dell’Italia Contemporanea e del Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga. Il percorso, di circa 60 chilometri, si articola in sei tratti:
1. L’Aquila–San Sisto–Collebrincioni, inaugurato l’anno scorso con il cippo in memoria dei 9 Martiri,
2. Collebrincioni–Fonte Nera–Arischia, zona operativa del gruppo partigiano di Antonio D’Ascenzo e luogo di fucilazione dei pescaresi Vermondo Di Federico e Renato Berardinucci, medaglie d’oro al valor militare,
3. Arischia–Casale Cappelli, luogo di scontro armato tra il gruppo di Giovanni Ricottilli e i tedeschi, in cui perse la vita il partigiano Giovanni Vincenzo,
4. Casale Cappelli–Assergi–Filetto, luogo d’azione dei partigiani del gruppo Aldo Rasero e della strage dei civili del 7 giugno ’44, quando Filetto fu dato alle fiamme,
5. Filetto–Monte Archetto, luogo di insediamento del gruppo di Aldo Rasero nella primavera del ’44,
6. Monte Archetto–Onna, luogo della strage nazista dell’11 giugno ’44."

All'interno del percorso è possibile rintracciare la presenza della compagine slava sulle montagne abruzzesi. 
Nella tappa n.1 il 23 settembre 1943 le truppe tedesche, alla ricerca dei POWs fuggiti dalle casermette, alleati e slavi, dettero luogo a Collebrincioni ad uno dei primi scontri a fuoco della Resistenza nel corso del quale morirono due prigionieri inglesi e "9 martiri giovinetti" aquilani furono catturati e giustiziati.
Nella tappa n.2 ad Arischia operava, all'interno della banda partigiana locale, Blagoje Popović,che i locali ricordano ancora col nickname italianizzato di Biagio, ardimentoso studente universitario di diciannove anni, figlio dell’ambasciatore jugoslavo a Londra, ricordato dal suo comandante come «ragazzo coraggioso e battagliero che cadrà vittima dei tedeschi per la sua eccessiva temerarietà»,  catturato ed impiccato il 17 maggio 1944 ad un pilone della teleferica.
Nella tappa n.4 a Casale Cappelli truppe naziste attaccano il casale dove si era asserragliato il gruppo composto da sei partigiani, uccidendone uno e catturandone altri quattro, fra i quali gli slavi Badonić e Basević, quest’ultimo ferito.

Riccardo Lolli
, agosto 2015

Per maggiori informazioni si veda la ricerca dedicata ai partigiani jugoslavi in Abruzzo




(hrvatskosrpski / italiano.
En francais: « BIBLIOCIDE » : QUAND LA CROATIE METTAIT SES LIVRES À L’INDEX (Bilten 30.06.2015.)
Le changement de régime en Croatie au début des années quatre-vingt-dix s’est manifesté en politique, dans l’économie du pays mais également dans les bibliothèques, par la « radiation » exceptionnelle de certains livres, que ce soit à cause de la nationalité ou d’autres détails biographiques de leurs auteurs, de leur lieu d’édition ou de leur contenu. Un collectif d’artistes a entrepris de scanner ces livres mis à l’index, et appelle les citoyens à participer en apportant leurs exemplaires...


--- ITALIANO

http://www.bilten.org/?p=7977


Il ricordo della "dismissione": la distruzione dei libri negli anni '90

Igor Lasić
30.06.2015.


Il cambio di regime in Croazia all'inizio degli anni Novanta ha avuto, accanto alla sua accezione politica ed economica, anche una dimensione bibliotecaria, prima di tutto attraverso la "dismissione" straordinaria dei libri, ovvero una sistematica e pedante eliminazione di tutti i libri che il nuovo regime riteneva inadatti, sia a causa della nazionalità ed altri dettagli bibliografici degli autori, che del luogo di edizione del libro, che del suo contenuto.

Lo scarico inventariale dei libri è un procedimento standard nella prassi bibliotecaria. Esso comporta la dismissione di edizioni e titoli malandati o obsoleti, i quali vengono normalmente sostituiti con nuove copie o traduzioni, se disponibili. Nel ramo bibliotecario si prescrive una quota di dismissione, ovvero la massima percentuale annuale permessa per la riduzione di un fondo bibliotecario. Tuttavia, i dati ufficiali delle librerie di Zagabria dell'ultimo decennio del XX secolo – e cosa simile successe allora anche altrove in Croazia – ci rivelano che per diversi anni, lo scarico fu fino a tre volte e mezzo maggiore di quanto permesso.
Dei motivi di questo scarto inventariale organizzato di due volte e mezzo più ampio di quanto prescritto dai requisiti della professione, parla in queste settimane il progetto "I dismessi – In occasione del ventesimo anniversario dell'Oluja[Operazione Tempesta, ndt]" del collettivo curatore WHW ("Che cosa, come e per chi") e dell'Istituto Multimediale mi2 nella Galerija Nova di Zagabria. Su questo ritorneremo, ma per ora prestiamo attenzione a una sola componente del progetto che ci dà una panoramica della selezione dei titoli dell'argomento: ovvero alla scannerizzazione dei libri eliminati – disprezzati e scomunicati – con l'appello ai cittadini alla collaborazione nel consegnare tali volumi. Perché molte copie venivano in quel tempo salvate da benefattori e da chi passava, ad esempio,  accanto a discariche nei pressi delle biblioteche pubbliche.
Già da tale esposizione, che al momento della stesura del presente articolo conta una novantina di libri, diviene piuttosto chiaro quali criteri seguissero gli architetti della degradazione dei fondi librari. Ne furono vittime principalmente le opere di scrittori serbi e montenegrini, più i rari dissidenti croati di allora. Se la passarono altrettanto male le edizioni stampate nella variante ekava e nel cirillico [tipici della cultura di matrice serba, ndCNJ]. Inoltre, bastava che l'editore fosse di Belgrado o Novi Sad, a volte anche di Sarajevo – città evidentemente considerate estremamente indesiderabili. Ma un posto speciale venne occupato dai libri scartati per motivi tematici, indipendentemente dalla lingua, dalla variante dialettale, dal luogo di edizione o dalla nazionalità degli autori.

L'Index librorum prohibitorum nazionale

Un'enorme quantità di opere di questa categoria sono appunto marxiste, rivoluzionarie, socialmente impegnate, di sinistra in generale. Bisognava dunque dissociarsi e disconnettersi velocemente dalla realtà sociale in voga fino ad allora, la quale prevedeva la coesistenza dei Croati con gli altri Slavi del Sud e una vita socialista-autogestita. Questa esperienza aveva portato con sé anche un imponente lascito dialettico sotto forma di intere collane, i cui fondamenti teorici rigettavano recisamente la minaccia mortale della guerra mossa sulle basi dell'intolleranza interetnica.
Era tra l'altro pure necessario che la presidentessa croata e l'arcivescovo – ma anche molti socialdemocratici [del partito al governo SDP, ndt] – ci dicessero oggi che accanto al fascismo e nazismo dobbiamo ripudiare anche il comunismo, il suo passato e soprattutto il suo futuro. La contemporanea coltivazione della ristretta mentalità della proprietà privata ed in generale il ragionamento basato sugli elementi nazione, famiglia e individuo, rispetto alla preminenza del pubblico, alla dimensione internazionale e solidale, ha preso decisamente piede in larga parte grazie all'efficace soppressione della memoria e all'eliminazione della sua ulterioreriproduzione attiva. E per qualche tempo la tattica descritta è riuscita benissimo, compensando l'opposizione di determinate roccaforti sociali ed economiche con mitologie identitarie, come quella della classe media o quella esclusivamente confessionale.
Il processo è in parte rallentato solo negli ultimi anni, in virtù del notevole crollo della base materiale della società e comunque della maggioranza dei suoi singoli membri. La ribalta creata da WHW e mi2 potrebbe solo ora, sembra, avere terreno fertile. Ma esaminiamo ancora come questa folle, specifica disinfezione bibliotecaria, ha operato tecnicamente in questi ultimi due decenni. Non si tratta ovviamente di una particolarità croata, e molto di questa storia rimanda alla figura e opera di Wolfgang Herrmann, bibliotecario nazista tedesco all'inizio degli anni '30 del secolo scorso, autore del documento storico "Principi della pulizia delle biblioteche pubbliche".

Gli igienisti della controrivoluzione

Questo scritto, il preferito di Joseph Goebbels, ha classificato in modo sistematico i testi che negli anni seguenti sarebbero scomparsi nelle fiamme dalle quali nasceva il costrutto politico della sovra-razza ariana. Il caso croato fu meno trasparente, ma ha comunque avuto molti elementi ideologici simili. Ricorderemo vari istanti noti, sebbene non in ordine cronologico, ma piuttosto in base alla loro influenza e importanza concettuale. Il primo posto lo merita Borislav Škegro, vicepresidente del Consiglio croato dal 1993 al 2000.
Da ministro delle finanze e uno dei fondatori più eminenti della dottrina neoliberale, in seguito al cambio della matrice economica e all'accumulazione primitiva del capitale avvenuta con le privatizzazioni, fu proprio Škegro ad introdurre in Croazia l'imposta sul valore aggiunto. Uno dei più rilevanti effetti negativi dell'IVA fu subito proprio per l'industria letterario-editoriale, e il ministro delle finanze sottolineerà che i fondi resi disponibili dall'introduzione dell'IVA verranno utilizzati, tra l'altro, per "la pulizia delle biblioteche dai libri in serbo e simili lingue". A causa dell'appassionato conflitto etno-igienico e controrivoluzionario, tuttavia, molti hanno chiuso gli occhi di fronte al sarcasmo che l'idioma più simile al serbo è... il croato, e viceversa, se si può affatto parlare di lingue diverse.
Anche prima di questa sortita esplicita, la "pulizia" delle biblioteche aveva per anni funzionato regolarmente, e due eccezionali atti ufficiali del 1992 testimoniano indiscutibilmente che questa purtroppo non era solo un'odiosa attività senza sorveglianza. Uno porta la firma della ministra della cultura Vesna Girardi-Jurkić ed il titolo "Direttiva obbligatoria per l'uso del fondo librario nelle biblioteche scolastiche", caratterizzandosi con formulazioni piuttosto contorte come "adeguamento dei programmi d'insegnamento alla nuova realtà" o "eliminazione dalle biblioteche di quei libri che apparivano negli elenchi dei testi didattici precedenti".

Un libricidio documentato

Dieci anni più tardi, Girardi-Jurkić dichiarerà: "... Ritengo che ciò fosse la cosa più morbida che si poteva in quel momento firmare; di certo sapete che periodo era. Mi telefonavano ogni giorno per fare questo e quello". E non molto prima di lei, Veronika Čelić-Tica e Ranka Javor della Biblioteca Nazionale e Universitaria, ovvero la Biblioteca della Città di Zagabria, composero una "Direttiva per il lavoro con le biblioteche delle scuole elementari" la quale elencava principi precisi sul riordino del fondo librario secondo il nuovo, rigido parametro bibliografico nazionale, e vi ricordava l'obbligo della revisione regolare e la dismissione scrupolosa dei libri.
Preziosa, in senso storiografico, è la trascrizione della seduta del Consiglio Comunale di Korčula, nella quale non si esitò nemmeno a festeggiare l'esempio meglio documentato di distruzione dei libri indesiderati. Lo scarto inventariale della biblioteca cittadina nel 1997, che andava addirittura oltre la procedura prescritta – come verrà stabilito dalle autorità conteali competenti – fu diretto dalla bibliotecaria Izabel Skokandić. Questo caso, come altri a Zagabria, Fiume e Spalato, fino a Slatina, Orsera e Velika Gorica, per menzionarne solo alcuni, verrà poi trattato dal docente di economia Ante Lešaja nella vasta opera Knjigocid – uništavanje knjiga u Hrvatskoj devedesetih ("Libricidio – la distruzione dei libri nella Croazia degli anni '90").
L'opera inestimabile di Lešaja contiene un decennio e mezzo di ricerche e analisi, lui che fu il fondatore della biblioteca cittadina di Korčula e il cronista della scuola estiva del movimento jugoslavo di Praksis a Korčula. Ed è facile ritenere che la vasta maggioranza dei casi in cui i libri vennero distrutti in Croazia sarebbe rimasta, senza il suo impegno, non documentata, come sconosciuta sarebbe altrimenti rimasta questa prassi in generale. Ma non ci sarebbe stata nemmeno la sua opera, senza l'aiuto dei molti bibliotecari coscienziosi e di altri individui che salvarono i libri scomunicati e la loro verità nascosta.
Proprio i loro preziosi contributi potrebbero assumere un posto centrale nell'iniziativa "I dismessi"; saranno soprattutto loro a rianimare il tesoro, proprio e sociale, attraverso lo scanner, e a far ritornare in circolazione questi libri in formato digitale. Accanto alla inseparabile revisione dell'eredità del Domovinski rat [Guerra patriottica, nome ufficiale in Croazia per la guerra civile jugoslava, ndt] cui si riferisce l'estensione del titolo dell'iniziativa – "in occasione del XX anniversario dell'Oluja" –, l'iniziativa è svolta in collaborazione con il progetto anti-commercializzazione "Biblioteche pubbliche" dell'Istituto Multimediale mi2. Nello stesso ambito, all'inizio di luglio, una serie di artisti nazionali dedicheranno le proprie esibizioni ai libri tragicamente scomunicati, e c'è ora un più ampio desiderio di renderli nuovamente pubblici, di distribuirli e leggerli. Per quel che concerne il rapporto tra le parole scritte e le idee progressiste, non c'è miglior pegno per la salute pubblica di domani, di quello che ci era destinato ieri.

(Trad. di AD per CNJ-onlus)


--- HRVATSKOSRPSKI


Sjećanje na “otpis”: uništavanje knjiga devedesetih

Igor Lasić
30.06.2015.

Smjena režima u Hrvatskoj počekom devedesetih je uz politički i ekonomski imala i svoj bibliotekarski izraz, prije svega kroz izvanredne “otpise” knjiga, odnosno sustavno i pedantno izbacivanje svih knjiga koje je novi režim smatrao nepoćudnima, bilo zbog nacionalnosti i drugih biografskih detalja autora, mjesta izdavanja knjige ili naposljetku njenog sadržaja.

Otpis knjiga standardni je postupak u bibliotečnoj praksi, a podrazumijeva rashodovanje dotrajalih ili oštećenih ili zastarjelih izdanja i naslova koji se obično mijenjaju novim primjercima ili prevodima, ako su takvi dostupni. S obzirom na prosječne okolnosti u branši propisuje se otpisna kvota, odnosno najviši postotak godišnjeg smanjivanja zatečenog knjižnog fonda. No službeni podaci o knjižnicama u Zagrebu posljednje decenije 20. stoljeća, a slično je tad bilo i drugdje po Hrvatskoj, otkrivaju nam da je kroz više godina otpisivanje bilo pak do tri i pol puta veće od zacrtanog.

O razlozima organiziranog bibliotekarskog izlučivanja dodatne dvije i pol knjige na onu jednu koja je predviđena zahtjevima struke, kazuje ovih tjedana projekt “Otpisane, povodom 20. godišnjice Oluje” kustoskog kolektiva WHW (“Što, kako i za koga?”) i Multimedijalnog instituta mi2 u zagrebačkoj Galeriji Nova. Njemu ćemo se još vratiti, ali zasad obratimo pažnju tek na jednu projektnu komponentu koja omogućuje uvid u predmetnu selekciju naslova; posrijedi je akcija skeniranja otpisanih – prezrenih te izopćenih – knjiga uz poziv građanima na sudjelovanje i donošenje takvih svezaka. Jer mnoge primjerke spašavali su u ono vrijeme (dobro)namjernici u prolazu pokraj npr. smetlišta u blizini javnih knjižnica.

Već iz takvog izloga koji u trenutku pisanja ovog članka broji devedesetak knjiga, biva prilično jasno kojim su se kriterijima vodili arhitekti razgradnje knjižničnih fondova. Stradavala su primarno djela srpskih i crnogorskih pisaca te rijetkih aktualnih hrvatskih disidenata. Također su jednako loše prolazila izdanja tiskana na ekavici i na ćirilici, tj. ona koja su zadovoljavala jedno od ta dva mjerila. Štoviše, bilo je dovoljno da nakladnik bude iz Beograda ili Novog Sada, ponekad i Sarajeva – takva se građa očito smatrala krajnje nepoželjnom. No posebno mjesto zauzimaju knjige koje su odbacivane s motiva tematskih, bez obzira na pismo, tretman dugog i kratkog jata, mjesto objave i nacionalnost autora.

Nacionalni Index librorum prohibitorum

Upravo golema količina djela iz te skupine jest literatura marksistička, revolucionarna, socijalno angažirana, općenito ljevičarska. Valjalo se dakle ubrzano ograditi i izolirati od dotadašnje društvene stvarnosti koja je uključivala zajednički život Hrvata s ostalim južnim Slavenima i život socijalističko-samoupravni. Potonje iskustvo nosilo je sobom i raskošnu dijalektičku zaostavštinu u vidu čitavih knjižnih edicija, a pripadajući teorijski fundamenti znatno su se lakše iz svake upotrebe odstranjivali kroz smrtnu prijetnju ratom pokrenutim po principu međunacionalne netrpeljivosti.

Bilo je to uostalom potrebno i da bi nam danas predsjednica države i nadbiskup zagrebački – ali i mnogi socijaldemokrat – poručivali kako se uz fašizam i nacizam moramo odreći i komunizma, njegove prošlosti i osobito budućnosti. Simultani uzgoj skučenog privatno-posjedničkog mentaliteta i uopće rezona baziranog na instancama nacije, obitelji i pojedinca, u odnosu na prioritete javnog, međunarodnog i solidarnog, uzeo je tako maha uvelike zahvaljujući djelotvornom brisanju zatečene memorije i onemogućavanju njezine daljnje aktivne reprodukcije. I neko je vrijeme opisana taktika izuzetno uspijevala, kompenzirajući određena društvena i ekonomska uporišta identitetskim mitologemima poput onoga srednjeklasnog ili ekskluzivno konfesionalnog, itd.

Proces je donekle usporen tek posljednjih godina, s osjetnijim kriznim te recesijskim urušavanjem materijalne osnove društva i svakako većine pojedinaca. Prevrat koji su osmislili WHW i mi2 tek bi sad mogao, čini se, pasti na iole plodno tlo, ali pogledajmo još i kako je tehnički djelovala ta specifična bibliotečna sanitarna ludnica unatrag svega dva desetljeća. Nije dakako riječ o hrvatskom specifikumu, pa mnogo što u priči podsjeća na lik i djelo Wolfganga Hermanna, nacističkog bibliotekara iz Njemačke početkom tridesetih godina prošlog stoljeća, autora povijesnog dokumenta “Principijelno o čišćenju javnih knjižnica”.

Higijeničari kontrarevolucije

Taj omiljeni spis Josepha Goebbelsa sustavno je klasificirao literaturu koja će narednih godina nestajati u plamenu iz kojeg se rađao živi politički konstrukt arijevske nadrase. Hrvatski je slučaj bio manje transparentan, no ipak je za sobom ostavio dosta traga ideološke srodnosti s historijski relevantnim biblioklastima. Podsjetit ćemo ovdje na nekoliko poznatih momenata, premda ne formalno kronološki, nego se ponaprije ravnajući po njihovoj utjecajnosti i koncepcijskoj važnosti. Na prvom bi se mjestu zaslužio stoga naći Borislav Škegro, potpredsjednik Vlade RH od 1993. do 2000. godine.

S pozicije ministra financija i jednog od viđenijih domaćih rodonačelnika neoliberalne ekonomske doktrine nakon promjene ekonomskog uređenja i privatizacijske prvobitne akumulacije kapitala, upravo Škegro uveo je porez na dodanu vrijednost u Hrvatskoj. Među istaknutijim lošim efektima PDV-a bio je spočetka baš onaj na književno-izdavačku industriju, pa će se ministar financija uto pozvati na krunski argument. Naglasio je naime da će sredstva namaknuta od netom uvedenog poreza biti iskorištena, među ostalim, za “čišćenje knjižnica od knjiga na srpskom i sličnim jezicima”. Uslijed strasnog sraza etnohigijeničarskog i kontrarevolucionarnog impulsa, doduše, mnogi su zatvorili oči pred sarkastičnom činjenicom da je srpskom najsličniji – hrvatski, kao i obrnuto, ako pritom uopće možemo govoriti o različitim jezicima.

I prije tog eksplicitnog ispada, čišćenje knjižnica je godinama regularno funkcioniralo, a na valu dvaju iznimnih oficijelnih akata iz 1992. godine koji neprijeporno svjedoče da ovdje nažalost ipak nije bila posrijedi tek odiozna stihijska aktivnost. Jedan nosi potpis ministrice kulture Vesne Girardi-Jurkić i naslov “Obvezatni naputak o korištenju knjižnog fonda u školskim knjižnicama” te se odlikuje donekle uvijenim formulacijama kao što je “prilagođavanje nastavnih programa novoj stvarnosti” ili “izlučivanje iz knjižnice onih knjiga koje su bile u ranijim popisima lektire”.

Dokumentirani knjigocid

Desetak godina kasnije, Girardi-Jurkić izjavit će: “(…) Držim da je ovo nešto najmekše što se u tom trenutku moglo potpisati, znate valjda kakvo je to bilo vrijeme. Svaki dan imala sam pozive da napravim ovo i ono”. A nedugo prije nje, Veronika Čelić-Tica i Ranka Javor iz Nacionalne i sveučilišne knjižnice, odnosno Knjižnica Grada Zagreba, sastavile su “Naputak za rad s knjižnicama osnovnih škola” koji donosi egzaktna načela o preuređivanju knjižnog fonda prema nacionalnom i rigidnom novolektirnom parametru, i podsjeća na obavezu redovne revizije i marljivog otpisa.

Dragocjen je u istom historiografskom smislu i transkript sjednice Gradskog Vijeća Grada Korčule na kojoj se nije prezalo ni od slavljenja najdokumentiranijeg primjera uništavanja nepoćudnih knjiga. Otpisa dakle u korčulanskoj Gradskoj knjižnici 1997. godine, koji je čak mimo propisane procedure – kako će ustanoviti nadležne županijske službe – provela bibliotekarka Izabel Skokandić. Taj slučaj, kao i druge od Zagreba i Rijeke i Splita do Slatine i Vrsara i Velike Gorice, da istaknemo samo neke, obradit će na koncu sveučilišni profesor ekonomije Ante Lešaja u obimnoj studiji “Knjigocid – uništavanje knjiga u Hrvatskoj devedesetih”.

Desetljeće i pol istraživanja i politološkog analiziranja sabrao je Lešaja, inače utemeljitelj Gradske knjižnice u Korčuli te kroničar praksisovske Korčulanske ljetne škole, u svom neprocjenjivom tekstu. I lako se može ustvrditi kako bi golema većina navedenih spoznaja o uništavanju knjiga u Hrvatskoj ostala bez njegova zalaganja nezabilježena, kao što bi nedosegnutima ostali i politički zaključci o toj kardinalnoj praksi. Ali tu dolazimo također do fakta da niti njegova djela ne bi bilo bez pomoći mnogobrojnih savjesnih knjižničara i raznih vanstrukovnih individua koje su spašavale anatemizirane knjige i potiskivanu istinu o njima.

Upravo njihovi vrijedni prilozi mogli bi zauzeti središnje mjesto u akciji “Otpisane”; prvenstveno njih ćemo vidjeti kako donose svoje i općedruštveno blago na reanimaciju skenerom i digitalni povrat u javni opticaj. Uz neodvojivu reviziju nasljeđa Domovinskog rata, o čemu govori nastavak imena te inicijative – “povodom 20. godišnjice Oluje” – dio je to šire projekcije u suradnji s antikomercijalizacijskim projektom “Javne knjižnice” Multimedijalnog instituta mi2. U istom okviru početkom srpnja niz domaćih umjetnika posvetit će nastupe knjigama koje su bile tragično prokazane, a sad je pokrenuta šira volja da konačno budu opet javno pokazane, dijeljene i čitane. Nema boljeg zaloga, što se tiče odnosa spram pisane riječi i progresivne misli, za društveno sutra zdravije od onoga što nam je bilo namijenjeno koliko jučer.