Les chefs d’État des pays alliés lors de la Seconde Guerre mondiale, la reine Élisabeth II, François Hollande, Angela Merkel, Barack Obama et Vladimir Poutine, célébreront ensemble le 70ème anniversaire du débarquement en Normandie et de la défaite du nazisme en Europe. Pourtant, au même moment, ceux d’entre eux qui se disent « occidentaux » imposent le retour du nazisme en Ukraine et relancent leur politique anti-Russes. Pour Finian Cunningham, le paradoxe n’est qu’apparent…
Informazione
1) I mediocri fondatori dell'Unione Europea (Jacques-Marie Bourget)
2) La Nato spinge l’Ue nella nuova guerra fredda (Manlio Dinucci)
Un'azienda del gas, un oligarca e un'agenzia di pubbliche relazioni senza scrupoli, un gasdotto che non s'ha da fare e impronte che portano molto vicino alla Casa Bianca.
par Manlio Dinucci, Tommaso di Francesco
— Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci, 9.6.2014
Nei giorni scorsi il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, aveva annunciato l’apertura di una procedura Ue contro la Bulgaria per presunte irregolarità negli appalti del South Stream.
Appena tre giorni prima, il 5 giugno, la direzione del Partito socialista bulgaro, che sostiene il governo Oresharski, dava per sicuro che il tratto bulgaro del gasdotto sarebbe stato costruito nonostante la richiesta di Bruxelles di fermare il progetto. «Per noi è d’importanza vitale», sottolineava il vicepresidente della commissione parlamentare per l’energia, Kuiumgiev. E il presidente della Camera dei costruttori, Glossov, dichiarava che «il South Stream è una boccata d’ossigeno per le imprese bulgare».
Che cosa è avvenuto? Il progetto nasce quando, nel novembre 2006 (durante il governo italiano Prodi II), la russa Gazprom e l’italiana Eni firmano un accordo di partenariato strategico.
Nel giugno 2007 il ministro per lo sviluppo economico, Pierluigi Bersani, firma con il ministro russo dell’industria e dell’energia il memorandum d’intesa per la realizzazione del South Stream. Secondo il progetto, il gasdotto sarà composto da un tratto sottomarino di 930 km attraverso il Mar Nero (in acque territoriali russe, bulgare e turche) e da uno su terra attraverso Bulgaria, Serbia, Ungheria, Slovenia e Italia fino a Tarvisio (Udine). Nel 2008–2011 vengono conclusi tutti gli accordi intergovernativi con i paesi attraversati dal South Stream.
Nel 2012 entrano a far parte della società per azioni che finanzia la realizzazione del tratto sottomarino anche la tedesca Wintershall e la francese Edf con il 15% ciascuna, mentre l’Eni (che ha ceduto il 30%) detiene il 20% e la Gazprom il 50%. La costruzione del gasdotto inizia nel dicembre 2012, con l’obiettivo di avviare la fornitura di gas entro il 2015. Nel marzo 2014 la Saipem (Eni) si aggiudica un contratto da 2 miliardi di euro per la costruzione della prima linea del gasdotto sottomarino.
Nel frattempo, però, scoppia la crisi ucraina e gli Stati uniti — con un lavoro all’unisono tra Casa bianca e diplomazia congressuale dei Repubblicani — premono sugli alleati europei perché riducano le importazioni di gas e petrolio russo, che costituiscono circa un terzo delle importazioni energetiche dell’Unione europea.
Primo obiettivo statunitense (scrivevamo sul manifesto il 26 marzo) è impedire la realizzazione del South Stream. A tale scopo Washington esercita una crescente pressione sul governo bulgaro. Prima lo critica per aver affidato la costruzione del tratto bulgaro del gasdotto a un consorzio di cui fa parte la società russa Stroytransgaz, soggetta a sanzioni statunitensi.
Con tono di ricatto, l’ambasciatrice degli Stati uniti a Sofia, Marcie Ries, dichiara: «Avvertiamo gli uomini d’affari bulgari di evitare di lavorare con società soggette a sanzioni da parte degli Usa». Il momento decisivo è quando, domenica scorsa a Sofia, il senatore Usa John McCain, accompagnato da Chris Murphy e Ron Johnson, incontra il premier bulgaro trasmettendogli gli ordini di Washington. Subito dopo Plamen Oresharski annuncia il blocco dei lavori del South Stream.
Una vicenda emblematica: un progetto di grande importanza economica per la Ue viene sabotato non solo da Washington, ma anche da Bruxelles per mano dallo stesso presidente della Commissione europea. Ci piacerebbe sapere che cosa ne pensa il governo Renzi, dato che l’Italia – come ha avvertito allarmato Paolo Scaroni, ancora numero uno dell’Eni – perderebbe contratti per miliardi di euro se venisse affossato il South Stream.
di Manlio Dinucci | da il manifesto, 24 maggio 2014
Silenzio politico-mediatico sulla riunione Nato dei ministri della difesa svoltasi a Bruxelles il 21-22 maggio. Eppure non si è trattato di un incontro di routine, ma di un vertice che ha enunciato una nuova strategia che condizionerà il futuro dell’Europa. Basti pensare che 23 dei 28 paesi della Ue sono allo stesso tempo membri della Nato: di conseguenza le decisioni prese nell’Alleanza, sotto indiscussa leadership statunitense, inevitabilmente determinano gli indirizzi dell’Unione europea.
È stato il generale Usa Philip Breedlove – ossia il Comandante supremo alleato in Europa, nominato come sempre dal presidente degli Stati uniti – a enunciare a Bruxelles il punto di svolta: «Siamo alla decisione cruciale di come affrontare, nel lungo periodo, un vicino aggressivo». Ossia la Russia, accusata di violare il principio del rispetto delle frontiere nazionali in Europa, destabilizzando l’Ucraina come stato sovrano e minacciando i paesi della regione orientale della Nato.
La predica viene dal pulpito di una alleanza militare che ha demolito con la guerra la Jugoslavia, fino a separare anche il Kosovo dalla Serbia; che si è estesa a est, inglobando tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, due della ex Jugoslavia e tre dell’ex Urss; che è penetrata in Ucraina, assumendo il controllo di posizioni chiave nelle forze armate e addestrando i gruppi neonazisti usati nel putch di Kiev. Significativo è che alla riunione dei capi di stato maggiore dei paesi Nato, il 21 maggio a Bruxelles, abbia partecipato anche il generale Mykhallo Kutsyn, nuovo capo di stato maggiore ucraino. Contemporaneamente il segretario generale della Nato Rasmussen, in visita a Skopje, ha assicurato che «la porta dell’Alleanza rimane aperta a nuovi membri», come la Macedonia, la Georgia e naturalmente l’Ucraina. Continua dunque l’espansione a est.
La Nato, avverte il Comandante supremo in Europa, deve intraprendere un «adattamento strategico per affrontare l’uso da parte russa di improvvise esercitazioni, ciber-attività e operazioni coperte». Ciò «costerà denaro, tempo e sforzo». Il primo passo consisterà nell’ulteriore aumento della spesa militare Nato, già oggi superiore ai 1000 miliardi di dollari annui: a tal fine il segretario Usa alla difesa Chuck Hagel ha preannunciato una riunione, alla quale parteciperanno non solo i ministri della difesa ma anche quelli delle finanze, il cui scopo è spingere gli alleati europei ad accrescere la loro spesa militare.
Lo scenario dell’«adattamento strategico» Nato va ben oltre l’Europa, estendendosi alla regione Asia-Pacifico. Qui – sulla scia degli accordi russo-cinesi, che vanificano le sanzioni occidentali contro la Russia aprendole nuovi sbocchi commerciali a est – si prefigura la possibilità di una unione economica eurasiatica in grado di controbilanciare quella Usa-Ue, che Washington vuole rafforzare con la partnership transatlantica per il commercio e gli investimenti. Gli accordi siglati a Pechino non si limitano alle forniture energetiche russe alla Cina, ma riguardano anche settori ad alta tecnologia. È in fase di studio, ad esempio, il progetto di un grosso aereo di linea che, prodotto da una joint venture russo-cinese, farebbe concorrenza a quelli della statunitense Boeing e dell’europea Airbus. Un altro progetto riguarda la costruzione di un super-elicottero in grado di trasportare un carico di 15 tonnellate.
La questione di fondo, sostanzialmente ignorata nella campagna delle elezioni europee, è se l’Unione europea debba seguire gli Stati uniti nell’«adattamento strategico» della Nato che porta a un nuovo confronto Ovest-Est non meno pericoloso e costoso di quello della guerra fredda, oppure debba svincolarsi per intraprendere un suo cammino costruttivo respingendo l’idea di gettare la spada sul piatto della bilancia, accrescendo la spesa militare, per conservare un vantaggio che l’Occidente vede sempre più diminuire.
L’unico segnale che viene dalla Ue è un insulto all’intelligenza: la Commissione europea ha deciso che, dal 2014, nel calcolo del pil la spesa per sistemi d’arma sia considerata non una spesa ma un investimento per la sicurezza del paese. Per aumentare il pil dell’Italia investiamo dunque negli F-35.
http://www.marx21.it/internazionale/europa/24113-i-tabu-della-sinistra-radicale.html
L'articolo è stato pubblicato nel n. 2/2014 della rivista "Gramsci oggi" (www.gramscioggi.org) e lo proponiamo ai nostri lettori come contributo alla discussione dei comunisti sul futuro dell'Europa, anche in vista delle elezioni del parlamento dell'UE.
Note sulla posta in gioco, a margine di una recensione
Aurélien Bernier, di Attac France, ha da poco pubblicato il suo libro sui tabù della sinistra radicale: La gauche radicale et ses tabous: pourquoi le Front de Gauche échoue face au Front national. Il libro non è stato ancora tradotto in italiano, forse non lo sarà mai. Appare per certi versi troppo legato alla dimensione politica transalpina per poter sperare di rompere la coltre di provincialismo che interessa la politica nostrana. Eppure parla anche a noi. Per questo vale la pena soffermarsi sul testo e sui suoi rilievi, perché può arrecare alcuni elementi di giudizio e riflessione anche alla sinistra italiana, che mai come ora procede a tentoni, a fari spenti nella nebbia.
Tratta dell’ascesa del Front national, del suo sfondamento nelle classi popolari e della modifica di indirizzo che, almeno apparentemente, ha impresso la nuova leadership di Marine Le Pen. Ma il soggetto vero dell’analisi e della ricostruzione di Bernier è la sinistra radicale francese. Con la sua ambizione di contenere l’estrema destra e intercettare il malcontento verso le politiche euro-liberali praticate dai socialisti e dagli esponenti della destra ex-gollista convertita al neoliberismo.
Bernier ricostruisce le varie fasi in cui, dal 1984 ad oggi, l’elettorato comunista e apparentato si è assottigliato, specie a seguito della mutation, il processo di allontanamento dalle proprie radici ideologiche e di cultura politica, mentre parallelamente cresceva la fiamma lepenista. Sulle prime il Front national si è affermato presso i settori già collocati a destra dello spettro politico, in zone e milieu nei quali la sinistra comunista e anche i socialisti avevano tradizionalmente un forte insediamento e dove la destra tradizionale neogollista o giscardiana appariva più fragile. Successivamente, grazie alla progressiva perdita di credibilità presso le classi popolari dei socialisti, che con Mitterand aprono la parentesi della scelta neoliberista per non chiuderla mai più, il FN comincia la penetrazione anche tra le fila delle classi lavoratrici deluse dall’esperimento socialista, disegnando una prospettiva inquietante. Anche il PCF subisce un drastico calo di consensi, per avere, all’inizio, seguito i socialisti nella politica del rigore.
Ma in prospettiva è ben altro il terreno della disfida che si profila. Il vero punto di svolta è visto dall’autore nel cambiamento di indirizzo che Le Pen impartisce alla sua creatura nel corso della campagna contro l’Europa di Maastricht. Se, fino ad allora, Le Pen si era caratterizzato come un esponente della vecchia destra anti-repubblicana e vichyssoise (1) che mostrava ammirazione per Reagan, fastidio per l’invadenza dello Stato, e riservava le sue premurose attenzioni per il mondo delle imprese, specie piccole, che dipingeva come tartassate dal fisco, dopo Maastricht cambia tutto. O quasi. Il FN diviene il vessillifero della lotta contro il mondialismo della globalizzazione neoliberista e contro l’integrazione europea, che ne è lo strumento per soggiogare i popoli europei, cancellare le nazioni e soprattutto la Francia. Con questa nuova postura, integrata dalla campagna per la sicurezza e contro l’immigrazione, la crescita della fiamma è continua e costante e gli score che Le Pen fa registrare alle presidenziali paiono crescenti e aprono all’estrema destra ben altre prospettive.
Ma sulle prime la bandiera della questione nazionale e della lotta contro l’europeismo non viene lasciata in esclusiva al FN. In occasione del referendum del 1995 per chiedere ai francesi la loro sanzione del Trattato di Maastricht tutte le principali famiglie politiche si spaccano trasversalmente. Del resto, come hanno sostenuto Hix e Lord (2), di fronte al processo d’integrazione europeo le forze politiche non si polarizzano solamente in senso orizzontale lungo la dicotomia destra-sinistra ma anche in senso verticale, lungo la dicotomia difesa della sovranità-devoluzione dei poteri all’unione. Così alla campagna contro Maastricht dell’estrema destra fa da contraltare quella del Partito comunista francese, custode della sovranità e dell’idea di Nazione declinata a sinistra, sulla scorta del precedente della rivoluzione giacobina e della Resistenza. Durante la campagna referendaria del 1995 per la ratifica del Trattato a sinistra si aggiunge ai “no” Jean-Pierre Chevènement, a destra si schierano contro Maastricht Philippe Séguin e Charles Pasqua. I principali partiti (socialisti, RPR e UDF (3) ) sostengono il sì che la spunterà nelle urne, ma di pochissimo. Il risultato mostra tutta la potenzialità della critica radicale all’integrazione liberista europea. La strada sarebbe aperta per la costruzione di una vera alternativa di sinistra, sovranista e di classe. Invece viene fatto all’estrema destra un insperato regalo.
- Lo scivolamento dei comunisti: da euroscettici a eurocostruttivi
Purtroppo di lì a poco il PCF, con la segreteria di Robert Hue, imboccherà la strada della mutation e cercherà di riportare i comunisti all’intesa con i socialisti e con i verdi in quello che sarà il governo della “sinistra plurale”, che di plurale avrà solo la composizione ministeriale, l’indirizzo restando fermamente fissato sulla politica liberale scelta anni addietro dal PS. Nel giro di qualche mese Hue e i dirigenti che gli si stringono attorno cambiano discorso sull’Europa e si convertono al fumoso, inconcludente, ingenuo e poco credibile refrain dell’altra Europa possibile. Hue stesso si definisce “eurocostruttivo”. C’è chi, non senza ragione, lamenta una conversione vera e propria. Alle elezioni europee del 1999 il PCF si camuffa dietro l’insegna di una lista alter-europeista e i suoi massimi dirigenti sostengono ormai che per cambiare in Francia occorra cambiare l’Europa, vaneggiando di una possibile Europa sociale. L’inversione dei fattori è ormai fatta, e in questo caso cambia il risultato; la svolta del PCF è smaccatamente bocciata dalle urne, la lista della sinistra radicale (che aveva imbarcato anche esponenti favorevoli all’aggressione alla Jugoslavia) prende meno di quanto aveva raccolto il solo PCF nella tornata precedente e appare per quello che è: un insperato regalo all’estrema destra.
Al discredito per essere rimasto nel governo Jospin, a rimorchio del PS senza riuscire ad incidere in alcun modo, il PCF somma allora l’errore della metamorfosi che imprime al suo discorso sull’Europa. Dal fermo, patriottico e sociale al contempo, “no” della gestione Marchais, paladina della difesa della sovranità nazionale fino allo slogan “produciamo francese”, si passa alla versione euro-critica e alter-europeista. Sulla scia di un movimento alter-mondialista di cui oggi non si ha più nemmeno il ricordo (ma che in quegli anni veniva dipinto da molti come la superpotenza del futuro) si inizia a sostenere la litania: “Un’altra Europa è possibile”, ma curandosi bene dal poter indicare come arrivarci.
Bernier fa notare che il discorso del PCF in mutazione si assimila progressivamente e velocemente alla rimozione della questione nazionale, della questione della difesa della sovranità come spazio di esercizio della democrazia e strumento per la difesa e l’avanzata delle rivendicazioni di classe. Nella sinistra radicale inizia a prevalere la visione strabica e ottusa dei gruppi trotzkisti, che ripudiano la questione nazionale come destrorsa, abbandonandola nelle mani della demagogia lepenista. E’ questo passaggio a rendere possibile l’accordo di governo tra il PCF e i socialisti di Jospin nel 1997. Al sì dei socialisti per l’adozione della moneta unica si contrapponeva fermamente il no dei comunisti all’euro. Dietro la coltre dell’impegno (verbale) a cercare di cambiare questa concreta Unione europea, tante cose sarebbero passate in fanteria nell’arco di una breve stagione.
Successivamente, un altro referendum, quello del 4 marzo 2005 per ratificare il Trattato Costituzionale Europeo, segnerà la vittoria dei “no” all’integrazione e mostrerà come i cittadini francesi abbiano saputo scorgere nel processo d’integrazione europeo un chiaro attacco alla loro sovranità, ai loro diritti, al loro tenore di vita. In breve tempo il Front national resta l’unico partito organizzato in campo a sostenere una netta linea euroscettica e cerca di affermarsi come autentica forza anti-mondialista e anti-sistema. Chevènement continua, beninteso, a sostenere la sue ragioni, ma da una posizione sempre più isolata, come un profeta nel deserto della sinistra legata al carrozzone liberal-europeista del Ps. A destra Séguin viene marginalizzato e riassorbito da Chirac, mentre Pasqua tenta per una breve stagione la strada di una propria forza autonoma e sovranista di destra; il tentativo riscuote un certo successo sulle prime ma poi si sgonfia per varie ragioni. Il discorso del PCF continua ad essere confuso, pur restando il partito ancorato saldamente sulla linea del “no” nel referendum del 2005.
L’esplosione del FN è rallentata da scissioni interne e dalla scelta del vecchio leader di cavalcare la tigre della lotta all’immigrazione e l’islamofobia, strade che gli vengono ben presto sbarrate dalla deriva impressa da Sarkozy alla destra tradizionale francese. Ma i nodi prima o poi vengono al pettine e la crisi scopre i guasti causati dall’euro e dalla scelta europea presso un pubblico via via più largo. Il Front national è ben appostato per approfittarne. La sinistra radicale si ritrova a dover ripensare tutta la propria strategia.
Con la nascita del Front de Gauche, che tiene assieme il PCF, l’ex sinistra socialista di Mélenchon e un’altra formazione di origine trotzkista, una certa radicalità sembra ritrovata. Durante l’ultima campagna per le presidenziali Mélenchon sosteneva l’idea di disobbedire ai trattati europei. Una posizione che però manca al fondo di chiarezza, circa le eventuali caratteristiche, conseguenze e implicazioni di simile parola d’ordine. Se alle presidenziali, per la prima volta dall’era Marchais, il candidato dei comunisti e della sinistra radicale raccoglie più del 10%, alle politiche il Front viene un po’ ridimensionato (sotto il 7%).
Eppure la sfida per la sinistra transalpina, e in prospettiva non solo transalpina, è chiara: la lotta per l’egemonia nella società e per rispondere ai bisogni delle classi popolari è ingaggiata, o la vinceranno i comunisti con quanti alleati di sinistra riusciranno ad aggregare attorno a un loro progetto, o la vincerà il Front national (4).
- La posta in gioco, oggi, in Europa
Per coltivare la possibilità della vittoria, Bernier mette al centro delle sue riflessioni la necessità che la sinistra radicale abbandoni tre tabù che caratterizzano il suo discorso sull’Europa e auspica il ritorno alla radicalità con la quale il PCF combatteva la sua battaglia sovranista da sinistra (un riconoscimento e un invito significativo da parte di chi non proviene, per filiazione ideologica, dall’ortodossia marxista-leninista).
I tre tabù sono: il protezionismo (che viene oggi rifiutato in favore della scelta liberoscambista), la sovranità nazionale (dipinta come di destra o non considerata, e su questo si potrebbe scrivere un libro); l’Europa (a cui si guarda come ad un feticcio che non ci si può rifiutare di idolatrare, pena il rischio di essere additati come nazionalisti). Quanto di questo discorso riguarda anche noi!
Non mettere in discussione il liberoscambismo e la libera circolazione dei capitali porta inevitabilmente ad ingessare sul nascere qualsiasi ipotetica politica alternativa di sinistra. Non affrontare il nodo ha ricadute evidenti. Supponiamo che un esecutivo di sinistra voglia rivedere il peso dei carichi fiscali, redistribuendo le imposte in senso progressivo. I maggiorenti potranno spostare i capitali all’estero, e la fuga dei capitali metterebbe in panne la politica economica del governo. Se si volesse difendere il mondo del lavoro dal dumping salariale e dalla concorrenza al ribasso dei diritti, poi, non ci si potrebbe che scontrare con la possibilità delle imprese di delocalizzare e con l’effetto di induzione alla svalutazione interna svolto dalla moneta unica. Occorre tenere in considerazione che l’architettura delle politiche neoliberiste (che costituisce la base e l’essenza dell’Unione europea) funziona anche come un impedimento all’implementazione di politiche espansive e redistributive ispirate ai principi della democrazia sociale. Ma non ditelo a Barbara Spinelli e ai suoi accoliti…
Per questo acquisisce un significato strategico la questione dell’appropriazione della bandiera della sovranità nazionale da parte della sinistra di classe. Bernier ci dice che ultimamente il Front de Gauche si sta riposizionando, nonostante gli errori dell’era Hue, e nonostante la crisi che attraversano le relazioni tra le sue componenti. Ma per riuscire ad adottare una postura potenzialmente vincente che possa mettere la sinistra radicale francese in grado di contrastare il montare dell’estrema destra è necessario rompere gli ultimi tabù e passare dalla protesta alla proposta; e l’unica proposta possibile è quella di propendere per la rottura unilaterale dei trattati in modo da riconquistare la sovranità, conditio sine qua non di ogni cambiamento progressivo.
La prospettiva scelta da Bernier è certo particolare. Molte altre sarebbero le considerazioni da fare sulla crisi della sinistra radicale (in Francia e in Europa) e sulla crescita del Front national e di formazioni di estrema destra, dinamiche nelle quali giocano molteplici fattori. Ma la scelta operata dall’autore tiene conto della questione che oggi è indubbiamente la più rilevante in questa parte di mondo, anche se andrebbe in qualche modo sottolineato con maggior forza, a nostro personale giudizio, il parallelismo che corre tra l’abbandono della questione nazionale da parte dei partiti comunisti e la rottura con il loro bagaglio ideologico-strategico di matrice marxista-leninista. Più si allontanano dall’ortodossia, più rimuovono (quando non ripudiano) la questione nazionale.
Le ricadute e le conseguenze del discorso dell’autore e della sua ricostruzione sono chiare: solo impugnando l’arma della sovranità da riconquistare e rifiutando il discorso integrazionista e liberoscambista (cavalli di Troia del neoliberismo) sarà possibile proporre in modo credibile politiche che possano invertire l’attuale tendenza reazionaria e difendere gli interessi delle classi popolari, impedendo al contempo alla demagogia dell’estrema destra di approfittare della legittimazione che le viene dall’avere il sostanziale monopolio della questione nazionale, seppur malamente declinata, e dall’apparire come l’unica forza radicalmente anti-sistema.
La scelta di porsi sullo scivoloso, angusto e poco credibile (perché non fattibile) terreno della riforma della costruzione europea, dell’accettazione della moneta unica e della promozione di una futuribile “altra Europa possibile” lascia la sinistra radicale disarmata e pertanto incapace di incanalare il disagio delle classi popolari e di fette crescenti della popolazione che vengono spinte verso l’astensionismo o sono attratte da formazioni demagogiche.
La scelta che occorre avere il coraggio di operare è cercare di recuperare consenso nell’astensione e nella disaffezione promuovendo una politica più coraggiosa, radicale e realista, anziché limitarsi a cercare di raccogliere le schegge perse dalle formazioni socialdemocratiche nella loro continua marcia verso destra, magari in vista di un nuovo accomodamento, che sul breve periodo può premiare con qualche eletto ma che sul medio periodo lascia la sinistra radicale in mutande
- E in Italia? Anche in Italia… (Consiglio ai sordi)
Sono considerazioni che si stanno facendo strada un po’ ovunque, in Francia come in Italia. Da questo punto di vista un certo parallelismo è già percepibile. Con tutte le differenze del caso, sia chiaro. Intanto perché in Francia c’è un Front de Gauche (anche se malandato) costruito attorno a un Partito comunista, anche se debilitato da una mutazione con la quale non riesce a chiudere i conti in modo convincente, passaggio obbligato per rilanciarsi abbeverandosi alle proprie salde radici, patriottiche e internazionaliste. Al Front de Gauche stesso l’autore chiede, in modo convincente, più coraggio nel rompere i tre tabù che menzionavamo. In Italia, invece, non manca solamente un fronte di sinistra degno di questo nome. Come prendere seriamente formazioni costruite attorno a guru che credevano che non fosse più centrale il conflitto capitale-lavoro o che non esistesse più l’imperialismo? Come pretendere di sostituire l’attività strutturata delle vecchie sezioni con il salotto di Barbara Spinelli? (anche al netto delle riflessioni che si possono e devono fare circa le strampalate sciocchezze che da quel luogo provengono). Ma soprattutto in Italia manca un partito comunista che voglia davvero essere tale.
Nel contesto attuale la sua costruzione è certamente possibile. Ma per rendere il progetto vitale occorrerebbe risultare in grado di dare una speranza e una prospettiva di cambiamento anzitutto alle giovani generazioni, le più schiacciate dalla crisi. Per questo oggi, in Italia, i comunisti dovrebbero anzitutto costruire a partire dalla risposta da dare alle due questioni cruciali del nostro tempo: la questione sociale e la questione nazionale. E dovrebbero farlo a partire dalle risposte che dovrebbero dare all’attuale crisi europea, che rappresenta il nodo gordiano da tagliare. Da questo punto di vista, analogamente alle riflessioni svolte da Bernier sul panorama politico francese, i comunisti italiani non possono sostenere le stesse traballanti castronerie della sinistra radicale alter-europeista e dovrebbero caratterizzarsi come i veri difensori e sostenitori del ritorno alla sovranità nazionale, in tutte le sue dimensioni, ivi compresa quella monetaria. Chi si trincera dietro la presunta impossibilità dell’esercizio della sovranità è già fuori dalla storia, fuori dal campo di contesa politico. Chi rifiuta di dare fiducia al proprio popolo non può chiederla. Chi pretende che l’Italia non ce la possa fare si è già arreso, come può essere un interlocutore, un punto di riferimento?
In Italia vi sarebbe, tra l’altro, il vantaggio che lo spazio della critica alla Ue e all’euro non è ancora egemonizzato da alcuna formazione demagogica e di destra (affine al liberismo), a differenza che in Francia, dove il FN ha occupato abilmente quel vuoto. E’ vero che determinate formazioni demagogiche e di destra anche in Italia cercano di posizionarsi in tal senso. Ma sono all’inizio e godono, al momento, di una credibilità limitata, a causa dei loro trascorsi nei governi Berlusconi, dove non hanno dato affatto buona prova di sé.
A maggior ragione i comunisti dovrebbero porsi con urgenza l’obiettivo di presidiare questo spazio, evitando di cadere nella trappola illogica per cui se alcune formazioni di destra sostengono (a parole e a modo loro) determinate battaglie, bisogna negarne a priori l’eventuale validità. La Terra resta sferica e l’euro resta una trappola anche se lo dicono il Front national o la Lega Nord. Una ragione in più per non abbandonare determinate parole d’ordine.
Una delle parole d’ordine che la sinistra nostrana ha abbandonato da tempo è quella relativa alla difesa della sovranità nazionale. Se è vero che né il movimento socialista né la nuova sinistra avevano mai compreso la valenza e la portata della questione nazionale, per il movimento comunista valgono tutt’altre riflessioni (si pensi alla Resistenza, per non citare che un passaggio). La rimozione di questa radice dal proprio DNA è andata di pari passo con lo snaturamento e la mutazione. Passaggi che hanno condotto i comunisti al lumicino in cui ora si trovano. Per uscire da questo stato di minorità occorre tornare se stessi.
Il passaggio delle prossime elezioni europee rappresentava un’ottima occasione per mettere in campo il progetto di costruzione di una sinistra patriottica e di classe e i comunisti italiani avrebbero dovuto posizionarsi per agire in quest’ottica. Invece hanno preferito accodarsi, in base ad una logica suicida, alla costruzione di una lista che difende la solita aria fritta alter-europeista, la lista Tsipras, che di fatto è la lista Spinelli. Tale lista ha risucchiato tutta la sinistra radicale. Persino la componente del Prc che si definisce comunista ha applaudito all’operazione. Segno che da quelle parti, ormai, ci si pone ben pochi problemi in merito alla direzione di marcia. Coloro che sbeffeggiavano Bertinotti ieri, oggi gli danno ragione, scimmiottandone le gesta.
I risultati della scelta di pilotare i comunisti italiani nella lista Tsipras-Spinelli sono sotto gli occhi di tutti, erano scontati e prevedibili. Tutto si può rimproverare ai promotori della lista, tranne che non siano stati chiari sin dal principio. Ora basterebbe aprire gli occhi, e dirsi con franchezza che un conto è lavorare ad un progetto unitario, un altro è lavorare ad un aggregato confusamente di sinistra. Almeno ora, si dovrebbe scegliere con chiarezza di riconquistare ai comunisti la questione della sovranità nazionale, di riconquistare se stessi. Lavorando per costruire un fronte della sinistra sovranista e di classe in vista delle prossime elezioni politiche. Occorre scegliere, altri lo hanno fatto. Che si dimostri di voler fare sul serio. All’Italia e ai lavoratori italiani, ai tantissimi giovani senza futuro, serve ben altra offerta politica… e gli stessi militanti e simpatizzanti della sinistra comunista meritano di meglio.
NOTE
1) Vichysta”, sostenitrice ed erede del regime collaborazionista di Vichy.
2) S. Hix, C. Lord, Political Parties in the European Union; Londra, MacMillan 1997, p.50. Cit. in: M. PierMattei, Partiti d’Europa. Integrazione e federazioni transnazionali; in: “Memoria e Ricerca”, n.24 2007.
3) RPR, Rassemblement pour la République era la formazione neogollista guidata da Jacques Chirac, l’UDF, Union pour la démocratie française, era il partito composto dal centro destra democristiano e liberale degli eredi di Valéry Giscard d’Estaing.
4) “Noi abbiamo l’impressione di trovarci impegnati in una corsa contro il tempo con l’estrema destra. Il popolo che rigetta il sistema sceglierà tra la nostra proposta e la loro”; dichiarazione di Mélenchon a “Sud-Ouest”, 23 marzo 2013
http://contropiano.org/politica/item/24465-l-unione-europea-di-fronte-a-se-stessa
Tra poco meno di un mese si apre il semestre europeo presieduto da Renzi e dall'Italia. Questo rappresenta un test ambivalente sia sul piano della governance che su quello dell'opposizione popolare e delle alternative. Può essere l'occasione per portare più a fondo il confronto su questioni rilevanti abbondantemente rimosse o sottovalutate ma che peseranno come macigni sulle prospettive del mondo reale nel quale ci è toccato di vivere.
La Commissione Europea ha pubblicato in questi giorni un documento sulla Strategia europea di sicurezza energetica. Si tratta per ora solo di una proposta che ha l’obiettivo di definire le linee guida e di proporre azioni per affrontare le principali sfide energetiche che l’UE si troverà ad affrontare nel breve, medio e lungo periodo. L’Unione Europea infatti importa il 53% dei suoi consumi totali, 90% nel caso del petrolio e 66% in quello del gas naturale. E' evidente dunque il livello di “vulnerabilità” di uno dei principali blocchi economici del mondo in termini di risorse energetiche, il che rende l'Unione Europea un anello ancora debole su questo terreno. E' evidente come i due conflitti scatenati alle porte di casa – a sud in Libia e ad est in Ucraina – segnino un livello elevato di questa vulnerabilità.
Un intervento militare fortemente voluto da una potenza europea come la Francia in Libia e una aperta ingerenza di paesi europei come Germania, Polonia e repubbliche Baltiche in Ucraina, hanno provocato un doloroso paradosso: la ricerca di una invocata stabilità ha provocato invece il massimo di instabilità. E adesso metterci rimedio sta diventando sempre più difficile, oltrechè sanguinoso per le popolazioni coinvolte sia in Libia che in Ucraina. Una volta deposto e ucciso Gheddafi o deposto e costretto alla fuga Yanukovich, le operazioni di “regime change” non hanno prodotto nuove e accondiscendenti leadership nei paesi destabilizzati.
Anche perchè a rendere le cose difficili per l'Unione Europea non sono tanto i gruppi armati in Libia o le repubbliche popolari secessioniste nell'Ucraina orientale, quanto il primus inter pares tra i paesi alleati: gli Stati Uniti.
Gli Usa hanno la percezione esatta della vulnerabilità energetica dei loro partner/competitori europei. Dopo aver incassato la sfida dell'avvento dell'euro, della competizione sulle tecnologie e della barriera deflazionista che ha impedito agli Usa di scaricare sull'Europa gli effetti inflattivi del loro quantitative easing come nei “bei tempi passati” del Washington Rule, gli Stati Uniti hanno deciso di giocare duro con e contro i loro alleati nella Nato. Hanno così cominciato a colpire sui nervi scoperti. Hanno lasciato la Francia giocare alla grandeur nella destabilizzazione della Libia e hanno bruscamente alzato l'asticella del conflitto con la Russia. In pratica due dei principali serbatoi delle forniture energetiche dell'Europa sono diventati incerti e i rubinetti si stanno chiudendo, aggiungendoci un pizzico di cinismo attraverso cui i danneggiati (gli europei) dovrebbero anche mostrarsi soddisfatti di essersi fatti male da soli.
Non solo. Gli Stati Uniti stanno infatti agendo apertamente non solo per allargare la faglia tra Unione Europea e Russia ma anche quella all'interno della stessa Ue tra paesi fondatori e paesi della periferia est. Nel suo viaggio in Polonia che ha preceduto il vertice del G7 a Bruxelles, il presidente statunitense non solo ha incontrato il “suo uomo di cioccolata a Kiev” cioè il neopresidente ucraino Poroshenko (che sin dal 2006 era ritenuto l'interlocutore privilegiato di Washington) ma ha anche incontrato a parte i leader cechi, slovacchi, baltici, bulgari e rumeni. Una sorta di corte degli agenti statunitensi dentro l'Unione Europea e la Nato. E in questo contesto ha reso noto di voler stanziare quasi un miliardo di dollari per installare soldati e mezzi militari statunitensi nei paesi dell'Europa dell'Est, molto più a oriente delle storiche basi militari di Ramstein in Germania o di Aviano in Italia, molto più a ridosso della Russia.
Le dichiarazioni bellicose di Obama contro Putin e la Russia lasciano intravedere che l'asticella della tensione verrà tenuta alta o alzata ulteriormente perchè, come ricorda Brzezinski nella sua opera omnia (“La Grande Scacchiera”), la Nato è lo strumento principale per interferire sulla politica europea proprio in quanto fattore politico-militare, ovvero il punto ancora debole della UE per potersi definire e agire come un polo imperialista compiuto.
Alla Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco (gennaio), avevamo visto i ministri degli Esteri e della Difesa tedeschi cominciare a parlare il linguaggio della grande potenza e non solo sul piano economico. La Francia continua a portare come unica dote - per non essere retrocessa tra i Pigs – il suo arsenale nucleare e un discreto complesso militare-industriale e coglie ogni occasione – con il gollista Sarkozy o con il galletto Hollande – per mostrarsi bellicista e oltranzista oltre ogni raziocinio. L'Italia del partito di Maastricht (Amato, Ciampi, Prodi, Monti, Letta, Renzi) galleggia, evoca scenari distensivi ma poi ha detto di si a tutto: dalla base di Vicenza al Muos, dagli F35 fino alla clamorosa doppia firma di Letta al G8 dello scorso anno a Mosca, sia sul documento voluto dagli Usa contro la Siria che al documento voluto dalla Russia contro l'intervento in Siria.
La politica militare e le fonti energetiche restano dunque i due punti di vulnerabilità delle ambizioni al polo imperialista europeo come competitore globale. Da qui si capisce la posta in gioco e il senso delle affermazioni di Martin Feldstein quando profetizzava nel 1997 che “l'introduzione dell'euro avrebbe portato alla discordia e alla guerra sia tra gli Stati Uniti e l'Europa che dentro l'Europa”.
Adesso ci siamo dentro fino al collo. Le guerre e l'instabilità alle periferie sud ed est dell'Unione Europea sono la conseguenza di questa sfida competitiva su scala globale, una classica competizione interimperialista direbbero – e ragione – i classici.
Con la crisi che continua a mordere, la lotta per le risorse che si fa più violenta, con i rimedi con non funzionano e lo sviluppo disuguale che si fa più acuto – il salto della cavallina, direbbe Alvin Toffler – i pericoli di una rottura storica, della guerra, si fanno più reali, quasi materializzabili. Se ne accorgono quelli che hanno a disposizione tutte le informazioni, non se ne accorgono invece quelli che dovrebbero mettersi di traverso. Per venti anni li hanno tenuti ben rincoglioniti con l'antiberlusconismo, adesso li distraggono con una leadership giovanile e ansiosa di fare il lavoro sporco che attendevano di fare sin dal 1992, proprio con la nascita di quell'Unione Europea che in tanti si ostinano a non voler vedere come il problema. L'occasione del Controsemestre popolare in opposizione al semestre europeo a guida italiana offre l'opportunità di recuperare il tempo e i passi perduti. Nella piattaforma per la manifestazione del 28 giugno e della campagna per il controsemestre per la prima volta, dopo troppo tempo, c'è anche il tema dell'opposizione alla guerra. C'è tanto da lavorare e da qualche parte occorre cominciare.
LES ÉLECTIONS EUROPÉENNES DE MAI 2014. NOUVELLES ÉTAPE DANS L’IMPLOSION DU PROJET EUROPÉEN
- La construction européenne a été conçue et mise en œuvre dès l’origine pour garantir la pérennité d’un régime de libéralisme économique absolu. Le traité de Maastricht (1992) renforce encore ce choix fondamental, et interdit toute autre perspective alternative. Comme le disait Giscard d’Estaing : « le socialisme est désormais illégal ». Cette construction était donc par nature anti-démocratique et annihile le pouvoir des Parlements nationaux élus, dont les décisions éventuelles doivent rester conformes aux directives du pouvoir supranational défini par la pseudo-constitution européenne. Le « déficit de démocratie » des institutions de Bruxelles, à travers lesquelles opère la dictature néo-libérale, a été et demeure consciemment voulu. Les initiateurs du projet européen, Jean Monet et autres, n’aimaient pas la démocratie électorale et se donnaient l’objectif d’en réduire le « danger », celui d’engager une nation hors des sentiers tracés par la dictature de la propriété et du capital. Avec la formation de ce que j’appelle le capitalisme des monopoles généralisés, financiarisés et mondialisés, à partir de 1975, l’Union Européenne est devenue l’instrument du pouvoir économique absolu de ces monopoles, créant les conditions qui qui permettent d’en compléter l’efficacité par l’exercice parallèle de leur pouvoir politique absolu. Le contraste droite conservatrice/gauche progressiste, qui constituait l’essence de la démocratie électorale évoluée, est de ce fait annihilé, au bénéfice d’une idéologie de pseudo « consensus ».
Ce consensus repose sur la reconnaissance par les opinions générales en Europe que les libertés individuelles et les droits de l’homme sont garantis, au moins dans la majorité des Etats européens sinon dans ceux de l’ex Europe orientale, mieux qu’ailleurs dans le monde. C’est exact et à l’honneur des peuple concernés. Néanmoins la double dictature économique et politique des monopoles généralisés annihile la portée de ces libertés, privées de leur capacité de porter en avant un projet de société qui transgresserait les limites imposées par la logique exclusive de l’accumulation du capital.
Par ailleurs l’unité européenne a été popularisée avec l’argument alléchant que celle-ci conditionnait l’émergence d’une puissance économique égale à celle des Etats Unis et autonome par rapport à celle-ci. Mais en même temps la constitution européenne combinait les adhésions à l’Union Européenne et à l’OTAN, en qualité d’allié subalterne des Etats Unis. Le nouveau projet d’intégration économique atlantique devrait dissiper les mensonges de cette propagande : le marché européen sera soumis aux décisions du plus fort, les Etats Unis. Adieu l’indépendance de l’Europe !
2. Mais le régime économique libéral absolu, imposé par la constitution européenne, n’est pas viable. Sa raison d’être exclusive est de permettre la concentration croissante de la richesse et du pouvoir, au bénéfice de l’oligarchie de ses bénéficiaires, fût-ce au prix d’une austérité permanente imposée aux classes les plus nombreuses, à la régression des acquis sociaux, voire au prix de la stagnation économique. La spirale infernale de l’austérité produit pour l’ensemble européen la croissance permanente des déficits et de la dette (et non leur réduction comme le prétend la théorie économique conventionnelle, sans fondements scientifiques). Les exceptions (l’Allemagne aujourd’hui) ne peuvent l’être que parce que les autres sont, eux, condamnés à subir leur sort. L’argument avancé – « il faut faire comme l’Allemagne » – n’est pas recevable : par sa nature même le modèle ne peut pas être généralisé.
Néanmoins le pouvoir absolu exercé par les monopoles généralisés et l’oligarchie de leurs serviteurs ne permet pas sa remise en cause par les « opinions générales ». Ce pouvoir absolu est déterminé à défendre jusqu’au bout et par tous les moyens ses privilèges, ceux des oligarchies, seules bénéficiaires de la concentration sans limite de la richesse.
3. Les élections européennes de mai 2014 traduisent le rejet par la majorité des citoyens de « cette Europe » (sans nécessairement être conscients que « l’Europe » ne peut être autre). Avec plus de la moitié d’abstentionnistes dans le corps électoral (plus de 70% d’abstentions dans l’Est européen), 20% de votes en faveur de partis d’extrême droite se déclarant « anti-européens », les listes dites « europhobes » en tête en Grande Bretagne et en France, 6% en faveur de partis de la gauche radicale critique de Bruxelles, cette conclusion s’impose. Certes, en contrepoint, la majorité de ceux qui ont participé au vote, se réclament toujours du (ou d’un) projet européen, pour les raisons données plus haut (« l’Europe garante de libertés et des droits ») et parce qu’ils pensent encore – avec beaucoup de naïveté – qu’une « autre Europe » (des peuples, des travailleurs, des nations) est possible, alors que la construction européenne – en béton armé – a été conçue pour annihiler toute éventualité de sa réforme.
Le vote de défiance d’extrême-droite porte en lui des dangers qu’on ne doit pas sous-estimer. Comme tous les fascismes d’hier, ses porte-paroles ne mentionnent jamais le pouvoir économique exorbitant des monopoles. Leur prétendu « défense de la nation » est trompeuse : l’objectif poursuivi est – outre l’exercice de leur pouvoir dans les différents pays concernés de l’Union Européenne – le glissement de l’Union Européenne de son régime actuel administré par la droite parlementaire et/ou les sociaux-libéraux à un régime nouveau géré par une droite dure. Les débats sur les origines véritables de la dégradation sociale (précisément le pouvoir des monopoles) sont transférés vers d’autres domaines (l’exploitation du bouc émissaire de l’immigration en particulier).
Mais si ce succès douteux de l’extrême droite « anti européenne » est celui qu’il est, la faute en revient à la gauche radicale (à gauche des partis du socialisme ralliés au libéralisme). Par son manque d’audacité dans la critique de l’Union Européenne, par l’ambiguïté de ses propositions, qui alimentent l’illusion de « réformes possibles », cette gauche radicale n’est pas parvenue à faire entendre sa voix.
4. Dans le chapitre intitulé « L’implosion programmée du système européen » (in, L’implosion du capitalisme, contemporain, 2012), je dessinais les lignes générales de la dégradation programmée de l’Union Européenne. On aura alors une petite Europe allemande (l’Allemagne, agrandie par ses semi-colonies d’Europe orientale, allant peut-être jusqu’à l’Ukraine), la Scandinavie et les Pays Bas attelés à cette nouvelle zone mark/euro ; la France ayant choisi son adhésion « vichyste » à l’Europe allemande (c’est le choix des forces politiques dominantes à Paris), mais peut-être tentée plus tard par un renouveau « gaulliste » ; la Grande Bretagne prenant ses distances et affirmant encore davantage son atlantisme dirigé par Washington ; la Russie isolée ; l’Italie et l’Espagne hésitant ente la soumission à Berlin ou le rapprochement avec Londres. L’Europe de 1930, ais-je alors écrit. On y va.
http://www.voltairenet.org/article183988.html
Le paradoxe des commémorations du débarquement allié
- [PHOTO: La signature des Accords de Munich est présentée comme la volonté d’éviter une guerre avec l’Allemagne en reconnaissant que l’on est allée trop loin en la démembrant avec le Traité de Versailles. Il s’agit en vérité de reconstituer la force de frappe de l’Allemagne pour qu’elle détruise l’URSS.]
Traduction
Gérard Jeannesson
Source
Strategic Culture Foundation
[1] L’emploi du terme Occident pour désigner non pas une région géographique, mais les gouvernements pro-US (y compris aujourd’hui des États comme la Colombie ou le Japon), date de la Guerre froide. Il s’agit de poser un conflit entre deux civilisations, d’un côté l’Occident qui serait fondé sur les valeurs de l’individu, et de l’autre l’Orient (autour de la Russie et de la Chine), qui serait intrinsèquement collectiviste, donc naturellement communiste. NdlR.
[2] “All-Ukrainian Union "Svoboda" program”, Voltaire Network, 12 August 2009.
[3] Pieter Lagrou, « Les guerres, la mort et le deuil : bilan chiffré de la Seconde Guerre mondiale », in Stéphane Audoin-Rouzeau et al., dir., La violence de guerre 1914-1945, Bruxelles, Complexe, 2002, p. 322 (313-327).
[4] In Our Time : The Chamberlain-Hitler Collusion, par Clement Leibovitz, Monthly Review Press, 1997. Une version ultérieure en français est disponible sous le titre L’Entente Chamberlain Hitler, L’Harmattan, 2011.
[5] Un fait historique méconnu :
Au lendemain de la signature des Accords de Munich, Neville Chamberlain, le Premier ministre britannique, a invité le chancelier Hitler à un petit entretien privé. Et puis, sans crier gare, il a sorti un papier de sa poche portant cette inscription :
« Nous ci-devant représentés, le Führer, chancelier d’Allemagne, et le Premier ministre de la Grande-Bretagne, avons eu ce jour un nouvel entretien et sommes tombés d’accord pour considérer que la question des relations anglo-allemandes est de la première importance pour nos deux pays et pour l’Europe. »
On y pouvait lire également que :
Les dirigeants de nos deux pays estiment que « l’accord signé la nuit dernière et le traité naval germano-britannique sont le symbole du désir des deux nations de ne jamais se faire la guerre. »
Les historiens oublient généralement de mentionner ce document. Pourtant, c’est vraisemblablement cet accord non protocolaire qui a laissé les mains libres à Hitler pour entreprendre son agression à l’Est. Ce n’est certainement pas l’accord de Munich qui traitait uniquement du sort de la Tchécoslovaquie !
Dans la filmographie historique de l’époque, on retrouve souvent la scène de l’arrivée à Londres de Chamberlain à son retour d’Allemagne, après la signature des Accords de Munich. Il se tient debout près de son avion, brandit une feuille de papier et l’agite devant la foule, et proclame alors d’une voix forte : « Nous avons sauvé la paix ! «
Et tout le monde pense, dans l’assemblée venue pour l’accueillir, que le Premier ministre tient dans sa main la copie des accords signés à Munich. Et pourtant, le papier que Neville Chamberlain agite devant la foule, n’est autre que la déclaration convenue hors protocole, lors de sa petite réunion complémentaire avec le Chancelier Hitler.
[6] Le « Proche-Orient », en anglais « Middle-East », ne désigne pas une région géographique naturelle, mais l’ensemble du Levant et du Golfe persique en tant qu’objet du colonialisme. L’administration états-unienne parle désormais de « Proche-Orient élargi » (en anglais « Greater Middle East »), pour englober une région allant du Maghreb au Pakistan. NdlR.
http://www.diecifebbraio.info/2014/06/comunicato-stampa-sul-volume-dello-storico-gaetano-dato-vergarolla-18-agosto-1946/
COMUNICATO STAMPA SUL VOLUME DELLO STORICO GAETANO DATO “Vergarolla 18 agosto 1946″
COMUNICATO STAMPA
In riferimento al volume dello storico Gaetano Dato “Vergarolla 18 agosto 1946. Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda”, recentemente edito per i tipi della LEG con prefazione di Roberto Spazzali che sarà presentato il prossimo 13 giugno alla Camera dei Deputati constatiamo che la pubblicazione metta in luce come in base alla documentazione disponibile non sia possibile sostenere la tesi delle responsabilità jugoslave nella strage, tesi negli ultimi tempi suggerita con insistenza, attraverso congetture ed illazioni, da alcune associazioni degli esuli nonché da ultimo nella rappresentazione teatrale “Magazzino 18″ del cantante Simone Cristicchi.
La ricerca di Dato è stata finanziata dal Circolo di Cultura Istro Veneta “Istria” nonchè dal Ministero dei Beni Culturali e dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, dato tanto più significativo se si pensa alle dichiarazioni della Presidente Debora Serracchiani che il 18 agosto dello scorso anno in assenza di riscontri interpretava pubblicamente i fatti di Vergarolla come un “messaggio chiaro dei servizi segreti di Tito agli italiani di Pola e dell’Istria”.
Le conclusioni cui giunge Dato sono in linea con le più rigorose ricerche svolte negli ultimi anni da studiosi croati - Čonč, 2009, Eksplozija na Vergaroli u Puli 18. kolovoza 1946. godine: pokušaj rekonstrukcije i izazovi tumačenja e Dukovski, 2011, Povijesna ekspertiza tragedije na pulskoj Vargaroli- e italiani come Claudia Cernigoi, che nel suo studio di un anno fa “Strategia della tensione in Istria” (disponibile al sito internet http://www.diecifebbraio.info )sosteneva sostanzialmente, come oggi Dato, che la documentazione esistente non consente di avallare la tesi sulle responsabilità jugoslave, evidenziando altresì indizi di altre possibili responsabilità, italiane o angloamericane.
Ci auguriamo che il contributo di Dato possa contribuire a svelenire il dibattito sulle vicende dell’Alto Adriatico, intervenendo con il rigore del metodo scientifico laddove negli ultimi anni è stata invece allestita una campagna basata su affermazioni infondate e tendenziose. Tale iniziativa di rigore e verità è peraltro già da anni intrapresa, tra gli altri, dagli storici specialisti di queste vicende riuniti nella collana “Resistenza Storica” della casa editrice Kappa Vu, tra cui la già citata Cernigoi.
La Redazione del sito Diecifebbraio.info
11 giugno 2014
Alessandro Mustillo * | senzatregua.it
16/05/2014
Si sente dire spesso che il processo d'integrazione europea appartenga alla nostra tradizione politica. Un elemento ideale di fondo, come quello evocato da Bertinotti nel discorso del 23 marzo 2007 quando da Presidente della Camera parlò dello «spirito della fondazione dell'Europa che oggi celebriamo e che dobbiamo recuperare». È l'idea di un'Unione Europea sorta su un piano ideale più elevato ed oggi costretta in modo forzato nelle anguste visioni tecnocratiche e finanziarie di Bruxelles. Un'Europa da riformare, da ricostruire dalle originarie fondamenta, per riconquistare la reale natura voluta dai suoi fondatori.
Si tratta di uno degli argomenti più in voga utilizzati in questo momento dalla sinistra radicale (post o cripto comunista) che si candida in Parlamento Europeo a sostegno del leader greco di Syriza, e che oggi rivendica con fierezza il proprio contributo ideale a politico alla costruzione dell'Unione Europea. Questa sinistra è impegnata nella ricerca di un passato "nobile" della UE per meglio giustificare il suo sostegno all'integrazione europea dato nel momento più alto della crisi economica, in cui la contrarietà alla UE inizia a farsi strada con forza tra la popolazione. Come ogni storia che si rispetti il passare del tempo allenta la memoria collettiva, sbiadisce e distorce i fatti e ne altera la reale percezione. È un fenomeno molto diffuso nella sinistra di questi anni, che si riduce spesso a difendere posizioni una volta osteggiate, anche con forza, limitando i propri orizzonti in una spirale continua di sconfitte e arretramenti di posizione che conducono inevitabilmente alla capitolazione totale nei confronti del nemico di classe.
Il mito dell'Europa nata sulla spinta ideale progressista, deve cedere il passo alla realtà delle cose. Nel 1957 la ratifica dei Trattati di Roma, con cui venne istituita la CEE e l'Euroatom, vede il voto contrario e la netta opposizione del PCI, come altrettanta opposizione avviene da parte del PCF in Francia, allora i principali partiti comunisti dei paesi coinvolti. Un'opposizione che si era registrata fin dagli albori del processo d'integrazione anche in riferimento alla CECA e alla mai varata CED, che avrebbe dovuto creare un sistema di difesa comune europea, anch'esso osteggiato dai partiti comunisti e mai entrato in vigore per il voto contrario del Parlamento francese.
Quando nel 1957 alla Camera dei Deputati viene chiesta la ratifica del trattato di Roma, la posizione comunista – espressa da Giuseppe Berti, relatore della mozione con cui si chiedeva di non ratificare il trattato – non potrebbe essere più chiara. Si parlava allora non di CEE ma di MEC poiché la Comunità Economica Europea era conosciuta principalmente con il nome di Mercato comune, una scelta tutt'altro che casuale e che non mascherava la reale natura dell'operazione, che più tardi ha voluto caratterizzarsi per i suoi fini "nobili". Berti, tra gli applausi dei deputati comunisti alla Camera, affermò: «Non ha senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un'altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell'Europa occidentale il capitale monopolistico.» Era il 1957, il processo di integrazione europea era appena iniziato ma le sue finalità apparivano già chiarissime. Basterebbe sostituire l'espressione "Mercato Europeo Comune", oggi desueta, con "Unione Europea" e avremmo una sintesi eccezionale della natura reale del processo di integrazione europeo. Una realtà che i comunisti avevano perfettamente chiara nel 1957 e che ancora oggi, nonostante l'evidenza empirica, sfugge a molti sinistrati.
I trattati di Roma furono approvati a maggioranza con voto favorevole della DC e del MSI (il deputato missino Augusto De Marsanich disse in Aula: "Diamo la nostra leale adesione e il nostro voto a questi trattati, confidando che essi possano in realtà produrre un incremento di civiltà in Italia e in tutta Europa") con l'astensione del Partito Socialista Italiano. Ma questa storia ha bisogno di essere raccontata bene, con tutti i suoi particolari, le posizioni politiche e le conseguenze, anche in relazione alla spaccatura che si creò tra PCI e PSI.
È il 28 luglio del 1957, mancano pochi giorni al voto di approvazione richiesto per i trattati europei e il PCI ha il compito non facile di far comprendere alla classe operaia e alle masse popolari italiane le ragioni della ferma opposizione comunista, su una questione che appare tanto lontana e, per certi versi, anche spinosa. Fin da allora l'integrazione europea viene presentata come un elemento progressivo, come un mezzo per pacificare definitivamente il continente, rispondere alle esigenze economiche delle nazioni coinvolte. Un'intera pagina dell'edizione de l'Unità viene intitolata «Che cosa significa la sigla MEC» e divisa in riquadri schematici per facilitare punto per punto la comprensione del trattato istitutivo del mercato comune. Si tratta anche oggi di uno strumento utile per comprendere immediatamente la posizione comunista sul trattato istitutivo della CEE. Il primo riquadro è dedicato alla situazione dei lavoratori, il secondo e il terzo alla libertà di scambio e circolazione, il quarto all'agricoltura ed il quinto alla situazione delle colonie.
Si legge nell'articolo: «La manodopera italiana entrerà in concorrenza sugli stessi mercati con la manodopera – a bassissimo costo – dei paesi d'oltre mare» (bisogna ricordare che all'epoca anche le colonie, non ancora indipendenti entravano nel mercato comune, il problema era particolarmente sentito per il nord africa ancora sotto dominio francese n.d.r.); «si prevede un aumento di produttività ma non una riduzione dell'orario di lavoro» e ancora: «l'economia italiana corre il rischio di vedersi privata della mano d'opera migliore attraverso l'emigrazione degli operai specializzati» Il PCI, nel 1957, era ben consapevole dunque degli effetti potenziali dell'integrazione europea relativamente alla condizione dei lavoratori, e la maggiore preoccupazione era legata al Mezzogiorno. Una preoccupazione che si evidenzia particolarmente nei punti seguenti, dove il linguaggio chiaro e semplice con cui il partito voleva comunicare alla classe operaia e ai ceti popolari la reale natura del trattato internazionale, mirava in primo luogo a smascherare la terminologia utilizzata e l'abuso del termine "libertà".
Il PCI definisce senza mezzi termini la libertà di circolazione come «la libertà dei monopolisti». L'analisi semplice e chiara contenuta in questo punto è validissima ancora oggi. «La "libera circolazione dei capitali" significa che i monopoli di ognuno dei sei paesi sono liberi di trasferire i loro capitali da una zona all'altra scegliendo quella dove esistono le possibilità di realizzare maggiori profitti. Date le condizioni di inferiorità nelle quali si trova la nostra economia è possibile che attraverso questa libera circolazione di capitali, vi sia nel nostro paese una penetrazione di tipo imperialistico di capitale straniero, soprattutto tedesco. In secondo è possibile che si verifichi da parte dei monopoli italiani una fuga di capitali dall'Italia.»
Sulla questione dell'abolizione dei dazi doganali e delle barriere al mercato comune il Partito Comunista spiega gli effetti che avranno. «L'eliminazione di queste tariffe provocherà una concorrenza molto più aspra tra le diverse ditte operanti nei paesi aderenti; se si esamina la struttura industriale e la potenza economica delle varie nazioni, si comprende che la posizione dell'Italia è in generale la più debole di tutte quante tanto è vero che finora i dazi doganali italiani sono stati i più alti proprio per proteggere la nostra produzione dalla più robusta concorrenza straniera». Ma il Partito Comunista non si limita a parlare di minaccia dall'esterno. La sua non è una posizione "nazionalista" al contrario mette in rilievo come la grande impresa monopolistica nazionale sia parte attiva e promotrice del processo di integrazione economica europea. «A questo punto – si legge nella pagina dell'Unità – potrebbe sorgere la domanda: perché gli industriali non si oppongono al MEC? Il fatto è che gli iniziatori del MEC sono stati i grossi monopoli industriali che all'interno del mercato comune avranno sufficiente forza per poter sviluppare i loro affari ai danni dei piccoli produttori, sia nazionali che degli altri paesi. La FIAT ad esempio, grazie agli investimenti americani, è riuscita a portare la sua produzione a un'efficienza tale da potere, con i suoi prodotti di massa, battere la concorrenza di tutte le altre case automobilistiche del mercato comune, in quanto è la più grande industria privata in questo campo.»
In definitiva concludeva l'analisi del PCI «Il coordinamento economico di cui si parla nel trattato si risolverà in pratica in intese sempre più strette tra i vari monopoli per la spartizione del mercato a scapito dei piccoli e medi produttori sostituendo così alla protezione doganale una spartizione delle sfere di influenza tra i grandi monopoli.»
La preoccupazione del Partito era rivolta anche all'agricoltura dove si evidenziava il rischio del medesimo processo di concentrazione della proprietà a danno dei contadini salariati e dei piccoli contadini autonomi. Così come la libertà di circolazione delle persone era già messa in relazione al problema dell'immigrazione interna alla sfera comune, con le sue ripercussioni sui livelli salariali e sui diritti dei lavoratori. Riguardo alla situazione francese il problema delle colonie e la loro integrazione nel MEC erano giudicati uno strumento di pressione per compromettere il legittimo diritto all'autodeterminazione dei popoli coloniali. Per queste ragioni il PCI nel 1957 votò contro l'approvazione dei trattati europei, ma la sinistra italiana che pure si richiama a vario titolo alla tradizione e alla storia del PCI non lo ricorda.
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1957: quando il PCI disse no all'Europa
Alessandro Mustillo | senzatregua.it
17/05/2014
A Giuseppe Berti intellettuale comunista, dirigente del partito e deputato alla Camera, è affidato il compito dell'analisi dei trattati, che a grandi linee sarà pubblicata sempre su l'Unità nei giorni del dibattito parlamentare. Bisogna tenere a mente che gli anni che precedono il voto sui trattati europei sono cruciali nello sviluppo storico successivo. La morte di Stalin nel 1953, con il XX congresso del PCUS, l'invasione dell'Ungheria e il progressivo distacco PCI-PSI, ma anche la questione del canale di Suez, con Francia e Inghilterra che ritirano su ordine degli USA le proprie truppe dall'Egitto. Sullo sfondo dei trattati c'è lo scontro tra il blocco capitalista e quello socialista, la questione coloniale, e la conseguente perdita di territori per i paesi a capitalismo avanzato con i quali tenere livello di scambio economico. Il nuovo potenziale economico tedesco che viene ricostruito non ha territorio sufficiente essendo bloccata ad est dai paesi socialisti. La Francia sta perdendo il suo impero coloniale. Insomma alla radice del mercato comune europeo c'è la necessità di aprire quegli spazi economici che la divisione in blocchi e in parte la decolonizzazione fanno progressivamente mancare alle economie capitalistiche avanzate.
Oggi quando pensiamo all'Unione Europea siamo abituati a pensare ad un processo spontaneo dei popoli europei, a dimenticare la divisione della guerra fredda, e l'influenza di quella divisione sugli equilibri europei. Anche qui il passaggio del tempo distorce la verità, la mitologia si sostituisce alla realtà. Allora al contrario i comunisti non avevano alcun dubbio sull'origine del processo di integrazione dell'Europa occidentale, che Pajetta definiva negli interventi alla Camera "la piccola europa", proprio per metterne in luce la parzialità rispetto alla chiusura ad est. Si trattava di un processo voluto dal grande capitale e appoggiato con forza dagli Stati Uniti in funzione anti-sovietica per rispondere all'integrazione economica tra paesi socialisti all'est. Un progetto che teneva insieme interessi monopolistici del grande capitale, privato degli sbocchi naturali sul continente e sulle colonie, con quelli al riarmo specie della Germania in funzione anticomunista, nel quadro della comune alleanza militare con gli USA per il tramite della Nato.
L'analisi di Berti, che il deputato comunista riproporrà nei suoi interventi alla Camera è profonda, non scontata, minuziosa e chiarissima per quanto embrionale fosse lo stato del giudizio che allora si poteva dare sulla nascente comunità economica europea. E' un'analisi che ha il pregio di parlare anche a noi, a sessant'anni di distanza, e che nonostante lo sconvolgimento politico ed economico che è avvenuto negli ultimi anni individua correttamente situazioni che ci troviamo ad affrontare quotidianamente.
I comunisti – dice Berti – sono contro il MEC «perché sono contro il tentativo dei monopoli di asservire il progresso tecnico, l'automazione, l'energia atomica ai loro propri fini creando una comunità sovrannazionale sotto la loro direzione. E' falso il quadro di un capitalismo ascendente e trionfante […] Si, c'è oggi una congiuntura favorevole, ma per quanto tempo? Il capitalismo esce da due catastrofi di colossale grandezza: la perdita di potere su quasi la metà del globo, la perdita di vastissimi territori coloniali. Ecco perché alla base del MEC esistono obiettivi elementi di crisi: si cerca un mercato più vasto perché si sono perduti i territori dell'Europa orientale e i territori coloniali; ma appunto per questo ci si contenta in senso antisocialista e antidemocratico e si approfondisce la frattura nel mondo e si domanda alle masse lavoratrici di pagare le spese di questa operazione.»
Berti affronta il quadro spinoso del rapporto sovranità nazionale apertura internazionale in modo chiarissimo, e con una capacità d'analisi che oggi non si intravede minimente nei dirigenti della sinistra radicale post-comunista e opportunista. Come si coniuga l'internazionalismo tradizionale del movimento comunista con la contrarietà al processo unitario tra i paesi europei? Un dilemma a cui ancora oggi in tanti non riescono a rispondere senza vedere contraddizioni, lì dove al contrario è lampante la soluzione al problema. I comunisti sono internazionalisti ma non per le unioni internazionali dei capitalisti. I comunisti sostengono la lotta comune in ogni paese del mondo, ma non per questo non comprendono quali processi si celino dietro l'integrazione europea. Oltre le illusioni e le favole, i comunisti guardano ai rapporti di produzione. E capita che il PCI venga accusato di essere "protezionista" da chi usa strumentalmente questo elemento per attaccare la posizione dei comunisti.
In aula Berti replica a queste accuse. «Non è vero che i comunisti pongano l'accento soltanto sui riflessi tariffari: è ridicolo sostenere che i comunisti sono "protezionisti". Il problema tariffario esiste ed è grave per l'industria e soprattutto per l'agricoltura del mezzogiorno e delle isole: ma il problema più grave è che cosa il ceto privilegiato sostituisce al protezionismo tariffario. Esso sostituisce l'accordo sovrannazionale dei monopoli all'interno del MEC per schiacciare le masse lavoratrici, la piccola economia contadina per rendere impossibile o più difficile uno sviluppo sociale democratico. Non ha perciò senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un'altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell'Europa occidentale il capitale monopolistico. Ci si dice che in questa battaglia noi siamo isolati. Ma noi siamo in larga e qualificata compagnia: i lavoratori italiani, i piccoli e medi produttori economici, hanno già compreso quali gravi danni apporterà il MEC a loro e al paese. Noi non cesseremo la nostra lotta alla testa del popolo italiano.»
Un punto di grandissima rilevanza è il rapporto con il PSI in relazione al voto dei trattati. Nel 1957 il Partito socialista con un voto a maggioranza del suo comitato centrale (59 favorevoli, 13 contrari, 2 astenuti) decise di astenersi sul trattato istitutivo della CEE e di votare a favore di quello sull'Euratom. La decisione del PSI acuiva ulteriormente la frattura creatasi con il PCI al momento dell'intervento sovietico in Ungheria e costituiva una delle prime scelte che vedevano un voto sensibilmente differente tra PCI e PSI, con ripercussioni anche sulla CGIL. Il voto era il risultato anche dell'attività dell'Internazionale socialista che da mesi si era spesa fortemente per l'integrazione europea. Una parte di primo piano l'avevano fatta i socialisti francesi che dalla formazione del governo Mollet esercitavano insieme con i socialisti tedeschi una funzione di traino nel processo di costruzione del mercato comune. In Parlamento la scelta del PSI di astenersi fu oggetto di dure critiche del PCI ed in particolate da Pajetta che più volte interruppe Lombardi (PSI) mentre esponeva le motivazioni dell'astensione. Due episodi devono essere considerati per comprendere le preoccupazioni dei comunisti.
Il 21 luglio l'Unità apriva il giornale con un titolo a lettere cubitali: «Confindustria punta sul MEC per liquidare l'industria di Stato» basandosi sulle dichiarazioni di Malagodi, segretario del Partito Liberale «i cui legami con la Confindustria – scrive l'Unità – sono noti a tutti» Malagodi «ha mostrato con grande chiarezza il vero volto dell'operazione che il governo si accinge a varare. Infatti dopo le consuete, generiche espressioni di fiducia sul Mercato comune, come risolutore di tutti i principali problemi italiani […] Dai trattati - egli ha rilevato - non possono che derivare logiche conseguenze di politica interna poiché non è possibile seguire un indirizzo (che è quello della massima libertà ai potenti monopoli interni e internazionali) per applicare il Mercato comune e l'Euroatom, e uno diverso all'interno del paese.» Il segretario liberale aveva illustrato alla Camera la necessità di aprire una stagione di liberalizzazioni, dismissioni delle imprese di Stato e evitare ogni nuova forma di nazionalizzazione e aveva favorevolmente accolto l'astensione socialista, che testimoniava a detta di Malagodi, il fatto che i socialisti non erano più insensibili all'idea della libertà. Parole che al PCI suonavano come un forte campanello d'allarme.
La seconda questione riguarda la CGIL. La posizione del sindacato infatti era molto più simile a quella del PSI che non a quella del PCI, nonostante il Partito Comunista facesse di tutto per evitare che questa frattura si palesasse e avesse ripercussioni sull'unità della CGIL. Il 19 luglio la CGIL si era espressa a favore del processo di integrazione europeo, pur tuttavia mettendo in evidenza i lati negativi e indicando la necessità della lotta dei lavoratori contro le possibilità che tale processo si svolgesse in senso reazionario. Non ci fu nessuna polemica esterna. L'Unità pubblicò il dispositivo della CGIL come se nulla fosse, ogni commento dei comunisti riguardava le critiche contenute al MEC ma non si nominava mai il passaggio precedente. Ma se sulla critica comunisti e socialisti erano uniti, sulla posizione immediata erano su posizioni differenti. Il sì generico della CGIL restava ed era chiarissimo: «Nonostante gli inconvenienti di natura transitoria, (…) il Comitato Esecutivo ritiene che essa vada appoggiata e incoraggiata, perché può recare – in prospettiva – un contributo fondamentale e – in una certa misura – insostituibile allo sviluppo generale delle economie europee e al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori». La parte socialista della CGIL aveva fatto il suo, ma certamente Di Vittorio, con cui c'erano state frizioni interne al PCI sull'Ungheria, non l'aveva osteggiata troppo, probabilmente anche in accordo con il vertice del PCI che di certo non avrebbe consentito in quella fase una rottura dell'unità sindacale con i socialisti, proprio mentre quella politica sembrava irrimediabilmente compromessa. Ma con la neutralizzazione della CGIL, che si decideva di mantenere fuori dalla questione, il PCI veniva privato dello strumento più importante per la battaglia politica contro la CEE, che infatti non superò mai le porte del Parlamento. Come, e forse ancora di più che in altri casi, la critica parlamentare del PCI e l'opposizione è durissima, ma questo non porta a nessuna reale mobilitazioni delle masse lavoratrici.
Nonostante ogni tentativo comunista di modificare la posizione del PSI, di aprire contraddizioni in seno ai socialisti (che non avevano votato all'unanimità in comitato centrale ma con 13 contrari e 2 astenuti) mettendo in chiaro come fosse la Confindustria ed il grande capitale a volere l'integrazione europea, il PSI rimase sulla sua posizione. Alla Camera la mano tesa del PCI si tramutò in attacco esplicito, quando Lombardi intervenne contro Malagodi, sostenendo che la sua fosse una posizione ingenua e che lo sviluppo italiano nel mercato comune non avrebbe potuto fare a meno della direzione statale.
A Pajetta toccò l'intervento nella seduta del 25 luglio nel quale il PCI annunciava il voto contrario. La polemica con il PSI è evidente fin dall'apertura. Dice Pajetta: «Alcuni giorni fa ci è stata rivolta una ingenua domanda dal giornale del Partito Socialista Italiano. L'Avanti ha domandato ai comunisti: ma credete davvero che risolverete i gravi, complessi problemi del Mercato comune con il vostro voto contrario? Noi non vogliamo rispondere con la troppo facile battuta: ma credete che questi problemi gravi, profondi, complessi si risolvano con un'astensione?»
Nel suo intervento Pajetta rimarca il giudizio del PCI con toni molto forti e netti. «L'esame della situazione e la stessa storia ci autorizzano quindi a porre queste domande: a che cosa servirà questo strumento, il Mercato comune? Chi lo impugnerà? Contro chi verrà impugnato? Noi il fascino di questo europeismo lo respingiamo e non possiamo allinearci dietro la stessa barricata per difendere gli interessi della Confindustria nel nostro paese. Sbaglia profondamente chi pensa che un'economia diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso nell'avvenire.»
Pajetta accusa esplicitamente Lombardi e il PSI di ingenuità rispetto alla natura reale del MEC anche in relazione all'intervento di Malagodi. «Non vedere questi pericoli, essere sordi a queste indicazioni significa voler soltanto appiccicare un cartellino con sopra scritto "speranza" a questa macchina al cui volante siedono forze ben precise: queste forze non dimentichiamolo, sono i Valletta, sono i Marinotti, sono i potenti monopoli tedeschi, sono quelle forze che appoggiarono ogni politica più retriva e più antipopolare, che oggi sostengono il mercato comune. Credo del resto che sia difficile che queste forze sbaglino quando uniscono il loro amore per il mercato comune al loro sogno di difendere una economia basata sulla proprietà privata e sul profitto monopolistico: perché è difficile pensare alla prospettiva di un'economia diretta senza le leve della tariffa doganale, dei contingenti, della politica valutaria. Le classi popolari all'interno del Paese e tutta l'Italia nell'ambito della "piccola europa" pagheranno caramente l'approvazione di questi trattati.»
L'intervento di Pajetta presenta alcuni passi che testimoniano quanto il PCI fosse consapevole di quello che il mercato comune avrebbe rappresentato. Pajetta esprime bene l'impossibilità dei popoli di scegliere un cammino differente da quello capitalistico una volta ingabbiati nel meccanismo del mercato comune. Un elemento oggi estremamente acuito dalla perdita della sovranità monetaria con l'introduzione dell'euro. La metafora della speranza e del volante poi, si addice davvero bene a quelle forze che pensano ancora di poter modificare dall'interno il corso politico della UE, nonostante l'evidenza di questa impossibilità.
La dichiarazione finale sul voto comunista è data il 30 luglio dall'allora capogruppo alla Camera Pietro Ingrao con queste parole: «Votando contro questi trattati intendiamo indicare alla classe operaia una prospettiva di autonomia e di lotta, intendiamo chiamare la classe operaia a battersi assieme a tutte le forze sane e minacciate da questi trattati per dare un corso diverso alla politica internazionale.» L'Italia entrava ufficialmente a far parte della CEE con il voto di astensione dei socialisti, con il voto contrario del PCI, unico partito italiano ad opporsi al processo di integrazione europea.
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Comunisti e Europa, considerazioni finali
Alessandro Mustillo | senzatregua.it
19/05/2014
Come noto la posizione del PCI mutò negli anni seguenti durante la segreteria Berlinguer e il progressivo distacco da Mosca. Allora il PCI abbracciò insieme al PCE e al PCF – quest'ultimo non senza contraddizioni e ripensamenti allora – la politica dell'eurocomunismo con un avvicinamento alla socialdemocrazia europea e in generale al processo di integrazione comunitaria. L'associazione ideale del movimento comunista con il percorso di unificazione europea parte da questo preciso momento storico, lo stesso del progressivo abbandono del marxismo-leninismo, del cedimento politico ed ideologico del PCI con cui il partito comunista si sarebbe incamminato verso il suo mutamento radicale avvenuto formalmente nel '91, ma nella sostanza già evidente da tempo. Non si tratta di una coincidenza temporale casuale. Nel momento in cui si allenta la tensione ideologica tra i partiti comunisti a livello internazionale, si incrementa l'idea della reciproca autonomia, delle vie nazionali al socialismo si perdono anche i riferimenti di analisi che avevano portato ad un giudizio tanto negativo sulla Comunità Europea nel 1957. Dunque non è all'origine della costituzione della CEE che i comunisti sposarono la causa dell'integrazione europea. Questo accadde solo nel momento in cui il Partito Comunista Italiano andava trasformandosi in un partito socialdemocratico. In questo equivoco di fondo si inserisce anche la figura di Altiero Spinelli, padre nobile della sinistra europeista, e oggi invocato a gran voce a copertura di questa operazione. Tutti ricordano Altiero Spinelli eletto al Parlamento Europeo (come indipendente) nelle liste del PCI nel 1979, quando ormai il PCI aveva compiuto la sua parabola sulla CEE e sulla Nato. Pochi ricordano però che Spinelli negli anni della lotta del PCI contro l'integrazione europea era consulente di De Gasperi, e che fu membro della commissione europea con prevalente incarico alla politica industriale dal 1970 al 1976. L'ennesimo ed inequivocabile segno della consumata deriva del PCI in quegli anni, c'è da ricordare che Spinelli era stato espulso dal PCI durante gli anni della clandestinità per le sue posizioni marcatamente anticomuniste.
Dal momento dell'accettazione della CEE, della Nato e delle istituzioni internazionali del capitalismo occidentale da parte del PCI, nasce la visione europeista della sinistra italiana, non a caso quando di fatto si abbandona definitivamente la prospettiva comunista e si inizia a costruire un partito finalizzato al suo superamento, e al superamento del patrimonio ideale del marxismo. Gli esecutori materiali della fine del PCI saranno anche la generazione di nuovi dirigenti della sinistra italiana che contribuiranno a portare l'Italia nell'euro e a completare il processo di integrazione della nuova Unione Europea. Saranno la parte determinante della classe dirigente che ha portato l'Italia al disastro. La stessa sinistra radicale, nonostante qualche distinguo su questioni limitate, subirà negli anni e subisce tuttora il fascino dell'operazione europeista di cui, dimenticando completamente la storia, arriva addirittura a considerarsi artefice. Qui si consolida l'equivoco di fondo.
Il PCI in precedenza peccò di gravi errori sul piano strategico, anche in occasione del voto sulla CEE, che non provocò –come purtroppo spesso accadde negli anni della segreteria Togliatti – alcuna conseguenza sul piano della mobilitazione generale delle masse, restando uno scontro, per quanto alto e ineccepibile dal punto di vista dei contenuti, tipicamente parlamentare. Era la linea tattica, si diceva, del PCI di allora. Una linea che alla fine si rivelò per tutta la sua portata strategica nell'accettazione del Parlamento come unico, o almeno privilegiato, luogo di scontro (istituzionale) nel Paese. La linea del non dare pretesti, del dimostrare la "responsabilità" del PCI e che ha condotto a capitolare passo dopo passo. Ma se tali rimproveri possono oggi essere fatti con il senno di poi a quel grande partito che era allora il Partito Comunista Italiano, nulla si può obiettare sulla posizione politica che il PCI prese riguardo all'integrazione europea, che è cristallina, coerente e assolutamente attuale anche oggi, nonostante il modificarsi di molte situazioni storiche, e ci consente di fare dei paralleli molto importanti.
Fin da subito la nascente CEE cercò di utilizzare il contrasto tra condizioni e livelli salariali dei lavoratori per abbassare il costo del lavoro e ottenere una leva di ricatto contro le rivendicazioni operaie. Lo fece inizialmente con le colonie francesi, e durò pochi anni senza riuscire a dispiegare a pieno i suoi effetti perché nel 1962 l'Algeria ottenne la sua indipendenza. Paradosso della storia ha voluto che questa fase si riprendesse con forza proprio con la caduta del socialismo nell'est Europa, terreno naturale di espansione dell'imperialismo europeo.
La struttura economica dei paesi della "piccola europa" ha subito importanti variazioni. In tutti questi paesi i monopoli hanno aumentato la loro influenza strategica nelle economie nazionali. L'Italia tra i paesi originari è quella che ha subito i mutamenti più grandi insieme con la Germania, che ha utilizzato l'annessione della DDR come strumento per lanciare ulteriormente il suo rafforzato potenziale economico, pagato a caro prezzo dai cittadini della vecchia DDR e dal resto d'Europa. Tuttavia la diversità iniziale, nonostante il dato generale della crescita dei monopoli nei singoli paesi ormai intrecciati in una comune ragnatela continentale, ha continuato a mantenersi nella forma dell'influenza esercitata nelle economie nazionali dal tessuto delle piccole e medie imprese. Un elemento come noto, particolarmente importante per l'Italia. Ciò che la politica di sovranità sulla moneta aveva evitato, non senza conseguenze sui lavoratori, è stato reso possibile con l'introduzione dell'euro. L'Europa dei monopoli, di quella che già il PCI nel 1957 giustamente definiva la "libertà per i monopolisti" ha avuto un ulteriore sviluppo privando gli stati della possibilità di intervenire sulla moneta. Il risultato è stato un'ulteriore crescita della concentrazione monopolistica a scapito della piccola impresa, una perdita di posizioni dei paesi con più elevato livello di piccole e medie imprese, che hanno risentito maggiormente del combinato dell'introduzione della moneta unica e dell'allargamento delle aree di libera circolazione (anche attraverso trattati con stati non aderenti alla UE in un'economia sempre più globalizzata). Le linee generali di quanto il PCI aveva giustamente previsto nel 1957 si sono realizzate, anche se con modalità storiche diverse e allora oggettivamente imprevedibili.
Il risultato è oggi un'Europa dei grandi monopoli nazionali e transnazionali che comprime i diritti dei lavoratori, che costringe al fallimento migliaia di piccole imprese e che concentra sempre in mani più ristretta la ricchezza prodotta, generando disoccupazione, precarietà, distruzione.
Anche la pretesa di pace che l'Unione Europea sostiene di realizzare e che in questi giorni ci viene propinata a reti unificate dagli spot europeisti del governo e della UE nasconde ben altro. Come disse giustamente Pajetta nel 1957 «Sbaglia profondamente chi pensa che un'economia diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso nell'avvenire», e aggiungo sebbene fosse già sottointeso, strumento di pace. L'Unione Europea ha dimostrato di essere pronta a scatenare e sostenere conflitti in nome degli interessi dei grandi monopoli che rappresenta. Lo ha fatto negli anni passati in Iraq, in Afghanistan, negli innumerevoli interventi di natura imperialistica sul continente africano, e oggi anche sul suolo europeo con il sostegno aperto garantito alle forze più reazionarie in Ucraina in nome della difesa di quegli interessi.
L'Unione Europea di oggi non è più la "piccola europa" del 1957. L'unificazione tedesca ha ricomposto una nazione economicamente in grado di esercitare una funzione di traino dell'area europea, che era oggettivamente ridotta al rango di protettorato USA quando sul suo odierno territorio correva il confine con il blocco comunista. E sebbene i rapporti con gli Stati Uniti siano centrali nella politica interna ed internazionale della UE, la situazione dal 1957 è fortemente mutata, per il peso che l'Unione Europea ha assunto nella competizione imperialistica globale. Pensare all'Unione Europea come strumento di pace è davvero utopia.
La stessa che tanta sinistra ancora oggi manifesta. Pajetta criticando il PSI e le forze di sinistra che non si opposero o votarono favorevolmente all'ingresso nella CEE disse: «Non vedere questi pericoli, essere sordi a queste indicazioni significa voler soltanto appiccicare un cartellino con sopra scritto "speranza" a questa macchina al cui volante siedono forze ben precise: queste forze non dimentichiamolo, sono i Valletta, sono i Marinotti, sono i potenti monopoli tedeschi, sono quelle forze che appoggiarono ogni politica più retriva e più antipopolare, che oggi sostengono il mercato comune.» Basterebbe sostituire Valletta e Marinotti con Marchionne e Profumo, oppure Benetton, Marcegaglia, De Benedetti e il resto è ancora valido. Come l'illusione di voler attaccare un cartellino con sopra scritto "speranza" che potrebbe essere assunta a paradigma della campagna elettorale di una certa sinistra radicale ancora oggi. Con l'aggravante che nel 1957 il Mercato comune era oggettivamente un qualcosa di sconosciuto, dove solo l'analisi economica dei rapporti di produzione e dei rapporti di forza in quel processo, poteva dare un'indicazione. Oggi la natura dell'Unione Europea è sotto gli occhi di tutti, come i risultati delle politiche europee.
Il sogno di un'Unione Europea progressista e pacifica è un'illusione che non è mai appartenuta ai comunisti. Chi oggi cerca di dipingere l'antieuropeismo dei settori più coerenti del movimento comunista in Italia e a livello internazionale, come posizione estremistica, estranea alla nostra storia e tradizione politica, o peggio come cedimento alla destra e alle forze definite populiste, dimentica che i comunisti hanno compreso fin dall'origine la reale natura della UE. E fino a quando le loro posizioni sono state coerenti ideologicamente con il patrimonio teorico e di analisi del marxismo si sono opposti al processo di integrazione europea. La destra, che oggi si scopre paladina della sovranità nazionale, al contrario fu complice della creazione della CEE in funzione marcatamente anticomunista, sia a livello internazionale, per la sua opposizione all'URSS e al blocco comunista, sia interna, con il fine di arginare le possibilità di trasformazione della società in senso socialista.
Ma oggi una sinistra colpevole e complice dimentica tutto questo e consente alle forze neofasciste di rifarsi una verginità politica, attacca chi coerentemente mantiene una netta contrarietà all'Unione Europea dipingendolo come settario, eretico, o peggio ancora. Nel dare il proprio sostegno al processo di integrazione europea e nel costruire artificialmente il mito dei nobili ideali all'origine dell'Unione Europea, la sinistra radicale post o cripto comunista contribuisce a farsi portatrice dell'inganno storico che subiamo, di cui diviene parte attiva. Al servizio, oggi come ieri, dei padroni di questa Europa, dei grandi monopoli industriali e finanziari le cui regole sono divenute diritto comune a scapito dei lavoratori. Una enorme responsabilità storica.
* Segretario del Fronte della Gioventù Comunista
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DI COS'È IL NOME UN NOME?con l'adesione di ANPI, ANED, Istituto di studi storici Gasparini, SKRD Jadro, circolo Arci Curiel San Canzian, circolo culturale e sportivo dell'Olmo; in collaborazione con la libreria la Linea d'Ombra di Ronchi e la casa editrice Kappa Vu• Introduce e modera Luca Meneghesso• Boris Pahor Proiezione video-intervista realizzata per il convegno• Maurizio Puntin: La Ronchi “plurilinguistica” dei secoli passati• Marco Barone: Ronchi “dei partigiani” le ragioni di una proposta• Alessandra Kersevan: L'invenzione del nome “Venezia Giulia”• Piero Purini: Costruzione della Nazione. I cambiamenti nelle denominazioni delle località dall'unità d'Italia al secondo dopoguerra.• Wu Ming 1: Nomi tossici e Grande guerra• DibattitoSegue rinfresco con proposta di alcuni canti della tradizione sociale e politica di fine Ottocento - inizio Novecento, introdotti da brevi spiegazioni contestualizzanti il brano.Dalle 21.00 alle 23.00 presentazione del nuovo libro del Collettivo WU MING “l'Armata dei Sonnambuli” con la presenza di WU MING1
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Comunicato Stampa - Lipa di Giuseppe Vergara - 26 giugno 2014con cortese preghiera di diffusione
Lipa, un reading musicale per commemorare una strage
Giovedì 26 giugno 2014 alle 21.00 presso la Basilica di San Silvestro in Piazza San Silvestro a Trieste si replicherà lo spettacolo Lipa di Giuseppe Vergara.
Gli attori Tiziana Bertoli, Luca Giustolisi, Katia Monaco e Stefano Vattovani leggeranno ed interpreteranno il testo di Vergara con l’accompagnamento musicale dei Bachibaflax, la band di nove elementi diretta da Marco Vilevich autore anche della colonna sonora dello spettacolo.
All’interno delle mura della più antica chiesa della città, che sorge accanto alla Chiesa di Santa Maria Maggiore, si potrà ascoltare la storia del paese di Lipa che il 30 aprile del 1944 fu raso al suolo da un rastrellamento nazifascista trasformatosi in una strage di innocenti civili. 269 persone furono trucidate quel triste giorno, 121 di loro erano bambini, gli altri anziani e donne. Un episodio poco conosciuto anche a Trieste che dista solo una sessantina di km dal paesino croato. L’intento dello spettacolo è quello di far conoscere questa triste vicenda attraverso un testo che intreccia il linguaggio storico a quello narrativo, grazie alla forma del reading musicale, per uno spettacolo della durata di quasi due ore. L’entrata sarà ad offerta libera.
Per maggiori informazioni e per la visione di contributi video, quali trailer e spezzoni dello spettacolo, è attiva la pagina Facebook "Lipa" disponibile anche per chi non è iscritto al Social Network.
http://www.facebook.com/lipa1944
per contatti e prenotazione posti
gvergar64@...=== 4 ===Oggetto: nuovo numero della rivista “Marxventuno”Data: 03 giugno 2014 07:41:47 CESTA: undisclosed-recipients:;È uscito il nuovo numero della rivista “Marxventuno”:
numero doppio, 1-2 del 2014 (euro 12).
La rivista Marxventuno può essere spedita a richiesta. Scrivere a marxventuno.rivista@...
Il n. 1-2 del 2014 consta di 164 pagine, con un corposo supplemento sulla crisi ucraina, introdotto dall’esemplare analisi di Manlio Dinucci sull’espansione della Nato ad Est e la strategia usamericana verso (e contro) la Russia e verso (e anche contro) gli alleati subalterni della Ue.
Accanto ad articoli che analizzano i precedenti e le dinamiche del colpo di stato a Kiev (si veda il documentatissimo articolo di Bensaada), la pesante ingerenza occidentale, il ruolo della destra neonazista e delle sue formazioni militari armate, nonché l’attacco ideologico del revisionismo storico all’esperienza dell’Ucraina sovietica (cui risponde documentatamente la storica marxista Annie Lacroix-Riz) vi è una sezione dedicata ai comunisti ucraini, alla loro linea politica (cfr. l’art. di L. Marino), alla loro azione in questi ultimi mesi, fino all’insorgenza del Sud-est russofono (si veda l’articolo di Pettinari).
Segnaliamo la corposa cronologia sull’Ucraina post-sovietica, con una dettagliata sezione sugli eventi da novembre a fine aprile. Abbiamo ritenuto con ciò di fornire ai lettori uno strumento per una corretta comprensione dei processi in corso (similmente fu fatto nel numero speciale di settembre-ottobre 2013 dedicato alle “riforme costituzionali”).
Nel fascicolo si affronta anche il contemporaneo esplodere di un tentativo di “rivoluzione colorata” in Venezuela (cfr. art di Lamattina) per riportare sotto il controllo imperialista la repubblica bolivariana e se ne propone una lettura contestuale.
La riflessione di Alessandro Leoni sulla “fase post-sovietica”, pur elaborata nell’agosto scorso a ridosso del possibile acuirsi della crisi siriana, mantiene tutta la sua pregnanza alla luce di quanto sta accadendo in Ucraina.
Per la preparazione della parte speciale sull’Ucraina prezioso è stato il supporto del sito dell’associazione Marx XXI (www.marx21.it) e del suo direttore Mauro Gemma, con un’imponente pubblicazione di documenti tradotti dall’originale, nonché del profilo Facebook “Con l’Ucraina antifascista”:
(https://www.facebook.com/ucrainaantifascista).
La crisi ucraina, che riporta la guerra in Europa, rivela sempre più chiaramente la portata mondiale dei processi in corso, che solo una visione provinciale di una certa sinistra in Italia si ostina a non cogliere o a rimuovere. Altrove, nella Repubblica Popolare Cinese, si organizzano invece Forum sulla grande crisi capitalistica e sulle prospettive del socialismo nel mondo. Il IV Forum mondiale del socialismo, tenutosi a Pechino a fine ottobre 2013, rappresenta un notevole contributo di analisi economico-sociale e politica che l’Accademia cinese delle scienze sociali (che pubblica da tre anni in inglese la rivista internazionale International critical Thought, cfr. scheda in quarta di copertina) e il PCC apportano al movimento comunista e operaio internazionale, nella ricerca, pur tra le diversità e differenze presenti, di punti forti di convergenza per un nuovo “rinascimento socialista”. La crisi capitalistica, infatti, apre un’intera fase storica che può condurre a vittorie decisive del proletariato o ad amare disfatte. I comunisti sono di fronte al compito storico della transizione al nuovo ordine sociale. Se ne dà nel fascicolo un ampio resoconto (A. Catone), insieme con la pubblicazione del discorso introduttivo del presidente dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali Wang Weiguang.
Il quadro delle questioni internazionali è arricchito, inoltre, da un’analisi delle politiche del Partido dos Trabalhadores brasiliano (cfr. M. A. da Silva) e da report su iniziative di solidarietà con la causa della liberazione del popolo palestinese (O. Terracini, M. Musolino).
Sul piano interno, il fascicolo propone, insieme con un’analisi giuridico-istituzionale del “caso ILVA” e degli embrioni di stato neo-corporativo che le soluzioni legislative adottate per esso adombrano (cfr. gli articoli di D’Albergo e Bucci), un report sul convegno dell’associazione “Futura umanità” dedicato a “Togliatti e la Costituzione”, insieme con la pubblicazione di alcune relazioni in esso presentate (A. Hoebel, P. Ciofi, presidente dell’associazione “Futura umanità”): questione quanto mai attuale in questa fase di accelerati tentativi di ulteriore stravolgimento dell’impianto costituzionale.
La riaffermazione dei valori della Costituzione repubblicana, l’indisponibilità a vanificare i diritti da essa contemplati e la superiorità della Carta costituzionale rispetto a qualunque trattato internazionale costituiscono uno dei punti fondamentali del documento sulle “Idee e programma dei comunisti italiani per le elezioni europee”, che la rivista propone a mo’ di editoriale. In esso sono sintetizzate diverse questioni che anche il piccolo lavoro di analisi ed elaborazione di questa rivista ha contribuito a definire: il carattere regressivo, oligarchico, antidemocratico e imperialista dell’Unione Europea; la centralità del settore pubblico dell’economia per una programmazione democratica; la netta opposizione alle politiche di Ue e Nato; la necessità di rafforzare i legami tra i partiti comunisti, i movimenti anticapitalisti, antimperialisti e progressisti insieme con quella – nonostante le grandi difficoltà e le occasioni perse (si veda in proposito l’articolo di Bruno Steri, direttore della rivista “Essere comunisti” – di unire in Italia i comunisti su basi di affinità politica, programmatica, ideale e di collocazione internazionalista in un unico partito comunista, che si ispiri alla migliore tradizione del PCI, attualizzandola, bandendo ogni settarismo e subalternità.
Per ricostruire il soggetto politico comunista, fondamentale è l’attività di formazione politica marxista e comunista (si riporta qui l’esperienza della scuola “Gramsci” di Ancona”, diretta da R. Giacomini), di elaborazione culturale per l’analisi del presente e per riappropriarsi della storia dei comunisti (nella rivista vi è una breve scheda del volume curato da A. Hoebel e M. Albeltaro, “Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia”, frutto di due convegni promossi nel 2011 dall’Associazione Marx XXI). È importante che si sviluppino associazioni e una rete di associazioni che promuovano e favoriscano il dialogo e l’elaborazione collettiva, terreno su cui è nata l’associazione Marx XXI, di cui si propone un ampio programma di attività (cfr. l’art. di Hoebel e Pellegrini), come anche riviste quali “Gramsci oggi”, che ha compiuto 10 anni (cfr. l’art. del suo direttore Giai-Levra).
La rivista “Marxventuno” continuerà nei prossimi fascicoli ad ospitare interventi e riflessioni, come anche report di esperienze di associazioni e riviste marxiste e comuniste, per favorire il dialogo e la costruzione dell’intellettuale collettivo, del soggetto politico comunista.
Ai lettori, a quanti trovano di una qualche utilità il nostro lavoro volto alla ricostruzione del soggetto politico comunista, fornendo strumenti per la lettura critica della realtà, insieme con l’elaborazione di indicazioni programmatiche, chiediamo di sostenerci con proposte di pubblicazione, articoli, suggerimenti, critiche. E chiediamo anche – last but not least – un contributo concreto, abbonandosi o rinnovando l’abbonamento, condizione essenziale perché si possa continuare in questa impresa.
Andrea Catone
Indice e abstracts
Comunisti in Europa uniti per la pace, il lavoro e la solidarietà internazionale
Idee e programma dei comunisti italiani per le elezioni europee
Manlio Dinucci - La vera posta in gioco nella crisi ucraina
L’Ucraina è una pedina fondamentale nel piano Usa di espansione a est, cominciato con l’inglobamento nella Nato di paesi dell’ex patto di Varsavia, dell’ex URSS e dell’ex Jugoslavia e corredato più di recente dall’installazione di basi e forze militari a ridosso della Russia.
Mauro Gemma - L’Ucraina, l’Unione europea e la NATO
Quanto accade in Ucraina non è circoscrivibile alle vicende di quella repubblica ex sovietica. È parte di un piano organico elaborato da tempo dagli USA, dalla Nato, dai gruppi dominanti della Ue volto a destabilizzare, rovesciare e poi annettere, anche in Europa, quei paesi e governi che non accettano la tutela euro-atlantica
Federico La Mattina - Imperialismo occidentale e golpismo reazionario in Venezuela e Ucraina
In Venezuela la destra neofascista sta provando ad abbattere il legittimo governo di Maduro, con il supporto delle oligarchie economiche e mediatiche e degli USA. In Ucraina USA e NATO hanno supportato un golpe nazionalista, diretto da forze nazionaliste e neonaziste. Occorre lottare per lo smntellamento della nato e delle basi USA in territorio europeo.
Ahmed Bensaada - Ucraina: anatomia di un colpo di stato
Il cambio di governo in Ucraina è stato presentato come legittimo ed espressione della volontà popolare. Ma il golpe neonazista, ampiamente sostenuto dalle potenze imperialiste, non è che un tentativo di isolare la Russia e limitarne la crescente importanza nelle questioni internazionali.
Chiara Stella Smaldino - Il fumo nero di Kiev
Con il golpe del 22 febbraio, avvenuto con il benestare e il sostegno delle potenze imperialiste occidentali, salgono al potere uomini politici che si rifanno esplicitamente al Terzo Reich, per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale
Annie Lacroix-Riz - Holodomor: nuovo avatar dell’anticomunismo“europeo”
Una scarsità di raccolti, dipendente, in parte da fenomeni naturali, in parte dall’ostilità dei Kulaki, fornisce recentemente l’occasione al Parlamento Europeo di accusare l’URSS di “Holodomor”, un genocidio programmato nei confronti della popolazione ucraina, con cifre superiori a quelle dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti.
Flavio Pettinari - La sollevazione dell’Ucraina sud-orientale
La richiesta di un referendum per uno stato federale che rispetti i diritti delle minoranze e il rifiuto dell’accordo di associazione alla ue sono alla base della sollevazione, con marcati caratteri antifascisti, dell’Ucraina sud-orientale
Luigi Marino - La linea politica del Partito comunista d’Ucraina
Nato nel luglio del 1918, Il PCU ha avuto un’importanza fondamentale nella storia dell’URSS sino all’illegale sua proibizione nel 1991. Riorganizzatosi nel ’93, Mantenendo fermo l’obiettivo del socialismo, ha varato un programma minimo: contro il presidenzialismo, per l’intervento pubblico e la pianificazione in economia, contro l’imperialismo e la NATO.
I comunisti nella crisi ucraina. Documenti
Cronologia dell’Ucraina post-sovietica
Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia. Breve scheda e indice
Andrea Catone - Il IV Forum mondiale del Socialismo a Pechino
Il IV Forum mondiale del socialismo, tenutosi a Pechino a fine ottobre 2013, rappresenta un notevole contributo di analisi economico-sociale e politica che l’Accademia cinese delle scienze sociali e il PCC apportano al movimento comunista e operaio internazionale, nella ricerca, pur tra le diversità e differenze presenti, di punti forti di convergenza per un nuovo “rinascimento socialista”.
Wang Weiguang - Le promettenti prospettive del marxismo e del socialismo nel mondo
Il processo storico mondiale mostra, con la grande crisi attuale, la natura decadente del capitalismo e l’inevitabile vittoria del socialismo, che però non sarà facile, né realizzabile in breve tempo. Bisogna intensificare lo studio su a) l’esperienza storica del socialismo in URSS e le cause della sua sconfitta; b) i nuovi aspetti del capitalismo. Il socialismo con caratteristiche cinesi mostra, di fronte alla crisi finanziaria internazionale, la sua vitalità.
Alessandro Leoni - L’epoca presente come “fase post-sovietica”
La realtà della Russia post-sovietica va interpretata in tutta la sua novità al fine di mutare i parametri fin ad oggi utilizzati dalle forze alternative/rivoluzionarie per definire le proprie linee guida politico-programmatiche.
Salvatore d’Albergo - Ilva: dalla crisi di Taranto ai privilegi dei Riva
Lo schermo dell’“interesse strategico nazionale”, sia se adoperato in modo surrettizio (come nel caso “Alitalia”), sia se anteposto in modo ostentato (come nel caso Ilva), non può essere utilizzato come una sorta di spot idoneo a legittimare violazioni crescenti di norme costituzionali ancora formalmente in vigore, come gli artt. 41 e 43 della Costituzione.
Gaetano Bucci, Salvatore D’Albergo - L’Ilva e gli embrioni di uno Stato neo-corporativo
Nella vicenda dell’Ilva, si deve osservare come la normativa adottata dal Governo per disciplinare un settore produttivo ritenuto enfaticamente di “interesse strategico nazionale”, risulti “antidemocratica” ed “antisociale” perché contrasta con l’impostazione e con le finalità della Costituzione.
Bruno Steri - Il congresso del Prc: un’occasione persa
Il congresso del Prc tenutosi a dicembre 2013 a Perugia non fa fare concreti passi in avanti a questioni vitali quali il processo di unificazione dal basso dei comunisti e la costituzione di un polo (o fronte) della sinistra di alternativa, formula che invece, in altri contesti europei, ha consentito ai comunisti di mantenere la propria identità politico-organizzativa in sintonia con la storia e la specifica esperienza politica dei diversi Paesi
Marcos Aurélio da Silva - Sulla strada del riformismo: il Brasile sotto i governi del PT
I governi del PT in Brasile, succeduti al regime dittatoriale e oppressivo dei militari, hanno operato per sanare le piaghe economiche del paese. Mentre parte della sinistra, considerando alcuni aspetti negativi come caratteri dominanti, si lancia in una critica feroce, l'autore ritiene, sulla base di una concezione dialettica della trasformazione sociale ispirata a Lenin e Gramsci, che le scelte economiche del PT vadano inquadrate in un processo progressivo.
Ornella Terracini - Mai complici di Israele
Intervento tenuto in occasione della manifestazione contro il vertice Letta-Netanyahu (2-12-2013), in cui si legge un bilancio complessivo e sentito delle iniziative a cui l’autrice ha preso parte, accompagnato da considerazioni sull’occupazione sionista in Palestina e sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi.
Maurizio Musolino - Per non dimenticare… il diritto al ritorno
Resoconto del viaggio dei 17 membri della delegazione del Comitato “Per non dimenticare… Il diritto al ritorno” a Gaza, agli inizi di gennaio. Un viaggio motivato dall’esigenza di rafforzare la solidarietà ai profughi palestinesi ed il lavoro internazionale per il loro diritto a tornare nella loro terra.
Francesco Valerio Della Croce - La cultura togliattiana nella Costituzione del ’48
Report sul convegno “Togliatti e la Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro”, organizzato a Roma l’8 novembre 2003 da “Futura Umanità, associazione per la storia e la memoria del PCI”.
Alexander Höbel - Togliatti, la “democrazia di tipo nuovo”, la Costituente. Un’elaborazione di lunga durata
La linea della democrazia progressiva, cioè della costruzione di una democrazia organizzata, articolata, partecipata, è per Togliatti uno dei cardini dell'avvicinamento al socialismo. L’importanza del contributo togliattiano a questo tema sta nel fatto che esso si lega alla sua battaglia per l’Assemblea costituente e per una Costituzione che non si limiti a codificare gli assetti esistenti, ma che sia un programma per il futuro.
Paolo Ciofi - Togliatti e la via costituzionale per la trasformazione della società: democrazia e socialismo
La strategia di Palmiro Togliatti, il rivoluzionario costituente, ponendo i comunisti alla testa della guerra di liberazione e cementando l’unità dei partiti antifascisti, consentì di liquidare la monarchia e il fascismo e aprì la strada alla Costituzione del ’48 che mette il lavoro a fondamento del patto tra gli italiani e che è il vero progetto per cambiare l’Italia e l’Europa.
Ruggero Giacomini - La scuola di formazione Gramsci
Tradizionalmente importante e molto curata nelle scuole di partito del PCI, la formazione è stata completamente trascurata dagli anni ’80. La Scuola di formazione politica Antonio Gramsci,sorta su iniziativa del Pdci-Marche e di Marx XXI vuole dare un segnale di inversione di tendenza e si propone di irrobustire la conoscenza e la coscienza dei militanti comunisti e della sinistra, specialmente dei più giovani.
Rolando Giai-Levra - La rivista “Antonio Gramsci oggi” compie dieci anni
Incoraggiante bilancio di 10 anni di attività e prospettive future della rivista digitale politico-culturale Antonio Gramsci oggi, sorta a Milano nel 2003 su iniziativa di un gruppo di compagni per aprire un dibattito sull’unità dei comunisti e sul possibile fronte della Sinistra.
Alexander Höbel, Paola Pellegrini - Rilanciare e rafforzare l’associazione Marx XXI
Bilancio e direttrici di un vasto programma di attività dell’associazione politico-culturale Marx XXI, fondata nel 2010 con l’obiettivo di produrre elaborazioni, studi e programmi che, sul piano teorico e culturale, ponessero le basi per il lavoro politico teso alla riunificazione in Italia delle forze che si richiamano al marxismo e al comunismo, nel quadro di un confronto con il complesso delle tendenze culturali e politiche anticapitaliste, progressive e democratiche a livello nazionale ed internazionale.
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O perspektivama komunista u Italiji: povodom iskustva Belgije
Fausto Sorini, nacionalni sekretar PdCi (Paartije Talijanskih Komunista) za vanska pitanja
Pozivam sve drugarice i drugove da vrlo pažljivo pročitaju ovaj članak [http://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-europa/24144-brillante-successo-elettorale-del-partito-del-lavoro-del-belgio.html] i da prouče iskustva PTB (Radničke partije Belgije).
Ta malena lenjinistička partija imala je do prije nekoliko godina samo nekoliko hiljada članova i na nacionalnim izborima dobijala je manje od 1% glasova. Zahvaljujući inteligentnom i strpljivom radu, koji se nije osvrtao na izbornu logiku, kao ni na političke i institucionalne prodore, za svega nekoliko godina uspjela je ne samo pojačati vlastitu društvenu ukorijenjenost, već postati partija koja raspolaže sa kadrovima i sa aktivistima, umnožila je članstvo (na kvantitativnoj i selektivnoj osnovi, najvećim dijelom radi se o aktivnim članovima): na kraju je postigla nevjerojatne rezulate, koje ni sama nije očekivala; prešla je izborni prag od 5% glasova i u nacionalni parlament uvela 4 komunistička zastupnika.
Treba proučiti to iskustvo ne kopirajući ga doslovno, već iz njega crpeći one aspekte koji su općeprimjenjivi i u našem kontekstu, a ono je sigurno korisno, gledajući na velike teškoće na koje komunisti nailaze u našoj zemlji, u cilju da se odrupremo konkretnim primjerima razornim likvidatorskim tendencijama.
Iskustvo male (ali sve manje male...) Belgijeske Partije rada (PTB) i to lenjinističke pokazuje, između ostalog, koliko je neutemeljena likvidatorska teza, koja se danas širi na sve strane u debeti koja se vodi na talijanskoj ljevici, a prema kojoj u najrazvijenijim kapitalističkim zemljama (kakve su Italija i Belgija...) navodno nema više objektivno mjesta za postojanje male i revolucionarne komunističke partije sastavljene od kadrova i od aktivista, koji čvrsto politički i ideološki uz nju pristaju, prihvataju organizaciju lenjinističkog tipa sa znatnim utjecajem na mase , koji je itekako društveno koristan (to jest ne predstavlja isključivo grupice ili ostatak izvjesnog političkog iskustva).
Belgijsko iskustvo predstavlja, između ostalog, sjajnu negaciju takvih likvidatorskih težnji.
=== 2 ===
Rezultat evropskog glasanja, kojeg treba analizirati mirno i sa svim konačnim podacima, pokazuje napredovanje antievropskih i nacionalističkih snaga. Gromoglasan, ali ne i neočekivan, jest uspjeh francuskogFront national i ostalih partija ekstremne desnice, počevši od Grčke, do Španije i Cipra.
U Italiji snažnu pobjedu Pd (Partito democratico –Demokratske partije) treba više pripisati ogromnoj popularnosti Renzija (bez podcijenjivanja učinka obećanih 80 Eura povišice) nego upravo evropskim usmjerenjima, budući da Italija plaća jako visoku cijenu politici Evropske Unije. Taj rezultat ipak odbacuje i to metlom ljevičarsku manjinu, koja postoji unutar te partije.
Grillo, koji ima ipak još mnogo uspjeha, sa svojim zadnjih blesavim izjavama o „narodnim sudovima“ upravo se svojski potrudio da izgubi (od posljednjih izbora dva miliona glasova). Ne treba zapostaviti, na kraju krajeva, ni poraz partije Forza Italia (Berlusconijeva stranka prim. prev.) sa prelivanjem glasova u Pd (Demokratsku partiju).
Rezultat od 4% glasova, koji je dobio Tsipras, kojem ne treba zaboraviti da je izjavio da ine želi ići s Pdci (Partijom talijanskih komunista) jest rezultat koji bi mogao biti bolji da je bolje uspio povećati i proširiti jedinstvo ljevice u Italiji i u Evropi, krenuvši od pojačanja Evropske ljevice (Gue- gauche EU). Pred tim opredjeljenjima, pogrešnim svakako, reakcija Partije talijanskih komunista bila je racionalna i hladna, sa pogledom koji je gledao dalje od izbornih rezultata, i nije se zatvorio u vlastitu ljusku zbog teške diskriminacije, koju je doživio, održavajući otovrenom diskusiju sa najnaprednijim kandidatima liste Tsipras. Ovom prilikom želim zahvaliti svima onima, koji su potpisali naš programski manifest, izražavajući nadu da će se upravo na tim temama sljedećih tjedana nastaviti važan zajednički rad.
Jasno je da će se definitivno moći odlučiti, kad se bude vidjelo tko je izabran, no analiza rezultata ne može nas navesti da podcijenimo velik neizlazak na izbore i vrlo jako personaliziranje politike. Što se tiče naše zemlje, i bez kandidata vodili smo autonomnu izbornu kampanju, sa snažnim optuživanjem državnog udara u Ukrajini, ne preskačući teme koje se odnose na rad i na tematiku, koju su drugi podcijenili, antifašizma. Svim drugaricima i drugovima, koji su bez ekonomskih sredstava, ali s oduševljenjem i požrtvovanjem vodili kampanju ne štedeći sebe, veliko hvala. Isto tako treba izraziti zahvalnost na teritorijima, gdje su bili i administrativni izbori, drugovima iz Partije talijanskih komunista, koji su se borili za socijalna prava radnika.
Evidentno je, da i izvan liste Tsipras, nema alternative za budućnost komunista i općenito za budućnost ljevice, osim pristupanjem stvaranju širokog jedinstvenog fronta lijevih snaga na socijalnom i političkom planu, čija će osnovica biti svijet rada i radnih prava, u kojem će komunisti biti prisutni sa svojim autonomnim radom i doprinosom, koji će biti jači i više strukturiran od onog drugih političkih subjekata u igri. Moramo na nov i još neispitan način otvoriti „pitanje komunista u Italiji“. Treba nam jedinstveni front, koji će biti sposoban u borbi da uspostavi odnos sa onim dijelom populacije talijanske ljevice (ma kako oni danas bili politički locirani) koji će umijeti ponuditi radnicima, kao i mladima onu političku obalu i onu opciju, koje danas nema te bi bilo kratkovidno smatrati, da je ona jedino sadržana u rezultatima liste Tsipras.
=== 3 ===
(il testo originale, in lingua italiana:
Fausto Sorini, zadužen za vanjska pitanja PdCI (Partije talijanskih komunista), piše:
Očekujući dublju analizu glasanja za novi Evropski parlament kazao bih da se zasad mogu izvući sljedeći zaključci:
Od 800 miliona ljudi, koji predstavljaju ukupno Evropski kontinent, više od 500 miliona žive u zemljama što čine Evropsku Uniju (koja nije nipošto cijela Evropa). Od njih 400 miliona ima pravo glasa, a od tih je svega 43% izišlo pred biračke kutije (oko 170 miliona otprilike): jednaki postotak je glasao na evropskim izborima i 2009, sa danas vrhuncima neizlaska u Slovačkoj 13% i najvećeg izlaska u Italiji od 59% (izuzetak je Belgija sa 90%, gdje je izlazak na glasanje obavezan, odnosno u toj zemlji neizlazak na glasanje podliježe sankcijama).
Uzimajući u obzir bijele glasačke listiće ili one nevažeće, činjenica je, da gotova trećina „važećih“ listića pripada ili krajnjoj desnici ili krajnjoj ljevici, što ukazuje na radikalno kritičan odnos prema ovoj sakatoj „Evropi“, kapitalističkoj, liberističkoj i atlantskoj, kakva je danas Evropska Zajednica; zato nije pretjerano ustvrditi da bar 3 građanina Evropske Zajednice, od njih 4, takvu zajednicu osjećaju tuđom i neprijateljskom (i u tome su potpuno u pravu).
-Zabrinjava iz niza razloga, koji se odnose i na stanje ljevice u Evropi (u izvjesnim slučajevima i na komuniste),da zbog njene slabe ukorijenjenosti i zato što ona više nije alternativa sistemu, već je politikanstka, udaljena kako od radnika tako i od mladih, koji su tu pred njom svojim živim tijelom, to izražavaje nezadovoljstva narodnih masa i nelagode najsiromašnijih slojeva društva, najteže pogođenih kapitalističkom krizom, biva iskorišteno od populističkih fomacija ekstremne desnice, u pojedinim slučajevima otvoreno fašističkih ili filonacističkih. Najteži slučaj predstavlja Francuska, gdje je antisocijalna i militarističkapolitika Socijalističke partije Hollandea, potpuno podložne vodećim euro-atlanskim usmjerenjima, kao i cijeli niz poteškoća i podjela na lijevom frontu kao i podijela među komunistima, koje potječu od davnih vremena (iako još nisu toliko teške i komplicirane kao u Italiji...), ostavio ogroman prostor jednoj fašistoidnoj političkoj formaciji, kakav je Front national, koji se danas postavlja tako kao da želi postati pokretač politike u jednoj od ključnih zemalja evropskog i svjetskog konteksta.
- Ima i situacija gdje,- nasuprot navedenom primjeru -, kao što je to slučaj u Portugalu, ali na izvjestan način i u Grčkoj i na Cipru, fundamentalni i najborbeniji dio socijalnog nezadovoljstva okreću prema sebi i organiziraju solidarne i vrlo odlučne komunističke partije, koje su suštinski dio borbene i masovne ljevice, počevši od sindikata; u tim su zemljama sindikati klasni i pored toga vrlo jaki i uopće nisu podložni onima, koji se slažu sa sistemom i na taj način oni umanjuju i zadržavaju napredovanje reakcionarnog populizma, dok najborbeniji dio svijeta rada kao i svijeta mladih nalazi u tim partijama pozitivan i napredan izlaz za vlastitu socijalnu nelagodu.
-U toj općoj slici ističe se suštinska stabilnost i još veće jačanje partija, koje dominiraju u Njemačkoj (Narodna i Spd) kao i vodstvo gospođe Merkel, unutar „velike koalicije“ (koja predstavlja shemu bipolarnih vlada Evropske Unije, koje smo već vidjeli u prošlosti i koje ćemo izgleda vidjeti i u godinama koje dolaze): to je primjer novog njemačkog imperijalizma, koji je u isto vrijeme solidaran, a ujedno i u kompeticiji sa američkim imperijalizmom; on raspolaže nesumnjivim koliko i zabrinjavajućim društvenim pristankom, štoi obuhvaća i široke mase stanovništva, i što želi biti pokretačem jedne Evropske Unije sve više germanocentrističke, što vlada nad drugim zemljama i nad drugim narodima euro-zone, na prešutan, ali vrlo agresivan način, i koja je– uz SAD – sukrivac ponovnog rađanja neonacizma i to u zemlji, koja je ključna za evropsku ravnotežu i za odnose Istok-Zapad i za zemlje kao što je Ukrajina.
- Što se tiče Italije, nju je daleko lakše pročitati, unutar njene negativnosti:
- ističe se veliki uspjeh Renzija, koji je izvrsno uspio pobijediti u natjecanju s Grillom kao i sa Berlusconijem. Unutarnja lijeva manjina PD-a (Demokratske partije) ispala je tim uspjehom masakrirna. Posljedice svegta toga su vrlo ngativne, kako za zemlju tako i za cijelu talijansku ljevicu. I to će se vrlo brzo pokazati, nakon početne opijenosti.
-ListaTsipras jedva jedvice je prešla izborni prag (s nekoliko hiljada glasova), ali ne uspijeva utjecati, na značajan način, i zbog izborne ogrničenosti i zbog politikanstva, kojim je prožeta, niti na izbornu masu ljevice PD (Demokratske partije) niti na Grillov pokret zvan 5 zvijezda. Izbile su kao hegemone odnosno kao vodeće njezine unutarnje najumjerenije komponente, što je bilo i predvidivo, na planu zastupanja u Evropskom parlamentu.
To neka posluži kao pouka onima, koji su, kao Rifondazione comunista (Ponovno osnovani komunisti) ili drugi slični, mislili da će imati koristi i da će za njih biti neka predsnost, ukoliko se bude diskriminirao jedan dio komunista.
Neka nam bude dopušteno istaći, sa malo ironije (i samoironije) da je glas jednog dijela tradicionalnih glasača komunista bio apsolutnopresudan u postizanju kvoruma za izborni prag. Ovo nije sud, nego kostatacija. A to je bilo moguće jer je upravljačka grupacija naše partije reagirala hladno i politički racionalno i gledajući dalje od izbornih rezultata i zaboravljajući na tešku diskriminaciju, kojom smo postali objektom, budući da su nas prisilno izbacili iz izbornog natjecanja i zato smo se osobno založili da se članstvo ponaša odgovorno i da se izbjegne mogući neizlazak na izbore, kao i to, da postanemo žrtve podcjenjivanja.
Nadilazeći rezultat iste Tsipras , nema alternative za budućnost komunista i za talijansku klasnu ljevicu, osim stvaranja jedinstvenog fronta sa svim snagama ljevice u društvu i u politici, i to fronta koji će imati vlastito utemeljenje u protoganističkoj ulozi, koja se pridaje svijetu rada, u kojem će komunisti biti prisutni svojom vlastitom partijom, koju treba potpuno iznova izgraditi. Radi se o jedinstvenom frontu socijalne borbe, ujedinjene sa sindikalnom i poolitičkom borbom. I to borbe koje će umijeti ponuditi radnicima kao i mladima u našoj zemlji onu političku obalu, koju čitavu tek moramo izgraditi. I za koju bi bilo kratkovidno smatrati da lista Tsipras (sa svim svojim ishodišnim ograničenjima) predstavlja izvjesno najavljivanje.
http://www.wsws.org/en/articles/2014/06/09/fasc-j09.html
Nationalism and fascism in Ukraine: A historical overview
Part one
By Konrad Kreft and Clara Weiss
9 June 2014
This is the first part of a two-part article.
The Western media is seeking to downplay the prominent role of fascists in the new Ukrainian government. Several of the regime’s ministries are headed by members of the far-right Svoboda party, and the militias of the neo-fascist Right Sector are active in violently repressing resistance in the east of the country.
Both Svoboda and Right Sector played a crucial role in the February 22 coup in Kiev, which was strongly backed by Berlin and Washington. This is no coincidence. The close collaboration of Germany and the US with Ukrainian fascists has a long history, reaching back over the last hundred years.
The roots of Ukrainian nationalism
In contrast to many other European countries, there has never been a strong bourgeois national movement in Ukraine. Ukraine has been divided between Poland and Russia since the late Middle Ages. After the carve-up of Poland at the end of the eighteenth century, Ukraine became part of the Russian Empire. Only a section of what is now western Ukraine was integrated into the Hapsburg Empire.
The weakness of the Ukrainian national movement was due on the one hand to the country’s economic backwardness and lack of a strong middle class. Significant industrialisation occurred only in the era of the Soviet Union. On the other hand, a large proportion of the urban population consisted of Russians, Germans and Jews, while the rural population was mainly Ukrainian.
When bourgeois forces finally erected a Ukrainian nation-state, following the 1917 February Revolution’s overthrow of the tsar in Russia, they were immediately confronted with a revolutionary working class. The Bolsheviks, who seized power in Russia in October, received powerful support from the workers of Ukraine. Ever since then, bourgeois nationalism in Ukraine has been characterised by virulent anti-communism, pogroms against revolutionary workers and Jews, and attempts to win the support of imperialist powers.
The Social Democratic-dominated Rada (parliament), which proclaimed Ukraine’s independence in January 1918, tried to reach an agreement with Germany. After the Treaty of Brest-Litovsk, however, the Soviet government was forced to cede Ukraine to Germany. When German troops marched into the country, the military dispensed with the Rada and established a dictatorship under Hetman (pre-eminent military commander) Pavlo Skoropadskyi, a landowner and former tsarist general. Skoropadskyi proceeded to make Kiev a rallying point for extreme right-wing and anti-Semitic politicians and military officers from all over Russia. (See: Anti-Semitism and the Russian Revolution: Part two)
Germany’s defeat in the First World War led to its forced retreat from Ukraine. Bloody battles engulfed Ukraine during the ensuing civil war in Russia. Supported by Western powers on Ukrainian soil in its fight against the Soviet government, the volunteer army under General Denikin committed horrific crimes and organised anti-Jewish pogroms. An estimated 50,000 Jews were murdered by the Whites in the second half of 1919 alone.
Symon Petliura, one the many Social Democrats who became nationalists, headed a directorate that took power in Kiev. This body also sought the backing of the Western powers in its war against the Soviet government and was responsible for the murder of more than 30,000 Jews. Both Petliura and Stepan Bandera, who emerged later as a leading figure, are regarded as role models by present-day Ukrainian nationalists.
Lenin advocated self-determination for Ukraine, and this democratic demand played a crucial role in winning the oppressed Ukrainian workers and peasants to the side of the Bolsheviks, who eventually won the civil war in 1921. In 1922, the Ukrainian Soviet Socialist Republic officially became part of the newly formed Soviet Union. However, western Ukraine remained under Polish rule.
Genuine independence from imperialism and development of national culture were possible in Ukraine only during the early years of the Soviet Union. These advances emerged from Lenin and Trotsky’s nationalities policy, which conceded to the nations within the Soviet confederation a comprehensive right to self-determination. The oppression of nationalities, as was common in the tsarist empire, was decisively rejected by the Bolsheviks.
The cultural life and material living standards of the Ukrainian masses underwent a dramatic improvement in the 1920s. The illiteracy rate declined sharply, as educational institutions and universities were established throughout the country. The Ukrainian language and culture were widely promoted, and this greatly stimulated intellectual life. As Leon Trotsky wrote in 1939, thanks to this policy, Soviet Ukraine became extremely attractive to the workers, peasants and revolutionary intelligentsia of western Ukraine, which remained enslaved by Poland.
However, the rise of the Stalinist bureaucracy brought an end to this nationalities policy. Lenin had attacked Stalin because of his centralist and bureaucratic tendencies in relation to the Georgian and Ukrainian questions. But after Lenin’s death, Stalin became increasingly ruthless in his attacks on non-Russian nationalities.
“The bureaucracy strangled and plundered the people within Great Russia, too,” wrote Trotsky in 1939. “But in the Ukraine matters were further complicated by the massacre of national hopes. Nowhere did restrictions, purges, repressions and in general all forms of bureaucratic hooliganism assume such murderous sweep as they did in the Ukraine in the struggle against the powerful, deeply-rooted longings of the Ukrainian masses for greater freedom and independence.” [1]
The Ukrainian peasants were particularly affected by the forced collectivisation of the late 1920s and early 1930s. Approximately 3.3 million people fell victim to this policy.
The devastating consequences of the nationalist polities of the Stalinist bureaucracy strengthened “nationalist underground groups… which were led by fanatical anti-Communists, successors of Petliura’s supporters and forerunners of Bandera’s people,” writes Vadim Rogovin in his book Stalin’s War Communism. [2]
Stalin’s murderous policies of repression played into the hands of Ukrainian nationalists and fascists, who agitated in the western parts of the divided Ukraine and collaborated with Hitler when he invaded the Soviet Union in 1941. Despite the crimes of Stalinism, however, the great majority of Ukrainians fought in the Red Army to defend the Soviet Union.
The crimes of the Ukrainian fascists in World War II
Among the most significant organisations that collaborated with the Nazis was the Organisation of Ukrainian Nationalists (OUN). Its members were recruited mainly from veterans of the Civil War who had fought on the side of Petliura against the Bolsheviks.
During the 1930s, the OUN carried out numerous terrorist attacks in Ukraine, Poland, Romania and Czechoslovakia. Its ideological head was Dmytro Dontsov (1883-1973), who became one of the leading ideologues of the Ukrainian extreme right-wing through his journalistic activities, among which were Ukrainian translations of Mussolini’s Dottrina del Fascismo ( The Doctrine of Fascism ) and excerpts from Adolf Hitler’s Mein Kampf .
Dontsov had earlier developed his thesis of “amorality.” According to historian Frank Golczewski, this asserted the obligation “to collaborate with every enemy of Great Russia, regardless of their own political goals.” It “created an ideological justification for the subsequent collaboration with the Germans” and the lineup of Ukrainian nationalists behind the United States during the Cold War. [3]
In 1940, the OUN split into the Bandera (B) and Melnyk (M) factions, which bitterly fought each other. Bandera’s more extreme group was able to attract more followers than Melnyk’s. It began by establishing Ukrainian militia (the Roland and Nightingale Legions) on German-occupied territory in Poland which, in league with the Wehrmacht (German army), invaded the Soviet Union in June 1941.
After the withdrawal of the Red Army from areas conquered by the Germans, the legions and special militias acted as auxiliary troops in countless massacres of Jews. Following the entry of the OUN-B into Lviv on June 29, 1941, the Bandera militias (Nightingale Legion) unleashed murderous pogroms against the Jews lasting several days. Ukrainian militia continued massacring Jews in Ternopil, Stanislau (today Ivano-Fankisk) and other places. Documentary evidence relating to the first few days of the Wehrmacht’s advance reveals that about 140 pogroms were perpetrated in western Ukraine, in which 13,000 to 35,000 Jews were murdered. [4]
On June 30, 1941, Bandera and his deputy head of the OUN-B, Yaroslav Stetsko, proclaimed the independence of Ukraine in Lviv. Stepan Lenkavski, the OUN-B government’s director of propaganda, openly advocated the physical extermination of Ukrainian Jewry.
The Nazis used their Ukrainian collaborators to commit murders and acts of brutality that were too disturbing even for the SS units. For example, SS task force 4a in Ukraine confined itself to “the shooting of adults while commanding its Ukrainian helpers to shoot [the] children.” [5]
Dealing with Ukrainian and other collaborators in the Soviet Union was a controversial issue in the Nazi leadership. While Alfred Rosenberg, one of the main Nazis responsible for the Holocaust, urged greater involvement of local fascist forces, Hitler opposed the nationalists’ so-called independence projects. On Hitler’s orders, the OUN-B leaders were eventually arrested and the Ukrainian legions disarmed and relocated.
From 1942, the Ukrainian militia served the Third Reich in the “anti-partisan campaign” in Belarus, in the “security service,” and as armed personnel in concentration camps. Bandera and Stetsko remained in custody in Sachsenhausen concentration camp until September 1944.
When Hitler’s armies went into retreat after their defeat at Stalingrad, members of the OUN legions returned to Ukraine and formed the Ukrainian Insurgent Army (UPA) in 1943. Immediately after his release by the German authorities, Bandera headed back to Ukraine to lead the UPA.
The UPA was supplied with German weapons and attempted to implement an extensive ethnic cleansing program in order to create the conditions for an ethnically pure Ukrainian state. In 1943 and 1944, the UPA organised massacres that claimed the lives of 90,000 Poles and thousands of Jews. It also brutally terrorised, tortured and executed Ukrainian peasants and workers who wanted to join the Soviet Union. The UPA went on to kill some 20,000 Ukrainians before the insurrection was completely crushed in 1953.
To be continued
Notes
[1] Leon Trotsky, “Problem of the Ukraine,” Trotsky Internet Archive
[2] Vadim Rogovin: Stalins Kriegskommunismus, Essen 2006, p. 377
[3] Frank Golczewski: Die ukrainische Emigration, (Hrsg.): Geschichte der Ukraine, Göttingen 1993, p. 236
[4] Per Anders Rudling: “The Return of the Ukrainian Far Right. The Case of VO Svoboda,” in: Ruth Wodak, John E. Richardson (ed.): Analyzing Fascist Discourse: European Fascism in Talk and Text, London 2013, pp. 228-255. The article is accessible online.
[5] Quoted in Christopher Simpson: Blowback. America’s Recruitment of Nazis and Its Effects on the Cold War, London 1988, p. 25
Nationalism and fascism in Ukraine: A historical overview
Part two
By Konrad Kreft and Clara Weiss
10 June 2014
This is the second of a two-part article. Part one was posted June 9.
The Ukrainian fascists during the Cold War
Immediately after World War II, the American secret service and military began recruiting high-ranking Nazis and Nazi collaborators for the ideological, political and military struggle against the Soviet Union. Fascists and war criminals from Germany and Eastern Europe who had been directly involved in the Holocaust and the murder of millions of Soviet civilians were utilized for covert activities by the US intelligence agencies or worked for propaganda outlets like Radio Free Europe.
According to Harry Rositzke, who was responsible at the CIA for secret operations inside the Soviet Union, “any bastard” was good “as long as he’s anti-Communist.” [6] The network that the CIA built up in the 1940s and 1950s in Eastern Europe and the Soviet Union rested heavily on the web of Nazi collaborators.
A key role was played by Reinhard Gehlen, who had led Hitler’s military intelligence service on the Eastern Front and later became the first president of West Germany’s Federal Intelligence Agency (BND), responsible for foreign intelligence operations. From 1946, he worked for Washington and was able to utilise his old contacts among Ukrainian collaborators, within the anti-Soviet army of Russian General Vlasov, and within other Nazi networks.
The CIA’s first large-scale projects to destabilise the Soviet Union included intervention in the Ukrainian civil war. The predecessor to the CIA, the OSS, together with the British Secret Intelligence Service (SIS), had already supplied the underground war being waged by the Ukrainian Insurgent Army (UPA) and the Organisation of Ukrainian Nationalists-Bandera (OUN-B) with materiel and logistics before the end of the world war. As well as military training, this included the parachute drop of agents into Soviet and Polish territory. [7] The guerrilla war in Ukraine became the prototype for similar operations by the CIA throughout the world during the Cold War.
The most important UPA liaison officer for the CIA was Mykola Lebed, whom American military intelligence had described in 1946 as a “well known sadist and collaborator of the Germans.” [8] In 1949, the CIA sponsored his entry into the United States and covered up his war crimes. In emigration, he led the OUN-Z, a split-off from Bandera’s arm of the OUN, which was funded by the United States. He provided the contact between the US and the UPA fighters.
After 1953, Lebed was involved in the management of the émigré publishing house Prolog, financed by the CIA, which disseminated nationalist, anticommunist and historically revisionist literature. From 1945 to 1975, Prolog also published material in Munich depicting the Ukrainian fascists as freedom fighters against communism and either denying or varnishing their participation in war crimes.
Since 1943, the UPA has worked on the myth of the “democratic freedom fighter” to make itself acceptable as an ally of American imperialism. The standard lie runs: the OUN/UPA fought for democracy against both the Nazis and the communists.
The Swedish historian Per Anders Rudling writes of the propaganda of the fascistic Ukrainian diaspora: “The line between scholarship and diaspora politics was often blurred, as nationalist scholars combined propaganda and activism with scholarly work. Lebed’s circle never condemned the crimes or the mass murders of the OUN, let alone admitted that they had taken place. On the contrary, it made denial, obfuscation, and white-washing of the wartime activities of the OUN and the UPA a central aspect of its intellectual activities.” [9]
For years, “The main conduits for smuggling” literature produced by the Western secret services “into Soviet Ukraine and Lviv in Western Ukraine were through Poland and Czechoslovakia.” [10]
When Polish-born Zbigniew Brzezinski became President Jimmy Carter’s national security adviser, the US increased its funding for anti-Soviet Ukrainian propaganda. In addition to literature and radio broadcasts, videocassettes were produced.
Under President Reagan, the strategy of destabilising the Soviet Union by boosting the nationalities question was intensified. The CIA produced material that was addressed to different ethnic groups in the Soviet Union and encouraged separatist-nationalist tendencies. In 1983, President Reagan received OUN-B leader and war criminal Yaroslav Stetsko at the White House, pledging, “Your struggle is our struggle. Your dream is our dream.” [11]
According to the Ukrainian nationalist historian Taras Kuzio, Prolog was able to produce $3.5 million worth of propaganda in the Soviet Ukraine thanks to the financial support of the US. This paid for publications and the use of new technologies, which, according to Kuzio, “had a great impact upon sustaining and increasing anti-regime activities and opposition groups in the late 1980s in the final push towards Ukrainian independence.” [12]
In West Germany, the BND, in which countless former Nazis were active, supported exiled nationalists in their anti-Soviet work. In Munich, where the BND is headquartered, a Ukrainian émigré centre was established after the war that distributed propaganda literature. Bandera and Stetsko, the two most important OUN-B leaders, also lived there under false names. In October 1959, Bandera was uncovered by the Soviet KGB and murdered in Munich. Stetsko, the exiled leader of the OUN-B, lived there until his death in 1986.
Many academics have covered up Western cooperation with Ukrainian fascists. During the 1950s, many books were published about the Second World War concealing the role of collaborators in Ukraine and Eastern Europe, or glorifying them. The media, too, largely kept quiet.
In his 1988 book Blowback: America‘s Recruitment of Nazis and Its Effects on the Cold War, American journalist Christopher Simpson, who uncovered the network of old Nazis in the service of the CIA, noted:
“Until recently, the US media usually could be counted on to maintain a discreet silence about émigré leaders with Nazi backgrounds accused of working for the CIA. According to declassified records obtained through the Freedom of Information Act, several mass media organizations in this country—at times working in direct concert with the CIA—became instrumental in promoting Cold War myths transforming certain exiled Nazi collaborators of World War II into ‘freedom fighters’ and heroes of the renewed struggle against communism.” [13]
Today’s war propaganda glorifying the fascists in Ukraine as model democrats and freedom fighters stands in this tradition.
The rise of Svoboda after 1991
After independence in 1991, Ukraine, like the rest of the former Soviet Union, saw far-right groups springing up like mushrooms. These ultra-right forces were encouraged by the imperialist powers and the Ukrainian state.
A systematic rehabilitation of the OUN and UPA began in the 1990s. In 1997, under the second Ukrainian president, Leonid Kuchma, a government commission on the OUN and UPA was established in which prominent historians participated. The reports produced by the commission in 2000 and 2005 whitewashed the role of the fascists, especially the OUN-B.
The commission’s objective was the ideological preparation of a law giving veterans of the Red Army and the OUN/UPA equal status. The breakthrough in the rehabilitation of these forces followed under President Viktor Yushchenko, who came to power in 2004 as a result of the Western-backed “Orange Revolution.” He then passed the law giving them the imprimatur of the state.
Svoboda supported Yushchenko in the “Orange Revolution.” Its chairman, Oleh Tyahnybok, elected as an independent parliamentary deputy, joined Yushchenko’s bloc Nasha Ukraina (Our Ukraine) and became a member of the parliamentary budget committee.
At that time, Tyahnybok said of the UPA/OUN-B veterans: “You fought against Moskali (a derogatory term for Russians), Germans, Yids and other scum… You are feared by the Mafia of the Moskali-Yids in the Ukraine the most.” This speech can be found on YouTube.
As a result of public pressure, Yushchenko’s bloc was unable to keep Tyahnybok and expelled him the same year. However, criminal charges for incitement were rejected.
Tyahnybok’s party was formed in 1991 under the name Social-National Party of Ukraine (SNPU) through the merger of various right-wing groups and student bodies. It renamed itself Svoboda (freedom) shortly before the Orange Revolution.
Immediately after he took office, Yushchenko began a broad-based campaign to rehabilitate the Ukrainian fascists and their collaboration with the Nazis. In July 2005, he founded an “Institute of National Remembrance,” committed the Ukrainian secret service SBU (once part of the KGB) to carry out propaganda, and supported the establishment of a Museum of the Former Soviet Occupation. As the director of the institute, he appointed Volodomyr Viatrovych, who as an ultranationalist activist was also director of the Centre for Research of the Liberation Movement, an institution of OUN-B successors. [14]
Several OUN and UPA fighters and nationalist leaders like Symon Petliura were officially honoured, with the state producing special stamps and commemorative coins bearing their portraits.
During his last year in power, Yushchenko ensured that the mass media, such as Channel 5, gave Svoboda a disproportionate amount of coverage. Tyahnybok and party ideologist Yuriy Mykhalchyshyn appeared on popular talk shows such as “Velyka polityka” (Big Politics) and “Shuster Live.” Especially following Svoboda’s electoral success in western Ukraine in 2009, the party achieved widespread media coverage. [15]
Yushchenko had monuments built in Lviv and Ternopil to commemorate war criminal Stepan Bandera, whom he declared to be a hero of Ukraine just days before the end of his presidency in 2010. After protests from Poland and the EU, the new president, Viktor Yanukovych, rescinded this honour, as well as that for the fascist Roman Shukhevych.
Swedish historian Per Anders Rudling described the ideological climate in 2013 with the words: “The hegemonic nationalist narrative is reflected also in academia, where the line between ‘legitimate’ scholarship and ultra-nationalist propaganda often is blurred. Mainstream book stores often carry Holocaust denial and anti-Semitic literature, some of which finds its way into the academic mainstream.” [16]
The Yushchenko regime’s collaboration with fascists was not limited to Svoboda. The openly anti-Semitic Congress of Ukrainian Nationalists (KUN), founded in 1992 as the successor organisation to the OUN with the participation of Stetsko’s widow Slava, joined Yushchenko’s bloc Our Ukraine in 2002 and remained in parliament until 2012. Party Chairman Svarytsh was in the first government of Yulia Tymoshenko and was justice minister in 2006 in Yanukovych’s anti-crisis alliance.
Under these conditions, Svoboda was able to triple its membership between 2004 and 2010, according to its own figures. Nonetheless, the party performed only modestly in elections. In the 2007 parliamentary elections, Svoboda won 0.78 percent of the vote, and in presidential elections in 2009, 1.43 percent.
By contrast, its vote in regional elections in western Ukraine was significantly higher. In local elections in 2010, the party achieved between 20 and 30 percent of the vote in eastern Galicia, and won 5.2 percent nationally. Since then, Svoboda’s stronghold has been the city of Lviv, where the OUN-B proclaimed the short-lived independent Ukraine in 1941.
In parliamentary elections in October 2012, which had the lowest turnout (58 percent) since independence, Svoboda entered the Verkhovna Rada (parliament) as the fourth-largest party, with 10.45 percent of the vote. Its highest vote percentages came from western Ukraine, with totals of between 30 and 40 percent in three administrative regions. On the other hand, the party barely achieved 1 percent in eastern Ukraine. In Lviv, Svoboda achieved more than 50 percent and in Kiev it was the second strongest party.
Svoboda leaves no doubt about its fascist orientation and its glorification of the Nazis. On 29 January 2011, on the occasion of a memorial event for the battle of Kruty in 1918, the party organised a large torchlight procession with autonomous right-wing groups and Nazi symbols.
On 28 April 2011, it celebrated the 68th anniversary of the establishment of the Galician division of the Waffen-SS. Along the route of the march, placards proclaimed “the pride of our nation.” The participants, with party ideologist Mykhalchyshyn at their head, chanted, “One race, one nation, one fatherland,” and hailed Bandera, Melnyk and Shukhevych as heroes of Ukraine.
On 30 June 2011, Svoboda commemorated the 70th anniversary of Germany’s invasion of the Soviet Union, as well as Stetsko’s renewal of the Ukrainian nation, in a people’s festival, where mock fighters appeared in SS uniforms.
In addition, Svoboda opened several restaurants in Lviv. In the dining room of one, an oversized portrait of Bandera was hung and jokes about Poles and Jews could be found on the toilet walls. Dishes on offer included “Hands up” (in German) and “battle serenade.” Local ultra-right football fans described Lviv on their banners as “Bandera town.” Streets in Lviv have been named after Nazi collaborators by Svoboda city councillors.
The young party ideologist Yuri Mykhalchyshyn, born in Lviv in 1982, founded a right-wing think tank in 2005 that he first named after Josef Goebbels and later Ernst Jünger. In his writings, he openly refers to the “heroic” legacy of fascists like Evgen Konovalets, Stepan Bandera and Horst Wessel. He has described the Holocaust as a “bright episode in European civilisation.”
The government and media’s hailing of fascism, which in Ukraine claimed millions of victims, has been met with disgust and opposition by large sections of the population. By contrast, the Western powers portrayed the Yushchenko regime, which pressed for the ideological and political rehabilitation of fascism, as a model democracy. At the same time, Svoboda and the right-wing paramilitary Right Sector received support from Western intelligence services and parties.
Svoboda maintains close ties to the far-right German NPD (National Democratic Party), which was described by judges in 2003 as a “state organisation” because its leadership was full of secret service operatives. In May 2004, the NPD welcomed a Svoboda delegation on a friendly visit to the state parliament in Dresden. The Christian Democratic Union-aligned Konrad Adenauer Foundation also provided Svoboda with a platform. The foundation invited Svoboda members to conferences and seminars on the lessons of the 2012 elections. At the time, Yanukovych had just been reelected.
The US Republican Party also has decades-long connections with Ukrainian fascists. The American government invested large sums of money in the preparation of the coup against Yanukovych. Victoria Nuland, US undersecretary of state for Europe, stated that Washington had “invested” around $5 billion in political projects in Ukraine over the past two decades.
On May 9, the government-aligned Russian newspaper Izvestia reported that a Right Sector member had flown to Washington at the end of April for talks with the US administration. Nuland offered Right Sector $5-$10 million to give up its weapons and transform itself into a party. But Dmytro Yarosh, leader of Right Sector, rejected the offer.
The strong support from Western governments for Ukrainian fascists is directed not only against workers in Ukraine, but against workers around the world. Berlin and Washington have deliberately built up fascist forces in Ukraine and are now using them to impose social attacks on the working class and prepare for a major war with Russia.
[PHOTOS:
1. Nazi Lt. General Reinhard Gehlen
2. Mykola Lebed
3. Stetsko meeting with Vice President Bush in 1983 ]
Notes
[6] Cited by Simpson, 1988, p. 159
[7] Taras Kuzio: US support for Ukraine’s liberation during the Cold War: a study of Prolog Research and Publishing Corporation, in Communist and Post-Communist Studies, no. 45, 2012, p. 53
[8] Simpson 1988, p. 166
[9] Per Anders Rudling: The OUN, the UPA and the Holocaust: A study in the manufacturing of historical myths, in the Carl Beck Papers in Russian & Eastern European Studies, no. 2107 (2011), p. 19. The article is accessibleonline.
[10] Kuzio, 2012, p. 56
[11] Russ Bellant: Old Nazis, the New Right and the Republican Party, Boston 1991, p. 72
[12] Kuzio 2012, p. 61
[13] Simpson 1988, p. 5
[14] Rudling 2013, p. 230
[15] Ibid ., p. 244
[16] Ibid ., p. 231
http://www.workers.org/articles/2014/06/08/nadja-tesich/
Nadja Tesich
Political activist, author, poet and filmmaker Nadja Tesich was born in Užice, Serbia, Yugoslavia, in 1939 and died Feb. 20 in New York City. She lived her life outspoken and full of righteous rage at the enormous destruction of U.S. wars and the glaring injustice and inequality that surrounded her. She felt collective pain personally, even physically, and identified with defenseless people targeted on the other side of the world or someone passing her on a busy street.
Nadja came to all events wearing always a splash of red — whether a red beret, red scarf or red jacket, or bearing red carnations. She loved Cuba and often said it was the only place she felt she could breathe.
At a memorial for Nadja on May 29, her family, friends and political comrades expressed the rainbow of ways she touched them. We remember her for her political activism, starting from defending the National Liberation Front of Vietnam in the 1960s.
From the beginning days of the International Action Center, Nadja was part of IAC life. She had fought against U.S. wars in Vietnam, coups in Congo, Chile and Greece; she was active in the mass demonstrations against the Iraq War in 1991 and again in 2003.
Nadja was even more intense in our common work attempting to defend her homeland, Yugoslavia, from an unrelenting assault by the imperialist governments of Western Europe and the United States. Tragically for most of the peoples of the Balkans, these years ended with the imposed disintegration of a once-sovereign socialist country into a half-dozen mini-states, now neocolonies of the NATO powers. At meetings, teach-ins and major rallies on Yugoslavia, Nadja was a driving force and a tortured soul of everything we did.
Tesich, whose family emigrated from Yugoslavia to the U.S. when she was a young teenager, has had four novels published: “Shadow Partisan” in 1996, “Native Land” in 1998, “To Die in Chicago” in 2010 and “Far from Vietnam” in 2012.
It is particularly striking to read “Shadow Partisan” and “To Die in Chicago” one after the other. The novels contrast on a close and personal level a hopeful coming-of-age in newly socialist Yugoslavia in the late 1940s with a cleareyed immigrant’s view of U.S. racism and a consumer-driven society without a future in the 1950s.
While studying in Paris in the 1960s, she worked in film as an actor and assistant to Eric Rohmer for the documentary, “Nadja in Paris.” She taught film at Brooklyn College in New York.
We should end with Nadja speaking in her own words, from her chapter in one of the IAC’s books, “NATO in the Balkans”:
“I was born in Serbia and have returned there every year, and I have also lived in France and in New York City most of my adult life. And most of my adult life, as a participant and as observer, I have opposed U.S. aggressions, murders, embargoes, wars. Some hidden, others less so.
Everything the U.S. does elsewhere — chaos and destabilization — it does equally at home. … It’s an amoral, mechanical monster whose heart is the beat of Wall Street. Up and down it goes. More and more it needs and it’s never enough. … Still it can be resisted. I remain optimistic. Machines break, after all.”
She often signed her messages “For our struggles now and for tomorrows that will sing!”
Nadja is survived by her son, Stefan; her sister-in-law, Rebecca; her grandchildren, Cole and Kaia;, her niece, Amy; and her many comrades in the struggle for peace, justice and socialism.
Nadja Tesich ¡Presente!
This article was adapted from IAC co-director Sara Flounder’s presentation at the memorial on May 29.
Annie Lacrox-Riz sulla Unione Europea e il D-Day
Mediokriteti kao osnivači Evropske Unije
Jaces-Marie Bourget
16/5/2014
Annie Lacroix-Riz podsjeća na Erica Hobsbawma, engleskog gorostasa historije, specijaliziranog za pitanje nacija i za nacionalizam. Tako je na primjer 1994 taj znanstvenik napisao „Kratko stoljeće“, knjigu koja vas zakucava za svoje istine, kao Arhimed u času kad je povikao „Eureka“! Za Hobsbawma XX stoljeće nije trajalo stotinu godina, već jedva 75 godina, od 1914 do 1991. Prije „Velikog rata“ svoje je vrijeme završavalo XIX stoljeće, gazeći po nogama stoljeća koje je nastupalo, a nakon „Zaljevskog rata“ na vrata je već kucalo XXI stoljeće. Engleski se historičar ljuti na kalendare, iako ima vlastiti način da ih ažurira. A što je bilo stom knjigom, koju uvijek treba držati u putnoj torbi, u slučaju da se treba ići na put? U Francuskoj ništa. Trebalo je čekati na prijevod u Monde diplomatique, da taj list upozna publiku sa Hobsbawmovim esejom. U Parizu, klika koja se bavi objavljivanjem knjiga sa područja historije nije imala petlje da objelodani taj britanski pogled, kojeg su odbacili, jer ga je napisao jedan marksist, dakle netko iz „predhistorije“ i neizostavno saučesnik gulaga.
Annie Lacroix-Riz proživljava slično ružno iskustvo unutar jedne „zajednice“, koja je samu sebe svela na tračarenje, a radi se o našim službenim historičarima, što svoja djela pišu u direktnom prijenosu televizije, sjedeći na koljenima Bernard Henri Lévyja. Oni su najčešće u prošlosti bili sjekire Komunističke partije Francuske (PCF) i kao svi konvertiti, pretvorili su se u Savanarole. Tim gore, jer ova povijesna istraživačica ima dobru reputaciju na ostatku planete i kod Anglosaksonaca, ima je čak i među vlastitim vrlo reakcionarnim kolegama. To što ti istraživači cijene jest radna sposobnost te gospođe, koja se hrani po kojim sedvičem u arhivima i na kraju u njima i prespava. Ona čita sve i sva na svim jezicima i sa Lacroix-Riz ulazimo u brutalnost činjenica: njeni navodi čine od njezinih čitalaca svjedoke historije.
Upravo je objavila knjigu o kojoj, budite u to sasvim sigurni, nećete nikada ništa čuti, a naziv joj je: „Aux origines du carcan européen (1900-1960“)/(„Izvor evropskih vratnih željeznih veriga (1900-1960)“/, izdanje kuće Le temps des Cirises.
U ovo vrijeme izbora njene riječi imaju izvjesnog smisla. Podsjetimo se na zahtjev, koji opravdava Evropsku Uniju kao dokaz: „Evropa je sredstvo za izbjegavanje rata“... U izvjesnim rečenicama Lacroix-Riz ga ponavlja i to podsjećajući na ratove u Jugoslaviji, na nasilne podjele i na današnju dramu Ukrajine. Povod je uvijek isti: kako bi potakle i promovirale vlastite interese Sjedinjene Države nastavljaju koristiti Evropu kao sredstvo. Ovoga puta u obračunu s Rusojom.
Rad francuske historičarke ide sve do izvorišta ovo sheme, do onog što bi se moglo nazvati „Euroamerikom“. Jer su klice još u ljusci ove današnje Evrope postojale mnogo prije stisaka ruku između De Gaullea ili Mitteranda i njemačkih kancelara.
Na kraju knjige bilanca istraživanje je: Evropa nije ništa drugo do redanje oportunih dogovora između velikih financijskih grupacija Njemačke i Francuske, dok su SAD imale ulogu čuvara uvažavanja sklopljenog bračnog ugovora. U početku radilo se o prikrivanoj idili, u najbrutalnijoj fazi rata 1914 godine. Sukob, koji je pobio ljude, doveo je do procvata industrije. Tako, podsjeća nas Lacroix-Riz, u augustu mjesecu 1914, kad su Nijemci ušli u Brey, došlo je do tajnog dogovora da se „ne bombardiraju“ postrojenja odnosno fabrike gospodina De Wandela. Golemi plakati sa natpisima „treba sačuvati“ bili su obješeni da se neka bitanga ne bi usudila oštetiti sveto vlasništvo te familije. Drugi primjer vrlo srdačnog sporazuma bila je onaj Henry Galla i njegovog kemijskog trusta Ugine. Taj je, preko svoje fabrike u švicarskom mjestu na rijeci Lonza, prodavao sve svoje električne proizvode i nužne kemijske artikle Njemačkoj, kako bi ova proizvodila strašno oružje kao cijanimid. Među poduzećima i za vrijeme rata vladao je mir.
Kao demonstracija te prekogranične strategije može poslužiti izostanak ratificiranja Versailleskog mira. Taj mir, koji je bio akt prestanka rata iz 1914 i koji je stavljao Njemačku pod teške sankcije, Sjedinjene Države su vrlo marljivo sabotirale, jer su se bojale „imperijalizma“ Francuske, koja bi bila isuviše jaka i isuviše laička. Dana 13 novembra Raymond Poincaré morao je popustiti pritiscima Washingtona. Dogovor je glasio ovako: vi ćete se povući iz Ruhra, prihvatit ćete dolazak jednog Komiteta američkih stručnjaka i financijaša, a mi ćemo prestati špekulirati i ometati vaš franak. Državni sekretar Hugues je predstavio taj ultimatum u ime bankara JP Morgana, a radi se o istoj banci, koja se danas nalazi u izvorištu svjetske financijske krize. U tom prekooceanskom ukazu /ediktu/proznaje se sakrivena ruka, koja će malo po malo napraviti i ispuniti unutarnjim sadržajem Evropu, koju poznajemo.
Evo jedne angdote. Mjeseca augusta 1928 , kad je Eaymod Poincaré predložio Gustavu Stresemannu, njemačkom ministru vanjskih poslova (koji je godine 1923 kratko vrijeme bio i kancelar) da naprave „zajednički front“ protiv „američke religije u odnosu na novac i protiv boljševičke opasnosti“, ovaj je to odbio. Za Lacroix-Riz Stresemann je jedan od „otaca Evrope“, zacijelo jako slabo poznat, on je pedala banaka sa Wall Street i uprvo pedala JP Morgana ili Younga. Godine 1925, u vrijeme potpisivanja ugovora u Locarnu, koji iscrtava ponovo granice posljeratne Evrope, baš tog Sresemanna predlaže Washngton kao velikog arhitekta, dok Aristide Briand i Francuska moraju spustiti vlastite guzove na rub ponuđene hoklice.
Stresemann će potpisati nešto što on u tajnosti smatra za „komad papira ukrašen izvjesnim brojem maraka“. Vlada Reicha je već potpisala tajne ugovore sa stranim nacionalistima, koji su joj skloni. Stresemann zna da je taj ugovor od samog svog rođenja prevaziđen, ali ipak, kad Hitler bude pokucao na vrata „Locarno“ će ostati sveta riječ u govorima političke desnice, bit će sinonim mira, iako je ustvari bio samo maska nacizma.
Gubitak francuske kontrole nad područjem Ruhra je tada prilika za potpisivanjem istinskog mira, mira za poslove. I tu se rađa „Međunarodni sporazum o čeliku“, koja će stvoriti „Pool ugljen-čelik“ a to znači našu Evropu, što su je ostvarile banke. Njemačka je prema dogovoru dobila 40,45% od Sporazuma, a Francuska 31,8%: rat je završen, jedan drugi rat sada može otpočeti. I taj drugi rat je došao. Godine 1943 Sjedinjene Države i Engleska stavljaju na papir „monetarni status“, koji mora stupiti na snagu po završetku ratnog konflikta. Pobjednik, Sjedinjene Države, „nametnut će državama, koje budu sudjelovale odustajanje od dijela vlastitog suvereniteta, kako bi održale fiksnim monetarni paritet“. Ta je želja upotrijebila dosta vremena da dočeka vlastito ostvarenje, ali sa ulogom koju danas igraju agencije za davanje obavjesti o rejtingu /rating/ te s obvezom, koja prisiljava Ujedinjene države Evrope da traže zajmove iskljčivo na privatnom tržištu, taj se plan napokon ostvaruje i respektira.
Dana 12 jula 1947 započela je u Parizu „Konferencija šesnaestorice“. Nacistički topovi su još bili vrući, kad su se Njemačka i Sjedinjene Države rasplakale nad sudbinom Ruhra. Tako da na margini Konferencije, Anglo-Amerikanci i Nijemci održvaju paralelne sastanke, kako bi ogulili kožu francuskim željama. No ovog puta barem Pariz se drži čvrsto. Izvan sebe od bijesa Amerikanci šaljuposebnog emisara da „ponovo napiše opći izvještaj sa Konferencije“. I da taj izvještaj bude razuman. Naročito su važne 6 točaka, koje je izdiktirao Clayton, državni sekretar za trgovinu. Te točke rezimiraju trgovinski i financijski program cijelog svijeta, dakle i Evrope, i to iz Washingtona. Sjedinjene Države zahtijevaju stvaranje izvjesne „trajne evropske organizacije, čiji će zadatak biti nadgledanje izvršenja evropskog programa“. Ta će naredba ugledati svjetlo pod nazivom organizacija za Evropsku Ekonomsku Kooperaciju (OECE), koja će biti anticipacija „naše“ Evrope. I Charles Henri Spaak , prvi predsjednik OECE je samo kancelar, koji primijenjuje ono što Amerikanci naređuju.
Što se tiče „očeva Evrope“, heroja koje danas slavimo glasanjem za Evropu, treba čitati ono što piše Lacroix-Riz, ukoliko ne želimo biti njezini sinovi. Jean Monnet? Bio je proglašen nesposobnim za vojnu službu 1914, a trgovao je alkoholnim pićima u vrijeme prohibicije, osnivač je Bancaamercana u San Francisku, bio je savjetnik Čang-Kaj-Šeka za račun Ameikanaca. Zatim se našao u Londonu 1940 godine te odbio da pristane uz Slobodnu Francusku, kako bi postao, 1943, Roosveltov izaslanik kod generala Girauda...Evo čovjeka idealnog profila za stvaranje slobodne Evrope. U toj porodičnoj igri, hoćete li još jednog „oca“ Evrope? Evo vam Robert Schuman, još jedna današnja ikona. U ljeto 1940 glasao je da se sva vlast dadne Pétainu, a kao nagradu za to, prihvatio je ulazak u njegovu vladu. Nakon rata Schuman je bio stavljen u status pokajanja, što je za katolika vrlo dobra praksa. Poslije, zaboravivši na prošlost, gurat će i navijati za kapitalističku Euro-Ameriku, kršćansku i takvu, koja će se razvijati u natkrivenim gredicama plastenika NATO-a.
Prije /i posloije/ „evropskog“ glasanja od 25 maja, treba pročitati „Aux origines du carcan européen“ /Porijeklo vratnih željeznih veriga Evrope/, jernakon te knjige kralj ostaje gol. Oni koji su, kao i François Hollande, uvjereni da „napustiti Evropu znači napustiti historiju“ moći će se uvjeriti kako predsjednik Francuske govori istinu, jer zaista treba napustiti historiju, koju ispisuju američki bankari.
(prijevod: Jasna Tkalec)
Le débarquement du 6 juin 1944 du mythe d’aujourd’hui à la réalité historique )
Annie Lacroix-Riz * | lafauteadiderot.net
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Giugno 2014
Il trionfo del mito della liberazione americana dell'Europa
Nel giugno 2004, all'epoca del 60° anniversario (e primo decennale celebrato nel XXI secolo) dello sbarco alleato in Normandia, alla domanda "Quale è, secondo voi, la nazione che più ha contribuito alla disfatta della Germania", l'Ifop [Institut français d'opinion publique, agenzia francese di indagini statistiche e di mercato, ndt] diffuse una risposta rigorosamente inversa da quella raccolta nel maggio 1945: cioè rispettivamente 58 e 20% per gli Stati uniti e 20 e 57% per l'Urss [1]. Tra la primavera e l'estate 2004 c'èra stato un martellamento sul fatto che i soldati americani avevano, dal 6 giugno 1944 al 8 maggio 1945, attraversato l'Europa "occidentale" per restituirle l'indipendenza e la libertà rubata dall'occupante tedesco e minacciata dall'avanzata dell'Armata rossa verso ovest. Sul ruolo dell'Urss, vittima di questa "tanto spettacolare [inversione di percentuali] nel tempo" [2], non ci furono domande. Il 2014 (e il 70°) promette anche di peggio nella rispettiva presentazione degli "Alleati" della Seconda guerra mondiale, con sullo sfondo le invettive contro l'annessionismo russo in Ucraina e altrove [3].
La leggenda è cresciuta con l'espansione americana sul continente europeo, pianificata da Washington sin dal 1942 e portata a compimento con l'aiuto del Vaticano, tutore delle zone cattoliche e amministratore, prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, della "sfera di influenza occidentale" [4]. Condotta in compagnia e in concorrenza con la Rft (poi con la Germania riunificata), questa spinta verso est ha preso un ritmo sfrenato dalla caduta del Muro di Berlino (1989): ha polverizzato gli "obiettivi di guerra" che Mosca aveva rivendicato nel luglio 1941 e raggiunto nel 1944 (recupero del territorio al 1939-1940) e nel 1945 (acquisizione di una sfera di influenza che riprendesse il vecchio "cordone sanitario" dell'Europa centrale e orientale, vecchia via germanica di invasione della Russia) [5]. Il progetto americano avanzava così rapidamente che Armand Bérard, diplomatico a Vichy e, dopo la Liberazione, consigliere d'ambasciata a Washington (dicembre 1944) e Bonn (agosto 1949), nel febbraio 1952 predisse che: "i collaboratori del Cancelliere [Adenauer] considerano in generale che il giorno in cui l'America sarà in grado di mettere in fila una forza superiore, l'Urss si presterà ad abbandonare i territori dell'Europa centrale e orientale che attualmente domina" [6]. Le premonizioni, allora sconcertanti, della "Cassandra" Bérard, sono nel maggio-giugno 2014 superate: l'antica Urss, ridotta alla Russia dal 1991, è minacciata alla sua porta ucraina.
L'egemonia ideologica "occidentale" che accompagna questo Drang nach Osten [Spinta verso Est] è stata assecondata dal tempo trascorso dalla Seconda guerra mondiale. Prima della Débâcle, "l'opinione francese" si era fatta "ingannare dalle campagne ideologiche" che avevano trasformato l'Urss in lupo e il Reich in agnello. La grande stampa, proprietà del capitale finanziario, l'aveva persuasa che l'abbandono dell'alleato cecoslovacco avrebbe preservato una pace duratura. "Una tale annessione sarà e può essere solamente il preludio di una guerra che diventerà inevitabile e, terminati gli orrori di questa, la Francia correrà il rischio più grande di conoscere la disfatta, lo smembramento e la vassalizzazione di ciò che rimarrà del territorio nazionale come stato in apparenza indipendente", aveva avvertito, due settimane prima di Monaco, un'altra Cassandra dell'alto Stato maggiore dell'esercito [7]. Ingannata e tradita dalle sue élite, "la Francia conobbe il destino annunciato ma i suoi operai e impiegati, subendo il 50% del taglio dei salari reali e perdendo 10-12 kg di peso tra il 1940 e il 1944, si lasciarono meno "ingannare dalle campagne ideologiche".
Percepirono la realtà militare certo più tardi rispetto "gli ambienti bene informati ", ma, in numero crescente col passare dei mesi, seguirono sugli atlanti o le carte della stampa collaborazionista l'evoluzione del "fronte est". Compresero che l'Urss, che richiedeva invano dal luglio 1941 l'apertura di un secondo fronte ad ovest che alleggerisse il suo martirio, portava da sola il peso della guerra. L'"entusiasmo" che suscitò in loro la notizia dello sbarco anglo-americano in nord Africa (8 novembre 1942), si era "spento" nella primavera successiva: "Oggi tutte le speranze sono rivolte alla Russia, i cui successi riempiono di gioia la popolazione tutta intera […] Ogni propaganda del partito comunista è diventata inutile […] il troppo facile confronto tra l'inspiegabile inattività degli uni e l'eroica azione degli altri preparano giorni difficili a coloro che si inquietano per il pericolo bolscevico", affermava un rapporto dell'aprile 1943 destinato al gaullista Bcra [Bureau Central de Renseignements et d'Action, il servizio informazioni francese, ndt] [8].
Se abbindolare le generazioni che avevano conservato il ricordo del conflitto era una questione complessa, l'esercizio è oggi divenuto agevole. Alla progressiva scomparsa dei suoi testimoni e attori, si è aggiunto il cedimento del movimento operaio radicale. Il Pcf, "partito dei fucilati", ha informato largamente e per molto tempo, ben al di là dei suoi ranghi, sulle realtà di questa guerra. Argomento che tratta meno volentieri in casa propria, sulla sua stampa, essa stessa in via di sparizione, battendo addirittura sulle colpe di un passato "stalinista" contemporaneo alla sua Resistenza. L'ideologia dominante, sbarazzatasi di un serio ostacolo, ha conquistato l'egemonia su questo come sugli altri campi. I circoli accademici non si oppongono più (addirittura associandosi) all'intossicazione scatenata sulla stampa scritta e audiovisiva o al cinema [9]. Pertanto, i preparativi e gli obiettivi del 6 giugno 1944 non sono chiariti dal film "Salvate il soldato Ryan" né dal lungo documentario "Apocalypse".
La Pax Americana vista da Armand Bérard nel luglio 1941
E' ben prima del "tornante" di Stalingrado (gennaio-febbraio 1943) che le élite francesi compresero le conseguenze americane della situazione militare nata dalla "resistenza […] feroce del soldato russo". Lo testimonia il rapporto datato metà luglio 1941 che il generale Paul Doyen, presidente della delegazione francese alla Commissione tedesca di armistizio di Wiesbaden, fece redigere dal suo collaboratore diplomatico Armand Bérard [10]:
1. Il Blitzkrieg era morto. "L'andamento dalle operazioni" contraddiceva le previsioni dei "dirigenti [del] III Reich [che…] non avevano previsto una resistenza tanto feroce del soldato russo, un fanatismo tanto appassionato della popolazione, una guerriglia tanto estenuante nelle retrovie, delle perdite tanto serie, un così tanto spazio davanti all'invasore, delle difficoltà tanto considerevoli di rifornimento e di comunicazioni. Le gigantesche battaglie di carri armati e aerei, la necessità, in assenza di vagoni a scartamento adatto, di assicurare i trasporti lungo strade dissestate per parecchie centinaia di chilometri comportano, per l'esercito tedesco, un consumo di materiale e di benzina che rischiano di diminuire pericolosamente le scorte insostituibili di carburanti e di gomma. Sappiamo che lo Stato maggiore tedesco ha predisposto riserve di benzina per tre mesi. Occorre che una campagna di tre mesi gli permetta di sottomettere il comunismo sovietico, di ristabilire l'ordine in Russia sotto un regime nuovo, di porre sotto sfruttamento tutte le ricchezze naturali del paese, in particolare i giacimenti del Caucaso. Tuttavia, senza preoccuparsi di ciò che mangerà domani, il russo incendia con il lancia-fiamme i suoi raccolti, fa saltare in aria i suoi villaggi, distrugge il suo materiale rotabile, sabota le sue aziende".
2. Il rischio di una disfatta tedesca (lungamente descritto da Bérard), costringeva i padroni della Francia a schierare un altro protettore all'imperialismo "continentale" scelto dopo la "Riconciliazione" degli anni 1920. Una tale svolta si rivelerà impossibile "nei mesi a venire", con il passaggio ineluttabile dall'egemonia tedesca a quella americana. Perché "gli Stati uniti, gia usciti soli vincitori dalla guerra del 1918, otterranno ancor di più dal conflitto attuale. Il loro potere economico, la loro alta civiltà, il numero della loro popolazione, la loro influenza crescente su tutti i continenti, l'indebolimento degli stati europei che potevano rivaleggiare con loro fa sì che, qualunque cosa accada, il mondo dovrà, nei prossimi decenni, sottoporsi alla volontà degli Stati uniti" [11]. Bérard scorgeva dunque fin dal luglio 1941 il futuro vincitore militare sovietico - che il Vaticano identificò chiaramente poco dopo [12] -, comprendeva che andava esaurendosi la guerra di attrito tedesca, del "solo vincitore ", per "potenza economica", che avrebbe praticato, in questa guerra come nella precedente, la "strategia periferica".
"Strategia periferica" e Pax americana contro l'Urss
Gli Stati uniti, non avendo mai subito l'occupazione straniera, né alcuna distruzione dopo la sottomissione del Sud agricolo (schiavistico) al Nord industriale, avevano relegato il loro esercito permanente a missioni tanto spietate quanto agevoli, prima di (ed eventualmente da) l'era imperialistica: liquidazione delle popolazioni indigene, sottomissione dei vicini deboli (il"cortile" latino-americano) e repressione interna. Per l'espansione imperiale, la consegna del cantore dell'imperialismo Alfred Mahan - sviluppare illimitatamente la Marina -, si era arricchita sotto i suoi successori delle stesse prescrizioni per l'aviazione [13]. Ma la modestia delle loro forze armate terrestri ne decretava l'inadeguatezza in un conflitto europeo. Una volta acquisita la vittoria per interposto paese, fornitore della "carne da cannone" (canon fodder), le forze americane si sarebbero dispiegate più tardi, come a partire dalla primavera 1918, sul territorio da controllare: sarebbero dunque partite dalle basi aeronavali straniere, quelle in Africa settentrionale che si aggiungevano dal novembre 1942 a quelle britanniche [14].
La Triplice intesa (Francia, Inghilterra, Russia) nel 1914 aveva condiviso l'impegno militare, spostatosi alla fine, visto il ritiro russo, soprattutto sulla Francia. E questa volta se lo sarebbe assunto l'Urss da sola, questa volta in una guerra americana che, secondo lo studio segreto del dicembre 1942 del Comitato dei capi di Stato maggiore congiunti (Joint Chiefs of Staff, JCS) si dava per regola di "ignorare le considerazioni di sovranità nazionale" dei paesi stranieri. Nel 1942-1943, il JCS: 1) sul conflitto in corso (e il precedente) giunse alla conclusione che la prossima guerra avrebbe avuto come spina dorsale i bombardieri strategici americani e che, semplice "strumento della politica americana, un esercito internazionale" incaricato di compiti subalterni (terrestri) avrebbe "internazionalizzato e legittimato la potenza americana"; e 2) innalzò l'interminabile e universale elenco delle basi nel dopoguerra, colonie degli "alleati" comprese (JCS 570). Niente avrebbe reso possibile il "tollerare delle restrizioni alla nostra capacità di far sostare e operare l'aereo militare nei e sopra certi territori sotto sovranità straniera", sentenziava il generale Henry Arnold, capo di Stato maggiore dell'Aviazione, nel novembre 1943 [15].
La "Guerra fredda" che trasforma l'Urss in "orco sovietico" [16] avrebbe disgiunto le confessioni sulla tattica che subordina l'utilizzo della "carne da cannone" degli alleati (momentanei), dagli obiettivi dei "bombardamenti strategici americani". Nel maggio 1949, firmato il Patto atlantico (4 aprile), Clarence Cannon, presidente della commissione delle Finanze della Camera dei rappresentanti (House Committee on Appropriations), glorificò i molto costosi "bombardieri terrestri pesanti capaci di trasportare la bomba atomica, che in tre settimane avrebbero polverizzato tutti i centri militari sovietici" e si rallegrò del "contributo che possono portare i nostri alleati […] inviando i giovani necessari ad occupare il territorio nemico dopo che l'avremo demoralizzato e annientato con i nostri attacchi aerei. […] Abbiamo seguito un piano simile durante l'ultima guerra" [17].
Gli storici americani Michael Sherry e Martin Sherwin lo hanno mostrato: era l'Urss, strumento militare della vittoria, il bersaglio simultaneo delle future guerre di conquista - e non il Reich, ufficialmente designato come nemico "delle Nazioni unite" [18]. Si comprende il perché leggendo William Appleman Williams, uno dei fondatori della "scuola revisionista" (progressista) americana. La sua tesi sulle "relazioni americano-russe dal 1781 al 1947" (1952) ha dimostrato che l'imperialismo americano non sopportava alcuna limitazione della sua sfera di influenzamondiale, che la "Guerra fredda", nata nel 1917 e non nel 1945-1947, aveva fondamenti non ideologici ma economici, e che la russofobia americana datava dall'epoca imperialista [19]. "L'intesa [russo-americana] vile e informale […] si era infranta sui diritti di passaggio delle ferrovie [russe] della Manciuria meridionale e dell'est cinese tra il 1895 e 1912". I sovietici ebbero in più l'audacia di sfruttare da sé la loro caverna di Ali Baba, sottraendo ai capitali americani il loro immenso territorio (22 milioni di kmq). Ecco ciò che generò "la continuità, da Theodore Roosevelt e John Hay a Franklin Roosevelt passando per Wilson, Hugues e Hoover, della politica americana in Estremo oriente" [20] - ma anche in Africa e in Europa, altri campi privilegiati "di una divisione e ripartizione del mondo" [21] americana rinnovata senza sosta dal 1880-1890.
Washington pretendeva di operare questa "divisione-ripartizione" a suo esclusivo beneficio, ragione fondamentale per la quale Roosevelt mise il veto a ogni discussione in tempo di guerra con Stalin e Churchill sulla ripartizione delle "zone di influenza". La cessazione delle ostilità gli avrebbe assicurato la vittoria militare a costi zero, visto lo stato pietoso del suo grande rivale russo, devastato dall'assalto tedesco [22]. Nel febbraio-marzo 1944, il miliardario Harriman, ambasciatore a Mosca dal 1943, faceva riferimento a due rapporti dei servizi "russi" del Dipartimento di stato ("Alcuni aspetti della politica sovietica attuale " e "La Russia e l'Europa orientale") per ritenere che l'Urss, "impoverita dalla guerra e a caccia della nostra assistenza economica […] una delle nostre principali leve per orientare un'azione politica compatibile ai nostri principi", non avrebbe avuto neanche la forza di sconfinare nell'Europa dell'est, di lì a poco americana. Si sarebbe accontentata per il dopoguerra di una promessa americana di aiuti, cosa che avrebbe permesso "di evitarci la creazione di una sfera di influenza dell'Unione sovietica sull'Europa orientale e i Balcani" [23]. Previsione da cui traspare un ottimismo eccessivo, visto che l'Urss non ha mai rinunciato ad assicurarsene una.
La Pax Americana nella parte francese della zona di influenza
I piani di pace sinarchici
Questa "leva" finanziaria era, tanto all'ovest che ad est, "una delle armi più efficaci a nostra disposizione per influire sugli avvenimenti politici europei nella direzione da noi desiderata" [24].
In vista di questa Pax americana, l'alta finanza sinarchica, cuore dell'imperialismo francese particolarmente rappresentato oltremare - Lemaigre-Dubreuil, capo degli olii Lesieur (e di società petrolifere), il presidente della banca di Indocina Paul Baudouin, ultimo ministro degli Affari esteri di Reynaud e primo di Pétain, ecc. -, negoziò, più attivamente dal secondo semestre 1941, col finanziere Robert Murphy, delegato speciale di Roosevelt in nord Africa. Futuro primo consigliere del governatore militare della zona di occupazione americana in Germania e uno dei capi dei servizi informazione, dall'Office of Strategic Services (OSS) di guerra alla Central Intelligence Agency del 1947, Murphy si era installato ad Algeri nel dicembre 1940. Questo cattolico integralista preparava lo sbarco degli Stati uniti in Africa settentrionale, trampolino verso l'occupazione dell'Europa, che sarebbe cominciata dal territorio francese quando l'Urss si apprestava a superare le sue frontiere del 1940-1941 per liberare i paesi occupati [25]. Queste trattative segrete furono tenute in zona non occupata, nell'"impero", tramite i "neutrali" filo-hitleriani Salazar e Franco, sensibili alle sirene americane, agli svizzeri e agli svedesi, e tramite il Vaticano, tanto preoccupato del 1917-1918 da assicurare una pace dolce al Reich vinto. Prolungati fino alla fine della guerra, inclusero sin dal 1942 dei piani di "ribaltamento dei fronti ", contro l'Urss, che trapelarono prima della capitolazione tedesca [26] ma non ebbero pieno effetto che dopo l'8-9 maggio 1945.
Trattando di affari economici immediati (in Africa settentrionale) e futuri (metropolitani e coloniali per il dopo-Liberazione), coi grandi sinarchici, Washington contava anche su di questi per escludere De Gaulle, ugualmente odiato delle due parti. In nessun caso perché fosse una sorta di dittatore militare insopportabile, conformemente a una duratura leggenda, al grande democratico Roosevelt. De Gaulle era sgradito solamente perché, per reazionario che fosse o fu, traeva la sua popolarità e la sua forza dalla Resistenza interna (soprattutto comunista): è a questo titolo che avrebbe intralciato il dominio totale degli Stati uniti, mentre una "Vichy senza Vichy" avrebbe offerto dei partner vilipesi dal popolo, dunque docili "perinde ac cadaver"[come cadaveri] alle disposizioni americane. Questa formula americana, alla fine destinata all'insuccesso visto il rapporto di forze generali e francesi, ebbe dunque per eroi successivi, dal 1941 al 1943, i cagoulards [terroristi di fede fascista, ndt] vichysti Weygand, Darlan poi Giraud, campioni riconosciuti della dittatura militare [27], così rappresentativi dei gusti di Washington per gli stranieri conquistati alla libertà dei suoi capitali e all'installazione delle sue basi aeronavali [28].
Spaventati dall'esito della battaglia di Stalingrado, gli stessi finanzieri francesi inviarono subito a Roma il loro devoto Emmanuel Suhard, strumento dal 1926 dei loro piani di liquidazione della Repubblica. Il cardinale-arcivescovo (di Reims) fu il Cagoule che nell'aprile 1940 aveva opportunamente liquidato il suo predecessore Verdier, chiamato a Parigi in maggio appena dopo l'invasione tedesca (del 10 maggio): i suoi mandanti e Paul Reynaud, complice dell' imminente putsch Pétain-Laval, lo spedirono a Madrid il 15 maggio, via Franco, a imbastire le trattative di "Pace" (capitolazione) col Reich [29]. Suhard fu dunque di nuovo incaricato di preparare, in vista della Pax americana, le trattative col nuovo tutore: doveva chiedere a Pio XII di porre "a Washington", via Myron Taylor, ex presidente dell'US Steel e dall'estate 1939 rappresentante personale di Roosevelt "vicino al papa", la seguente domanda: "Se le truppe americane saranno costrette a penetrare in Francia, il governo di Washington si impegna a che l'occupazione americana sia totale quanto l'occupazione tedesca?", all'esclusione di ogni altra "occupazione straniera (sovietica). Washington rispose che gli Stati uniti si sarebbero disinteressati della futura forma del governo della Francia e che si impegnavano a non lasciare che il comunismo si insediasse nel paese" [30]. La borghesia, notava un informatore del Bcra a fine luglio 1943, "non credendo più alla vittoria tedesca, conta […] sull'America per evitare il bolscevismo. Aspetta lo sbarco anglo-americano con impazienza, ogni ritardo gli appare come una sorta di tradimento". Questo ritornello fu cantato fino alla messa in opera dell'operazione "Overlord" [31].
… contro le speranze popolari
Al "borghese francese [che aveva] sempre considerato il soldato americano o britannico come naturalmente al suo servizio nel caso di una vittoria bolscevica", le RG [Renseignements généraux, servizio informazioni della Polizia nazionale, ndt] opponevano dal febbraio 1943 "il proletariato", che esultava: "i timori di vedere la sua vittoria sottratta dall'alta finanza internazionale si smorzano con la caduta di Stalingrado e l'avanzata generale dei sovietici" [32]. Da questo lato, al rancore contro l'inoperosità militare degli anglosassoni contro l'Asse si aggiunse la collera provocata dalla loro guerra aerea contro i civili, quelli delle "Nazioni unite" compresi. I "bombardamenti strategici americani", ininterrotti dal 1942, colpivano le popolazioni ma risparmiavano i Konzerne [complessi industriali] partner, IG Farben in testa come riportava a novembre "un industriale svedese molto importante e in strette relazioni con [il gigante chimico], di ritorno da un viaggio d'affari in Germania": a Francoforte, "le fabbriche non hanno sofferto", a Ludwigshafen "i danni sono insignificanti ", a Leverkusen "le fabbriche dell'IG Farben […] non sono state bombardate" [33].
Niente cambiò fino al 1944, quando un lungo rapporto di marzo sui "bombardamenti dell'aviazione anglo-americana e le reazioni della popolazione francese" denunciò gli effetti di questi "raid omicidi ed inefficaci": dal 1943 l'indignazione gonfiava tanto che scuoteva la base del controllo americano imminente del territorio. Dal settembre 1943 si erano intensificati gli attacchi contro la periferia di Parigi, dove le bombe erano "gettate a caso, senza scopo preciso e senza la minima preoccupazione di risparmiare delle vite umane". Quindi era toccato a Nantes, Strasburgo, La Bocca, Annecy, poi Tolone, che aveva "portato al colmo la collera degli operai contro gli anglosassoni": sempre le stesse morti operaie e poco o niente gli obiettivi industriali colpiti. Le operazioni preservavano sempre l'economia di guerra tedesca, come se gli anglosassoni "temessero di vedere finire troppo rapidamente la guerra". Così troneggiavano intatti gli altiforni la cui distruzione avrebbe paralizzato immediatamente le industrie della trasformazione, smettendo di funzionare per mancanza di materie prime". Si diffondeva "un'opinione molto pericolosa […] in certe parti della popolazione operaia che è stata colpita duramente dai raid. Ed è che i capitalisti anglosassoni non sono dispiaciuti di eliminare dei concorrenti commerciali e, allo stesso tempo, di decimare la classe operaia, di sprofondarla in uno stato di sconforto e di miseria che dopo la guerra gli renderà più difficile portare le sue rivendicazioni sociali. Sarebbe vano nascondere che l'opinione francese si è, da qualche tempo, raffreddata considerevolmente al riguardo degli anglo-americani" che indietreggiano sempre davanti "allo sbarco promesso […]. La Francia soffre indicibilmente […] Le forze vive del paese si esauriscono a una cadenza che si accelera di giorno in giorno, e la fiducia negli alleati prende una curva discendente. […] Istruiti dalla crudele realtà dei fatti, la maggior parte degli operai ripone oramai tutte le sue speranze nella Russia, il cui esercito è, a loro avviso, l'unico che possa superare in un futuro prossimo la resistenza dei tedeschi" [34].
È dunque in un'atmosfera di rancore contro questi "alleati" tanto benevoli con il Reich, prima e dopo il 1918, che ebbe luogo il loro sbarco del 6 giugno 1944. Collera e sovietofilia popolari si mantennero, dando al PCF un'eco che inquietava l'incombente stato gollista: "lo sbarco ha tolto alla sua propaganda una parte della forza di penetrazione", ma "il tempo abbastanza lungo impiegato dagli eserciti anglo-americani a sbarcare sul suolo francese è stato sfruttato per dimostrare che solo l'esercito russo era in grado di lottare efficacemente contro i nazisti. Le morti provocate dai bombardamenti e i dolori che suscitano servono anche da elementi favorevoli a una propaganda che pretende che i russi si battano secondo i metodi tradizionali e non se la prendano con la popolazione civile" [35].
Il deficit di simpatia registrata nella parte iniziale della sfera di influenza americana si mantenne tra la Liberazione di Parigi e la fine della guerra in Europa, come attestano i sondaggi dell'Ifop del dopo-Liberazione parigina ("dal 28 agosto al 2 settembre 1944") e dal maggio 1945 nazionale [36]. Fu un dopoguerra, lo si è detto, all'inizio progressivamente, poi brutalmente oppressivo. E' quindi di grande significato ricordare:
che dopo la battaglia delle Ardenne (dicembre 1944-gennaio 1945), la sola importante lanciata dagli anglosassoni contro le truppe tedesche (9.000 morti americani) [37], l'alto-comando della Wehrmacht trattò febbrilmente la resa "agli eserciti anglo-americani e il trasporto delle forze ad est";
che, a fine marzo 1945, "26 divisioni tedesche rimanevano sul fronte occidentale", al solo scopo di evacuare "verso ovest" dai porti del nord, "contro 170 divisioni sul fronte est" che combatterono accanitamente fino al 9 maggio (data della liberazione di Praga) [38];
che il liberatore americano che grazie alla guerra aveva raddoppiato il suo reddito nazionale, aveva perso sui fronti del Pacifico e dell'Europa 290.000 soldati dal dicembre 1941 all'agosto 1945 [39]: cioè gli effettivi sovietici morti nelle ultime settimane della caduta di Berlino, e 1% del totale delle morti sovietiche della "Grande guerra patriottica", intorno a 30 milioni su 50.
Dal 6 giugno 1944 al 9 maggio 1945, Washington finì di mettere a posto tutto o quasi per ristabilire il cordone sanitario che i rivali imperialisti inglesi e francesi avevano costruito nel 1919 e per trasformare in bestia nera il paese più caro ai popoli d'Europa (quello francese incluso). La leggenda della "Guerra fredda" meriterebbe le stesse correzioni di quella dell'esclusiva liberazione americana dell'Europa [40].
Note
[1] Frédéric Dabi, «1938-1944 : Des accords de Munich à la libération de Paris ou l'aube des sondages d'opinion en France», février 2012, http://www.revuepolitique.fr/1938-1944-laube-des-sondages-dopinion-en-france/, chiffres extraits du tableau, p. 5. Total inférieur à 100 : 3 autres données : Angleterre; 3 pays; sans avis.
[2] Ibid., p. 4.
[3] Campagne si délirante qu'un journal électronique lié aux États-Unis a le 2 mai 2014 a prôné quelque pudeur sur l'équation CIA-démocratie http://www.huffingtonpost.fr/charles-grandjean/liberte-democratie-armes-desinformation-massive-ukraine_b_5252155.html
[4] Annie Lacroix-Riz, Le Vatican, l'Europe et le Reich 1914-1944, Paris, Armand Colin, 2010 (2e édition), passim.
[5] Lynn E. Davis, The Cold War begins […] 1941-1945, Princeton, Princeton UP, 1974; Lloyd Gardner, Spheres of influence […], 1938-1945, Chicago, Ivan R. Dee, 1993; Geoffrey Roberts, Stalin's Wars: From World War to Cold War, 1939-1953. New Haven & London: Yale University Press, 2006, traduction chez Delga, septembre 2014.
[6] Tél. 1450-1467 de Bérard, Bonn, 18 février 1952, Europe généralités 1949-1955, 22, CED, archives du ministère des Affaires étrangères (MAE).
[7] Note État-major, anonyme, 15 septembre 1938 (modèle et papier des notes Gamelin), N 579, Service historique de l'armée de terre (SHAT).
[8] Moral de la région parisienne, note reçue le 22 avril 1943, F1a, 3743, Archives nationales (AN).
[9] Lacroix-Riz, L'histoire contemporaine toujours sous influence, Paris, Delga-Le temps des cerises, 2012.
[10] Revendication de paternité, t. 1 de ses mémoires, Un ambassadeur se souvient. Au temps du danger allemand, Paris, Plon, 1976, p. 458, vraisemblable, vu sa correspondance du MAE.
[11] Rapport 556/EM/S au général Koeltz, Wiesbaden, 16 juillet 1941, W3, 210 (Laval), AN.
[12] Les difficultés «des Allemands» nous menacent, se lamenta fin août Tardini, troisième personnage de la secrétairerie d'État du Vatican, d'une issue «telle que Staline serait appelé à organiser la paix de concert avec Churchill et Roosevelt», entretien avec Léon Bérard, lettre Bérard, Rome-Saint-Siège, 4 septembre 1941, Vichy-Europe, 551, archives du ministère des Affaires étrangères (MAE).
[13] Michael Sherry, Preparation for the next war, American Plans for postwar defense, 1941-1945, New Haven, Yale University Press, 1977, chap. 1, dont p. 39.
[14] Exemples français et scandinave (naguère fief britannique), Lacroix-Riz, «Le Maghreb: allusions et silences de la chronologie Chauvel», La Revue d'Histoire Maghrébine, Tunis, février 2007, p. 39-48; Les Protectorats d'Afrique du Nord entre la France et Washington du débarquement à l'indépendance 1942-1956, Paris, L'Harmattan, 1988, chap. 1; «L'entrée de la Scandinavie dans le Pacte atlantique (1943-1949): une indispensable "révision déchirante"», guerres mondiales et conflits contemporains (gmcc), 5 articles, 1988-1994, liste, http://www.historiographie.info/cv.html.
[15] Sherry, Preparation, p. 39-47 (citations éparses).
[16] Sarcasme de l'ambassadeur américain H. Freeman Matthews, ancien directeur du bureau des Affaires européennes, dépêche de Dampierre n° 1068, Stockholm, 23 novembre 1948, Europe Généralités 1944-1949, 43, MAE.
[17] Tél. Bonnet n° 944-1947, Washington, 10 mai 1949, Europe généralités 1944-1949, 27, MAE, voir Lacroix-Riz, «L'entrée de la Scandinavie», gmcc, n° 173, 1994, p. 150-151 (150-168).
[18] Martin Sherwin, A world destroyed. The atomic bomb and the Grand Alliance, Alfred a Knopf, New York, 1975; Sherry Michael, Preparation; The rise of American Air Power: the creation of Armageddon, New Haven, Yale University Press, 1987; In the shadow of war : the US since the 1930's, New Haven, Yale University Press, 1995.
[19] Williams, Ph.D., American Russian Relations, 1781-1947, New York, Rinehart & Co., 1952, et The Tragedy of American Diplomacy, Dell Publishing C°, New York, 1972 (2e éd).
[20] Richard W. Van Alstyne, recension d'American Russian Relations, The Journal of Asian Studies, vol. 12, n° 3, 1953, p. 311.
[21] Lénine, L'impérialisme, stade suprême du capitalisme, Essai de vulgarisation, Paris, Le Temps des cerises, 2001 (1e édition, 1917), p. 172. Souligné dans le texte.
[22] Élément clé de l'analyse révisionniste, dont Gardner, Spheres of influence, essentiel.
[23] Tél. 861.01/2320 de Harriman, Moscou, 13 mars 1944, Foreign Relations of the United States 1944, IV, Europe, p 951 (en ligne).
[24] Ibid.
[25] Lacroix-Riz, «Politique et intérêts ultra-marins de la synarchie entre Blitzkrieg et Pax Americana, 1939-1944», in Hubert Bonin et al., Les entreprises et l'outre-mer français pendant la Seconde Guerre mondiale, Pessac, MSHA, 2010, p. 59-77; «Le Maghreb: allusions et silences de la chronologie Chauvel», La Revue d'Histoire Maghrébine, Tunis, février 2007, p. 39-48.
[26] Dont la capitulation de l'armée Kesselring d'Italie, opération Sunrise négociée en mars-avril 1945 par Allen Dulles, chef de l'OSS-Europe en poste à Berne, avec Karl Wolff, «chef de l'état-major personnel de Himmler» responsable de «l'assassinat de 300 000 juifs», qui ulcéra Moscou. Lacroix-Riz, Le Vatican, chap. 10, dont p. 562-563, et Industriels et banquiers français sous l'Occupation, Paris, Armand Colin, 2013, chap. 9.
[27] Jean-Baptiste Duroselle, L'Abîme 1939-1945, Paris, Imprimerie nationale, 1982, passim; Lacroix-Riz, «Quand les Américains voulaient gouverner la France», Le Monde diplomatique, mai 2003, p. 19; Industriels, chap. 9.
[28] David F Schmitz, Thank God, they're on our side. The US and right wing dictatorships, 1921-1965, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1999.
[29] Index Suhard Lacroix-Riz, Le choix de la défaite : les élites françaises dans les années 1930, et De Munich à Vichy, l'assassinat de la 3e République, 1938-1940, Paris, Armand Colin, 2010 (2e édition) et 2008.
[30] LIBE/9/14, 5 février 1943 (visite récente), F1a, 3784, AN. Taylor, Vatican, chap. 9-11 et index.
[31] Information d'octobre, reçue le 26 décembre 1943, F1a, 3958, AN, et Industriels, chap. 9.
[32] Lettre n° 740 du commissaire des RG au préfet de Melun, 13 février 1943, F7, 14904, AN.
[33] Renseignement 3271, arrivé le 17 février 1943, Alger-Londres, 278, MAE.
[34] Informations du 15 mai, diffusées les 5 et 9 juin 1944, F1a, 3864 et 3846, AN.
[35] Information du 13 juin, diffusée le 20 juillet 1944, «le PC à Grenoble», F1a, 3889, AN.
[36] M. Dabi, directeur du département Opinion de l'Ifop, phare de l'ignorance régnant en 2012 sur l'histoire de la Deuxième Guerre mondiale, déplore le résultat de 1944 : «une très nette majorité (61%) considèrent que l'URSS est la nation qui a le plus contribué à la défaite allemande alors que les États-Unis et l'Angleterre, pourtant libérateurs du territoire national [fin août 1944??], ne recueillent respectivement que 29,3% et 11,5%», «1938-1944», p. 4, souligné par moi.
[37] Jacques Mordal, Dictionnaire de la Seconde Guerre mondiale, Paris, Larousse, 1979, t. 1, p. 109-114.
[38] Gabriel Kolko, The Politics of War. The World and the United States Foreign Policy, 1943-1945, New York, Random House, 1969, chap. 13-14.
[39] Pertes «militaires uniquement», Pieter Lagrou, «Les guerres, la mort et le deuil : bilan chiffré de la Seconde Guerre mondiale», in Stéphane Audoin-Rouzeau et al., dir., La violence de guerre 1914-1945, Bruxelles, Complexe, 2002, p. 322 (313-327).
[40] Bibliographie, Jacques Pauwels, Le Mythe de la bonne guerre : les USA et la Seconde Guerre mondiale, Bruxelles, Éditions Aden, 2012, 2e édition; Lacroix-Riz, Aux origines du carcan européen, 1900-1960. La France sous influence allemande et américaine, Paris, Delga-Le temps des cerises, 2014.
* Professore emerito di storia contemporanea, università Paris VII-Denis Diderot
http://donneinrosso.wordpress.com/2014/05/18/femen-un-travestimento-firmato-imperialismo/
Femen: un travestimento firmato imperialismo
di Milena Fiore
Nei mesi scorsi il gruppo Femen, accreditato in Occidente come gruppo femminista all’avanguardia della lotta contro il patriarcato e il fascismo (sono servite a legittimarle alcune azioni dimostrative contro il Fronte nazionale in Francia), è stato parte attiva del movimento contro il governo ucraino, sfociato nel colpo di Stato fascistoide di piazza Majdan. Altrettanto mediatiche sono state le loro performance contro l’immagine del presidente Jankovic: performance caratterizzate non solo da una volgarità estrema ma da un vero e proprio imbarbarimento della lotta politica, segnate da quella umiliazione del nemico che abbiamo già visto nelle foto – certo più drammatiche – di Guantanamo e Abu Ghraib (per vedere le immagini clicca qui…). Si tratta di metodi e forme di lotta che sono lontani anni luce dalle pratiche del movimento delle donne e che condanniamo sia come femministe che come antifasciste.
A questo proposito. particolare ribrezzo suscita la foto di una componente del gruppo in posa a Odessa, davanti alla sede del sindacato in fiamme, mentre decine di antifascisti venivano arsi vivi e massacrati.
Pensiamo che davanti a queste finte realtà “radical”, che servono ad accreditare a sinistra gruppi apertamente al servizio dell’imperialismo, occorra tenere sveglio il senso critico e denunciare appropriazioni indebite del patrimonio del femminismo e dell’antifascismo da parte di chi ne fa un uso solo strumentale finalizzato a ben altri scopi.
Dalla pagina facebook Premio Goebbels per la disinformazione (https://www.facebook.com/premiogoebbels):
“Le #Femen vengono dipinte in occidente come un gruppo di femministe coraggiose che sfoggiano le loro forme per combattere il maschilismo e l’oppressione patriarcale. In Francia e in altri paesi UE si sono spacciate anche per “antifasciste”, dopo aver protestato contro alcuni raduni del Fronte Nazionale e di altri gruppi di estrema destra. In realtà, in Ucraina, il loro paese d’origine, sono forti e provati i contatti che legano il gruppo fondatore delle Femen ai gruppi neonazisti Svoboda e Right Sector. La foto in alto è stata scattata ad Odessa, durante il rogo nazista contro la Casa dei Sindacati, in cui hanno perso la vita decine, forse centinaia, di persone. Quelle in basso, invece, ritraggono le Femen accanto ad esponenti di Svoboda.”
sabato 7 giugno 2014
Il Pdci sul documentario sulle Femen presentato al Biografilm Festival
Il curriculum delle Femen mostra ormai anche ai più disinformati di quali sostegni internazionali disponga questo gruppo. Solo un silenzio colpevole dei grandi media impedisce che queste informazioni siano rese disponibili al grande pubblico.
di Luigi De Biase | da il Foglio del 15 marzo 2013
In Ucraina, il paese in cui le Femen sono nate, hanno un’opinione diversa. Lo scorso autunno una reporter del canale tv 1+1 s’è arruolata nel gruppetto per un mese e ha trovato notizie interessanti (per farlo s’è dovuta immedesimare, ha anche partecipato a qualche azione senza reggiseno, come ha poi raccontato alle telecamere). Una riguarda gli interessi del gruppo: a quanto sembra l’attività delle Femen è ben retribuita, ogni dimostrante ha uno stipendio di mille euro al mese e chi lavora nella sede di Kiev arriva a 2.500 (il salario medio in Ucraina non supera i 500 euro). Le spese a Parigi sarebbero più alte, si parla di mille euro al giorno per ogni ragazza, e la reporter di 1+1 dice di avere le idee chiare anche sull’origine di quella fortuna: Femen avrebbe rapporti solidi con un uomo d’affari americano con molti interessi a Kiev, un certo Jed Sunden, e con due ricconi tedeschi.
In effetti il gruppo è ben organizzato, ha punti d’appoggio in tutta Europa e si pensa che presto ne avrà anche in Canada, negli Stati Uniti, in Brasile e in Israele. La prima protesta è stata nel 2008 ed era contro la prostituzione giovanile, ma in poco tempo le Femen hanno cominciato a occuparsi di politica, di fede e persino di economia, prima in Ucraina e poi all’estero. Il problema è che nessuno ha mai capito bene quale sia il punto delle loro azioni (una volta hanno rincorso il patriarca russo sulla pista dell’aeroporto di Kiev). A volte i loro annunci somigliano un po’ ai messaggi dei ribelli ceceni: cinque anni fa c’erano soltanto tre studentesse ucraine, Anna, Oksana e Inna, nel giro di due anni le attiviste sono diventate 320, “venti in topless e trecento completamente vestite”, come diceva una nota del gruppo, ma lo scorso autunno le tre ambasciatrici hanno annunciato di avere un esercito con oltre cento militanti pronte a togliersi i vestiti da Londra a Roma in nome della libertà. E’ così che Femen è diventato il club femminista più influente d’Europa, almeno sul piano dell’immagine. La loro società ha una pagina Facebook con migliaia di contatti, un account su Twitter, un sito internet in tre lingue diverse: lì si trovano filmati, interviste, magliette (25 euro), colori per il corpo (un kit 70 euro), felpe, tazze e cappelli (dai 20 ai 60 euro). Il 7 marzo, alla vigilia della giornata delle donne, un libro con la storia di Femen è arrivato sugli scaffali delle librerie francesi e ci sono state feste e brindisi al teatro di Goutte d’Or. Naturalmente esistono anche i problemi, gli arresti, le denunce e le minacce, soprattutto per le proteste in Ucraina, in Russia e in Bielorussia. Ma quando le cose si mettono male, c’è sempre qualcuno pronto a chiamarle “dissidenti”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
Le triomphe du mythe de la libération américaine de l’Europe
En juin 2004, lors du 60e anniversaire (et premier décennal célébré au XXIe siècle) du « débarquement allié » en Normandie, à la question« Quelle est, selon vous, la nation qui a le plus contribué à la défaite de l’Allemagne » l’Ifop afficha une réponse strictement inverse de celle collectée en mai 1945 : soit respectivement pour les États-Unis, 58 et 20%, et pour l’URSS, 20 et 57% [1]. Du printemps à l’été 2004 avait été martelé que les soldats américains avaient, du 6 juin 1944 au 8 mai 1945, sillonné l’Europe « occidentale » pour lui rendre l’indépendance et la liberté que lui avait ravies l’occupant allemand et que menaçait l’avancée de l’armée rouge vers l’Ouest. Du rôle de l’URSS, victime de cette « très spectaculaire [inversion des pourcentages] avec le temps » [2], il ne fut pas question. Le (70e) cru 2014 promet pire sur la présentation respective des « Alliés » de Deuxième Guerre mondiale, sur fond d’invectives contre l’annexionnisme russe en Ukraine et ailleurs [3].
La légende a progressé avec l’expansion américaine sur le continent européen planifiée à Washington depuis 1942 et mise en œuvre avec l’aide du Vatican, tuteur des zones catholiques et administrateur, avant, pendant et après la Deuxième Guerre mondiale de la « sphère d’influence “occidentale” » [4]. Conduite en compagnie de et en concurrence avec la RFA (puis l’Allemagne réunifiée), cette poussée vers l’Est a pris un rythme effréné depuis la « chute du Mur de Berlin » (1989) : elle a pulvérisé les « buts de guerre » que Moscou avait revendiqués en juillet 1941 et atteints en 1944 (récupération du territoire de 1939-1940) et 1945 (acquisition d’une sphère d’influence recouvrant l’ancien « cordon sanitaire » d’Europe centrale et orientale, vieille voie germanique d’invasion de la Russie) [5]. Le projet américain avançait si vite qu’Armand Bérard, diplomate en poste à Vichy et, après la Libération, conseiller d’ambassade à Washington (décembre 1944) puis à Bonn (août 1949), prédit en février 1952 : « les collaborateurs du Chancelier [Adenauer] considèrent en général que le jour où l’Amérique sera en mesure de mettre en ligne une force supérieure, l’URSS se prêtera à un règlement dans lequel elle abandonnera les territoires d’Europe Centrale et Orientale qu’elle domine actuellement. » [6] Les prémonitions, alors effarantes, de Bérard-Cassandre, sont en mai-juin 2014 dépassées : l’ancienne URSS, réduite à la Russie depuis 1991, est menacée à sa porte ukrainienne.
L’hégémonie idéologique « occidentale » accompagnant ce Drang nach Osten a été secondée par le temps écoulé depuis la Deuxième Guerre mondiale. Avant la Débâcle, « l’opinion française » s’était fait « dindonn[er] par les campagnes “idéologiques” » transformant l’URSS en loup et le Reich en agneau. La grande presse, propriété du capital financier, l’avait persuadée que l’abandon de l’alliée tchécoslovaque lui vaudrait préservation durable de la paix. « Une telle annexion sera et ne peut être qu’une préface à une guerre qui deviendra inévitable, et au bout des horreurs de laquelle la France courra le plus grand risque de connaître la défaite, le démembrement et la vassalisation de ce qui subsistera du territoire national comme État en apparence indépendant », avait averti, deux semaines avant Munich, une autre Cassandre du haut État-major de l’armée [7]. Trompée et trahie par ses élites, « la France » connut le destin prévu mais ses ouvriers et employés, subissant 50% de baisse des salaires réels et perdant 10-12 kg entre 1940 et 1944, se laissèrent moins« dindonn[er] par les campagnes “idéologiques” ».
Ils perçurent certes les réalités militaires plus tard que « les milieux bien informés », mais, en nombre croissant au fil des mois, ils suivirent sur les atlas ou les cartes de la presse collaborationniste l’évolution du « front de l’Est ». Ils comprirent que l’URSS, qui réclamait en vain depuis juillet 1941 l’ouverture, à l’Ouest, d’un « second front » allégeant son martyre, portait seule le poids de la guerre. L’« enthousiasme » que suscita en eux la nouvelle du débarquement anglo-américain en Afrique du Nord (8 novembre 1942) était « éteint » au printemps suivant : « Aujourd’hui tous les espoirs sont tournés vers la Russie dont les succès remplissent de joie la population tout entière […] Toute propagande du parti communiste est devenue inutile […] la comparaison trop facile entre l’inaction inexplicable des uns et l’héroïque activité des autres prépare des jours pénibles à ceux qui s’inquiètent du péril bolchevique », trancha un rapport d’avril 1943 destiné au BCRA gaulliste [8].
Si duper les générations qui avaient conservé le souvenir du conflit était délicat, l’exercice est aujourd’hui devenu aisé. À la disparition progressive de ses témoins et acteurs s’est ajouté l’effondrement du mouvement ouvrier radical. Le PCF, « parti des fusillés », a longtemps informé largement, bien au-delà de ses rangs, sur les réalités de cette guerre. Ce qui en demeure en traite moins volontiers dans sa presse, elle-même en voie de disparition, voire bat sa coulpe sur le passé « stalinien » contemporain de sa Résistance. L’idéologie dominante, débarrassée d’un sérieux obstacle, a conquis l’hégémonie sur ce terrain comme sur les autres. La sphère académique n’oppose plus rien (voire s’associe) à l’intoxication déchaînée dans la presse écrite et audiovisuelle ou le cinéma [9]. Or, les préparatifs et objectifs du 6 juin 1944 ne sont éclairés ni par le film Il faut sauver le soldat Ryan ni par le long documentaire Apocalypse.
La Pax Americana vue par Armand Bérard en juillet 1941
C’est bien avant le « tournant » de Stalingrad (janvier-février 1943) que les élites françaises saisirent les conséquences américaines de la situation militaire née de la « résistance […] farouche du soldat russe ». En témoigne le rapport daté de la mi-juillet 1941 que le général Paul Doyen, président de la délégation française à la Commission allemande d’armistice de Wiesbaden, fit rédiger par son collaborateur diplomatique Armand Bérard [10] :
1° Le Blitzkrieg était mort. « Le tour pris par les opérations » contredisait le pronostic des « dirigeants [du] IIIème Reich [qui…] n’avaient pas prévu une résistance aussi farouche du soldat russe, un fanatisme aussi passionné de la population, une guérilla aussi épuisante sur les arrières, des pertes aussi sérieuses, un vide aussi complet devant l’envahisseur, des difficultés aussi considérables de ravitaillement et de communications.
Les batailles gigantesques de tanks et d’avions, la nécessité, en l’absence de wagons à écartement convenable, d’assurer par des routes défoncées des transports de plusieurs centaines de kilomètres entraînent, pour l’Armée allemande, une usure de matériel et une dépense d’essence qui risquent de diminuer dangereusement ses stocks irremplaçables de carburants et de caoutchouc. Nous savons que l’État-Major allemand a constitué trois mois de réserves d’essence. II faut qu’une campagne de trois mois lui permette de réduire à merci le communisme soviétique, de rétablir l’ordre en Russie sous un régime nouveau, de remettre en exploitation toutes les richesses naturelles du pays et en particulier les gisements, du Caucase. Cependant, sans souci de sa nourriture de demain, le Russe incendie au lance-flamme ses récoltes, fait sauter ses villages, détruit son matériel roulant, sabote ses exploitations ».
2° Le risque d’une défaite allemande (longuement détaillé par Bérard) contraignait les maîtres de la France à rallier un autre protecteur que l’impérialisme « continental » choisi depuis la « Réconciliation » des années 1920. Un tel tournant s’avérant impossible « dans les mois à venir », on passerait avec doigté de l’hégémonie allemande à l’américaine, inéluctable. Car « déjà les États-Unis sont sortis seuls vainqueurs de la guerre de 1918 : ils en sortiront plus encore du conflit actuel. Leur puissance économique, leur haute civilisation, le chiffre de leur population, leur influence croissante sur tous les continents, l’affaiblissement des États européens qui pouvaient rivaliser avec eux font que, quoi qu’il arrive, le monde devra, dans les prochaines décades, se soumettre à la volonté des États-Unis. » [11] Bérard distinguait donc dès juillet 1941 le futur vainqueur militaire soviétique – que le Vatican identifia clairement peu après [12] ‑, que la guerre d’attrition allemande épuiserait, du « seul vainqueur », par « puissance économique », qui pratiquerait dans cette guerre comme dans la précédente la « stratégie périphérique ».
« Stratégie périphérique » et Pax Americana contre l’URSS
Les États-Unis, n’ayant jamais souffert d’occupation étrangère ni d’aucune destruction depuis la soumission du Sud agricole (esclavagiste) au Nord industriel, avaient cantonné leur armée permanente à des missions aussi impitoyables qu’aisées, avant (et éventuellement depuis) l’ère impérialiste : liquidation des populations indigènes, soumission de voisins faibles (« l’arrière-cour » latino-américaine) et répression intérieure. Pour l’expansion impériale, la consigne du chantre de l’impérialisme Alfred Mahan ‑ développer indéfiniment la Marine ‑, s’était enrichie sous ses successeurs des mêmes prescriptions concernant l’aviation [13]. Mais la modestie de leurs forces armées terrestresdictait leur incapacité dans un conflit européen. Victoire une fois acquise par pays interposé, fournisseur de la « chair à canon » (« canon fodder »), des forces américaines tardivement déployées investiraient, comme à partir du printemps 1918, le territoire à contrôler : désormais, ce serait à partir de bases aéronavales étrangères, celles d’Afrique du Nord s’ajoutant depuis novembre 1942 aux britanniques [14].
L’Entente tripartite (France, Angleterre, Russie) s’était en 1914 partagé le rôle militaire, finalement dévolu, vu le retrait russe, à la France surtout. C’est l’URSS seule qui l’assumerait cette fois dans une guerre américaine qui, selon l’étude secrète de décembre 1942 du Comité des chefs d’États-majors interarmées (Joint Chiefs of Staff, JCS), se fixait pour norme d’« ignorer les considérations de souveraineté nationale » des pays étrangers. En 1942-1943, le JCS 1° tira du conflit en cours (et du précédent) la conclusion que la prochaine guerre aurait « pour épine dorsale les bombardiers stratégiques américains » et que, simple « instrument de la politique américaine, une armée internationale » chargée des tâches subalternes (terrestres) « internationaliserait et légitimerait la puissance américaine » ; et 2° dressa l’interminable liste des bases d’après-guerre sillonnant l’univers, colonies des « alliés » comprises (JCS 570) : rien ne pourrait nous conduire à « tolérer des restrictions à notre capacité à faire stationner et opérer l’avion militaire dans et au-dessus de certains territoires sous souveraineté étrangère », trancha le général Henry Arnold, chef d’état-major de l’Air, en novembre 1943 [15].
La « Guerre froide » transformant l’URSS en « ogre soviétique » [16] débriderait les aveux sur la tactique subordonnant l’usage de la « chair à canon » des alliés (momentanés) aux objectifs des « bombardements stratégiques américains ». En mai 1949, Pacte atlantique signé (le 4 avril), Clarence Cannon, président de la commission des Finances de la Chambre des Représentants (House Committee on Appropriations) glorifia les fort coûteux « bombardiers terrestres de grand raid capables de transporter la bombe atomique qui “en trois semaines auraient pulvérisé tous les centres militaires soviétiques” » et se félicita de la « contribution » qu’apporteraient nos « alliés […] en envoyant les jeunes gens nécessaires pour occuper le territoire ennemi après que nous l’aurons démoralisé et anéanti par nos attaques aériennes. […] Nous avons suivi un tel plan pendant la dernière guerre » [17].
Les historiens américains Michael Sherry et Martin Sherwin l’ont montré : c’est l’URSS, instrument militaire de la victoire, qui était la cible simultanée des futures guerres de conquête – et non le Reich, officiellement désigné comme ennemi « des Nations unies » [18]. On comprend pourquoi en lisant William Appleman Williams, un des fondateurs de « l’école révisionniste » (progressiste) américaine. Sa thèse sur « les relations américano-russes de 1781 à 1947 » (1952) a démontré que l’impérialisme américain ne supportait aucune limitation à sa sphère d’influence mondiale, que la « Guerre froide », née en 1917 et non en 1945-1947, avait des fondements non idéologiques mais économiques, et que la russophobie américaine datait de l’ère impérialiste [19]. « L’entente [russo-américaine] lâche et informelle […] s’était rompue sur les droits de passage des chemins de fer [russes] de Mandchourie méridionale et de l’Est chinois entre 1895 et 1912 ». Les Soviets eurent au surplus l’audace d’exploiter eux-mêmes leur caverne d’Ali Baba, soustrayant aux capitaux américains leur immense territoire (22 millions de km2). Voilà ce qui généra « la continuité, de Theodore Roosevelt et John Hay à Franklin Roosevelt en passant par Wilson, Hugues et Hoover, de la politique américaine en Extrême-Orient » [20] ‑ mais aussi en Afrique et en Europe, autres champs privilégiés « d’un partage et d’un repartage du monde » [21] américains renouvelés sans répit depuis 1880-1890.
Washington prétendait opérer ce « partage-repartage » à son bénéfice exclusif, raison fondamentale pour laquelle Roosevelt mit son veto à toute discussion en temps de guerre avec Staline et Churchill sur la répartition des « zones d’influence ». L’arrêt des armes lui assurerait la victoire militaire à coût nul, vu l’état pitoyable de son grand rival russe, ravagé par l’assaut allemand [22]. En février-mars 1944, le milliardaire Harriman, ambassadeur à Moscou depuis 1943, s’accordait avec deux rapports des services « russes » du Département d’État (« Certains aspects de la politique soviétique actuelle » et « La Russie et l’Europe orientale ») pour penser que l’URSS, « appauvrie par la guerre et à l’affût de notre assistance économique […,] un de nos principaux leviers pour orienter une action politique compatible avec nos principes », n’aurait même pas la force d’empiéter sur l’Est de l’Europe bientôt américaine. Elle se contenterait pour l’après-guerre d’une promesse d’aide américaine, ce qui nous permettrait « d’éviter le développement d’une sphère d’influence de l’Union Soviétique sur l’Europe orientale et les Balkans » [23]. Pronostic manifestant un optimisme excessif, l’URSS n’ayant pas renoncé à s’en ménager une.
La Pax Americana dans le tronçon français de la zone d’influence
Les plans de paix synarchique…
Ce « levier » financier était, tant à l’Ouest qu’à l’Est, « une des armes les plus efficaces à notre disposition pour influer sur les événements politiques européens dans la direction que nous désirons » [24].
En vue de cette Pax Americana, la haute finance synarchique, cœur de l’impérialisme français particulièrement représenté outre-mer – Lemaigre-Dubreuil, chef des huiles Lesieur (et de sociétés pétrolières), le président de la banque d’Indochine Paul Baudouin, dernier ministre des Affaires étrangères de Reynaud et premier de Pétain, etc. –, négocia, plus activement depuis le second semestre 1941, avec le financier Robert Murphy, délégué spécial de Roosevelt en Afrique du Nord. Futur premier conseiller du gouverneur militaire de la zone d’occupation américaine en Allemagne et un des chefs des services de renseignements, de l’Office of Strategic Services (OSS) de guerre à la Central Intelligence Agency de 1947, il s’était installé à Alger en décembre 1940. Ce catholique intégriste y préparait le débarquement des États-Unis en Afrique du Nord, tremplin vers l’occupation de l’Europe qui commencerait par le territoire français quand l’URSS s’apprêterait à franchir ses frontières de 1940-1941 pour libérer les pays occupés [25]. Ces pourparlers secrets furent tenus en zone non occupée, dans « l’empire », via les « neutres », des pro-hitlériens Salazar et Franco, sensibles aux sirènes américaines, aux Suisses et aux Suédois, et via le Vatican, aussi soucieux qu’en 1917-1918 d’assurer une paix douce au Reich vaincu. Prolongés jusqu’à la fin de la guerre, ils inclurent dès 1942 des plans de « retournement des fronts », contre l’URSS, qui percèrent avant la capitulation allemande [26] mais n’eurent plein effet qu’après les 8-9 mai 1945.
Traitant d’affaires économiques immédiates (en Afrique du Nord) et futures (métropolitaines et coloniales pour l’après-Libération) avec les grands synarques, Washington comptait aussi sur eux pour évincer de Gaulle, également haï des deux parties. En aucun cas parce qu’il était une sorte de dictateur militaire insupportable, conformément à une durable légende, au grand démocrate Roosevelt. De Gaulle déplaisait seulement parce que, si réactionnaire qu’il eût été ou fût, il tirait sa popularité et sa force de la Résistance intérieure (surtout communiste) : c’est à ce titre qu’il entraverait la mainmise totale des États-Unis, alors qu’un « Vichy sans Vichy » offrirait des partenaires honnis du peuple, donc aussi dociles « perinde ac cadaver » aux injonctions américaines qu’ils l’étaient aux ordres allemands. Cette formule américaine, finalement vouée à l’échec vu le rapport de forces général et français, eut donc pour héros successifs, de 1941 à 1943, les cagoulards vichystes Weygand, Darlan puis Giraud, champions avérés de dictature militaire [27], si représentatifs du goût de Washington pour les étrangers acquis à la liberté de ses capitaux et à l’installation de ses bases aéronavales [28].
On ne s’efforçait pas d’esquiver de Gaulle pour subir les Soviets : épouvantés par l’issue de la bataille de Stalingrad, les mêmes financiers français dépêchèrent aussitôt à Rome leur tout dévoué Emmanuel Suhard, instrument depuis 1926 de leurs plans de liquidation de la République. Le cardinal-archevêque (de Reims) avait été, la Cagoule ayant opportunément en avril 1940 liquidé son prédécesseur Verdier, nommé à Paris en mai juste après l’invasion allemande (du 10 mai) : ses mandants et Paul Reynaud, complice du putsch Pétain-Laval imminent, l’envoyèrent amorcer à Madrid le 15 mai, via Franco, les tractations de « Paix » (capitulation) avec le Reich [29]. Suhard fut donc à nouveau chargé de préparer, en vue de la Pax Americana, les pourparlers avec le nouveau tuteur : il devait demander à Pie XII de poser « à Washington », via Myron Taylor, ancien président de l’US Steel et depuis l’été 1939 « représentant personnel » de Roosevelt « auprès du pape », « la question suivante : “Si les troupes américaines sont amenées à pénétrer en France, le gouvernement de Washington s’engage-t-il à ce que l’occupation américaine soit aussi totale que l’occupation allemande ?” », à l’exclusion de toute « autre occupation étrangère (soviétique). Washington a répondu que les États-Unis se désintéresseraient de la forme future du gouvernement de la France et qu’ils s’engageaient à ne pas laisser le communisme s’installer dans le pays » [30]. La bourgeoisie, nota un informateur du BCRA fin juillet 1943, « ne croyant plus à la victoire allemande, compte […] sur l’Amérique pour lui éviter le bolchevisme. Elle attend le débarquement anglo-américain avec impatience, tout retard lui apparaissant comme une sorte de trahison ». Ce refrain fut chanté jusqu’à la mise en œuvre de l’opération « Overlord » [31].
… contre les espérances populaires
Au « bourgeois français [qui avait] toujours considéré le soldat américain ou britannique comme devant être naturellement à son service au cas d’une victoire bolchevique », les RG opposaient depuis février 1943 « le prolétariat », qui exultait : « les craintes de voir “sa” victoire escamotée par la haute finance internationale s’estompent avec la chute de Stalingrad et l’avance générale des soviets » [32]. De ce côté, à la rancœur contre l’inaction militaire des Anglo-Saxons contre l’Axe s’ajouta la colère provoquée par leur guerre aérienne contre les civils, ceux des « Nations unies » compris. Les « bombardements stratégiques américains », ininterrompus depuis 1942, frappaient les populations mais épargnaient les Konzerne partenaires, IG Farben en tête comme le rapporta en novembre « un très important industriel suédois en relations étroites avec [le géant chimique], retour d’un voyage d’affaires en Allemagne » : à Francfort, « les usines n’ont pas souffert », à Ludwigshafen, « les dégâts sont insignifiants », à Leverkusen, « les usines de l’IG Farben […] n’ont pas été bombardées » [33].
Rien ne changea jusqu’en 1944, où un long rapport de mars sur « les bombardements de l’aviation anglo-américaine et les réactions de la population française » exposa les effets de « ces raids meurtriers et inopérants » : l’indignation enflait tant depuis 1943 qu’elle ébranlait l’assise du contrôle américain imminent du territoire. Depuis septembre 1943 s’étaient intensifiées les attaques contre la banlieue de Paris, où les bombes étaient comme « jetées au hasard, sans but précis, et sans le moindre souci d’épargner des vies humaines ». Nantes avait suivi, Strasbourg, La Bocca, Annecy, puis Toulon, qui avait « mis le comble à la colère des ouvriers contre les Anglo-Saxons » : toujours les mêmes morts ouvriers et peu ou pas d’objectifs industriels touchés. Les opérations préservaient toujours l’économie de guerre allemande, comme si les Anglo-Saxons « craignaient de voir finir la guerre trop vite ». Ainsi trônaient intacts les hauts-fourneaux, dont la« destruction paralyserait immédiatement les industries de transformation, qui cesseraient de fonctionner faute de matières premières ». Se répandait « une opinion très dangereuse […] dans certaines parties de la population ouvrière qui a été durement frappée par les raids. C’est que les capitalistes anglo-saxons ne sont pas mécontents d’éliminer des concurrents commerciaux, et en même temps de décimer la classe ouvrière, de la plonger dans un état de détresse et de misère qui lui rendra plus difficile après la guerre la présentation de ses revendications sociales. Il serait vain de dissimuler que l’opinion française est, depuis quelque temps, considérablement refroidie à l’égard des Anglo-Américains », qui reculent toujours devant « le débarquement promis […]. La France souffre indiciblement […] Les forces vives du pays s’épuisent à une cadence qui s’accélère de jour en jour, et la confiance dans les alliés prend une courbe descendante. […] Instruits par la cruelle réalité des faits, la plupart des ouvriers portent désormais tous leurs espoirs vers la Russie, dont l’armée est, à leur avis, la seule qui puisse venir à bout dans un délai prochain de la résistance des Allemands » [34].
C’est donc dans une atmosphère de rancœur contre ces « alliés » aussi bienveillants pour le Reich qu’avant et après 1918 qu’eut lieu leur débarquement du 6 juin 1944. Colère et soviétophilie populaires persistèrent, donnant au PCF un écho qui inquiétait l’État gaulliste imminent : « le débarquement a enlevé à sa propagande une part de sa force de pénétration », mais « le temps assez long qu’ont mis les armées anglo-américaines à débarquer sur le sol français a été exploité pour démontrer que seule l’armée russe était en mesure de lutter efficacement contre les nazis. Les morts provoquées par les bombardements et les douleurs qu’elles suscitent servent également d’éléments favorables à une propagande qui prétend que les Russes se battent suivant les méthodes traditionnelles et ne s’en prennent point à la population civile » [35].
Le déficit de sympathie enregistré dans ce morceau initial de la sphère d’influence américaine se maintint entre la Libération de Paris et la fin de la guerre en Europe, comme l’attestent les sondages de l’Ifop d’après-Libération, parisien (« du 28 août au 2 septembre 1944 ») et de mai 1945, national (déjà cité) [36]. Il fut après-guerre, on l’a dit, d’abord progressivement, puis brutalement comblé. Il n’est donc plus grand monde pour rappeler qu’après la bataille des Ardennes (décembre 1944-janvier 1945), seuls combats importants livrés par les Anglo-Saxons contre des troupes allemandes (9 000 morts américains) [37], le haut-commandement de la Wehrmacht négocia fébrilement sa reddition « aux armées anglo-américaines et le report des forces à l’Est » ;
que, fin mars 1945, « 26 divisions allemandes demeuraient sur le front occidental », à seule fin d’évacuation « vers l’Ouest » par les ports du Nord, « contre 170 divisions sur le front de l’Est », qui combattirent farouchement jusqu’au 9 mai (date de la libération de Prague) [38] ;
que le libérateur américain, qui avait doublé à la faveur de la guerre son revenu national, avait sur les fronts du Pacifique et d’Europe perdu 290 000 soldats de décembre 1941 à août 1945 [39] : soit l’effectif soviétique tombé dans les dernières semaines de la chute de Berlin, et 1% du total des morts soviétiques de la « Grande guerre patriotique », près de 30 millions sur 50.
Du 6 juin 1944 au 9 mai 1945, Washington acheva de mettre en place tout ou presque pour rétablir le « cordon sanitaire » que les rivaux impérialistes anglais et français avaient édifié en 1919 ; et pour transformer en bête noire le pays le plus chéri des peuples d’Europe (français inclus). La légende de la « Guerre froide » mériterait les mêmes correctifs que celle de l’exclusive libération américaine de l’Europe [40].
Autres textes concernant le travail d’Annie Lacroix-Riz sur La faute à Diderot :
- Industriels et banquiers français sous l’occupation.
- Vichy et l’assassinat de la République
- La pologne dans la stratégie extérieure de la France (octobre 38-août 39)
[1] Frédéric Dabi, « 1938-1944 : Des accords de Munich à la libération de Paris ou l’aube des sondages d’opinion en France », février 2012,http://www.revuepolitique.fr/1938-1..., chiffres extraits du tableau, p. 5. Total inférieur à 100 : 3 autres données : Angleterre ; 3 pays ; sans avis.
[2] Ibid., p. 4.
[3] Campagne si délirante qu’un journal électronique lié aux États-Unis a le 2 mai 2014 a prôné quelque pudeur sur l’équation CIA-démocratie http://www.huffingtonpost.fr/charle...
[4] Annie Lacroix-Riz, Le Vatican, l’Europe et le Reich 1914-1944, Paris, Armand Colin, 2010 (2e édition), passim.
[5] Lynn E. Davis, The Cold War begins […] 1941-1945, Princeton, Princeton UP, 1974 ; Lloyd Gardner, Spheres of influence […], 1938-1945, Chicago, Ivan R. Dee, 1993 ; Geoffrey Roberts, Stalin’s Wars : From World War to Cold War, 1939-1953. New Haven & London : Yale University Press, 2006, traduction chez Delga, septembre 2014.
[6] Tél. 1450-1467 de Bérard, Bonn, 18 février 1952, Europe généralités 1949-1955, 22, CED, archives du ministère des Affaires étrangères (MAE).
[7] Note État-major, anonyme, 15 septembre 1938 (modèle et papier des notes Gamelin), N 579, Service historique de l’armée de terre (SHAT).
[8] Moral de la région parisienne, note reçue le 22 avril 1943, F1a, 3743, Archives nationales (AN).
[9] Lacroix-Riz, L’histoire contemporaine toujours sous influence, Paris, Delga-Le temps des cerises, 2012.
[10] Revendication de paternité, t. 1 de ses mémoires, Un ambassadeur se souvient. Au temps du danger allemand, Paris, Plon, 1976, p. 458, vraisemblable, vu sa correspondance du MAE.
[11] Rapport 556/EM/S au général Koeltz, Wiesbaden, 16 juillet 1941, W3, 210 (Laval), AN.
[12] Les difficultés « des Allemands » nous menacent, se lamenta fin août Tardini, troisième personnage de la secrétairerie d’État du Vatican, d’une issue « telle que Staline serait appelé à organiser la paix de concert avec Churchill et Roosevelt », entretien avec Léon Bérard, lettre Bérard, Rome-Saint-Siège, 4 septembre 1941, Vichy-Europe, 551, archives du ministère des Affaires étrangères (MAE).
[13] Michael Sherry, Preparation for the next war, American Plans for postwar defense, 1941-1945, New Haven, Yale University Press, 1977, chap. 1, dont p. 39.
[14] Exemples français et scandinave (naguère fief britannique), Lacroix-Riz, Le Maghreb : allusions et silences de la chronologie Chauvel, La Revue d’Histoire Maghrébine, Tunis, février 2007, p. 39-48 ; Les Protectorats d’Afrique du Nord entre la France et Washington du débarquement à l’indépendance 1942-1956, Paris, L’Harmattan, 1988, chap. 1 ; « L’entrée de la Scandinavie dans le Pacte atlantique (1943-1949) : une indispensable “révision déchirante” », guerres mondiales et conflits contemporains (gmcc), 5 articles, 1988-1994, liste,http://www.historiographie.info/cv.html.
[15] Sherry, Preparation, p. 39-47 (citations éparses).
[16] Sarcasme de l’ambassadeur américain H. Freeman Matthews, ancien directeur du bureau des Affaires européennes, dépêche de Dampierre n° 1068, Stockholm, 23 novembre 1948, Europe Généralités 1944-1949, 43, MAE.
[17] Tél. Bonnet n° 944-1947, Washington, 10 mai 1949, Europe généralités 1944-1949, 27, MAE, voir Lacroix-Riz, « L’entrée de la Scandinavie », gmcc, n° 173, 1994, p. 150-151 (150-168).
[18] Martin Sherwin, A world destroyed. The atomic bomb and the Grand Alliance, Alfred a Knopf, New York, 1975 ; Sherry Michael,Preparation ; The rise of American Air Power : the creation of Armageddon, New Haven, Yale University Press, 1987 ; In the shadow of war : the US since the 1930’s, New Haven, Yale University Press, 1995.
[19] Williams, Ph.D., American Russian Relations, 1781-1947, New York, Rinehart & Co., 1952, et The Tragedy of American Diplomacy, Dell Publishing C°, New York, 1972 (2e éd).
[20] Richard W. Van Alstyne, recension d’American Russian Relations, The Journal of Asian Studies, vol. 12, n° 3, 1953, p. 311.
[21] Lénine, L’impérialisme, stade suprême du capitalisme, Essai de vulgarisation, Paris, Le Temps des cerises, 2001 (1e édition, 1917), p. 172. Souligné dans le texte.
[22] Élément clé de l’analyse révisionniste, dont Gardner, Spheres of influence, essentiel.
[23] Tél. 861.01/2320 de Harriman, Moscou, 13 mars 1944, Foreign Relations of the United States 1944, IV, Europe, p 951 (en ligne).
[24] Ibid.
[25] Lacroix-Riz, Politique et intérêts ultra-marins de la synarchie entre Blitzkrieg et Pax Americana, 1939-1944, in Hubert Bonin et al., Les entreprises et l’outre-mer français pendant la Seconde Guerre mondiale, Pessac, MSHA, 2010, p. 59-77 ; Le Maghreb : allusions et silences de la chronologie Chauvel , La Revue d’Histoire Maghrébine, Tunis, février 2007, p. 39-48.
[26] Dont la capitulation de l’armée Kesselring d’Italie, opération Sunrise négociée en mars-avril 1945 par Allen Dulles, chef de l’OSS-Europe en poste à Berne, avec Karl Wolff, « chef de l’état-major personnel de Himmler » responsable de « l’assassinat de 300 000 juifs », qui ulcéra Moscou. Lacroix-Riz, Le Vatican, chap. 10, dont p. 562-563, et Industriels et banquiers français sous l’Occupation, Paris, Armand Colin, 2013, chap. 9.
[27] Jean-Baptiste Duroselle, L’Abîme 1939-1945, Paris, Imprimerie nationale, 1982, passim ; Lacroix-Riz, Quand les Américains voulaient gouverner la France, Le Monde diplomatique, mai 2003, p. 19 ; Industriels..., chap. 9.
[28] David F Schmitz, Thank God, they’re on our side. The US and right wing dictatorships, 1921-1965, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1999.
[29] Index Suhard Lacroix-Riz, Le choix de la défaite : les élites françaises dans les années 1930, et De Munich à Vichy, l’assassinat de la 3e République, 1938-1940, Paris, Armand Colin, 2010 (2e édition) et 2008.
[30] LIBE/9/14, 5 février 1943 (visite récente), F1a, 3784, AN. Taylor, Vatican, chap. 9-11 et index.
[31] Information d’octobre, reçue le 26 décembre 1943, F1a, 3958, AN, et Industriels, chap. 9.
[32] Lettre n° 740 du commissaire des RG au préfet de Melun, 13 février 1943, F7, 14904, AN.
[33] Renseignement 3271, arrivé le 17 février 1943, Alger-Londres, 278, MAE.
[34] Informations du 15 mai, diffusées les 5 et 9 juin 1944, F1a, 3864 et 3846, AN.
[35] Information du 13 juin, diffusée le 20 juillet 1944, « le PC à Grenoble », F1a, 3889, AN.
[36] M. Dabi, directeur du département Opinion de l’Ifop, phare de l’ignorance régnant en 2012 sur l’histoire de la Deuxième Guerre mondiale, déplore le résultat de 1944 : « une très nette majorité (61%) considèrent que l’URSS est la nation qui a le plus contribué à la défaite allemande alors que les États-Unis et l’Angleterre, pourtant libérateurs du territoire national [fin août 1944 ??], ne recueillent respectivement que 29,3% et 11,5% », « 1938-1944 », p. 4, souligné par moi.
[37] Jacques Mordal, Dictionnaire de la Seconde Guerre mondiale, Paris, Larousse, 1979, t. 1, p. 109-114.
[38] Gabriel Kolko, The Politics of War. The World and the United States Foreign Policy, 1943-1945, New York, Random House, 1969, chap. 13-14.
[39] Pertes « militaires uniquement », Pieter Lagrou, Les guerres, la mort et le deuil : bilan chiffré de la Seconde Guerre mondiale, in Stéphane Audoin-Rouzeau et al., dir., La violence de guerre 1914-1
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