Informazione
Milano, sabato 10 maggio 2014
alle ore 16:00 presso la sala conferenze del C.A.M. "Scaldasole" - Via Scaldasole 3/A (zona Ticinese)
UN TESORO IN PERICOLO
Seminario - Proiezioni e dibattito
Andrea Martocchia - segretario, Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS
Intervengono:
ROSA D'AMICO - storica dell'arte, già Direttrice della Pinacoteca di Bologna e funzionaria della Soprintendenza per i beni artistici, storici ed etnoantropologici di Bologna. E' la maggiore esperta italiana in tema di arte medioevale serbo-bizantina
ALESSANDRO DI MEO - coordinatore delle attività di solidarietà verso la Serbia e il Kosovo per la ONG "Un Ponte per…" (Roma)
JEAN TOSCHI MARAZZANI VISCONTI - giornalista e saggista, autrice e curatrice di libri sulle questioni jugoslave per le case editrici Città del Sole e Zambon
I principali monumenti della cultura serba antica - da Studenica a Mileševa e Sopoćani, fino alle chiese trecentesche del Kosovo - stanno a testimoniare di un inestimabile patrimonio di cultura e di civiltà fiorito nel cuore dei Balcani e quindi dell'Europa. Un tesoro che in Italia è praticamente sconosciuto, nonostante i secolari rapporti storici ed artistici tra le due sponde dell'Adriatico. Anziché tutelare e promuovere la conoscenza di quel patrimonio, il nostro paese ha partecipato ad azioni militari e passaggi politico-diplomatici che lo hanno messo a repentaglio in anni recenti.
In questo 2014 cadono infatti il 15.mo anniversario dei bombardamenti della NATO su ciò che rimaneva della Jugoslavia dopo le già gravi secessioni iniziate nel 1991, e il 10.mo anniversario dei pogrom scatenati contro i serbi in Kosovo sotto gli occhi poco innocenti delle nostre truppe di occupazione. Fatti che non intendiamo dimenticare.
Il Kosovo, cuore storico della Serbia, che è a sua volta parte della Jugoslavia: sono per eccellenza i luoghi della convivenza tra culture diverse, e tali rimangono malgrado le politiche identitarie e nazionalistiche abbiano portato disunione e sangue con l'avallo della peggiore politica nostrana. Quei monumenti appartengono ad una identità condivisa, anche se spesso dimenticata, e la perdita di parte di quel patrimonio, avvenuta nel tempo e in occasione dei recenti eventi bellici, costituisce una ferita gravissima e non rimarginabile alla conoscenza non solo della storia di quei luoghi, ma anche della nostra.
Promuove: Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - ONLUS
Evento Facebook: https://www.facebook.com/events/564063720358735/
SIGN to say U.S. Hands Off Russia and the Ukraine!
Please send email messages to President Obama, Vice President Biden, Secretary of State Kerry, Senator McCain, Secretary-General Ban, Congress and the media saying: U.S. HANDS OFF RUSSIA AND THE UKRAINE!
SIGN the online petition at http://www.iacenter.org/ukrainepetition
guarda la locandina: http://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-europa/24024-livorno-8-maggio-2014-la-guerra-nel-cuore-delleuropa-sapere-la-verita.html
Contro l'imperialismo USA, UE e NATO!
Per la pace, la fratellanza e l'autodeterminazione dei popoli!
Tutte le volte che si intende iniziare una guerra, la macchina mediatica si mette in moto per mostrare all’opinione pubblica scene raccapriccianti (vere o finte) che inducano a giustificare un’operazione militare.
Quanto sta avvenendo in questi mesi in Ucraina risponde perfettamente a questo cliché, ma con la drammatica differenza che qui si nascondono veri e propri massacri compiuti dal nuovo governo golpista e dalle bande neonaziste al suo servizio, proprio per rendere accettabile e credibile questo colpo di Stato all’opinione pubblica mondiale.
Ad Odessa è avvenuto un bagno di sangue con bande neonaziste, armate e sostenute politicamente dagli USA e dall’UE, all’assalto della Casa dei Sindacati dove hanno fatto una carneficina. Più di 100 persone tra cui donne, giovani e bambini sono stati strangolati, colpiti a freddo o arsi vivi nel rogo appiccato nell’edificio. Dove sono i difensori dei diritti umani? Che fine hanno fatto i mentori della retorica democratica? E dove sono i media? Perché ci parlano di una “guerra civile” con responsabilità “da ambo le parti” a fronte di questa mattanza unilaterale e questa cieca violenza?
Esprimiamo la nostra solidarietà ai resistenti della Crimea, di Odessa e a tutti gli antifascisti ucraini, alle donne ed ai tanti giovani che da mesi resistono coraggiosamente alle violenze dei golpisti di Kiev e dei loro sicari nazisti!
Invitiamo tutti i sinceri democratici italiani a non prestare il fianco alla campagna di sostegno a questo colpo di Stato che rischia di far divampare nuovamente il fascismo e la guerra nel cuore dell’Europa!
In occasione del 9 maggio, 69° anniversario della vittoria sul nazifascismo, in tutti i paesi del CSI, in Asia, Europa ed America gli antifascisti indosseranno il nastro nero-arancione simbolo della vittoria sulla barbarie nazista, all’insegna del motto: “Io ricordo. Io sono fiero”. Lo faremo anche noi, ed invitiamo tutti gli antifascisti a farlo, per non dimenticare quanto sta avvenendo in queste ore in Ucraina dove, non a caso, la festa è stata cancellata dal nuovo governo Golpista. NOI NON DIMENTICHIAMO!!
VIVA L’UCRAINA ANTIFASCISTA!
COMITATO UCRAINA ANTIFASCISTA
L’Unione Europea complice del nazismo in Ucraina.
Con l’Ucraina antifascista. No Pasaran!
Presidio antifascista e internazionalista sotto la sede dell'Unione Europea
in contemporanea con l'incontro tra la Commissione Europea e il governo golpista di Kiev
Così come l’imperialismo Usa, anche quello europeo non esita a sostenere i nazisti pur di avere a disposizione uno strumento da usare contro chi si oppone all’assorbimento del paese nell’UE e nella Nato.
La caccia al ‘russo’ e al ‘comunista’ delle bande neonaziste sostenute da Washington e Bruxelles si è trasformata ad Odessa in una vera e propria strage, con l’uccisione di decine di militanti antifascisti arsi vivi nel rogo della Casa dei Sindacati.
- Denunciamo la posizione del governo Renzi/Alfano, che a poche ore dalla strage per bocca della Ministra degli Esteri Roberta Pinotti, ha dichiarato: “Se dovesse servire l'Italia è disponibile anche ad inviare un contingente di peacekeeper in Ucraina".
- Esprimiamo la nostra rabbia, lo sgomento e la solidarietà totale alle vittime della barbarie nazista cadute a Odessa e in tutta l’Ucraina. In un’Europa attraversata da movimenti di chiara natura reazionaria e fascista è doveroso schierarsi con le donne e gli uomini che a Odessa, Slavyansk, Donetsk e nelle altri città ribelli dell’Ucraina resistono alle bande naziste.
- Manifestiamo la nostra totale solidarietà nei confronti di milioni di lavoratori e cittadini ucraini i cui diritti e il cui futuro sono stati svenduti alla troika dalla nuova leadership ‘nazionalista’ di Kiev, in realtà strumento del Fmi e della BCE.
Giù le mani dall’Ucraina!
Promuovono: Rete dei Comunisti, Collettivo Militant – Noi saremo tutto, Comitato ‘Palestina nel Cuore’, Centro Sociale Ricomincio dal Faro, Rete No War di Roma, Sibialiria…
Sul piano economico e sociale, è un disastro. Ufficialmente, quasi il 50% della popolazione è disoccupata sui 2 milioni di abitanti che conta il paese, in una popolazione in cui il 75% ha meno di 35 anni.
Le cifre della povertà sono spaventose: un terzo della popolazione vive con meno di 1,5 dollari al giorno, fatto che pone il Kosovo tra i paesi più poveri d’Europa e del mondo.
Infernale per il suo popolo, il Kosovo è certamente un paradiso per le imprese poiché il paese ha scelto la “flat tax”, un tasso di imposizione unico per le imprese e per i redditi (alti) al 10%.
Sul piano politico, è un paese sotto tutela. Ironia dell’indipendenza di facciata. Nel 1999, il primo segno di indipendenza del Kosovo è stato quello di adottare il…marco. Il Kosovo, ha potuto però entrare in seguito nell’euro, senza essere nell’UE, un caso unico.
Il paese è ancora completamente assistito, retto dalle potenze straniere: così l’Unione europea dirige ancora la polizia, la giustizia e le dogane del paese nell’ambito dell’EULEX messo in piedi nel 2008, dopo l’indipendenza.
La KFOR della NATO, esercito di occupazione del Kosovo, si incarica ancora di seguire l’aspetto militare a partire dalla preziosa base di Bondsteel, la più grande base americana nella regione.
Sul piano umanitario, si raggiunge il colmo. Il non rispetto della minoranza serba è stato palese sulla scia dell’intervento NATO nel 1999. Soprattutto dopo l’indipendenza, il Kosovo è divenuto lo snodo di traffici di tutti i tipi, della criminalità organizzata, sotto lo sguardo impotente o complice delle “autorità”dell’UE e della NATO.
E’ ormai accertato dopo il rapporto Marty rimesso nel 2010 al Consiglio d’Europa, che i leaders dell’UCK (esercito di liberazione del Kosovo) hanno organizzato un traffico di organi internazionale a partire dalle loro scorte di prigionieri serbi barbaramente torturati e poi uccisi sommariamente.
Si conosce bene l’ipocrisia dei paesi occidentali che classificarono l’UCK come organizzazione terrorista fino alla fine degli anni 1990…prima di celebrarli come i “liberatori del Kosovo” dopo il 1999, Bernard Kouchner in testa.
Tra gli altri traffici fiorenti, si può pensare: al traffico di armi, il Kosovo è la prima filiera di armi illegali verso la Francia!; al traffico di droga, l’eroina ha finanziato lo sviluppo dell’UCK. Oggi 60 tonnellate transitano ogni anno, riportando 3 miliardi di dollari. Nel 2000, le agenzie internazionali stimavano che il 40% dell’eroina consumata in Europa provenisse dal Kosovo; infine al traffico di donne, i canali kosovari alimentano la prostituzione illegale verso l’Europa occidentale. La prostituzione si era egualmente sviluppata in modo intenso nel Kosovo a causa…dell’appetito dei soldati della KFOR che, secondo un rapporto di Amnesty International, rappresentavano il 20% dei clienti delle prostitute kosovare nel 2003. Ragazze ridotte alla schiavitù sessuale, a volte fin dall’età di 11 anni, secondo le ONG.
By bombing Yugoslavia US wipes floor with int'l law - expert
15 years ago the United States cut up Yugoslavia's map. If prior to that Washington had played behind the scenes, in the situation of Serbia the Americans acted openly. Without the UN SC resolution, the NATO bombed peaceful cities for 11 weeks ruthlessly destroying the civilian and military infrastructure, thus in essence wiping the floor with international law.
What in the West would later be called "humanitarian intervention" has in fact nothing to do with humanism – 78 days of bombing took lives of 2,000 people, two thirds of whom were peaceful civilians. Over 10,000 people were wounded.
By late 1990s the USA finally took the leading position in the world politics. Back then Washington faced a new task – to install that fact firm in the minds of the world community. The American authorities picked Yugoslavia as the instrument of persuasion.
The antiterrorist operation of the Serbian Special Forces in the village of Račak in January 1999 was picked as the pretext for the bombings of that country. Portraying that case as a mass murder of civilian population the USA announced the beginning of the "humanitarian intervention" and started to ruthlessly destroy the civilian and military infrastructure of Yugoslavia without any decision made by the UN Security Council. By acting that way Washington practically wiped the floor with international law, thinks Vladimir Kozin, an expert at the Russian Institute for Strategic Studies.
"For 78 days the Americans and the NATO bombed Yugoslavia; they dropped 27,000 tons of various missile and bomb ammunition; 2,000 civilians were killed, of them 400 children; 40,000 houses were destroyed."
Only later it came to light that the mass burial of representatives of the civilian Albanian population reportedly shot by the Serbian troops was a falsification organized by the American special services. The majority of people found near the village of Račak were rebels of the Liberation Army of Kosovo.
The NATO aggression resulted in the fall of Yugoslavia. The economy of the countries that made up that entity was totally destroyed; the agriculture was eliminated by a wave of sanctions, while the industrial production was practically completely demolished.
Washington did not choose Yugoslavia as its victim accidentally. According to Elena Guskova, head of the Center for the Studies of Modern Balkans' Crisis at the Institute for Slavic Studies of the Russian Academy of Sciences, the military aggression against that country was a part of a complex operation to destroy the multinational state.
"The causes were the refusal of Yugoslavia's leadership to take orders and its unwillingness to accept the will imposed from the outside. The talks between Slobodan Milošević and Richard Holbrooke (who back then was the US Special Envoy to Cyprus and Yugoslavia) in October 1998 did not bring the desired results. Slobodan Milošević did not allow deploying NATO troops on his territory. Then he was told, "we will punish you"."
As a result of the NATO operation Kosovo declared its independence. That was what Washington was after. The Americans immediately built their military base Camp Bondsteel there – second largest in Europe. It allows the USA to control the area of the Mediterranean and the Black Sea and the routes in the Middle East, Northern Africa and in the Caucasus, as well as the transit of energy resources from the Caspian Region and Central Asia. For the USA its military base in Serbia is quite legal and beneficial. The Americans do not pay for the use of the land in Kosovo.
Ufficio per il Kosovo ha condannato il ferimento di tre poliziotti
L’ufficio dell’esecutivo serbo per il Kosovo ha condannato il ferimento di tre poliziotti di nazionalità serba nel villaggio Banje, nel comune di Zubin Potok nel Kosovo settentrionale. L’ufficio ha chiesto alla comunità internazionale di assicurare le condizioni per una vita normale a tutti gli abitanti del Kosovo. Chiediamo che siano trovati e puniti i delinquenti che nell’imboscata hanno aperto il fuoco contro il veicolo nel quale si trovavano i membri della polizia doganale. Condanniamo ogni forma di violenze contro i cittadini della regione, in primo luogo gli attacchi contro gli appartenenti delle forze di sicurezza, è stato precisato nel comunicato diffuso dall’ufficio dell’esecutivo serbo per il Kosovo. Tre membri della polizia kosovara sono stati feriti lunedì sera nella sparatoria nel comune di Zubin Potok.
Il presidente Ceco Zeman: “L’ armata kosovara” – riarmamento del UCK terroristico.
Zeman: "Kosovska armija" - ponovno naoružavanje terorističke OVK
Stvaranje takozvane "kosovske vojske" značilo bi ponovo naoružavanje pripadnika terorističke Oslobodilačke vojske Kosova, izjavio je predsednik Češke Miloš Zeman tokom posete Srbiji. S obzirom na to da je OVK za vreme ratnih sukoba u Pokrajini izvodila terorističke akcije, plašio bih se formiranja "kosovske vojske" koja ne bi predstavljala ništa drugo do ponovo naoružanu OVK - rekao je Zeman češkim novinarima. On je napomenuo da je raspuštanje OVK bilo jedan od glavnih zahteva tokom mirovnih pregovora o Kosmetu. Češki predsednik je podsetio i na dokument specijalnog izvestioca Saveta Evrope Dika Martija u kojem se navodi da su lideri OVK trgovali organima otetih i zarobljenih Srba. Ukazujući da samoproglašenu nezavisnost Kosmeta nije priznao veliki broj zemalja i da je on lično od početka bio protivnik takvog projekta, Zeman je ocenio da je reč o teritoriji na kojoj veliki uticaj ima narko mafija.
(izvor : Tanjug)
In Kosovo sta rinascendo l’esercito di liberazione che era stato messo al bando?
Di Redazione • 03 apr, 2014 • Categoria: MondoLa Repubblica ceca ha espresso una forte preoccupazione per il formarsi di una forza militare ufficiale nel paese che si è reso indipendente dalla Serbia nel 2008
Per il presidente ceco Milos Zeman, la creazione di regolari Forze armate del Kosovo, annunciata dalla dirigenza di Pristina, significherebbe in definitiva un riarmo di quello che era un tempo l’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) della guerriglia indipendentista albanese, responsabile di azioni terroristiche durante il conflitto armato con i serbi della fine degli anni novanta. «Considerando che durante la guerra nella ex Jugoslavia l’Uck si rese responsabile di una quantità di atti terroristici, io avrei paura di un Esercito indipendente in Kosovo, che altro non sarebbe che una Uck armata», ha detto Zeman ai giornalisti cechi al suo seguito nella visita degli ultimi due giorni a Belgrado.
Zeman, il cui Paese ha riconosciuto l’indipendenza di Pristina, ha ricordato che lo scioglimento dell’Uck era uno dei punti qualificanti degli accordi di pace. «Ora tuttavia quella forza viene in sostanza ripristinata. Io ritengo che il Kosovo sia un Paese a dir poco molto strano. Un Paese sotto il forte influsso del traffico di droga», ha affermato il presidente ceco, che ha ricordato al tempo stesso come l’Uck – uno dei cui leader era l’attuale premier kosovaro Hashim Thaci – è sospettato del traffico di organi umani, accuse presentate nel 2010 anche dal relatore del Consiglio d’Europa Dick Marty.
Messaggi di minacce sul portone del monastero serbo Dečani Alti
25. 04. 2014.Sul portone del monastero Serbo Decani Alti, nel Kosovo sud-occidentale, stamattiona sono apparse le iscrizioni UCK, cioè l’Esercito per la liberazione del Kosovo, ha comunicato l’eparchia di Raska della Chisa serba ortodossa. Questa è soltanto l’ultima provocazione della popolazione albanese che ha scritto messaggi simili anche sul muro della chiesa ortodossa a Djakovica, e sulle case serbe a Orahovac. Il portone del monastero Decani Alti, il quale è stato inserito nel 2005 nella lista dell’UNESCO del patrimonio mondiale, si trova a una decina di metri dal contingente italiano della Kfor. I messaggi del genere sono una minaccia ai sacerdoti e i monaci del monastero, i quali negli ultimi quindici anni sono stati attaccati quatro volte con le armi da fuoco e innumerevole volte verbalmente, ha comunicato l’eparchia di Raska della Chisa serba ortodossa.
Grafiti UČK ispisani na kapiji Manastira Visoki Dečani
Pet, 25/04/2014Na kapiji Manastira Visoki Dečani su osvanuli grafiti sa natpisom UČK, takozvane Oslobodilačke vojske Kosova, saopštila je Eparhija Raško-prizrenska. Ovo je poslednji u nizu sličnih provokacija albanskih ekstremista koji su prethodno poruke mržnje ispisivali na zidu crkve u Đakovici, a potom na srpskim kućama u Orahovcu na Kosovu i Metohiji. Ekstremisti su grafite ispisali na samoj manastirskoj kapiji u Visokim Dečanima i to svega nekoliko desetaka metara od italijanskog punkta KFOR-a. Eparhija Raško-prizrenska ovaj akt doživljava kao otvorenu pretnju Manastiru Visoki Dečani i njegovom bratstvu koji su u poslednjih 15 godina takozvanog međunarodnog mira na Kosovu i Metohiji četiri puta oružano napadani granatama od strane albanskih ekstremista, i kojima su više puta upućivane pretnje.
Kancelarija za KiM osudila ispisivanje grafita „OVK“
Kancelarija za Kosovo i Metohiju osudila je ispisivanje grafita sa natpisom „OVK“ na manastirskoj kapiji u Visokim Dečanima i zatražila da KFOR preuzme svu odgovornost za bezbednost monaha u toj srpskoj svetinji. To je još jedan vid pritiska na bratstvo Visokih Dečana i na bezbednost celokupnog srpskog kulturnog i verskog nasleđa na KiM, istaknuto je u saopštenju Kancelarije. Ukazuje se da je poruka jasna - proterati pravoslavne sveštenike sa KiM, a sa njima i celokupno srpsko stanovništvo, na čemu albanski ekstremisti rade već godinama. Kancelarija podseća da nisu pronađeni ni oni koji su nedavno ispisali poruke mržnje na crkvi u Đakovici i na srpskim kućama u Orahovcu. Parole su osvanule na manastirskoj kapiji pored koje se, na udaljenosti od svega nekoliko desetina metara, nalazi italijanski punkt KFOR-a. Manastir Visoki Dečani je od 2005. godine na spisku Svetske baštine UNESKO-a.
(Izvor: Tanjug, foto: radioKiM)
17.02.2014 10:07 CET
Kosovo, un Paese con poche speranze: bilancio di sei anni d’indipendenza
Gabriella Tesoro
Era il 17 febbraio 2008 quando il Parlamento del Kosovo, riunito in seduta straordinaria, dichiarò unilateralmente la propria indipendenza dalla Serbia, a 15 anni di distanza dal sanguinoso conflitto che coinvolse i due Paesi. Quel 17 febbraio, il primo Stato a riconoscere l'indipendenza di Pristina fu la Costa Rica, seguito il giorno dopo dai più importanti Paesi del mondo, come Germania, Italia, Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Oggi, a sei anni di distanza, il Kosovo è riconosciuto come Stato sovrano da 105 Paesi del mondo, di cui 23 dell'Unione europea. A opporsi fortemente rimangono Spagna, Grecia, Cipro e Romania, che vedono in questo riconoscimento una gravissima minaccia interna a causa delle forti forze centrifughe che regnano in questi Paesi, senza contare ilsecco "no" di Russia e Cina, oltretutto membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ribadiscono la validità della risoluzione Onu 1244, che mette il territorio kosovaro sotto la sovranità della Serbia.
Un'indipendenza che lascia ancora oggi perplessa la comunità internazionale. Nel luglio del 2010, il caso finì al Tribunale dell'Aja in quanto, su iniziativa di Belgrado, venne chiesto alla Corte se la dichiarazione d'indipendenza del Kosovo avesse violato le norme del diritto internazionale. I giudici dichiararono l'azione di Pristina non illegale, ma si guardarono bene dal definirla legittima, tant'è che il verdetto finale non formulò un diritto alla secessione. Insomma, punto e a capo.
Se da una parte il dibattito sullo status del Kosovo è ancora aperto, dall'altro il Paese sta facendo degli enormi sforzi per essere accettato a pieno titolo dalla comunità internazionale, ma, per fare questo, Pristina ha compreso che deve come minimo cercare di normalizzare i rapporti con i vicini di Belgrado che, volente o nolente, rimane comunque il Paese più influente e importante dei Balcani occidentali. Lo scorso aprile, i due acerrimi nemici hanno raggiunto un accordo di pace a Bruxelles, ma un riconoscimento ufficiale da parte della Serbia rimane molto, molto lontano. "Sono convinto che la Serbia riconoscerà l'indipendenza del Kosovo - ha affermato il premier kosovaro, Hashim Thaci - Quando accadrà? Dipende dalle autorità serbe. Non possiamo definire una data". Stesso problema è rappresentato dalla Russia, ma anche in questo caso, il premier pare ottimista: "Ho la speranza e la convinzione che anche la Russia cambierà posizione. Il Kosovo e la Russia non sono nemici. La Russia non riconosce ancora l'indipendenza del Kosovo, a causa di Belgrado, ma se lo farà, questo aiuterà anche la Serbia".
Il problema però consiste in due popolazioni estremamente divise che non vedono di buon occhio i progressi che i propri governi cercano di portare avanti. "I nostri popoli non sono abituati alla pace tra Kosovo e Serbia - ha continuato Thaci - Direi persino che ci avrebbero applaudito, a Pristina come a Belgrado, se l'accordo fosse fallito. Abbiamo firmato questo accordo nella prospettiva europea dei nostri Paesi, anche se ci sono state molte critiche in Serbia e in Kosovo. Maquale sarebbe l'alternativa? Dovremmo continuare con i conflitti, i problemi, le ostilità, le uccisioni, la violenza?".
E, difatti, normalizzati i rapporti con Pristina, Belgrado ha avviato i colloqui per entrare nell'Unione europea. La questione è molto più complicata per il Kosovo che non fa nemmeno parte dell'Onu proprio a causa del veto di Mosca e Pechino.
Inoltre, il Paese, ha una miriade di problemi interni. In primis, la situazione finanziaria. La disoccupazione ha raggiunto la cifra record del 45 per cento. Questo significa che un kosovaro su due è senza lavoro e tra i giovani la cifra sale persino al 70 per cento. Dati drammatici che hanno portato una gran parte della forza lavoro a emigrare, per lo più in Germania e in Svizzera. Benché stia cercando di costruire un sistema economico stabile e basato sul libero mercato, il Paese rimane fortemente dipendente dalla comunità internazionale. La maggior parte della popolazione continua a vivere nelle zone rurali, l'agricoltura è inefficiente a causa della mancanza di competenze tecniche, il sistema industriale è antiquato e utilizza attrezzature obsolete per i bassi investimenti e la fornitura di energia elettrica è limitata e inaffidabile per i continui problemi tecnici e finanziari. Nel luglio 2008, 37 Paesi promisero di fornire al Kosovo 1,9 miliardi per sostenere le sue riforme, ma la crisi finanziaria globale ha ridotto l'afflusso del denaro. La corruzione raggiunge livelli altissimi, tant'è che secondo l'Indice di Percezione della Corruzione pubblicato recentemente da Transparency International, il 75 per cento dei kosovari ritiene i partiti politici del Paese corrotti o molto corrotti.
E poi c'è l'enorme problema della minoranza serba che vive nel nord del Kosovo, al confine con la Serbia, che aumenta il rischio di creare una separazione nella separazione. Difatti, nel nord del Kosovo i serbi rappresentano la maggioranza e minacciano continuamente di separarsi da Pristina per ricongiungersi con Belgrado. Un'ennesima separazione che, se dovesse diventare reale, potrebbe paradossalmente spaccare a metà la città di Kosovska Mitrovica, abitata a nord dai serbi e a sud dagli albanesi. Lo scorso 12 febbraio, nel 22esimo incontro tra kosovari e serbi, svoltosi s Bruxelles sotto la supervisione del capo della diplomazia Ue, Catherine Ashton, è stato raggiunto un accordo, a cui manca però la firma ufficiale. Secondo quanto previsto, dovrebbe nascere un tribunale di Mitrovica che punterebbe a preservare gli interessi serbi, decisione a cui si è fortemente opposta la delegazione kosovara che non voleva dare alcuna connotazione etnica alla Corte. Al momento, il nord del Kosovo è di fatto controllato dalla Serbia, che gestisce la polizia, le dogane, la scuola, la moneta e la giustizia, ma presto alcune strutture, quali la giustizia e la polizia, passeranno sotto il controllo di Pristina.
La situazione però rimane tesa. La patata bollente è del Kosovo, che dovrà cercare in tutti i modi di integrare la minoranza serba. Il problema è che i serbo kosovari non sembrano intenzionati ad integrarsi e non accettano quello che la loro madrepatria, cioè la Serbia, ha negoziato.
Tuttavia, lo scorso anno si sono aperti i colloqui per la ratifica dell'accordo di stabilizzazione e associazione con l'Ue. Se dovessero andare a buon fine, per Pristina significherà ricevere fondi europei, stipulare accordi sulle dogane e rendere più semplice la concessione dei visti per l'espatrio. Un passo in avanti che potrebbe portare Pristina a risolvere molti dei suoi punti critici, ma senza un riconoscimento internazionale, soprattutto da parte di Serbia, Russia e Cina, al Paese rimangono poche speranze.
New York Times covers up fascist atrocity in Odessa
By Barry Grey
5 May 2014
The criminal character of the US-European Union intervention in Ukraine was tragically exposed for all to see Friday when supporters of the US-installed regime in Kiev, led by neo-Nazi Right Sector thugs, set fire to the Trade Unions House in the Black Sea port of Odessa, killing 38 pro-Russian demonstrators who had taken refuge in the building.
The anti-Kiev regime protesters had retreated into the building after the Ukrainian nationalist mob set fire to their nearby tent encampment. Authorities say 30 people died from smoke inhalation and another eight were killed when they jumped from windows and balconies in an attempt to escape the blaze.
According to eyewitness accounts, those who dropped from the building and survived were surrounded and beaten by Right Sector fascists. Videofootage shows bloodied survivors being attacked.
This massacre occurred on the same day that government military forces, including armored personnel vehicles and helicopter gunships, attacked towns in the southeast of the country under the control of pro-Russian opponents of the regime, which was illegally installed last February in a coup led by Right Sector paramilitaries and backed by Washington and the EU.
The Obama administration, along with the governments of Germany, France, Britain and the other European imperialist powers, bears political responsibility for Friday’s atrocity. They have sponsored the Right Sector, as well as the neo-fascist Svoboda party, and seen to it that they were integrated into the new anti-Russian regime in Kiev.
The US media, led by the so-called “newspaper of record,” the New York Times, shares political responsibility, having brazenly promulgated government propaganda and lies since the Ukraine crisis began last November. The Times, in particular, both in nominal “news” stories and in columns by State Department mouthpieces such as Andrew Higgins, C.J. Chivers, Roger Cohen, Nicholas Kristof and Thomas Friedman, has promoted the line that the incipient civil war in Ukraine is the result of Russian aggression, not US-European subversion.
In order to promote this grossly distorted version of events, the Times has gone so far as to publish an article with fabricated “evidence” and doctored photos supposedly proving that the rebellion in southeast Ukraine is the work of Russian military and intelligence forces—a story the newspaper was forced to retract—and dismissed as Russian propaganda warnings about the fascist and anti-Semitic politics of Washington’s ultra-right allies in Kiev. Chivers has also penned on-the-spot reports on the right-wing Maidan protests in Kiev sympathetically painting the ultra-nationalist paramilitaries as honest patriots and obscuring their fascist politics and pedigree.
Thus it is not surprising that the Times responded to the fascist murder of 38 people in Odessa on Friday by burying the story and deliberately obscuring the identity of the perpetrators. The only mention of the torching of the Trade Unions House and murder of 38 people holed up inside occurred in a story on page A7 of the Saturday edition of the newspaper—on the fourth page of the International section.
The reference to the massacre, moreover, was a fleeting mention well down in the article, carefully formulated to avoid attributing blame. The authors, C.J. Chivers (Who else?) and Noah Sneider, wrote: “Violence also erupted Friday in the previously calmer port city of Odessa, on the Black Sea, where dozens of people died in a fire related to clashes that broke out between protesters holding a march for Ukrainian unity and pro-Russian activists.”
The Sunday Times published a front-page on-the-spot report by Chivers and Sneider from Slavyansk on the anti-Kiev government insurgents. Despite being unable to produce any evidence of the presence of Russian spies or troops, the authors wrote that “one persistent mystery has been the identity and affiliations of the militiamen.”
To further bolster the US State Department line they wrote, in relation to a rebel leader named Yuri, whom they described as “an ordinary eastern Ukrainian of this generation,” that his background as a former Soviet special forces commander in Afghanistan “could make him authentically local and a capable Kremlin proxy.”
Mention of the torching of the Trade Unions House and murder of dozens of pro-Russian protesters in Odessa was once again relegated to the back pages. The article falsely stated that “it was not immediately clear who had started the blaze.”
The cover-up by the Times is consistent with the dishonest treatment provided by the rest of the so-called “mainstream” press in the US—only more crude than most. The Washington Post had a front-page article that featured the deaths in Odessa and acknowledged that the fire was set by supporters of the Kiev regime, but omitted any mention of the Right Sector.
The Wall Street Journal in a news report attributed the fire to “a clash between pro-government and anti-government mobs.” In an editorial published Saturday, the Journal actually implied that Russia was responsible for the mass murder. The editorial stated: “Pro-Ukraine demonstrations in the southeast are large, and the Russians have tried to beat them into silence. Some three dozen people died on Friday during clashes in Odessa.”
In downplaying the mass killing in Odessa and concealing the identity, politics and US connections of the perpetrators, the American media is not simply covering up for the fascists and the regime in Kiev, it is concealing the criminal responsibility of the Obama administration and American imperialism.
Even as Ukrainian military forces were attacking protesters in the east and fascist mobs allied to the government were burning and killing in Odessa, President Barack Obama was giving his unconditional support to the actions of the regime at a joint White House press conference with German Chancellor Angela Merkel. “The Ukrainian government has the right and responsibility to uphold law and order within its territory,” he declared, and went on to praise Kiev for its “remarkable restraint.”
At a meeting Friday of the United Nations Security Council, US Ambassador Samantha Power put the entire blame for the violence on Moscow and called the military crackdown in the east “proportionate and reasonable.”
Nothing of any significance that the US puppet regime in Kiev does is independent of its masters in Washington. That the US is calling the shots in the mass repression of anti-government forces in eastern Ukraine was highlighted by the separate visits to Kiev of Central Intelligence Agency Director John Brennan and Vice President Joseph Biden, after each of which the regime launched new attacks on the rebels in the east.
The United States has worked closely with the neo-fascist Svoboda party as well as the Right Sector, and signed off on their incorporation into the government it installed in Kiev after the February 22 putsch that overthrew the elected, pro-Russian president, Viktor Yanukovych. Initially, the head of Right Sector, Dmytro Yarosh, was offered the post of deputy head of internal security, but he turned it down in order to operate more freely while providing the regime with a pretense of separation from the fascist militia.
Nevertheless, the Kiev government set up a new National Guard, recruited largely from the Right Sector and other ultra-nationalists and fascists, and has thrown it, as well as the Right Sector directly, against pro-Russian oppositionists in the east to supplement the operations of the Ukrainian military.
In an interview last month with the German publication Spiegel Online, Yarosh boasted of state support for his forces, saying, “Our battalions are part of the new territorial defense. We have close contact with the intelligence services and the general staff.”
The handprints of Washington are all over the fascist massacre in Odessa, and the New York Times, along with the rest of the “mainstream” media, is exposed as an accomplice. The cover-up of this crime by the Times is a guarantee that it will whitewash even greater crimes of US imperialism in the days and weeks to come.
The German media and the massacre in Odessa
By Peter Schwarz
6 May 2014
A politically conformist media has long been considered a characteristic of dictatorships. Not any more. One can also speak of such a conformist press in the coverage of Ukraine in the German media.
Last Friday, over 40 opponents of the Kiev regime fell victim to a fascist massacre. Although German television stations and newspapers have many correspondents on the ground, you will not find a serious report concerning the background to this terrible crime. Instead, the events are falsified, downplayed or simply ignored.
From the outset it was clear that the victims who lost their lives, burning to death in the Odessa trade union hall, suffocating or jumping out the window, were opponents of the government in Kiev. Despite this, the media has deliberately left the origins of the victims and the culprits in the dark.
On the day of the events, Spiegel Online reported untruthfully that dozens of people had “died in clashes between Ukrainian nationalists and pro-Russian activists.”
Two days following the massacre, the Frankfurter Rundschau reported: “Violence escalated in the port city on Friday between hundreds of supporters of the government in Kiev and Moscow. In street battles, both sides threw Molotov cocktails, a trade union building was set alight. Four people died in the fighting, a further 38 lost their lives in the probably deliberate fire.”
To date, there has still been no word on the website of the Rundschau about who started the fire in the union hall and who was killed as a result. And this is despite the fact that the date of the fire alone—May 2—should surely have brought to mind dire memories in the editorial offices. On May 2, 1933, the Nazis stormed trade union buildings in Germany and murdered or arrested numerous union leaders.
The events in Odessa do not conform to the flood of propaganda pumped out daily by the Rundschau and other media. According to their narrative, the regime in Kiev stands for “western values” and “democracy”, while the opposition is being directed by Russian agents and Putin personally.
That is a lie, as even the Ukrainian interim president Alexander Turchynov had to angrily admit. He agreed that his government is meeting with widespread rejection in the east of the country.
“Let’s be honest”, Turchynov told the Kiev broadcaster TV5, “the citizens in this region support the separatists, they support the terrorists, which has considerably impeded the anti-terror operation”. He said the fact that the police also sympathised with the pro-Russian forces was a “colossal problem”.
Because it is rejected by broad layers of the population, and even by sections of the security apparatus, the putschist regime in Kiev rests on murderous fascist gangs in order to defend its power. Far-right militias such as the “Right Sector”, the so-called “self-defence” of the Maidan, and members of Svoboda brought the regime to power on February 22. The same forces are now responsible for the murder of dozens of their opponents in Odessa.
According to reports of local activists, members of these militias travelled to Odessa last Friday under the cover of a soccer game between Odessa and Kharkov. They mingled with the football fans and marched through the city undisturbed by the police. It was here that the first bloody clashes occurred between about 1,000 armed fascists and 250 opponents who stood in their way.
The fascists carried on to the union building and set fire to a tent camp that had been built earlier by opponents of the regime. The occupants fled into the union building, which the right-wing militias also set on fire. The grisly scenes of the burning union house, surrounded by jeering nationalists, in which regime opponents burned alive, died from smoke inhalation or jumped out of the window in panic have been captured on film. As have scenes showing the seriously injured being mistreated by the fascists.
The German media are deliberately hiding these facts from the public.
Like the Rundschau, the pro-Green Party taz has not said a word about the identity of the victims and culprits. Three days following the massacre, the online edition of taz reported: “At least 46 people were killed in a serious fire in the town’s trade union house and in street battles on Friday, with more than 200 injured.” The day after the fire, they said the fire was the result of “criminal arson”, citing the transitional government in Kiev.
On Monday, when the circumstances and background of the massacre were long known, the Süddeutsche Zeitung asked, referring to the “chaotic situation” in the country: “Who can know who is concretely responsible for the rampage?”
The conservative Die Welt reported that at least 42 died “in clashes between pro-Russian activists and government supporters in Odessa”. Instead of naming victims and culprits, they cite the nationalist politician Julia Tymoshenko, who accused Moscow of trying to drive a wedge between the population and of being responsible for the deaths.
Germany’s public television broadcasters, subsidised with a monthly contribution of 18 euros from every household, and which are legally bound to report objectively, match the propaganda of the print media in every respect.
On Monday, the morning show on ARD provided extensive airtime to Ukrainian Prime Minister Arseny Yatseniuk, who claimed the dead in Odessa were “provocateurs who acted on behalf of the Kremlin”. “This was a well-prepared commando action”, he declared. “It’s all part of the Russian plan to get its hands on Ukraine and destroy it. Well-trained agents initiated the conflict and then quickly disappeared.”
Although ARD correspondent Golineh Atai reported daily from Donetsk, nothing regarding the true background to the political events was explained. And when the news anchors Thomas Roth and Caren Miosga ranted against Russian president Putin, they brought to mind the infamous Cold War propagandists of the 1960s, Gerhard Löwenthal on West German television channel ZDF, and Karl-Eduard von Schnitzler on East German television.
In response to the angry protests of their viewers, the news programme switched its editorials to their website, “as a result of overload”, they said.
The political conformity of the media is part of a fundamental change of course in German foreign policy. Faced with growing social tensions and a continuing crisis of the European economy, the German government has abandoned its previous military reticence and is again following an aggressive militarist policy. Together with the US administration, they have organised the putsch in Kiev and are now provoking a dangerous confrontation with Russia.
The media support this course. They have ditched all moral scruples and are helping through their lies to prepare future wars.
Da: "Solidarnost" <solidarnost @ yunord.net>Oggetto: JugoslovenstvoData: 30 aprile 2014 17:44:27 GMT+01:00A: "C.N.J." <jugocoord @ tiscali.it>Jugoslovenstvo = Raditi i živeti zajedno = Razvoj Srbije, … i YU!U proteklih skoro 100 godina mnoge velike sile su radile na podeli, svojatanju jugoslovenskih prostora, pozivajući se na razloge geopolitičke strategije, ali se u suštini uvek radilo o ekonomskim i kolonijalnim interesima. Početkom XXI veka kada je u Subotici pokrenut proces formiranja Pokreta Mini Jugoslavije, više hiljada građana iz domovine i sveta u jedan glas je poručilo: "Ne damo gumicom izbrisati ime 'Jugoslavija' – Jugoslovena je bilo i biće ih!" Tako je i bilo i danas taj pokret ima svoje baze u Subotici, Bačkom Gračacu, Novom Sadu, Beogradu, Smederevu, Lajkovcu, pa sve do Niša.Kada se radi o ideji opredeljenja za Jugoslovenstvo, za život zajedno na ovim prostorima, u proteklih 25 godina izgubljena je samo jedna bitka, iz koje moramo izvući pouke. Kontrarevolucija sa ciljem profitiranja samo nacionalističkih elita odnela je prevagu. Na ovim našim, južnoslovenskim prostorima krize su uvek bile proizvedene izazivanjem pucanja na nacionalnim šavovima, po matrici nacional-šovinizma: "Podeli (zavadi), pa vladaj". Ne smemo to više dozvoliti, tolerisati, jer je očigledno ko su žrtve, ko snosi posledice takvog stanja. Dok su se elite obogatile, velika većina građana iz svih nacionalnih zajednica je osiromašila, životari u besperspektivnosti, nezaposlenosti, egzistencijalnoj i duhovnoj bedi. U svim članicama bivše južnoslovenske federacije manje ili više jačaju neofašističke opcije, ultradesničari koji promovišu teze nacional-šovinizma i deluju sa tih pozicija. Slaba ekonomija, nikakva privreda, sa oko 28 % nezaposlenih, pogodno je tlo za restart nekih novih "Majn Kamf"-ova i njihovih primitivnih liderčića. Dok god od šest članica jugoslovenske federacije samo njih dve u EU, a ostale četiri na putu da to postanu, svi mi živimo jedni pored drugih, u samoizolaciji ili u dirigovanoj izolaciji, uz "mudru" parolu svake vlasti: "mi sada moramo gledati svoj interes".Svi mi u samoupravnoj i socijalističkoj Jugoslaviji imali smo priliku da budemo ravnopravni sa svim drugim narodima i narodnostima, da učestvujemo u njenoj izgradnji i razvoju, da zajedno sa svima drugima razvijamo svoje sposobnosti, besplatno se školujemo i lečimo, imali smo priliku da živimo u zemlji u kojoj čovek stajao ispred profita, u društvu u kome je drugarstvo i solidarnost bilo važnije od krutih i nacionalističkih stega. Jugosloveni nepokolebljivo veruju u kreativnost i pozitivnu dinamiku jugoslovenskih prostora i nisu opterećeni pečatima istorijskog nasleđa i neznatnih razlika među ljudima, nego daju prednost elementima koji povezuju evropske kulturne tradicije, a kao rezultat takvih nastojanja i pogleda pojavljuje se specifičnost zajedničkog identiteta koji je apsolutno nezavistan od nekih starih ili novih granica, te time po ko zna koji put na delu dokazuje da granice ne postoje na kartama, već isključivo u glavama ljudi. Ljudske, prijateljske i drugarske društvene veze i saradnju mnogi građani nisu prekidali ni nakon tragičnog egzodusa Jugoslavije. To se održava i razvija u mnogim elementima savremenih komunikacionih tehnologija, a najneposrednije se izražavaju prilikom ličnih susreta. Rad i život zajedno, tamo gde korzo ili šetalište nisu podeljeni po nacionalnoj osnovi sklapaju se mešoviti brakovi koji su cement i čvrst temelj života zajedno. U Subotici je, na primer, svaki drugi brak bio mešovit. Postoje i rade mnoga udruženja i društvene organizacije i klubovi Jugoslovena, mediji koji sarađuju i imaju zajedničke akcije. Mi Komunisti Srbije smo ponosni na to što smo inicirali i dve godine predsedavali radom Koordinacionog odbora komunističkih i radničkih partija sa jugoslovenskih prostora koji sada funkcioniše u Zagrebu pod koordinacijom Socijalističke radničke partije Hrvatske.Ove 2014. godine naša ekonomija je blizu bankrota, privreda u većini članica jugoslovenske federacije je skoro do kraja uništena korupcionaškom i pljačkaškom privatizacijom. U Srbiji nismo dostigli ni 60 % BDP iz 1989. godine. Dok su organi jugoslovenske federativne republike ostvarivali ustavom zagarantovane nadležnosti, vodilo se računa o strateškom razvoju privrede, o komplementarnosti i dohodovnoj povezanosti udruženog rada iz svih republika, kao i solidarnom i bržem razvoju nerazvijenih. Tragično je da se ta međusobna upućenost naših preduzeća zbog zatvorenosti, političkih i ideoloških razlika, interesa velikih sila, ne koristi u punoj meri. Takva društveno-ekonomska aktivnost značajno bi osnažila i unapredila privrednu aktivnost naših republika. Pošto novac ne poznaje granice, neki veliki tajkuni imaju velike investicije u našim članicama, ali ne sa punim racionalnim ciljem, nego se radi o kupovini zemljišta ili o trgovini, često sa namerom izvlačenja profita iz Srbije. Tu ima puno debalansa, disproporcije i politički dirigovanog neoliberalnog mešetarenja.Uprkos razlikama u veri, etnosu, jeziku, stalno se izgrađuje i jača duh zajedništva u prosveti, sportu i kulturi. To dokazuju i u praksi ostvaruju mnogi kulturni poslenici i značajni stvaraoci umetnosti sa svih prostora. Srbija u celini je mnogo zanemarila i zapustila kulturno-umetničko stvaralaštvo pod izgovorom da nema para, dok se novac poreskih obveznika troši na beznačajne, mizerne, prečesto partijske i lično-grupne interese a ne subvencioniše se kulturna saradnja. Sport i kultura uvek su bili lokomotive zbližavanja ljudi i jačanja jugoslovenskog zajedništva, sa kojima smo "bili na vrhu sveta" jer smo "pucali u nebo". Koprodukcije u filmskom i pozorišnom stvaralaštvu, pesnici i književnici, slikari, muzičari, iznova utiru put i pioniri su na putu jačanja duha jugoslovenskog zajedništva.Sa formiranjem nacionalnog saveta Jugoslovena već se puno kasni. Na formiranje tog nacionalnog saveta imamo pravo prema Ustavu i Zakonu o nacionalnim savetima. Mi smatramo da bi formiranje nacionalnog saveta Jugoslovena bio snažan odgovor prema nacionalizmima, koji još dominiraju, stvaraju tenzije i usporavaju izlazak Srbije iz krize. Jugosloveni žele da grade progresivnu, demokratsku Srbiju za sve ljude koji u njoj žive, da zajedno pomognemo Srbiji da ide napred, jer svi mi smo većinom za mir, ravnopravnost, toleranciju i život zajedno (a ne jedni pored drugih) u Srbiji. Hladne statističke brojke pokazuju da je broj Jugoslovena sa 80.721 iz popisa 2002. godine pao na 22.300 prema popisu u 2011. godini. Taj pad nije svugde isti: na primer u Subotici je broj Jugoslovena je sa 8.562 pao na 3.100. Zbog svega napred rečenog, prilikom popisa u 2011. godini kao Jugosloveni su se izjasnili samo oni najhrabriji, jer klima nije išla na ruku Jugoslovenima. Isto tako mora se imati u vidu i "eksplozija" odnosno višestruko povećanje broja izjašnjenih pod "ostali" ili se nisu izjasnili. U Srbiji postoje nacionalni saveti nacionalnih zajednica sa manjim brojem pripadnika nego što ima Jugoslovena (na primer Rusini, Bunjevci i drugi). Nacionalni saveti su nadležni za obrazovanje, kulturu, informisanje i primenu jezika i pisma nacionalnih zajednica. Zakon koji sve ovo reguliše mora se delom izmeniti, jer na primer u obrazovanju i vaspitanju izoluje decu međusobno različite nacionalnosti u istoj školi, potpuno ih razdvaja, umesto da ih kroz različite nastavne i vannastavne aktivnosti spaja. Ako u toku dana deca žive i rade zajedno, zašto bi tokom 6 sati provedenih u školi bili nacionalno razdvojeni. Za formiranje nacionalnog saveta Jugoslovena u opštinama gde oni žive valja oformiti inicijativne odbore koji bi na formularu odobrenom od strane ministarstva skupili ukupno 1115 sudski overenih potpisa u Srbiji (5 %).Jugosloveni ne žele Srbiju u kojoj bi nacionalne zajednice "pokorno slušale" i živele u torovima stvorenim od strane njihovih elita. Mi priznajemo i prihvatamo čoveka bez obzira na njegovu nacionalnu i versku pripadnost, boju kože, polno ili bilo koje drugo opredeljenje i borimo se za ravnopravnost, jednakost i prosperitet svih koji žive na jugoslovenskim prostorima. Istovremeno ne tražimo ništa više, ali ni ništa manje, nego tolerantan odnos i akceptiranje prava na pripadnost nacionalnosti Jugosloven. Jugosloveni ne žele da budu oružje u rukama drugih koji se bogate na način nama stran i nedozvoljen, ne želimo da nas se svojata i postavlja čas na ovu , čas na onu stranu, kako to kome u određenom trenutku odgovara.Mi smo bili, ostali i želimo sutra da budemo Jugosloveni.Olajoš Nađ Mikloš,član rukovodstva Komunista Srbije iz Subotice
Sulla foto pubblicata oggi da La Repubblica, alle spalle dell'ultras fascista Daniele De Santis campeggia un enorme ritratto drammaticamente somigliante a Stepan Bandera, leader collaborazionista dei nazifascisti tedeschi e italiani che invasero l'URSS nel 1940:
Secondo le prime ricostruzioni, lo sparatore non era solo, visto che mentre lui, scappando dopo gli spari, è caduto ed è rimasto immobilizzato per essersi fratturato la tibia, almeno altre tre persone viste dai napoletani, provvedevano a nascondere la sua pistola nell’attiguo vivaio e poi ad allontanarsi velocemente dall’altra uscita del luogo occupato ossia il Trifoglio.
Il Trifoglio era il simbolo della Lista de “Il Popolo della vita” che nel 2008 appoggiò la candidatura di Alemanno a sindaco di Roma e nel 2010 quella della Polverini alla Regione Lazio con i seguenti risultati: Nel 2008, alle elezioni comunali di Roma, la lista Popolo della Vita - Trifoglio ha ottenuto oltre 10.500 voti, contribuendo alla vittoria di Alemanno. Nel 2010, alle elezioni regionali del Lazio, ha ottenuto 12.500 voti (a Viterbo non era presente la lista) ma a causa della bassa percentuale di votanti (60% circa), contribuì alla vittoria della Polverini. Tra i candidati in lista nel 2008 c’era anche Daniele De Santis “Gastone”. Nel 2005 era invece presente la lista “Il Trifoglio per Storace” nelle elezioni regionali (perse da Storace). Tra il Trifoglio e Forza Nuova c’è stato un forte feeling fino al 2008, poi – secondo un dirigente del Trifoglio – si sono litigati e FN li accusa di essere dei “traditori”
REPLICA GIOVENTU' EUROPEA E TRIFOGLIO A RIVERA E CARAPELLA (ADNKronos 6/7/2003)
La presenza di fascisti italiani in Ucraina è accertata, ma da quanto si deduce dai forum e dai siti neofascisti lo è anche in Russia; è in corso su questo un asprissimo dibattito tra le varie “anime nere”. Un dibattito che il “teorico” Adinolfi liquida così: “per tutti coloro che su Pravy Sektor e sui nazionalisti ucraìni sono perplessi o tendenzialmente ostili, esistono due possibilità nel muovere la loro critica: comportarsi o come i pussisti o come Evola. Nulla di più facile: seguite la vostra natura, perché non è solo questione di cultura ma soprattutto di razza dello spirito. E quella è quella che è: non si riesce a simularla né a dissimularla, emerge nella sue essenza”. Adinolfi contrappone gli atteggiamenti dei fascisti che erano stati interventisti nella prima guerra mondiale contro Austria e Germania (quindi Mussolini, Corridoni, D'Annunzio, Marinetti) con quello di Evola che invece sosteneva che bisognava schierarsi con gli Imperi Centrali. Tra i due Adinolfi mostra di preferire il secondo.
Ma la vicenda della presenza dei fascisti nel conflitto in Ucraina ci rimanda a vicende analoghe già segnalate in occasione dell'arruolamento di fascisti italiani tra i miliziani croati, durante la guerra civile che ha insanguinato la Jugoslavia negli anni Novanta. Una esperienza bellica che è stata decisiva per la costituzione di una rete di “uomini neri” addestrati militarmente. Il vero crocevia di questa rete sembra essere stata infatti la Croazia e la comune esperienza accumulata nella guerra civile secessionista. In quel conflitto, fascisti italiani, slavi, francesi, tedeschi etc si ritrovarono insieme nelle milizie paramilitari fasciste del Partito del Diritto Croato (HOS).
La Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle stragi, a cavallo tra il 2000 e il 2001, chiese al Ministero degli Interni e al ROS dei Carabinieri l’acquisizione dei “Dossier balcanici” contenenti una ventina di nomi di neofascisti che avevano combattuto in Croazia e Bosnia durante la guerra civile che dilaniò la Jugoslavia negli anni ’90. (1)
In quelle settimane si stava indagando sull’attentato dinamitardo contro Il Manifesto che portò al ferimento e all’arresto dell’attentatore – il noto neofascista Andrea Insabato. Quest’ultimo, nel 1991 aveva promosso l’arruolamento in Italia di mercenari disposti ad andare a combattere per “la sorella Croazia che ora ha un nemico più grande. Si deve difendere dai serbi e dai comunisti”. Per la polizia c’erano almeno una trentina di neofascisti esperti di esplosivi e una ventina di loro aveva combattuto in Jugoslavia. (2)
Il sito antifascista francese “Reflex” riferisce che neofascisti francesi, italiani e tedeschi, furono integrati in Croazia e Bosnia nella “Legione Nera”, derivazione balcanica messa in piedi dall’organizzazione fascista francese Nuova Resistenza nell’estate del 1991, ossia nello stesso periodo dell’arruolamento avviato da Andrea Insabato e dal suo gruppo “Rinascita Nazionale”. Ma se il progetto di Insabato si arenò – il suo progetto era una sorta di linkage con la destra croata che prevedeva l’aiuto militare italiano in cambio delle zone croate rivendicate dall’Italia – i fascisti italiani rimasero lo stesso a combattere nelle milizie paramilitari in Croazia e Bosnia contro serbi e musulmani (3).
In quel contesto si ritrovarono insieme un vasto raggruppamento di “uomini neri” non solo dell’Europa occidentale ma anche ungheresi, rumeni, ultracattolici irlandesi, personaggi del tutto simili a quelli che abbiamo trovati coinvolti nelle vicende più recenti.
Un ruolo centrale nel finanziamento dei gruppi fascisti nei Balcani, chiama in causa quella che possiamo definire la “Holding nera” cioè il complesso impero finanziario messo in piedi in Gran Bretagna dai fuoriusciti neofascisti che gravitavano intorno a Terza Posizione e che oggi animano la più forte tra le organizzazioni neofasciste italiane: Forza Nuova.
Le più note società che fanno capo ai neofascisti italiani in Gran Bretagna sono le agenzie turistiche Easy London e i circa 1.300 negozi della catena Meeting Point. “Altre importantissime fonti di finanziamento del movimento sono due organizzazioni ultra cattoliche, che fin dagli inizi della latitanza hanno offerto a Fiore e Morsello protezione, ma soprattutto danaro, sono la St.George Educational Trust e la St.Michael Arcangel Trust, vale a dire enti per la promozione degli insegnamenti della chiesa cattolica. Della prima – afferma l’autore del libro “Trame Nere” Giuseppe Scaliati – secondo il quale “Fiore è amministratore ed è direttamente collegata alla St.George League, un piccolo e ricchissimo gruppo nazista in contatto con personaggi e fondi delle ex SS; la seconda, al pari della prima in quanto a ricchezza, prende il nome dall’Arcangelo Michele, santo patrono dei miliziani della Guardia di ferro del leader fascista rumeno Corneliu Codreanu”. E’ inquietante il nome scelto. Come noto Forza Nuova è stata fondata il 29 settembre del 1997 , il giorno di San Michele. Dietro un rassicurante e molto cristiano nome come quello dell’Arcangelo Michele agiva proprio la Legione dell’Arcangelo Michele nella Romania fascista degli anni trenta e quaranta.
Ma non è tutto, un‘altra inchiesta giornalistica porta alla luce l’esistenza del “Gruppo dei Quaranta”. Il gruppo che utilizza anche i fondi della “Third Position International” e che doveva acquisire un intero paese in Spagna per farne una sorta di zona liberata nera. “Le tracce del gruppo” scrive Guido Olimpio, l’esperto di intelligence del Corriere della Sera “sono state individuate nella ex Jugoslavia, in Italia e ovviamente in Gran Bretagna. Usando come copertura ditte e società, i neonazisti hanno arruolato lo scorso anno volontari da inquadrare nelle unità paramilitari della milizia croata HOS. Aiuti alla fazione sono stati inviati da Third Position International che ha patrocinato raccolte di denaro “in favore dei bambini croati”. Ed ancora “E’ probabile che attraverso il centro di reclutamento i neofascisti siano riusciti a raccogliere miliziani dell’ultradestra europea disposti a dar manforte ai camerati croati”. Sempre secondo Olimpio, il terminale italiano del “Gruppo dei Quaranta” è una rete che raccoglie i resti di varie formazioni (neofasciste, NdR) come i NAR, Ordine Nuovo e Terza Posizione (5).
C'è ancora tanta brutta gente in giro, anche in Ucraina. Antifascisti sempre!!
Fonti:
(1) Gianni Cipriani, Il Nuovo 23 dicembre 2000/ Indymedia Lombardia
(2) Atti della Commissione Parlamentare di inchiesta sulle Stragi, seduta di martedi 9 gennaio 2001
(3) Sia il sito antifascista “Searchlight” sia The Guardian pubblicarono ampi servizi su questo
(4) Giuseppe Scaliati, “Trame Nere”, edizioni Frilli 2005
(5) Guido Olimpio, in Corriere della Sera del 24 novembre 1997
TRAGICO ERRORE IN CAMPAGNA ELETTORALE!
La Lega Nazionale può dormire quindi sogni tranquilli. Avanti così, coraggio, che siamo a quattro passi dal fascismo. (da C. Cernigoi via Facebook)
L’Osce conferma l’arresto di “una missione militare internazionale”, ma nega legami con le proprie attività.
L’episodio è stato confermato dall’autoproclamato sindaco di Slaviansk, Vyacheslav Ponomarev.
“Abbiamo fermato un gruppo di agenti segreti di paesi appartenenti alla Nato: Danimarca, Germania, Polonia e Repubblica Ceca. Abbiamo rinvenuto cartografie con segnati i posti di blocco. Si tratta di una evidente prova delle attività di spionaggio compiute al riparo dell’Osce”.
La missione Osce non prevede la presenza di militari stranieri liberi di circolare sul nostro territorio, ha poi aggiunto Ponomarev.
Inquietudine per la vicenda è stata espressa dal ministro degli Esteri tedesco, Steinmeier, che ha chiesto l’immediata liberazione dei militari fermati.
http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/58742
What is the German army doing in Slavyansk?
By Peter Schwarz
1 May 2014
Eight military inspectors have been detained by pro-Russian activists in the eastern Ukrainian city of Slavyansk since April 25. The group of inspectors consists of three German army (Bundeswehr) officers, a German interpreter, plus one Czech, one Polish, one Danish and one Swedish military inspector. The Swede has since been released for health reasons.
The German media has consistently described the detainees as OSCE (Organisation for Security and Cooperation in Europe) observers. This is incorrect. The only connection between the OSCE and the detainees is that the presence of the latter in Ukraine is justified by the so-called Vienna Document agreed on by the 57 member states of the OSCE in 1992, and which has since been renewed on a number of occasions.
But the activities of the group in Ukraine have not been approved by the OSCE, nor are they under OSCE control. Instead, the military inspectors were instructed to intervene in Ukraine by the regime in Kiev and are under the direct control of their respective national defence ministries.
This has been confirmed by the deputy director of the OSCE crisis prevention centre, Claus Neukirch. He has stated that the group is involved in a bilateral mission, headed by the army and at the invitation of the Ukrainian government. Such inspections can be agreed on between individual OSCE member states.
In particular, the detained military observers have nothing to do with the OSCE observer mission agreed on March 21 by OSCE member states, including Russia. This mission consists of 500 civilian observers, commissioned to follow the situation in Ukraine for the next six months and report directly to the OSCE. So far, however, only around 100 members of this group are on the ground.
Two aims lie behind the confusion over the mission of the Slavyansk detainees that has been deliberately entertained by the German press. Firstly, their detention is being used to step up war-mongering against Russia. By claiming that pro-Russian forces were holding an internationally agreed observer mission, it is claimed that Moscow had violated international agreements and treaties.
In addition, there are indications that the Vienna Document of the OSCE was deliberately misused in this case by the administrations in Kiev and Berlin, thereby giving some justification to accusations of anti-government protesters in Slavyansk that the group were operating as spies.
The Vienna Document is regarded as a confidence-building measure. It is designed to give members of the OSCE, in particular neighbouring states, the opportunity to observe the armed forces of other countries and so reduce the risk of military confrontation. The document does not permit the observation of enemy forces in an internal conflict, and certainly not if the country requesting the mission is actively involved in the conflict—as is the case in Ukraine.
In an interview with Bavarian Radio on April 23, the head of the detained group, Colonel Axel Schneider, stressed that his group wanted merely to “get an idea” of the state of the “regular, forces state armed forces” in Ukraine—i.e., its official army. He excluded any observation of anti-government insurgents: “We focus on the security forces of Ukraine.”
On the basis of this argument, however, it is not possible to explain why his group then drove to Slavyansk, which was in the hands of insurgents and was being besieged by the Ukrainian army. The most likely is that the group was commissioned to acquire information about the insurgents being targeted by the Western-backed regime in Kiev.
Even if Schneider were to be telling the truth, this would suggest that his group’s role is to monitor the crackdown being mounted by the Ukrainian army, many units of which have refused to fire on the pro-Russian activists in eastern Ukraine. In either case, what is being exposed is the role of German and European forces in the Kiev regime’s crackdown. Colonel Schneider, who is attached to the Verification Centre of the Armed Forces and is officially subordinate to the Defence Ministry, declared in the interview that he coordinated his work “very closely with the Foreign Office”, headed by Franz-Walter Steinmeier, who played a key role in the coup in Ukraine and has fully supported the Kiev regime.
Many of the details of the events in Slavyansk remain unclear, but one thing is certain: the Bundeswehr is far more active in Ukraine than is publicly admitted.
Славјанск нападају Хрвати под америчком командом - Владимир Прохватилов
03.05.2014. -
Нападе на пунктове у Славјанску кијевске хунте (термин који је уведен јуче у званичном језику руске администрације) је иницирао и потпредседник САД Џо Бајден «Имате прилику. Урадите то" - рекао је он када се је поздрављао са Турчиновим на аеродрому.
Иста ствар се десила после посете Кијеву директора ЦИА Џона Бренана.
Војска Украјине и полиција за разбијање демонстрација учествују у нападу. Они блокирају прилазе око Словјанска, покушавајући да направе обруч око њега. Пут до Доњецка још увек слободан.
У зони борбених дејстава је забележен интензиван разговор у радио вези на енглеском језику. Такође знатан је број њих са јаким акцентом, вероватно Хрвата .
Плаћеници се боре на страни кијевских власти, што су видели и независни посматрачи, а као што показују и истраживања на југоистоку, саопштио је Владимир Прохватилов (председник Фонда реалне политики (Realpolitik), експерт Академије војних наука).
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La Nato c’è
Crisi Ucraina. A favore dei tank di Majdan si sono posti anche Obama e l’Unione europea
L’offensiva sanguinosa dell’esercito di Kiev non si ferma. Corre sul bordo sottile non solo della guerra civile, perché la portata dell’azione militare rischia l’intervento militare russo. Siamo sul baratro d’una guerra europea. Vanno in fretta i carri armati del governo di Majdan.
Devono sventare il referendum convocato per l’11 maggio nelle città della regione orientale del Donbass sull’indipendenza dall’Ucraina, per riaffermare l’autorità di Kiev con la forza dei tank e confermare a ogni costo, contro i «terroristi», la data delle elezioni centrali ucraine del 25 maggio. Fatto singolare, la seconda data richiama quella delle elezioni europee nelle quali, ahimé, l’argomento della pace non ha il benché minimo ascolto. Così la repressione non s’arresta. È più organizzata e perfino peggiore di quella del corrotto Yanukovitch contro i rivoltosi di Majdan, ma è sostenuta da tutto l’Occidente e continua ad essere praticata con il concorso dell’estrema destra che, a Odessa, ha assaltato il presidio dei filorussi, bruciando poi l’edificio dei Sindacati dov’erano riparati in fuga e dove hanno trovato la morte almeno 40 persone.
Un massacro che non ferma la repressione. Anche se a praticarla sono gli stessi che si sono legittimati per quattro mesi denunciando, in un coro greco di media, la repressione di piazza Majdan.
È voluta dal nuovo potere autoproclamato a Kiev, dove è operativo, ha comunicato Obama, John Brennan il capo della Cia esperto in «guerre coperte» (e sotto inchiesta negli Usa per avere ostacolato il lavoro della Commissione del Senato sulle torture). Ma quando mai i carri armati possono convincere una parte consistente del popolo ad andare a votare per obiettivi che considera ostili? E del resto chi, con la politica, li ha convinti del contrario?
Eppure sembra troppo tardi. Nonostante i rivoltosi filorussi abbiano liberato gli osservatori dell’Osce sequestrati. Fatto che sottolinea due elementi: che la pressione di Putin sui filorussi ha potuto di più dell’offensiva militare ucraina, perché la Russia altrimenti rischia di essere, nolente, coinvolta direttamente più che in Crimea; e che l’Osce ha storiche ambiguità. Basta ricordare la missione Osce in Kosovo, decisa nell’ottobre 1998 dall’Onu per monitorare il conflitto tra la repressione di Milosevic e le milizie dell’Uck: il capo della missione, l’americano William Walker, inventò di sana pianta la strage di Racak attribuendola a Belgrado e dando così il via ai bombardamenti «umanitari» della Nato.
Ora in Ucraina il dado purtroppo sembra tratto. Se appena al di là c’è la Russia messa nell’angolo dei suoi confini, a Kiev in campo c’è tutto l’Occidente reale: vale a dire gli Stati uniti e la Nato; l’Unione europea subalterna parla solo con la voce ambigua — per interessi, geostrategia e storia — della Germania. Qui, nell’est ucraino naturalmente, i «terroristi» non vanno sostenuti e armati dall’Occidente com’è accaduto nel 1999 in Kosovo, e poi in Libia e oggi in Siria. Qui invece vanno sanguinosamente schiacciati. Le immagini parlano chiaro: ad Andrijvka, un paese sulla strada delle truppe ucraine, i contadini sono scesi in piazza per fermare con le mani alzate i carri armati di Kiev, che non si sono arrestati schiacciandoli, nonostante in molti avessero cominciato a parlare con i soldati salendo sui carri armati. Scene proposte da Euronews che, a memoria contrapposta, ci hanno ricordato Praga invasa dai carri armati del Patto di Varsavia nel ’68.
Il fatto è che su quei tank stavolta è salito Obama e gli Stati europei a controllo Nato. Infatti più avanzavano le truppe di Kiev, più è arrivata forte da Washington la sola minaccia che «la Russia deve fermarsi». Insomma, il massacro non si deve fermare e guai al soccorso militare russo. Quel che c’è sotto lo comincia a scrivere qualche commentatore filo-atlantico: l’obiettivo è minacciare la Russia – che, riannessa la Crimea, fino a prova contraria difende la sua sicurezza e vuole una Ucraina neutrale — di fare di Putin un altro Milosevic.
Di sicuro è attivato il meccanismo per una Euromajdan anche nella capitale russa, eterodiretta da John Brennan che ci sta lavorando. Dunque Barack Obama conclude il suo mandato affidandosi all’ideologia del «militarismo umanitario» — tanto cara alla «candidata» Hillary Clinton che pure ancora tace sul disastro americano in Libia (a Bengasi) -, schierando i risultati della strategia dell’allargamento della Nato a est.
Ma la Nato non è la soluzione, è il problema. Glielo ricordano gli ex segretari di Stato Kissinger e Brzezinski e perfino il suo ex capo del Pentagono e della Cia Robert Gates che ha scritto «L’allargamento così rapido della Nato a est è un errore e serve solo ad umiliare la Russia», fino a provocare una guerra. Senza l’ingresso di tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia nell’Alleanza atlantica — con basi militari, intelligence, bilanci militari, truppe, missioni di guerre alleate, sistemi d’arma, ogive nucleari schierate, scudi spaziali — non ci troveremmo infatti sull’orlo di una nuova guerra europea che fa impallidire i Balcani e la Georgia di soli sei anni fa.
Non ci sarebbe stata la tracotanza di una leadership di oligarchi insoddisfatti che ha destabilizzato l’Ucraina con un colpo di mano e la violenza della piazza «buona» perché sedicente filoeuropea, e che ora cavalca la repressione sanguinosa della piazza «cattiva». Esisterebbe una politica estera dell’Unione europea, che invece è surrogata dall’Alleanza atlantica. «Vedete — ammonisce l’attuale capo del Pentagono Chuck Hagel — ce n’è anche per gli europei: imparino a non ridimensionare la spesa militare (v. gli F35)». Proprio come ha fatto il presidente della repubblica Giorgio Napolitano che, in dispregio dell’articolo 11 della Costituzione, ha tuonato recentemente addirittura contro «l’anacronistico antimilitarismo».
Ma visti i tempi che corrono, con l’emergere sincronico della guerra che insanguina i continenti e «non risolve le crisi internazionali», chi è davvero anacronistico?
1)I due civili sono giornalisti?
2)Come mai in Italia non abbiamo visto alcun servizio in merito?
3)Le autorità italiane, il governo italiano, il ministero della difesa (che in questo caso sarebbe di "attacco") ne sono informati?
4)Di chi è la bandiera che sventola sul mezzo corazzato a sinistra dello schermo?
Attendiamo commenti ed informazioni dai nostri spettatori, ascoltatori e lettori.
(1/5) Sui compiti urgenti di un movimento antimilitarista
1) CRISI UCRAINA E RUMORI DI GUERRA:
Comunicato della redazione di Marx21.it, 3 Maggio 2014
Da: "rotad" <rotad @ tiscali.it>
Oggetto: crisi ucraina e rumori di guerra
Data: 01 aprile 2014 16:42:41 GMT+01:00
In allegato un testo della rete contro la guerra di Napoli sul tema della crisi ucraina ed i crescenti rumori di guerra.
CRISI UCRAINA E RUMORI DI GUERRA:
PER UNA RIPRESA DEL MOVIMENTO ANTIMILITARISTA E CONTRO LA GUERRA.
La competizione non si svolge più solo con gli strumenti della finanza o della diplomazia ma sempre più spesso attraverso l’uso delle armi. Che siano inviate ai propri alleati locali nei paesi che si intende destabilizzare o usate direttamente dai propri eserciti di occupazione, dipende dai rapporti di forza momentanei e da valutazioni di opportunità.
I rumori di guerra si avvicinano in maniera crescente al centro dell’area europea ma tutto questo non sembra ridare vitalità a quel movimento contro la guerra che di fronte all’aggressione all’Iraq del 2003 seppe portare in piazza milioni di persone per denunciare la natura brigantesca di quella invasione anche se si mascherava dietro le insegne della missione umanitaria e del ripristino della legalità internazionale.
Eppure noi siamo convinti che siamo entrati in una fase in cui il confronto tra le grandi potenze non può rimanere più confinato in aree geografiche limitate ma è destinato a sfociare in uno scontro a tutto campo in cui si vanno accumulando le condizioni per un conflitto mondiale generalizzato che solo una opposizione radicale in tutti i paesi coinvolti può arrestare.
Questo testo vuole essere un invito alla riflessione collettiva per indagare le ragioni di tale latitanza e provare a ritrovare le motivazioni per una opposizione senza se e senza ma ai crescenti interventi militari comunque vengano giustificati e mascherati.
Obama si era presentato come colui che avrebbe ridotto la presenza militare americana nei teatri di guerra, ma, anche se si è ritirato dall’Iraq e promette di farlo in Afghanistan, ha lasciato consistenti contingenti militari nel primo e dichiara di voler fare altrettanto nel secondo.
Nel frattempo ha proseguito la corsa al riarmo del suo predecessore ed ha aumentato l’interventismo diplomatico e militare in altre aree del mondo, anche se spesso questo avviene tramite l’utilizzo degli “asettici” droni o attraverso l’armamento di ascari locali che svolgono il lavoro sporco per conto degli USA.
L’Europa, nonostante le sue divisioni interne e la sua incapacità a muoversi come un soggetto politico e militare unitario, è impegnata, attraverso i diversi paesi che la compongono, in svariate missioni militari, con un particolare protagonismo della Francia e del suo governo “socialista” che mira chiaramente a ripristinare il controllo neocoloniale su aree geografiche rientranti nel suo vecchio impero.
L’Italia in tale contesto non è da meno avendo aumentato in questi anni la quantità delle missioni militari in cui è presente ed offrendo i propri territori e le proprie basi militari come piattaforme da cui lanciare le aggressioni militari verso paesi da disciplinare alle esigenze della grande finanza internazionale ed al capitale delle grandi potenze occidentali.
Tale è infatti la ragione principale di questo crescente interventismo militare e solo i gazzettieri asserviti alla voce del padrone possono accreditare le motivazioni umanitarie o di ripristino della democrazia addotte dai nostri governanti a giustificazione dei vari interventi che si susseguono.
Dopo la fine della guerra fredda, apparentemente, le ragioni di interventi militari esterni e di frizione tra le grandi potenze avrebbero dovuto diminuire ed invece si sono moltiplicati. Prima è stata la volta dei dittatori pericolosi per i propri paesi e per il resto del mondo, poi è venuto il turno del terrorismo islamico, peraltro adeguatamente foraggiato e sostenuto quando si trattava di destabilizzare paesi da riannettere alla propria sfera d’influenza, infine si sta tornando alla minaccia rappresentata dall’Orso Russo che, benché mutilato del suo vecchio “impero” sovietico e dopo la miserabile parentesi Eltsiniana, pretende di comportarsi a sua volta da potenza mondiale che rifiuta di accettare un ruolo subalterno nello scacchiere internazionale.
All’orizzonte si profila la nuova minaccia rappresentata dal “pericolo giallo” della Cina che, dopo essersi liberata dalla dominazione coloniale ed aver aperto a sua volta alle leggi del mercato, pretende il suo posto al tavolo delle potenze, rifiutando di restare confinata al ruolo di officina del mondo per conto del capitale internazionale occidentale che le era stato assegnato.
Ma allora perché, nonostante l’assenza, al momento, di un vero competitor paritario a livello mondiale in grado di minacciare seriamente la supremazia degli USA e delle altre potenze occidentali, si vanno moltiplicando gli interventi militari e le frizioni internazionali fino a sfiorare uno scontro mondiale?
Riteniamo che le ragioni non troppo recondite di tale aumentato interventismo militare vadano ricercate nelle crescenti difficoltà dell’economia capitalistica e in particolare di quella afferente alle aree centrali del pianeta. Dopo un lungo periodo di affanno dell’accumulazione capitalistica durato circa un trentennio, da cui si era pensato di uscire amplificando a dismisura il ruolo della finanza, le contraddizioni sistemiche dell’economia di mercato sono esplose con tutta la loro virulenza con la crisi manifesta iniziata nel 2007.
Nonostante la spaventosa finanziarizzazione avesse consentito di spostare in avanti le contraddizioni dell’economia, soprattutto scaricandone i costi su paesi periferici e sul proletariato interno, permettendo per tale via anche un relativo rilancio dell’economia nei paesi occidentali, alla fine i nodi sono venuti al pettine.
Le conseguenze sono state ancora più gravi di quelle che si intendeva evitare e l’immane castello di carta costruito con la finanza creativa è stato sul punto di crollare trascinandosi dietro l’intera economia produttiva se non fossero intervenuti gli stati a sorreggere il mondo della finanza con iniezioni di capitali regalati a fondo perduto.
Tuttavia, con un mercato entrato oramai in uno stato comatoso ed un incremento della produttività schizzata alle stelle negli anni precedenti, c’era ben poco da investire in capitale industriale per inondare di merci un mercato già saturo e non in grado di assorbire nemmeno i prodotti già esistenti. Così i grandi istituti finanziari hanno ricominciato ad investire nella finanza creativa in un circolo vizioso che si autoalimenta fino al prossimo crollo che sarà di entità ancora più consistente di quello che lo ha preceduto.
Intanto il problema si è semplicemente spostato poiché gli stati, per sostenere la finanza, si sono dissanguati portando a cifre astronomiche il proprio debito, caricandosi di una cambiale di cui diventa sempre più difficile procrastinare la scadenza. La fiducia o la tenuta del dollaro USA o dell’Euro, non ha oramai nessun nesso con i fondamentali dell’economia reale ma è principalmente legata alla forza militare che questi paesi possono mettere in campo (ecco “forse” individuata una delle principali cause della corsa al riarmo) e all’assenza di un'alternativa credibile in grado di svolgere il ruolo di moneta internazionale di riferimento.
Ma questa politica non si può impunemente procrastinare all’infinito, pena l’impietoso giudizio di quel mercato continuamente invocato come regolatore naturale dell’economia che non tarderebbe a prendere atto di trovarsi in mano - semplicemente - carta straccia, con le inevitabili conseguenze sulle economie di questi paesi e del mondo intero.
Se quindi negli anni precedenti al pieno manifestarsi della crisi economica la politica di aggressione, di rapina e di sottomissione di paesi più deboli era diventata una prassi consolidata per cercare di scaricare su altri i costi della crisi, adesso, con i pericoli di una nuova deflagrazione economica di proporzioni catastrofiche, diventa un imperativo categorico per i governi delle principali potenze occidentali.
Se tutto ciò si può ottenere con le armi della diplomazia, con i ricatti dei grandi organismi finanziari internazionali, o soffiando sul fuoco di dissensi interni a questi paesi, bene; altrimenti si procede direttamente all’intervento militare per ricondurli alla ragione e sottometterli ulteriormente alla vera dittatura del grande capitale internazionale assetato di profitti.
Non è detto che ciò possa bastare a risollevare le sorti delle economie dei grandi paesi occidentali, ma intanto rappresenta una significativa boccata di ossigeno per allontanare lo spettro di una recessione di proporzioni immani che costringerebbe ad un attacco ancora più duro alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato interno, con le immaginabili conseguenze in termini di scontro tra le classi, finora abbastanza contenuto, ed i relativi pericoli per la conservazione del potere politico ed economico delle classi dominanti.
Ma il pianeta terra non è infinito, e nella corsa a riannettere aree del globo ci si sta pericolosamente avvicinando ad aree di influenza di potenze emergenti come la Russia e la Cina che, pur non avendo la forza finanziaria e tantomeno le capacità belliche delle potenze occidentali, non possono tollerare che si mettano in discussione le proprie “periferie” senza creare le condizioni per dover rinunciare definitivamente alle loro aspirazioni di espansione e di rafforzamento e dover in prospettiva sottomettersi esse stesse alle pretese di dominio del capitale occidentale.
In tale contesto, e sotto le impellenze della crisi assolutamente non risolta, la miscela esplosiva per l’innesco di un nuovo conflitto mondiale va accumulandosi, anche ben oltre le stesse intenzioni degli artefici del crescente interventismo militare. Essi in fondo non sono che le maschere di un regista ben più potente di loro che detta le regole del gioco in maniera ferrea: il grande capitale internazionale e le sue necessità di tutelare le esigenze di una continua accumulazione, di difendere e rafforzare i profitti e con essi i privilegi di classe che esso assicura ai suoi attori.
Quando una simile condizione si va determinando “l’incidente di percorso”, deliberatamente cercato o capitato accidentalmente, è sempre a portata di mano. Ma esso non rappresenta che l’innesco più o meno casuale di quella miscela esplosiva che deliberatamente si è contribuito ad alimentare.
Necessità della ripresa di un antimilitarismo conseguente
È paradossale che, in quello che rimane di attivisti del precedente ciclo di lotte contro la guerra, il nesso crisi - ripresa della conflittualità militare venga sostanzialmente rimosso e con esso la capacità di individuare le cause di tale accelerazione ma anche la possibilità di dotarsi di strumenti per meglio contrastarla.
Eppure siamo quotidianamente bombardati dai media che ci spiegano la gravità della crisi in atto, con relativa promessa di vedere spuntare la ripresa all’orizzonte, a patto che ci accolliamo i pesanti sacrifici e gli attacchi alle nostre condizioni di vita e di lavoro che “loro malgrado” sono costretti a rifilarci senza soluzione di continuità.
A patto di assecondare quelle “riforme” economiche e politiche che da un lato stanno aggravando il divario tra la classe borghese e quella proletaria e dall’altro trasformano in senso sempre più autoritario le istituzioni per renderle completamente impermeabili alle esigenze della stragrande maggioranza dei cittadini ed attrezzarle meglio alla repressione di chi non si piega supinamente alle supreme esigenze del mercato (cioè dei profitti).
A patto di stringerci a sostegno degli interessi nazionali nella politica estera e militare, poiché il messaggio che ci si vuole trasmettere, in maniera nemmeno tanto occulta, è che solo dal rafforzamento della nostra presenza internazionale dipende la possibilità di limitare i sacrifici che siamo costretti a subire, cioè dalla possibilità di scaricare su altri paesi i costi di questa crisi e poco importa se è necessario farlo con bombardamenti ed occupazioni militari.
Intanto quello che registriamo è un pauroso aumento delle spese militari che vengono sottratte alla possibilità di essere utilizzate come spese sociali ed una crescente militarizzazione di aree di territorio nazionale dove sono insediate le basi militari. Senza contare le conseguenze dei “nostri” interventi militari.
A tale proposito non abbiamo bisogno di fare congetture o profezie, poiché le esperienze pregresse sono li ad indicarcene i risultati. Non solo morte e distruzione per quelle popolazioni martoriate dalla nostra “esportazione di democrazia” con successiva rapina di risorse e ricchezze nazionali, ma anche piena sottomissione alle regole del mercato che si traduce, per le popolazioni locali, nella scomparsa di quella economia informale e di quel minimo di garanzie che gli consentivano di sopravvivere.
Quindi emigrazione di massa nei nostri paesi con forza lavoro ricattata e brutalizzata da leggi liberticide e razziste che li costringono ad accettare condizioni di lavoro schiavistiche, quindi investimenti in loco dopo avere smantellato qualsiasi regola e tutela del mercato del lavoro. Il tutto si traduce in un attacco generalizzato, sebbene graduato in maniera differente a tutto il mondo del lavoro, tanto quello dei paesi investiti dai nostri interventi finanziari e militari quanto quello dei paesi metropolitani a cui si chiede di plaudire a tali interventi.
Come è pensabile invertire la paurosa marcia del gambero in materia di stato sociale o di condizioni di lavoro avviata negli scorsi decenni a fronte della enorme forza di ricatto che il crescente interventismo economico e militare fornisce ai nostri avversari di classe?
Oramai siamo alle richieste esplicite di accettazione di tagli salariali e condizioni di lavoro più esose sotto la minaccia del trasferimento delle aziende in altri siti precedentemente democratizzati a suon di ricette del FMI e, quando non bastava, con bombardamenti ed occupazioni militari. Questo, quando va bene, perché in molti casi sono talmente vantaggiose le condizioni del mercato del lavoro in questi paesi che si passa alla chiusura dell’insediamento produttivo senza nessun preavviso per riaprilo in un contesto più favorevole.
Come si vede esistono mille ed una ragioni per fare della opposizione al militarismo un perno centrale della lotta per difendersi dal generale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Senza tale centralità della lotta alla guerra le pur generose lotte di difesa aziendali o territoriali sono destinate a soccombere o ad accettare il meno peggio, sperando di limitare i danni, fornendo in tal modo ulteriore forza per nuove e più esose richieste da parte dei governanti e dei padroni.
Non è solo a causa della politica collaborazionista seguita dai sindacati istituzionali che la maggior parte delle lotte sui luoghi di lavoro negli ultimi anni si è trasformata in episodi di disperazione in cui ci si appellava alle istituzioni di turno per non essere sbattuti in mezzo ad una strada, ma per la consapevolezza da parte dei lavoratori che la enorme frammentazione del mercato del lavoro a scala internazionale ha messo in mano ai padroni una forza tale che una singola vertenza, per quanto combattiva, non può contrastare efficacemente.
A tutto ciò si aggiunge una ragione ancora più decisiva. Come abbiamo visto, ci si sta avvicinando a passi da gigante verso la possibilità di un nuovo conflitto mondiale che vedrebbe coinvolte tutte le regioni del globo terrestre con conseguenze terrificanti per la stessa sopravvivenza del genere umano, viste le capacità distruttive degli armamenti in mano ai vari contendenti.
Le precedenti guerre mondiali, ed ancora di più le aggressioni militari degli ultimi anni, ci hanno dimostrato che le guerre oramai non si combattono solo tra gli eserciti, ma coinvolgono direttamente la popolazione civile. Anzi, nelle strategie militari moderne, uno degli obiettivi principali è quello di colpire gli apparati
produttivi e gli insediamenti urbani dei propri avversari per fiaccarne le capacità di resistenza e terrorizzare la popolazione per spingerla a ribellarsi ai propri governanti.
Ma un nuovo conflitto mondiale non sarebbe una guerra asimmetrica come quelle di aggressione condotte negli ultimi anni dalle potenze occidentali, dove si andava a seminare morte e distruzione, con un bagaglio di armamenti assolutamente imparagonabile tra di loro e sapendo bene che i propri avversari non avevano i mezzi per colpire i propri territori.
Per quanti scudi antimissilistici possano illudersi di costruire e per quanto vi sia ancora una notevole disparità di armamenti tra USA, Europa, Russia e Cina, possiamo essere certi che tutte le popolazioni di paesi coinvolti in un nuovo conflitto mondiale pagherebbero un prezzo inimmaginabile in termini di distruzione e di vite umane, al punto che i milioni di morti del II conflitto mondiale sembrerebbero delle inezie.
In breve, un eventuale conflitto mondiale rappresenta la forma più acuta e micidiale di quella guerra di classe contro il proletariato già in atto da parte dei nostri avversari. Essa si prefigge molteplici scopi: una lotta all’ultimo sangue tra diverse potenze mondiali per accaparrarsi aree di influenza economica a discapito dei propri concorrenti politici ed economici; provocare un’immane distruzione di beni materiali e di vite umane in modo da creare le condizioni di un’effettiva ripresa economica e ridurre la sovrappopolazione in eccesso a cui il capitalismo non riesce più a garantire nemmeno la sopravvivenza; prevenire una insorgenza di carattere rivoluzionario potenzialmente innescata dalle inevitabili reazioni che il progressivo peggioramento delle condizioni di sfruttamento e di vita non mancherebbero di determinare con conseguente pericolo per la sopravvivenza stessa di questo disumano sistema di relazioni sociali.
Insomma, uno scontro tra predoni e criminali, questi sì contro l’umanità intera, nella lotta per la supremazia e la difesa dei profitti, obiettivo supremo per il quale le distruzioni e le morti provocate rappresentano solo un effetto collaterale, ma soprattutto un atto di guerra di tutte le borghesie contro il proletariato mondiale a cui si propone di scannarsi contro i propri fratelli di classe dietro le bandiere di un rinnovato patriottismo e nazionalismo che è da sempre l’insegna di tutte le canaglie per mascherare la propria inesauribile sete di profitti.
Siamo consapevoli della gravità della prospettiva da noi evidenziata, ma proprio per questo riteniamo urgente una ripresa della denuncia del crescente militarismo e della necessità della lotta alla guerra non come aspetto ideologico sentimentale, ma come compito immediato e continuativo di tutti coloro che non intendono assistere passivamente alla concretizzazione di una simile evenienza.
Solo una radicale e generale lotta contro la guerra in tutti i paesi potrà fermare questa follia che il capitalismo ha già dimostrato di essere capace di perseguire per ben due volte incurante delle conseguenze provocate, anzi trovando in essa nuova linfa per rilanciare l’accumulazione ed i profitti, come del resto fa già, in piccolo, con tutti i disastri naturali o da esso provocati quotidianamente.
Di fronte ad una simile prospettiva infatti non esistono alternative o mezzi termini se non un’opposizione radicale che miri alla crescente riunificazione del proletariato internazionale, e di tutti coloro che intendono impedirla, contro il capitale e la borghesia internazionale, per l’affermazione dei propri separati e contrapposti interessi di classe. È questo l’unico modo che abbiamo per contrastare la deriva verso un compattamento sciovinistico e nazionalistico, destinato a provocare uno scontro fratricida dalle conseguenze terrificanti.
Non è una strada semplice perché oggi i lavoratori ed il resto del proletariato sono nella maggioranza dei casi sulla difensiva ed assorbiti dai problemi della sopravvivenza quotidiana che non li vede uniti nemmeno nella difesa delle proprie condizioni di vita immediata.
Anzi, gli arretramenti subiti negli scorsi anni e ancor più quelli che si prospettano per il futuro, spingono nella direzione della ricerca di soluzioni particolaristiche, del minimo sforzo, rendendoli spesso preda della propaganda di quelle tendenze politiche che, contro le conseguenze della globalizzazione, propongono reazionarie soluzioni localistiche o ipernazionalistiche, fondate su un interclassismo ancora più spinto di quello attuale e sulla ancora più radicale separazione e contrapposizione tra proletari.
Ma questo in parte dipende anche dal fatto che quanto residua delle forze politiche della sinistra praticano un liberismo sfrenato che fa a gara con la destra storica nel rivendicare il pieno trionfo delle leggi di mercato e la piena sottomissione ad esse come panacea per futuri, quanto impossibili, miglioramenti e allo stesso tempo dalla mancanza di ogni credibile prospettiva di tornare a battersi come classe internazionale che, proprio a causa delle conseguenze della globalizzazione, può sperare di difendersi solo a condizione di lottare unitariamente contro i comuni nemici che la sfruttano e la opprimono.
Perciò è decisivo da subito delineare una tendenza contro il militarismo e contro la guerra in grado di denunziare e contrastare già oggi ogni singolo passaggio di preparazione ad un clima bellicista e di union sacrée, di ogni atto che mira ad intruppare i proletari di ogni singolo paese dietro le proprie classi dominanti.
Nessuna solidarietà con i nostri oppressori e sfruttatori che per i loro interessi si apprestano a portarci verso un nuovo macello mondiale, nessuna accettazione di compatibilità e sacrifici in nome dell’unità nazionale. A fronte della richiesta di schierarci contro il nemico esterno il nostro grido di battaglia non può che essere tale:
Dovrebbe essere evidente infatti che la reazione della Russia con l’occupazione di fatto della Crimea è dettata dall'ultra-ventennale intromissione di USA ed Unione Europea negli affari interni dell’Ucraina nel tentativo di sottrarla alla storica ed altrettanto interessata tutela della Russia.
Dalla disintegrazione della ex URSS del 1991 e poi successivamente con la sponsorizzazione e promozione della cosiddetta Rivoluzione Arancione del 2004, per finire ai tentativi di associare l’Ucraina alla UE che hanno dato avvio al recente ciclo di proteste, culminato nel colpo di stato, il lavorio di manomissione delle potenze occidentali non ha mai smesso di operare.
Come abbiamo affermato nella prima parte, oggi sono proprio le economie dei paesi occidentali ad essere maggiormente in difficoltà, con un bisogno disperato di scaricare i costi della crisi su altre aree del pianeta, ma anche di stoppare sul nascere le ambizioni delle potenze emergenti di rafforzare ed allargare una propria area di influenza tale da consentire loro di competere con i principali concorrenti.
Rispetto ad altri paesi dell’ex blocco sovietico, l’Ucraina, proprio per la posizione geopolitica occupata, per la sua rilevanza strategica per la Russia e la relativa integrazione con il suo sistema economico, ha potuto consentirsi negli anni precedenti di non essere investita dalla stessa ondata liberista. Non che non si fosse proceduto allo smantellamento di quell’economia statalizzata che aveva ereditato dall’esperienza sovietica, ma tutto ciò si era trasformato prevalentemente in un passaggio di mano della proprietà senza che fosse sostanzialmente sconvolto il proprio apparato produttivo.
Questo ha consentito la creazione di un’oligarchia politica ed economica in gran parte emanazione della vecchia classe dirigente riciclata, ma ha anche determinato una situazione in cui i lavoratori, pur avendo subito netti arretramenti rispetto alla situazione precedente alla deflagrazione del blocco sovietico, non sono stati sottoposti agli identici sconvolgimenti subiti dai proletari dei paesi vicini.
Ciò è stato vero soprattutto per l’area più industrializzata del paese che corrisponde al sud e all’est; non a caso quella meno coinvolta dalle proteste recenti anche perché vede una maggiore presenza di popolazione russofona, meno sensibile, al momento, alle sirene filo-occidentali.
I vari governi che si sono succeduti in questi anni hanno utilizzato tale posizione strategica per barcamenarsi tra le condizioni di favore garantite dalla Russia in termini di fornitura di materie prime (soprattutto energetiche) e di mercato di sbocco per le proprie merci assolutamente non competitive sui mercati occidentali, e le profferte di adesione all’area dell’Euro.
Una posizione di galleggiamento non in grado comunque di frenare quel progressivo fenomeno di erosione dei margini di manovra che sono precipitati nel corso degli ultimi anni, quando la crisi economica internazionale ha ulteriormente aggravato la situazione in Ucraina, le cui esportazioni sono calate del 40% nel primo semestre 2013 (-50% solo per l’acciaio), le importazioni del 51%, il commercio al dettaglio del 15%. Unico dato positivo l’agricoltura (+3%), sempre di più gestita, comunque, da proprietari cinesi che utilizzano nei campi la loro manodopera a scapito di quella locale.
È in tale contesto che le pressioni occidentali per un legame più stretto con l’area Euro e, in prospettiva, per un inserimento nel dispositivo NATO, si sono incrociate col malessere crescente di una parte di popolazione su cui maggiormente si facevano sentire gli effetti della crisi economica e delle sue conseguenze sul paese e per la quale i fenomeni di diffusa corruzione diventavano intollerabili.
Anche se la scintilla delle proteste è stata la mancata sottoscrizione dell’accordo di associazione all’Unione Europea, vista come possibile alternativa alla stagnazione derivante dalla dipendenza dall’economia russa, la causa della significativa adesione alle proteste nell’area occidentale dell’Ucraina stava nelle ragioni su riportate.
A ciò si è aggiunta la consistente mobilitazione delle forze di estrema destra, debitamente finanziate e armate dalle potenze occidentali, che maggiormente hanno dato una caratteristica russofoba alle proteste,
connotandone il profilo in senso radicalmente nazionalista, anticomunista e antisemita, e soprattutto hanno costituito la testa d’ariete militare contro un regime oramai allo sbando.
Il comportamento di decisivi apparati dello stato, il pronto salto della quaglia di importanti oligarchi, consapevoli dell’aria che tirava, dimostrano chiaramente che la diplomazia e le pressioni dei paesi occidentali erano già riuscite a corrompere e destabilizzare alcuni importanti settori delle istituzioni in maniera molto maggiore di quanto potesse fare la piazza di Maidan.
Come spiegare altrimenti la gestione dilettantesca e quasi suicida delle forze di polizia durante i momenti decisivi dello scontro; come spiegare il vero e proprio colpo di stato, determinatosi dal voto in parlamento degli stessi rappresentanti del partito di governo per la destituzione del presidente in carica, Yanukovich, quando si trattava di ratificare l’accordo raggiunto con le opposizioni?
A mobilitarsi non è stata la parte maggioritaria della popolazione, ed il movimento ha coinvolto soprattutto la parte ovest del paese, quella che ha maggiori ragioni storiche di risentimento contro la tutela russa, per le trascorse vicende della collettivizzazione forzata delle campagne in epoca staliniana e che risente in misura maggiore delle conseguenze della crisi.
Gli operai ed il resto dei lavoratori dipendenti sono stati totalmente assenti dalle mobilitazioni in quanto classe con interessi specifici da far valere, e ciò è stato vero anche nell’area ovest del paese. Non è da escludere che la composizione di piazza vedesse la presenza anche di figure proletarie ma tale eventuale partecipazione è avvenuta a titolo individuale, in quanto cittadini e non come lavoratori organizzati. Tanto è vero che i diversi tentativi di promuovere scioperi da parte dei ribelli non hanno avuto nessun seguito.
Certo è che gli esiti di quella rivolta hanno aumentato ancora di più la diffidenza da parte dei lavoratori, i quali giustamente individuano negli impegni che ci si appresta a prendere con il FMI una minaccia ulteriore per quel residuo di compromesso sociale ancora esistente e spiega altresì perché le tendenze russofile si vanno affermando non solo in Crimea ma anche nelle altre aree del paese con forte presenza russofona.
Quindi, anche se guardare agli eventi ucraini solo in ottica “complottistica” sarebbe riduttivo e fuorviante, è altrettanto evidente che senza l’intervento delle potenze occidentali e delle proprie appendici interne la rivolta in corso non avrebbe mai avuto la possibilità di affermarsi e di abbattere il governo esistente.
Un sostegno alquanto interessato, visto che, a fronte delle resistenze del legittimo governo ad aderire al trattato con la UE e a sottostare supinamente alle sue ricette, si aprivano la possibilità di fare un unico boccone di un paese di circa 50 milione di persone da sottoporre al regime dittatoriale della grande finanza.
Le condizioni imposte dai prestiti accordati dal FMI e dall’Unione Europea non mirano solo a scompaginare definitivamente il mercato del lavoro del paese cui accedere a costi e condizioni ultra-favorevoli, ma anche alla penetrazione del capitale finanziario occidentale che potrà dissanguare impunemente le risorse del paese, imponendo un liberismo ed una privatizzazione sfrenata, al cui confronto i privilegi ed i profitti degli attuali oligarchi sembreranno bazzecole.
Un tassello decisivo dello scontro internazionale tra le grandi potenze
Sganciata dalle condizioni di favore garantite dalla Russia e considerando le difficoltà economiche in cui si muove, l’Ucraina non ha altra scelta che quella di piegarsi alle ricette lacrime e sangue di FMI e BCE, ma anche di accettare la protezione militare NATO di cui diventerà un nuovo avamposto, portando la sfida militare a Putin fin sotto l’uscio di casa.
C’è da meravigliarsi se il governo russo ha reagito, intanto, riprendendosi la Crimea, tra l’altro storicamente a stragrande maggioranza russofona? In termini geopolitici si tratta di una mossa difensiva che è indicativa soprattutto della relativa debolezza russa nella sfida che gli è stata lanciata, come nei fatti riconosce lo stesso Obama, nonostante utilizzi tale mossa per isolare ancora di più la Russia e per colpirla con sanzioni che vanno via via rafforzandosi anche se con le perplessità di alcuni paesi europei.
Questi infatti, ed in particolare la Germania, dopo avere soffiato sul fuoco del cambio di regime a Kiev ed insistito per la sua adesione all’area dell’Euro, si sono visti sfilare dagli USA, sotto gli occhi, la possibilità di piazzare un proprio uomo alla testa del governo ucraino, mentre il rapido peggioramento delle relazioni con Mosca crea non pochi problemi nell’immediato.
Innanzitutto, dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico, che Obama si è offerto subito di sostituire ma che sarà impossibile realizzare nel giro di pochi mesi; in secondo luogo per le conseguenze delle sanzioni ed in generale il peggioramento dell’inter-scambio commerciale con la Russia che rappresenta una fetta non secondaria sul totale. In ultimo, ma primo per importanza, il drastico peggioramento della relazioni
politiche con la Russia sta consentendo ad Obama di accorpare intorno alla sua strategia di scontro frontale immediato anche i paesi europei più recalcitranti.
La politica di buon vicinato infatti ha consentito a molti di questi paesi, ancora una volta Germania in primis, ma non ultima l’Italia (il legame tra Berlusconi e Putin non è dettato solo dalla simpatia reciproca per la condivisione di alcuni “valori” e comportamenti, ma dipende molto dagli affari tra i due paesi), di avere un significativo sbocco per i propri capitali e le proprie merci.
L’aggressività statunitense verso la Russia rappresenta di fatto anche un tentativo, al momento riuscito, di disciplinare gli alleati-concorrenti europei e di ridimensionare qualsiasi velleità di praticare rapporti privilegiati o proprie strategie verso altri paesi che possano pregiudicare i disegni statunitensi di restare il dominus del blocco imperialista occidentale.
Resta il fatto che la Russia non può assistere passivamente al suo progressivo accerchiamento economico, politico e militare, pena doversi contentare al massimo del ruolo di potenza regionale, come Obama spregiativamente non manca di sottolineare, peraltro in una posizione subordinata e dipendente dalla altre potenze mondiali.
L’obiettivo statunitense infatti è quello di determinare un pesante isolamento della Russia. Attraverso un incrudimento della politica delle sanzioni, attualmente ancora abbastanza blande, si punta a privarla delle sue maggiori entrate dovute alla vendita di prodotti energetici di cui è ricca, frustrando le sue aspirazioni ad utilizzare tali introiti per la ristrutturazione e l'adeguamento del proprio apparato produttivo e del mantenimento di una propria area economica relativamente protetta dalla concorrenza occidentale.
Tale politica, insieme all’impulso che l’attuale crisi fornisce alla corsa al riarmo, nelle intenzioni USA punta a rieditare i meccanismi di implosione che determinarono il crollo dell’URSS, in cui le crescenti spese militari diedero una spinta decisiva al definitivo dissanguamento di un’economia già in affanno e in ritardo rispetto al “turbo-capitalismo” occidentale.
Ma il metodo di continuare ad alzare la posta di tale micidiale partita a poker, sperando che l’avversario abbandoni il tavolo, può rivelarsi un azzardo poiché c’è sempre l’eventualità che l’altro giocatore decida di giocarsi il tutto per tutto, non vedendo altre possibilità per non soccombere miseramente.
Una ipotesi non esclusa nemmeno dagli strateghi statunitensi poiché avvicinerebbe quella resa dei conti definitiva considerata inevitabile, che si ritiene di poter affrontare attualmente nelle condizioni a sé più favorevoli. Tra l’altro una eventuale precipitazione di tipo militare dello scontro in atto avrebbe il vantaggio di costringere gli europei ad accodarsi piattamente alle scelte statunitensi, sancendo definitivamente il loro ruolo di alleati subordinati ed avverrebbe prima che si possa consolidare quell’asse Mosca - Pechino, che, sia pure per ragioni difensive, si va sempre più delineando all’orizzonte come scelta obbligata per resistere all’offensiva del blocco a guida statunitense.
In tale contesto, la stessa eventualità di un’estensione delle aree dell’Ucraina con forte presenza russofona da riannettere alla Russia, per limitare i danni subiti dal cambio di regime a Kiev, non farebbe altro che rafforzare la strategia USA di compattamento del fronte occidentale e radicalizzare i toni dello scontro con la stessa Russia.
Come si vede la mancata discesa in campo del proletariato su proprie autonome posizioni di classe rende i movimenti di protesta, anche quando motivati da sacrosante ragioni di malessere sociale, preda dei maneggi delle classi dominanti interne al proprio paese e soprattutto di quelli delle grandi potenze, nella feroce lotta per ridisegnare le proprie aree di competenza.
Non meno pesante è l’assenza di un movimento proletario unitario ed indipendente dai vari schieramenti borghesi a scala internazionale, in grado di contrastare le manovre delle potenze mondiali ed offrire una prospettiva che non obblighi a scegliere tra la padella e la brace dei diversi fronti contendenti.
Per tale motivo, non abbiamo uno schieramento da scegliere nella contesa in atto, poiché ci troveremmo nella posizione di favorire i disegni dei nostri governanti se ci si associasse alla campagna mediatica tesa a criminalizzare il regime di turno oggetto delle manovre imperialiste.
Ma non è praticabile nemmeno la strada del sostegno al fronte avverso secondo la logica per cui “il nemico del mio nemico è mio amico” poiché, per quanto ci si trovi spesso di fronte a regimi più deboli, questi sono comunque espressione delle classi dominanti di quel paese e delle esigenze del capitalismo locale, ma soprattutto perché essi sono associati ad altre grandi potenze ai cui interessi, non diversamente capitalistici, ci si troverebbe accodati.
Il nostro compito non può essere altro che quello di denunciare le responsabilità dei “nostri” governanti e contrastare implacabilmente le politiche militariste di cui si rendono protagonisti, a cominciare dalle
campagne di opinione che mirano a creare consenso verso quel clima di unità nazionale e di criminalizzazione del nemico, condizione imprescindibile per qualsiasi avventura militarista.
La gestione della vicenda dei “due marò” in India è solo l’esempio più clamoroso e farsesco, al tempo stesso, di tale attitudine, che solo un clima da vero e proprio regime ha potuto consentire di presentare come “due eroi” che difendevano la democrazia in giro per il mondo.
Ma potremmo citare la vicenda libica e quella siriana per restare agli episodi più recenti di mistificazioni, di mire imperialiste e di aggressione verso altri paesi, mascherati dietro le insegne degli interventi umanitari e della difesa della democrazia.
In nessuno di questi casi abbiamo sentito forte la voce del pacifismo né quella degli attivisti della sinistra radicale denunciare i veri obiettivi di questa politica, ma in compenso abbiamo dovuto assistere, anche presso settori di queste compagini, al suo sostegno esplicito o implicito in nome della difesa dei rivoltosi in campo, in nome della democrazia e dei diritti civili violati.
Come se l’obiettivo dei nostri governanti fosse veramente abbattere il dittatore di turno per portare in questi paesi la democrazia e non piuttosto sostituire il regime esistente con una dittatura mille volte più carognesca imposta con micidiali armi di distruzione di massa per fare largo ai propri capitali.
Nel caso specifico della vicenda ucraina, abbiamo assistito alle grida contro la democrazia ivi calpestata dal governo, come se nella ultra-democratica Italia e negli altri paesi occidentali fosse consentito scendere in piazza, per altro armati di tutto punto, per imporre la caduta di un governo regolarmente eletto.
E questo negli stessi giorni in cui i NO TAV per aver, forse, danneggiato qualche macchinario, sono accusati di terrorismo, mentre i disoccupati a Napoli o i senza casa a Roma venivano imputati per associazione a delinquere al fine di “estorcere” con la lotta un miglioramento delle loro condizioni di vita.
Se tutto questo non bastasse, vorremmo ricordare che in Italia siamo di fronte al terzo governo di fila che viene formalizzato senza essere investito da un responso elettorale e che, per evitare futuri impacci, si sta provvedendo a preparare una riforma elettorale tale da far impallidire i sistemi di voto presenti nei cosiddetti paesi a regime dittatoriale. Ma per questo nessuno grida alla democrazia violata o alla necessità di un intervento militare che ci venga a liberare da questo odioso regime.
Ad ulteriore conferma di quanto sia strabica la visione della nostra stampa nel denunciare crimini veri o presunti e quella di certi pacifisti di indignarsi a comando, stanno la vicenda egiziana e quella palestinese. Nel primo caso, abbiamo avuto una condanna collettiva a morte di 600 persone, colpevoli di sostenere un governo anch’esso regolarmente eletto e deposto da un colpo di stato, mentre se ne annuncia un’altra di proporzioni ancora più consistenti.
Intanto a Gaza, nel silenzio assordante della stampa, procede la politica di vero e proprio strangolamento di un’intera popolazione da parte del governo israeliano con la fattiva collaborazione del laico ed arabo governo egiziano. Ma forse i nostri capitali investiti in Egitto e le buone relazioni politiche ed economiche con Israele contano molto di più delle esecuzioni di massa e del genocidio che si va perpetrando nei confronti della popolazione di Gaza.
Mettere in evidenza le ragioni economiche dell’avvicinarsi del clima di guerra è necessario per denunciare che i conflitti militari in cui sono impegnate le nostre truppe non sono altra cosa dalla guerra ultra-decennale, ed in via di accentuazione, dichiarata dai governi e dai padroni alle nostre condizioni di vita e di lavoro, ma ne rappresenta semplicemente l’altra faccia della medaglia.
Un esito obbligato, se non viene efficacemente contrastato, di un’economia fondata sulla continua ricerca di maggiori profitti e che, nonostante l’enorme incremento dello sfruttamento di questi anni, tanto nel centro quanto nelle periferie, non riesce a risollevarsi dalle insanabili contraddizioni da essa stessa determinate.
Per quanto ci riguarda si tratta di prenderne atto e trarne le conseguenze per avviare un impegno, il più ampio e condiviso possibile, di documentazione e contrasto al crescente militarismo, strettamente intrecciato alle mobilitazioni per la difesa delle nostre condizioni di vita, contro la causa di tutte le nostre sofferenze e lo sfruttamento che dobbiamo subire: il dominio del capitale e della sua insaziabile sete di profitti.
RETE NAPOLI NOWAR
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(segue: 2/5) Sui compiti urgenti di un movimento antimilitarista
1) CRISI UCRAINA E RUMORI DI GUERRA:
Comunicato della redazione di Marx21.it, 3 Maggio 2014
Cari amici ed amiche del CNJ,di ritorno da Belgrado, un paper a margine della Conferenza Internazionale "Pace Globale contro Interventismo Globale ed Imperialismo" del Forum di Belgrado, di cui al doc. finale da voi postato. A 15 anni dalla guerra alla Jugoslavia, il Forum Internazionale denuncia le mire dell'imperialismo e condanna il lavorio del revisionismo che, proprio nel centenario della Grande Guerra, ancora nei Balcani, minaccia la ricerca ed il lavoro per la pace.Il paper è al link:Cari Saluti,Gianmarco Pisa
Guerra alla Jugoslavia, quindici anni dopo
Con il pretesto di un intervento “umanitario” per fermare un presunto “genocidio” in Kosovo, le azioni della NATO, intervenute senza mandato internazionale, completamente al di fuori della Carta delle Nazioni Unite e contro tutti i più elementari e basilari principi di diritto, legalità e giustizia, hanno ucciso e ferito migliaia di persone e distrutto e devastato una quantità impressionante di infrastrutture civili. I danni di guerra sono stimati in oltre 120 miliardi di dollari e il generale statunitense Wesley Clark conferma pubblicamente l'intenzione, attraverso i bombardamenti, di «riportare indietro la Serbia di cinquanta anni». Le compensazioni per i danni di guerra non sono ancora state reclamate, sebbene vi siano le condizioni giuridiche e formali per poter innescare tale procedura, e le sentenze emesse dai tribunali serbi, dalle quali risultano condanne, per i capi di Stato e di Governo dei Paesi aggressori, per crimini contro la pace e contro l'umanità, sono state annullate dopo il regime change del 5 Ottobre 2000. Tra i crimini più efferati, ricordati dalle cronache del tempo ma rapidamente passati sotto silenzio, l'attacco ad un convoglio di albanesi del Kosovo, per il quale, in un primo momento, la NATO aveva cercato di attribuire la responsabilità alle forze jugoslave, che ha provocato la morte di 73 persone, il bombardamento di un treno passeggeri, che ha ucciso 15 persone, il bombardamento contro la sede della televisione serba a Belgrado, che ha causato la morte di altre 16 persone, per non parlare dei bombardamenti e delle devastazioni in città quali Novi Sad, a Nord, e Niš, a Sud. Le foto, spesso strazianti, della mostra, sono testimonianza vivida del carattere “umanitario” di questa guerra.
Come è stato sottolineato, in maniera concorde e partecipativa, durante tutti i tre giorni di impegno della Conferenza, da parte delle decine di relatori coinvolti e le centinaia di partecipanti, la guerra contro la Jugoslavia non ha costituito un conflitto isolato, ma un precedente e un paradigma, la prima di una serie di guerre imperialistiche di nuova generazione, guidate dagli Stati Uniti, insieme ad alleanze politiche e militari a “geometria variabile” e ad egemonia NATO, fuori o, comunque, a prescindere dal mandato dell'ONU e dal rispetto della Carta delle Nazioni Unite, per la conferma del primato economico e del dominio militare degli Stati Uniti nel nuovo “mondo multipolare”. Tale piano strategico, variamente declinato nelle sue versioni hard alla Bush o soft alla Obama, rappresenta il volto attuale dell'imperialismo statunitense e dei propri alleati atlantici, e continua, pur tra difficoltà e battute d'arresto, sino ai giorni nostri, come dimostrano le destabilizzazioni, i cambi di regime e i golpe dolci innescati da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, ad esempio in Ucraina e in Venezuela.
Dopo l'impegnativa tre-giorni, il documento finale della Conferenza Internazionale, il cui testo completo è online (beoforum.rs/en/all-activities-of-belgrade-forum-for-the-world-of-equals/63-nato-aggression-15-years-after/356-final-document.html), ha rimarcato, in particolare, i seguenti dieci punti salienti:
1) L'aggressione della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia è stata una guerra imposta contro uno Stato europeo, libero, indipendente e sovrano, in palese violazione dei principi basilari del diritto e della legalità internazionale, senza alcun mandato internazionale e contro la Carta dell'ONU.
2) Considerato che l'aggressione alla Jugoslavia è stata un crimine contro la pace e contro l'umanità e una grave violazione del diritto internazionale e della legalità internazionale, la Serbia ha il diritto di avviare un procedimento formale contro gli Stati Membri della NATO partecipanti alle azioni teso al pagamento dei danni di guerra alla Serbia ed al Montenegro ed alle persone vittime dell'aggressione.
3) La guerra contro la Jugoslavia è stato un punto di svolta, premessa e paradigma, di un piano di interventismo globale, di pratica politica di violazione dell'ordinamento giuridico internazionale, e di negazione del ruolo delle Nazioni Unite e, successivamente, è stata utilizzata come un modello di “interventismo imperialista” in una serie di altri casi come Afghanistan, Iraq, Libia, Mali e altrove.
4) Tutti i partecipanti, in considerazione ed in coerenza con le premesse sin qui delineate, hanno espresso pieno sostegno alla sovranità e all'integrità della Serbia, in linea con la risoluzione 1244/1999.
5) I partecipanti hanno salutato la decisione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che ha proclamato il 2014 “Anno Internazionale di Solidarietà con il Popolo della Palestina”. Hanno inoltre denunciato i piani e le azioni volte a destabilizzare, attraverso il golpe suave e la campagna inter-nazionale di infiltrazione e di disinformazione, la Repubblica Bolivariana del Venezuela e hanno espresso la loro solidarietà con il popolo venezuelano e il loro supporto ai suoi sforzi per preservare la libertà, la dignità e la sovranità del Venezuela Bolivariano e di decidere autonomamente il proprio futuro. I partecipanti hanno inoltre espresso soddisfazione in merito allo svolgimento del referendum popolare di auto-determinazione in Crimea, volto alla auto-determinazione e alla confederazione con la Federazione Russa, condannando altresì il rovesciamento violento del governo legittimo ucraino, attraverso un'insurrezione condizionata ed egemonizzata da formazioni fasciste e perfino neo-naziste.
6) I partecipanti hanno condannato la riabilitazione, promossa da alcuni settori al governo di Paesi occidentali, del fascismo ed i conseguenti tentativi di equiparare il comunismo con il nazismo ed hanno, allo stesso modo, condannato i tentativi, sia attraverso pubblicazioni e campagne di stampa, sia attraverso eventi e rassegne internazionali, di vero e proprio revisionismo storico, intorno a cause e responsabilità sia della prima (di cui ricorre quest'anno il centenario) sia della seconda guerra mondiale.
7) I partecipanti hanno riflettuto inoltre sulla crisi del capitalismo globale, che ha portato non solo ad una stratificazione sociale senza precedenti e ad un impoverimento generale di massa di portata impressionante, ma anche ad una crisi del debito artificialmente imposta. La Conferenza ha quindi espresso il suo pieno sostegno alle proteste popolari contro le politiche imposte per affrontare la crisi.
8) La crisi economica globale, peraltro, non può essere risolta con modifiche improvvisate del sistema stesso, ma solo abbandonando il concetto e il principio neo-liberista e sviluppando un nuovo sistema umano di giustizia sociale, di uguaglianza e di benessere per tutti i popoli e le nazioni del pianeta.
9) La Conferenza ha inoltre dichiarato che solo un mondo libero dal predominio dell'imperialismo, dell'interventismo e del militarismo avrà la possibilità di evitare la catastrofe della guerra mondiale.
10) E' quindi inaccettabile, oltreché contrario al diritto internazionale, che organizzazioni regionali di potenza, come la NATO e l'UE, si affermino come sostituti del Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
A conclusione della tre-giorni, l'ex Ministro degli Esteri della Jugoslavia e Presidente del Forum di Belgrado per un Mondo di Eguali, Zivadin Jovanovic, ha ricordato che l'aggressione della NATO è ormai non più e non solo limitata ai Balcani, ma sta concretamente diventando strategia globale. È in corso una “terza guerra mondiale di fatto”, combattuta da coloro che hanno interesse alla lotta contro l'uguaglianza e l'amicizia dei popoli e contro la cooperazione ed il multilateralismo globale. Contro la globalizzazione della guerra, è dunque sempre più urgente lottare per la globalizzazione della pace.
Molto interessanti, nella tre-giorni di confronto e di dibattito, alcuni interventi, tra quelli che hanno maggiormente messo in rilievo i due temi-chiave della Conferenza, vale a dire la guerra alla Jugoslavia come paradigma della guerra imperialistica per il regime change dei tempi moderni (nelle sue varie e diverse declinazioni di guerra etno-politica, golpe strisciante, piano di de-stabilizzazione, campagne tese alla disinformazione ed al revisionismo) e il nesso diritto-giustizia come architrave del sistema di sicurezza collettiva e per un mondo multipolare. Secondo Roland Weyl, membro fondatore (nel 1946) ed attuale vice-presidente della Association Internationale des Juristes Démocrates - AIJD (Associazione Internazionale dei Giuristi Democratici), la guerra in Jugoslavia è stata la prima aggressione al diritto internazionale, dal momento che la legge internazionale non esiste senza la vigenza di principi condivisi e senza la forza di una legge comune che sia valida per tutti e sia fatta valere per tutti. In questo senso, riveste una importanza fondamentale la Carta delle Nazioni Unite, specie nel Preambolo (sancisce l'impegno istituzionale delle Nazioni Unite «a praticare la tolleranza e a vivere in pace… in rapporti di buon vicinato; a unire le forze per mantenere la pace e la sicurezza internazionale; ad assicurare, mediante l’accettazione di principi e l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sia usata, salvo che nell’interesse comune; a impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico-sociale di tutti i popoli»), l'art. 2 c. 4 («I Paesi Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite») e l'art. 2 c. 7 («Nessuna disposizione dello Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono alla competenza interna di uno Stato, né obbliga i Paesi Membri a sottoporre tali questioni a procedura di regolamento in applicazione dello Statuto»).
Il diritto internazionale si trova oggi ad affrontare tutte le contraddizioni legate alle ambiguità e alle criticità delle Nazioni Unite. Ad esempio, in Libia, è stata una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a violare esplicitamente la Carta delle Nazioni Unite, in particolare laddove al capo 4: «Autorizza gli Stati Membri, che ne abbiano informato il Segretario Generale, che agiscano su iniziativa nazionale o attraverso organizzazioni o accordi regionali, operando in collaborazione con il Segretario Generale, a prendere tutte le misure necessarie, anche in deroga al paragrafo 9 della risoluzione 1970 (2011), per proteggere i civili e le aree a popolazione civile minacciate di attacco nella Jamahiriya Araba di Libia, escludendo una forza di occupazione straniera di qualsiasi forma e su qualsiasi parte del territorio libico, …e richiede agli Stati Membri interessati di informare il Segretario Generale sulle misure che prendono, in base all’autorizzazione conferita con questo paragrafo, le quali saranno comunicate al Consiglio di Sicurezza» (Risoluzione 1973/2011, adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 17 Marzo 2011). Ciò significa che, da una parte, è stato concesso un mandato in bianco agli Stati interessati all'intervento armato, ben al di là ed in larga misura contro i fini istituzionali specifici delle Nazioni Unite, come richiamati all'interno della Carta dell'ONU e, d'altra parte, le Nazioni Unite stesse sono state di fatto estromesse, assumendo un ruolo del tutto marginale, funzionale e strumentale agli obiettivi geo-politici e strategici delle potenze mondiali.
La vicenda libica ha rappresentato il punto di arrivo di una degenerazione della applicazione pratica degli strumenti del diritto internazionale, che non risale a tempi recenti, come dimostrano i casi della guerra contro la Jugoslavia, l'applicazione di una “coalizione dei volenterosi” e “alleanze occasionali” o a “geometria variabile” nella guerra in Afghanistan, e le stesse continue violazioni delle risoluzioni delle Nazioni Unite da parte dello Stato di Israele. Tra tutti questi casi, in particolare, la guerra contro la Jugoslavia ha violato proprio, specificamente, l'art. 2 c. 4 della Carta delle Nazioni Unite, dal momento che quella guerra non solo si è svolta al di fuori di un mandato formale e quindi dei fini istituzionali delle Nazioni Unite, ma ha anche violato l'integrità territoriale di un Paese Membro delle Nazioni Unite. A tutto questo occorre aggiungere che l'intervento militare atlantico ha fatto strage di migliaia di civili innocenti e ha sacrificato i diritti più elementari di decine di migliaia di altre persone.
Basti ricordare che, nel corso di oltre diecimila missioni d'attacco, da parte di oltre mille aerei alleati e con l'uso di oltre 23 mila ordigni esplosivi, tra missili, bombe e proiettili di vario tipo, la NATO ha distrutto le strutture civili e produttive del Paese, commettendo l'ulteriore crimine internazionale di colpire militarmente infrastrutture civili e perfino edifici adibiti a funzioni sociali. La Serbia è stata sottoposta per 78 giorni a bombardamenti continuativi da parte di aerei sottratti alla difesa contraerea e capaci di moltiplicare gli effetti e i danni collaterali sul terreno, che furono devastanti e che avranno ripercussioni nel corso del tempo e delle generazioni, soprattutto a causa dell'ecocidio provocato, del bombardamento di fabbriche e depositi chimici, dell'uso accertato di munizioni all'uranio impoverito.
La NATO (Organizzazione del Trattato dell'Atlantico Settentrionale), artefice e responsabile dei crimini e delle devastazioni compiuti in Jugoslavia - e non solo - è un'organizzazione politico-militare di carattere regionale che non rispetta le prescrizioni previste dal diritto internazionale per le organizzazioni regionali ed è, di conseguenza, sostanzialmente al di fuori del diritto internazionale. Infatti, l'art. 53 della Carta delle Nazioni Unite stabilisce che il Consiglio di Sicurezza può utilizzare «gli accordi e le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua direzione» ma poi aggiunge che «nessuna azione coercitiva può essere intrapresa in base ad accordi regionali senza autorizzazione del Consiglio di Sicurezza». Inoltre, l'art. 51 riconosce agli Stati l'esercizio del “diritto di auto-tutela individuale o collettiva” esclusivamente per difendersi contro un “attacco armato” e «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza inter-nazionale». Dal “combinato disposto” degli articoli 51 e 53 consegue dunque che tali organizzazioni (in particolare la NATO) possono eventualmente agire contro uno Stato solo con l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza; ma, senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, possono assumere una iniziativa solo nel caso di risposta ad un attacco armato effettivo e concretamente posto in essere. Anche l'art. 4 del Trattato supporta implicitamente la tesi della totale illegittimità della configurazione NATO («Le parti si consultano quando, secondo il giudizio di una di esse, ritengano che l'integrità territoriale, l'indipendenza politica o la sicurezza di una di esse siano minacciate», art. 4 del Trattato dell'Atlantico Settentrionale). È bene ricordare che la NATO ha modificato di fatto il proprio statuto formale, assumendo un profilo aggressivo (assertivo) e intervenendo sempre più al di fuori della propria sfera regionale, come hanno mostrato gli eventi in Afghanistan, Iraq e Libia, ed in Jugoslavia.
Un discorso specifico merita la condotta internazionale degli Stati Uniti d'America, i quali hanno esteso, sin dall'intervento unilaterale contro il legittimo Governo Arbenz in Guatemala (1954), la portata del concetto di “intervento domestico” fino a “legittimare” di fatto qualsiasi intervento unilaterale o multilaterale internazionale, dietro la “giustificazione” della minaccia (reale o presunta) ai propri interessi nazionali. Basti ricordare, per linee generali, quanto accaduto proprio in Guatemala: il presidente Eisenhower era d'accordo sul fatto che il governo progressista, legittimamente eletto, di Arbenz dovesse capitolare e Allen Dulles incaricò la CIA di organizzare un colpo di stato politico-militare. La CIA, a propria volta, addestrò ed armò un esercito di ribelli e ne trovò il leader in Carlos Castillo Armas. L'incaricato della CIA era Howard Hunt che, in questi termini, ricapitolò il golpe guatemalteco: «Volevamo fare una campagna terroristica, in particolare per terrorizzare Arbenz e le sue truppe, come i bombardieri Stukas terrorizzavano la popolazione civile bombardando l'Olanda, il Belgio e la Polonia all'inizio della Seconda Guerra Mondiale. Riuscivamo così a paralizzare la gente con il terrore». È appena il caso di sottolineare le analogie con le strategie golpiste, eversive e di destabilizzazione applicate dagli Stati Uniti anche in seguito: ultimo, in ordine di tempo, il Venezuela Bolivariano, il cui governo progressista è alle prese, sin dalla fine del 2013, con un c. d. golpe suave.
Ecco perché è più che mai opportuno ribadire con forza che non vi è alternativa al potere dei popoli e all'esigenza che i popoli stessi “prendano in mano” le Nazioni Unite, diventando, al tempo stesso, attori e protagonisti della sicurezza collettiva. Si tratta di imporre all'agenda politica alcuni compiti:
a) la riforma delle Nazioni Unite;
b) l'introduzione della cosiddetta organizzazione economica e finanziaria nella dinamica di “sicurezza collettiva”, essendo sempre più stretto il nesso tra manipolazione economica e sicurezza nazionale;
c) l'applicazione di strumenti di auto-determinazione, di autonomia e di indipendenza effettivi per tutti i popoli del mondo, allo scopo di dare sostanza ai principi generali enunciati nella Carta dell'ONU.
La legge internazionale, infatti, non esiste se non nella misura in cui viene costantemente applicata, sperimentata e praticata. Ecco perché i popoli devono prendere in mano le Nazioni Unite, al fine di coniugare, finalmente, legge, diritto e giustizia, in particolare nel delicato ambito internazionale. La coniugazione della legge, del diritto e della giustizia può avvenire solo sulla base dei principi (a partire da quelli sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite: sovranità, auto-determinazione, libertà dei popoli, non ingerenza, pace e sicurezza collettiva) e della pratica (la fine della giustizia internazionale è la politica del “doppio standard”, ampiamente praticata dalla NATO, come dimostrano numerosi casi concreti, da quello storico del Kosovo del 1999 a quello più recente della Crimea di questo 2014).
A tal proposito, degno di nota e di acuto interesse, l'intervento di Vladimir Kozin (leading researcher presso l'Istituto di Studi Strategici della Federazione Russa), secondo il quale, a proposito, ancora, delle eredità della guerra contro la Jugoslavia e del paragone con l'attuale crisi in Ucraina e, in particolare, con la situazione in Crimea ed il parallelo tra la Crimea e il Kosovo, è necessario studiare la configurazione del problema e mettere in luce i tratti caratteristici della situazione locale specifica:
a) l'indipendenza del Kosovo è stata dichiarata e proclamata (17 Febbraio 2008) dopo una lunga transizione che ha fatto seguito ad un bombardamento e ad una aggressione internazionale, al di fuori del diritto e della legalità internazionale; mentre l'auto-determinazione di Crimea, sancita da referendum popolare (16 Marzo 2014), non ha fatto seguito ad alcuna guerra né ad alcuna aggressione militare;
b) in Kosovo si sono registrati una catastrofe umanitaria ed un esodo con centinaia di migliaia di profughi e sfollati, che ha portato, tra le altre cose, ad un consistente sbilanciamento etnico della popolazione; mentre in Crimea non si è registrato nulla di tutto questo e nessuna alterazione etnica;
c) in Kosovo l'indipendenza è avvenuta in forza di una dichiarazione unilaterale pilotata o, almeno, ampiamente condizionata, da forze e soggetti internazionali, tra l'altro da tempo attivi ed operanti, sia con funzioni civili, sia con funzioni militari, sul territorio stesso del Kosovo; mentre in Crimea vi è stato un referendum popolare, indetto dal parlamento locale, dotato di una propria autonomia anche nel quadro del regime precedente, con il consenso popolare ed una ampia partecipazione elettorale.
D'altro canto, è possibile considerare l'evoluzione della situazione in Crimea come la conseguenza di un colpo di stato formalmente illegittimo, che ha deposto il presidente legittimamente eletto nelle precedenti elezioni presidenziali (a prescindere a tal riguardo dal giudizio di merito e dalla valutazione politica del suo operato), e che ha fatto seguito ad una mobilitazione, anche armata, di piazza, a sua volta sostenuta da un'azione internazionale di destabilizzazione. Tale azione, peraltro, è venuta ad evidenza all'indomani delle iniziative intraprese, non solo dalla Unione Europea, ma, al suo interno, in particolare, dalla Germania e dalla Polonia. È necessario, dunque, porre la dovuta attenzione ai condizionamenti e alle ingerenze che hanno profondamente alterato e destabilizzato il quadro politico ucraino e determinato in ampia misura l'evoluzione e la degenerazione della protesta di Euro-Majdan.
Uno dei leader del golpe, con la sua “Alleanza Democratica Ucraina” (“Udar”, che tra l'altro, in russo, significa “Colpo”), è stato il pugile Vitalij Klitschko, sostenuto ufficialmente dalla CDU di Angela Merkel. Aleksander Kwasniewski, membro della Commissione di Monitoraggio del Parlamento Europeo ed ex Presidente della Polonia, ha apertamente consigliato ai manifestanti di aumentare la pressione sulle autorità ucraine. I Ministri degli Esteri di Polonia (Radoslav Sikorski) e Svezia (Carl Bildt), in una dichiarazione congiunta, hanno espresso piena solidarietà ai manifestanti anti-governativi. Il Ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, ha compiuto una missione a Kiev per incontrare i capi dell’opposizione ucraina, prima di unirsi ai manifestanti anti-governativi in Piazza Indipendenza. Il leader del partito conservatore ed ultra-nazionalista polacco di “Legge e Giustizia” nonché ex premier, Jaroslaw Kaczynski, ha, non diversamente, preso parte attiva alle manifestazioni di Kiev.
Inoltre, Germania, Stati Uniti ed Unione Europa stanno apertamente sostenendo non solo il partito di opposizione tradizionale “Patria” di Julja Tymoshenko, ma anche “Pravij Sektor”, esplicitamente schierato su posizioni neo-naziste, il cui leader, Dimitri Jarosh, è candidato alle prossime elezioni presidenziali. È bene richiamare alcuni tra i protagonisti del golpe ucraino, i neo-fascisti di “Svoboda” (la cui precedente denominazione è stata quella di “Partito Nazionalsocialista di Ucraina”), i neo-nazisti di “Pravij Sektor” (“Settore di Destra”), le milizie di “Trbuz” (“Tridente”) e “Una-Unso” (“Assemblea Nazionale Ucraina - Autodifesa del Popolo Ucraino”), tutte assolutamente anti-semite, anti-russe e xenofobe, che non hanno esitato ad esporre le effigi di Stepan Bandera, il nazista sterminatore di ebrei, comunisti, russi e polacchi che governò l’Ucraina sotto l’occupazione hitleriana. Queste forze - fasciste e neo-fasciste - esprimono numerosi ministri nel nuovo governo ucraino di transizione. Hanno imposto l’eliminazione del russo come lingua ufficiale, scatenando la reazione in tutta l’Ucraina sud-orientale a maggioranza russa, memore dei programmi di Svoboda e Pravij Sektor che prevedono il carcere per chi anche solo si dichiari a favore dell’aborto, il divieto di proclamarsi “comunisti”, l’indicazione sui passaporti dell’appartenenza etnica e religiosa, la creazione di un arsenale nucleare nazionale, l’entrata nell’Unione Europea (richiesta da Svoboda, osteggiata dai nazisti di Pravij Sektor e da altri gruppi neo-nazisti) e nella NATO, esclusivamente in funzione anti-russa.
Come accennato, i neo-fascisti di Svoboda esprimono il vice-premier (Oleksandr Sych) e quattro ministri: Difesa (Igor Tenjukh), Ambiente (Andriy Mokhnik), Agricoltura (Igor Shvajka), Istruzione (Sergej Kvit). È tra i leader di Svoboda anche Andriy Parubiy, Segretario del Consiglio Nazionale di Sicurezza e Difesa, che controlla la polizia e le forze armate. Dmitriy Jarosh, il capo dei neo-nazisti di Pravij Sektor, è il vice-segretario del Consiglio Nazionale di Sicurezza e Difesa ed è candidato a Presidente della Repubblica. Infine, un neo-fascista di Una-Unso (Dmitry Bulatov) è Ministro della Gioventù e dello Sport. Nondimeno, Procuratore Generale è stato nominato Oleg Makhnitskiy, di Svoboda, e Presidente della Commissione Nazionale Anticorruzione è Tatyana Chornovol, di Una-Unso. Come riferito dal Ministero degli Esteri della Federazione Russa, le nuove “autorità” ucraine hanno già avanzato proposte tese a legittimare Pravij Sektor per farne una struttura militare ufficiale.
Ritenere che l'Italia sia estranea a questo scenario globale, o non porti responsabilità specifiche nel vortice di guerra in cui l'interventismo atlantico sta precipitando il mondo, è ingenuo ed aleatorio. Come ricordato da Stojan Spetić (già Senatore della Repubblica, oggi impegnato nel Forum contro la Guerra - Italia), la politica europea ha imposto integrazione in Europa Occidentale e disintegrazione in Europa Orientale; a sua volta, la fine della Guerra Fredda, pur accompagnata da speranze di “dividendi di pace e di democrazia”, è all'origine di una nuova stagione di imperialismo globale. È appena il caso di ricordare qui che il 2014 è un anno di ricorrenze e di memorie, ricorrendovi non solo il centenario della “inutile strage”, la Prima Guerra Mondiale, ma anche il ventennale dell'assedio di Sarajevo, della Guerra di Bosnia, del Genocidio in Ruanda, e il quindicinale della Guerra del Kosovo.
In tale contesto, l'aggressione atlantica e, in particolare, europea, contro la Jugoslavia si sta riversando oggi all'interno dei confini stessi dell'Europa e, in particolare, dell'Unione Europea, sia perché la frammentazione e la disintegrazione si stanno avvicinando all'ingresso ufficiale nell'Unione Europea, sia perché l'Unione Europea sta oggi aggredendo, con i mezzi di una vera e propria guerra economica e finanziaria, i suoi stessi Stati Membri, a partire dai c.d. PIGS e in particolare la Grecia. Nessuno può arrogarsi il diritto di sindacare sulla sovranità, la libertà e la territorialità di Stati e di regioni e, in particolare, di regioni negli Stati, pena precipitare, inevitabilmente, nell'insopportabile politica del “doppio standard”, per la quale si sono fatti gli esempi della Crimea e del Kosovo ma per la quale si potrebbe pure obiettare - perché ciò che è valso per il Kosovo non possa valere anche per il Sud Tirolo.
I problemi, in particolare quelli di carattere internazionale, possono essere risolti, in linea con lo spirito delle Nazioni Unite, solo con il dialogo, la cooperazione ed il mutualismo internazionale, e mai con la forza, l'aggressione o la violenza. Le cosiddette “coalizioni dei volenterosi” non devono promuovere iniziative di guerra ma di dialogo. Non sempre, da questo punto di vista, l'Italia ha giocato un ruolo positivo, e, in particolare, nel caso della Jugoslavia e del Kosovo, è stata nella prima linea di guerra e ha tradito le aspettative di pace di ampia parte della sua stessa popolazione. La partecipazione all’intervento armato senza mandato legittimo non imbarazzò il governo italiano e rappresentò un tradimento delle speranze di pace del popolo. A titolo di esempio, basti ricordare l'intervento al Senato del vice-presidente del Consiglio, Sergio Mattarella: «Sappiamo tutti che l’ONU non ha autorizzato un intervento armato in Kosovo. È anche a tutti nota la ragione per cui ciò non avviene: la ferma opposizione di Paesi con diritto di veto in Consiglio di Sicurezza». Con una singolare interpretazione, ciò non costituiva, secondo il governo, una circostanza ostativa, bensì l’occasione per invocare «una riforma del Consiglio di Sicurezza che lo renda più democratico e più rappresentativo, ponendo le premesse per un superamento del diritto di veto». Quindi, la mozione di maggioranza alla Camera, più che approvare la partecipazione italiana all’intervento armato, fu improntata all’intento di promuovere o assecondare ogni iniziativa utile a porvi fine per “riprendere i negoziati e sospendere i bombardamenti”. Toccò al premier, Massimo D’Alema, dopo avere assicurato che un canale per la ripresa delle trattative dovesse restare aperto, ribadire che: «Ciò non ha nulla a che fare con uno strappo alle nostre responsabilità o con il venire meno di un atteggiamento di solidarietà verso i nostri alleati».
In conclusione, come segnalato (www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o43019) anche in uno dei più recenti documenti di elaborazione, maturati nell'ambito della rete nazionale contro la guerra e per la pace (Rete Nowar Napoli): «La vicenda ucraina rappresenta l’anello più recente di una catena di avvenimenti della politica internazionale in direzione di una crescente conflittualità tra le principali potenze mondiali, la cui evoluzione dovrebbe far scattare più di un campanello di allarme tra gli attivisti per la pace e contro la guerra. La competizione non si svolge più solo con gli strumenti della finanza o della diplomazia ma sempre più spesso attraverso l’uso delle armi e l'esercizio della guerra. Inviate ai propri alleati locali nei Paesi che si intende destabilizzare o usate direttamente dai propri eserciti di occupazione o aggressione, lo svolgimento della contrapposizione dipende dai rapporti di forza e da valutazioni di opportunità. I rumori di guerra si avvicinano in maniera crescente al centro dell’area europea, ma ciò non sembra ridare vitalità a quel movimento per la pace e contro la guerra che, di fronte all’aggressione all’Iraq del 2003, portò in piazza milioni di persone per denunciare la guerra. Siamo entrati in una fase in cui il confronto tra le potenze non può rimanere più confinato in aree limitate, bensì è destinato a sfociare in uno scontro a tutto campo in cui si accumulano condizioni per un conflitto - tendenzialmente mondiale - generalizzato, che solo una opposizione radicale, in tutti i Paesi coinvolti, può arrestare. È necessario ritrovare le motivazioni per una opposizione “senza se e senza ma” ai crescenti e minacciosi interventi militari comunque vengano giustificati e mascherati».
1. Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia: www.cnj.it
2. Forum di Belgrado per un Mondo di Eguali: www.beoforum.rs/en
3. Novi Plamen Rivista: www.noviplamen.org
4. Centro di Cultura e Documentazione Popolare: www.resistenze.org
5. Il Pane e le Rose: classe capitale partito: www.pane-rose.it
6. Mnemosyne: Centro Tutela Patrimonio Culturale, www.mnemosyne.org.rs/index.php/en.html
7. Redazione Sibialiria: www.sibialiria.org
8. Centro Studi “Sereno Regis”: www.serenoregis.org
9. Pressenza International Press Agency: www.pressenza.com/it
10. Istituto Italiano di Ricerca per la Pace - Rete CCP: www.reteccp.org
Pubblicato su: RESeT Papers
Data pubblicazione: 5 Aprile 2014
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(3-4-5/5: fine) Sui compiti urgenti di un movimento antimilitarista
1) CRISI UCRAINA E RUMORI DI GUERRA:
Comunicato della redazione di Marx21.it, 3 Maggio 2014
IL CONVEGNO DEL 25 APRILE ALL’ARENA DI VERONA: TRA SILENZI ED OMISSIONI, CONTRADDIZIONI E CONFLITTI DI INTERESSE.
I risultati del convegno che si è svolto nel giorno della Liberazione all’Arena di Verona, per quanto emerge dai resoconti di “arenadipaceedisarmo.org”, sono caratterizzati, come purtroppo ampiamente previsto, da parole d’ordine ispirate ad un pacifismo generico e da una proposta concreta che entra in evidente contraddizione con la realtà dei fatti che avvengono nel mondo, che anzi vengono sempre sistematicamente ignorati.
Naturalmente è certamente condivisibile la richiesta di annullamento dell’acquisto delle costose macchine di morte chiamate F-35 e sono apprezzabili gli inviti, peraltro generici, a sostenere campagne per un disarmo generale, che pure sono stati presentati nell’ambito del convegno.
Ma perché gli organizzatori ed i partecipanti non sono scesi sul terreno dei fatti concreti che stanno avvenendo nel mondo e che dimostrano un pericoloso e tragico scivolamento verso scenari di guerra totale? Perché non denunciare il chiaro coinvolgimento dello stesso governo italiano in questi fatti?
Per ricordare solo i fatti più importanti:
Da più di 12 anni le nostre truppe sono impegnate, insieme ad altre truppe della NATO, in una sanguinosa guerra in Afghanistan che sta finendo di distruggere quel martoriato paese.
Negli anni ’90 le nostre truppe hanno partecipato, insieme ad altre truppe della NATO, alle guerre contro la Yugoslavia che hanno portato al definitivo smembramento di quel paese.
Nel 1999 il nostro governo ha aderito ad un rinnovamento dei trattati NATO che hanno trasformato l’alleanza da organizzazione difensiva in un’alleanza offensiva. In seguito l’alleanza è stata aggressivamente spostata verso l’Est Europa inglobando paesi dell’ex-Patto di Varsavia, dell’ex-Yugoslavia e dell’ex-Unione Sovietica, arrivando a schierare basi e batterie di missili quasi ai confini della Russia in Polonia, Repubblica Ceca, ecc.
Nel 2003 le basi militari italiane sono servite a lanciare un micidiale attacco distruttivo contro l’Iraq sulla base di bugie evidenti (le famose armi di distruzione di massa).
Nel 2011 l’esercito italiano ha partecipato direttamente all’attacco della NATO contro la Libia che ha ridotto quel paese, un tempo il più ricco dell’Africa, nel caos totale.
Dal 2011 ad oggi il governo italiano partecipa alle riunioni del gruppo “amici della Siria” dove vengono programmati finanziamenti ed aiuti militari alle bande di fanatici che stanno devastando e tentando di destabilizzare il paese.
Il governo italiano appoggia attualmente il tentativo degli USA e di alcuni paesi europei di estendere l’influenza della NATO anche sull’Ucraina, dove un colpo di stato di estrema destra, ispirato direttamente dagli USA, ha abbattuto il presidente Janucovitch eletto in regolari elezioni. Ricordiamo che l’azione statunitense era stata apertamente rivendicata, già prima dell’inizio dei disordini a Kiev, dalla vice-ministra degli Esteri statunitense, Sig.ra Nuland, che aveva anche indicato il nome del nuovo presidente Yaseniuch, poi effettivamente imposto dai golpisti.
Nel meeting di Verona, invece di esaminare questi concreti problemi e denunciare le eventuali responsabilità, la proposta principale è stata quella di spostare fondi nell’ambito del Ministero della Difesa italiano dalle spese militari ad un Dipartimento di Difesa Civile. Lo scopo sarebbe quello di finanziare dei Corpi Civili di Pace che dovrebbero, ad esempio, fare azioni di interposizione in caso di guerre. Ci risulta tra l’altro che già circa 9 milioni di Euro siano stati forniti dal governo italiano per attività già svolte da organizzazioni presenti al meeting.
Ma gli organizzatori del convegno non si sono resi conto dell’inestricabile groviglio di contraddizioni e conflitti di interesse che questa proposta creerebbe in assenza di un’analisi concreta della situazione esistente.
Visto che in concreto tutte le ultime guerre scatenate negli ultimi 20 anni hanno visto la partecipazione della NATO e dello stesso governo italiano, i Corpi di Pace dovrebbero essere finanziati da quello stesso governo che scatena guerre violando l’art. 11 della nostra Costituzione? Forse i membri dei Corpi di Pace dovrebbero fare azione di interposizione tra due schieramenti di cui uno è finanziato dal medesimo governo che dovrebbe finanziare i Corpi stessi?
Ci si può anche chiedere: i costosi e sofisticatissimi F-35 della Lockeed contro chi dovrebbero essere schierati? Contro i prossimi nemici della NATO come sembra debbano essere considerati Russia e Cina, potenze emergenti che fanno ombra agli USA? E se invece degli F-35 fossero schierati gli Eurofighters di fabbricazione europea, questo sarebbe più accettabile?
Si può ritenere che i silenzi e le evidenti omissioni degli organizzatori e partecipanti di Verona su ciò che sta concretamente avvenendo nel mondo di fatto servano a coprire le contraddizioni cui le loro proposte ed il loro pacifismo generico vanno inesorabilmente incontro.
Vincenzo Brandi (della Rete No War Roma)
Fermiamo l'aggressione militare e le violenze fasciste in Ucraina. Isoliamo la giunta golpista di Kiev sostenuta da USA e UE
Comunicato della redazione di Marx21.it
Apprendiamo con orrore che, nel corso dell'operazione repressiva scatenata dalla giunta golpista di Kiev contro le popolazioni del Sud-Est dell'Ucraina, colpevoli solo di rivendicare la costruzione di un assetto federale del paese, in cui siano salvaguardati i diritti delle minoranze nazionali e dei cittadini ucraini che parlano la lingua russa, gruppi nazifascisti, che coadiuvano l'esercito di Kiev, hanno appiccato il fuoco alla Casa dei Sindacati di Odessa, dove si riuniscono gli attivisti per il referendum sull'assetto federale e gli oppositori della giunta di Kiev, provocando (dopo avere bloccato tutti gli accessi all'edificio) la morte di decine di persone che stazionavano nell'edificio, in massima parte militanti del Partito Comunista di Ucraina e di altre organizzazioni di sinistra.
Un altro atto efferato che si aggiunge agli innumerevoli pogrom attuati negli ultimi mesi dai gruppi paramilitari dell'estrema destra e ai massacri perpetrati dalle truppe dell'esercito di Kiev in tutte le principali città di questa parte dell'Ucraina, in particolare a Slavjansk, assurta a simbolo della resistenza antifascista.
Gravissime sono le responsabilità degli Stati Uniti e dei governi dell'UE, compreso quello italiano, che invece di contribuire alla messa in pratica degli accordi di Ginevra stanno gettando benzina sul fuoco, appoggiando apertamente la giunta di Kiev e dislocando truppe e armamenti nei paesi dell'Europa orientale facenti parte della NATO.
In questo contesto drammatico, riteniamo in particolare esecrabile il comportamento dell'apparato mediatico nel nostro paese, che si caratterizza per l'uso sfacciato della menzogna e per l'allineamento supino alla propaganda degli aggressori.
Nel manifestare il nostro sdegno per la crudeltà con cui viene portata avanti l'operazione criminale della giunta golpista di Kiev, per il cinismo degli strumenti utilizzati e per l'uso sfacciato delle squadracce fasciste, esprimiamo la nostra piena solidarietà alle popolazioni ucraine in lotta per i loro diritti e contro il fascismo e ai nostri compagni del Partito Comunista di Ucraina, in prima fila in questa sacrosanta battaglia profondamente democratica.
Rivolgiamo un invito pressante a tutte le forze democratiche del nostro paese perché uniscano la loro voce alla nostra nella ferma denuncia dell'aggressione fascista e imperialista, sviluppando un ampio movimento di opinione in grado di ottenere dal nostro governo la piena revisione del suo attuale approccio di completa subalternità alle iniziative di guerra della giunta di Kiev, sostenute da USA, UE e NATO.
La redazione di Marx21.it
E' evidente come si tratti di uno scontro tra i due blocchi imperialisti che si vanno ricostituendo: da un lato la Russia con le sua ambizioni imperiali, dall'altro gli USA (pure in difficoltà economiche. situazione nella quale gli americani hanno sempre cercato di risolvere le cose con l'aggressività bellica) che stanno chiedendo all'Europa di tornare alla situazione pre-caduta del muro con un allineamento totale alla cosiddetta fedeltà atlantica.
Si tratta di una situazione pericolosissima che porterebbe ad uno stato di tensione pre-bellica (se non direttamente già bellica) in una delle situazione strategicamente fondamentali con il rischio, davvero, dell'esplodere di un conflitto di proporzioni gigantesche, considerato anche l'esistenza di situazioni molto delicate su altri scacchieri: dal Medio all'Estremo Oriente.
Il ruolo di pace dell'Europa è fondamentale ma non basta esprimerlo a parole: è necessaria un'azione politica che richieda la neutralità e la smilitarizzazione, sapendo che si tratta di situazioni molto complicate e di difficile approccio, anche sul piano organizzativo richiedendo infatti un afflato internazionalista e una dimensione transnazionale.
Il modello non può che essere quello dei pochi che, nel 1914, si opposero all'allineamento dei grandi partiti socialisti europei, significativamete dell'SPD alla logica delle Union Sacree e della votazione dei crediti di guerra.
E' ancora la storia del movimento operaio e dei comunisti che ci indica la strada in questo momento di fortissima difficoltà: chiedere la neutralità dell'Europa, fare della pace un obiettivo strategico, connettere tutti i soggetti antagonisti attorno a questo obiettivo può fornire davvero un senso profondo all'idea del controsemestre europeo.
Non basta però rifletterci, è necessario agire.
*****
E' stata una notte di scontri nell'Ucraina orientale. Dopo che venerdì la guerra era scoppiata in tutta la sua violenza. Ma arriva anche una buona notizia: gli osservatori militari dell'Osce in ostaggio a Sloviansk sono stati liberati. Lo ha reso noto Vladimir Lukin, inviato del Cremlino nel sud-est ucraino, citato dalla tv Russia Today.
I morti
Strage a Odessa
Il ministro ucraino
La dinamica della strage
Scontri tra polizia anti-sommossa e tatari (minoranza etnica musulmana) sono scoppiati oggi in Crimea, vicino al confine dell'Ucraina, quando il leader storico tataro, Moustafa Djemilev, ha tentato di rientrare nella penisola riannessa alla Russia, dopo esserne stato espulso qualche settimana fa. Djeminev, che ha denunciato a più riprese l'annessione della Crimea alla Russia, aveva già cercato di tornare tra la sua gente prendendo un aereo, ma a Mosca era stato respinto e costretto a rientrare a Kiev. La Medjlis, assemblea dei Tatari di Crimea, ha deciso allora di attendere il proprio capo al posto di frontiera di Armiansk. Circa 2 mila tatari si sono scontrati con la polizia locale, senza però riuscire a far rientrare il loro leader. Il governatore ad interim della Crimea, Serghei Axionov ha denunciato la provocazione, accusando Djemilev di «voler seminare il caos». I tatari della Crimea rappresentano il 12% della popolazione della penisola riannessa unilateralmente alla Russia.
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