Informazione

Nel corso del convegno saranno presentati i Dossier "I FALSI AMICI" e "LA FONDAZIONE RSI"
Per intervenire è necessario iscriversi inviando la propria richiesta a: jugocoord @ tiscali.it

Evento Facebook: https://www.facebook.com/events/691760534181752/
Scarica la locandina: https://www.cnj.it/INIZIATIVE/volantini/LOCANDINA_FALSIAMICI.jpg

Per ogni ulteriore informazione o aggiornamento fare riferimento alla pagina: https://www.cnj.it/INIZIATIVE/falsiamici.htm

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CONVEGNO
I FALSI AMICI

Il fenomeno "rossobruni" / I fascisti del terzo millennio / Nazifascismo e Balcani / Nazifascismo e Medioriente / La Fondazione RSI / Infiltrazione nera nell'estrema sinistra / Nazifascismo e nazionalismi


A 70 ANNI DALLA RESISTENZA
CONTRO LE INFILTRAZIONI NEOFASCISTE
NELLE INIZIATIVE DI SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE
E NELLE LOTTE SOCIALI


AREZZO, SABATO 7 DICEMBRE 2013, ORE 11-18
presso la Camera del Lavoro, via Monte Cervino 24


# organizzano:

ANPI - Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, sezione di Arezzo

CAAT - Coordinamento Antifascista Antirazzista Aretino

# promuovono:

Un Ponte per... ONG

Coordinamento nazionale per la Jugoslavia ONLUS

Contropiano rivista


# il programma del convegno in dettaglio:

ORE 11:00 Interventi degli organizzatori e dei promotori

coordina Susanna Angeleri

Guido Occhini (ANPI - Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, sezione di Arezzo)
saluto

Laura Vichi (CAAT - Coordinamento Antifascista Antirazzista Aretino)
presentazione del Dossier Fondazione RSI

Alessandro Di Meo (Un Ponte per... ONG)
presentazione del Dossier I FALSI AMICI

Andrea Martocchia (Coordinamento nazionale per la Jugoslavia ONLUS)
nazifascismo e Balcani

Sergio Cararo (Contropiano Rivista)
i fascisti del Terzo Millennio

ORE 13:30 Pausa

pranzo in loco, a sottoscrizione

ORE 14:30 Relazioni ad invito

Claudia Cernigoi (La Nuova Alabarda / Diecifebbraio.info - Trieste)
"rossobruni" e nuova destra "internazionalista"

Fabio De Leonardis (storico - Bari)
le "relazioni pericolose" del sionismo

Davide Conti (storico - Roma)
per una storia dell'infiltrazione "nera" nell'estrema sinistra

Marco Santopadre (Rete dei Comunisti - Roma)
la strumentalizzazione della causa irlandese e basca

Vincenzo Brandi (Rete No War - Roma)
la strumentalizzazione della questione medio-orientale

A SEGUIRE Interventi programmati di gruppi e associazioni
Per intervenire è necessario iscriversi inviando anticipatamente la propria richiesta a: jugocoord @ tiscali.it



A.N.V.R.G. ASSOCIAZIONE NAZIONALE VETERANI E REDUCI GARIBALDINI

GIUSEPPE GARIBALDI

(Ente Morale – D.P.R. 29-3-1952 N.1060) Largo Porta S.Pancrazio, 9 -00153 ROMA

Presidente

Annita Garibaldi Jallet


Cari amici,

Il 24 ottobre scorso, l'Associazione Nazionale Combattenti della guerra di Liberazione, presieduta dall'Ambasciatore Alessandro Cortese de Bosis, ha organizzato a Roma, presso il Comando della Guardia di Finanza, un convegno dedicato alle Forze Armate italiane presenti all'estero nel settembre 1943.

Chiamata a trattare, in nome dell'ANVRG, della Divisione Garibaldi in Jugoslavia, ho svolto la relazione che accludo, come contributo per la celebrazione del prossimo 2 dicembre, 70° anniversario dei fatti dolorosi e gloriosi.

Tra gli altri nostri contributi, il nostro Ufficio Storico, il cui direttore è il dott. Matteo Stefanori, ha prodotto, in collaborazione con l'Istituto per la storia della Resistenza di Torino, un documentario che in questi giorni possiamo vedere su Rai Storia. Ricordiamo che a Porta San Pancrazio disponiamo di una ricca biblioteca sull'argomento, di un archivio fotografico unico e di grande bellezza, consultabile sul monitor della Sala del Museo dedicata alla Divisione Garibaldi dove sono tutt’ora conservati i cimeli.

Buon 2 dicembre a tutti, nel dovere della memoria e nella speranza della pace. Annita Garibaldi



La Divisione Italiana Partigiana Garibaldi

La vicende di questa Divisione italiana che ha combattuto il nemico nazista in Jugoslavia dal 1943 al 1945 a fianco dell’esercito di liberazione di Tito sono ben conosciute, sia grazie all’opera dell’Ufficio storico del Ministero della Difesa e della speciale Commissione per lo studio della resistenza dei militari italiani all’estero, sia grazie all’imponente memorialistica dei suoi reduci, la quale continua ancora ad alimentare la nostra rivista “Camicia Rossa”.

Nel contesto politico internazionale degli anni 1945-46, la posizione dei reduci fu guardata con sospetto. Si erano spenti i governi di liberazione nazionale, non soffiava più il vento del nord. Iniziò una nuova guerra, la guerra fredda. I reduci, restituiti per la maggior parte alla vita civile, vollero allora rimanere uniti per ricordare e decisero di formare una associazione.

L’Associazione Nazionale Veterani Garibaldini era rinata nel 1944 nella Roma liberata dalle ceneri delle associazioni disciolte nel 1926. Di queste ormai vi erano in vita solo alcuni veterani, per ultimi quelli della campagna delle Argonne del 1914. Aderirono ovviamente coloro che si erano rifiutati di riconoscersi nella Federazione delle Associazioni garibaldine nata nel novero del Regime. Ma a Roma non si sciolsero, sotto varie spoglie, alcune associazioni che avevano fatto parte della Federazione e le amnistie avrebbero rapidamente contribuito a confondere gli ideali della nuova associazione con un generico garibaldinismo. Si sarebbe arrivati, probabilmente, a breve termine ad una fusione tra tutte le associazioni.

Roma, 12 novembre 2013

Tra la fine del 1945 e i primi mesi del 1946, alcuni reduci della Divisione Garibaldi si erano riuniti a Firenze con il proposito di costituire una loro associazione. Ma poi si convinsero, sotto la pressione di alcuni veterani, che era meglio confluire in massa nella vecchia associazione, le cui tradizioni patriottiche e gli scopi morali, fissati dallo statuto sociale, avevano bisogno dell’apporto di chi vedeva nel nome di Garibaldi il legame tra Risorgimento e Resistenza . L’Associazione, spostando il suo baricentro a Firenze, si allontanò dai compromessi di Roma. L’Associazione diventò “Veterani e Reduci “, e fu riconosciuta come ente morale dal Ministero della Difesa nel 1952. Presieduta fino a due anni or sono da esponenti della Divisione Garibaldi, ha conservato gelosamente la sua identità, e la conserverà curandone musei e biblioteche che illustrano tutte le campagne del Risorgimento, dalla Repubblica Romana a Mentana, dall’Armata dei Vosgi alle Argonne, alla Resistenza garibaldina militare e civile.

Perché la Divisione Venezia, la Divisione Taurinense ed altri piccoli corpi dispersi nel marasma della Jugoslavia dell’8 settembre 1943 scelsero il nome di Divisione Garibaldi ? La primogenitura della scelta è controversa, ma sembra tuttavia che debba essere fatta risalire allo stesso Tito che , credendo di dovere ricomporre all’interno dell’esercito partigiano jugoslavo i pezzi sparsi dell’Esercito italiano e di eserciti di altre nazionalità, doveva dare lorun nome che fosse, da una parte, considerato al disopra delle parti ma d’altra parte si riallacciasse al volontariato militare internazionale della guerra di Spagna, al quale Tito stesso si ispirava. D’altra parte, sostiene Stefano Gestro, uno degli storici della Divisione Italiana più serio e documentato, “ il nome di Garibaldi era conosciuto e venerato tra i jugoslavi e specialmente tra i montenegrini fin dal 1862 perché reparti di Garibaldini avevano combattuto in Jugoslavia durante le guerre di insurrezione contro i turchi e gli austriaci”. E in ben altre circostanze ancora, fino ai tempi moderni. Ma non vi era d’altra parte nome che più chiaramente potesse significare il mantenimento della identità italiana da parte di quei due corpi che avrebbero costituto l’unica Divisione, la “Garibaldi”. Il fatto che ambedue, seppur distanti sul territorio, abbiano optato per questo nome, lascia intendere che la scelta sia stata suggerita dall’alto. Una scelta giusta che voleva affermare non la fusione in una grande formazione internazionale, ma la caratteristica di corpo italiano dei nuovi “partigiani” della Divisione “ Venezia “ di Oxilia e della Divisione “Taurinense” di Vivalda.

La Divisione Garibaldi si costituisce il 2 dicembre 1943, ben 5 mesi, si noti, dopo il 25 luglio, data della caduta del regime mussoliniano. Al momento l’Italia sembra volere assicurare la continuità dello Stato, con la presenza di un Re e di un governo, il Governo Badoglio, che ha i crismi della legittimità. Questa legittimità è assicurata , per gli Alleati, dal Governo del Re, che oltretutto essendo rifugiato a sud, è sotto loro controllo. Ma in Italia e tra i nostri reparti all’estero sono diverse settimane, se non alcuni mesi, che si fanno tutte le ipotesi sul futuro dell’alleanza germano- italiana, sapendo che questa, più di ogni altra ragione, è la posta in gioco nel rovesciamento del regime di Mussolini. Si parla di resa italiana, di sbarco anglo-americano. I cetnici tentano di ricreare una struttura politico-militare con l’aiuto degli occupanti tedeschi, i quali cercano di infiltrarsi nei territori occupati dagli italiani prevedendo che presto gli italiani potrebbero non essere più alleati.

Lo storico Eric Gobetti ha coniato una formula efficace: gli italiani ormai sono “alleati del nemico”, dice.La zona d’occupazione italiana è come congelata, non vi si svolgono più rappresaglie. Ci sono azioni sporadiche ma Gobetti parla di “ senso di abbandono e di inutilità”. L’incertezza, la mancanza di disposizioni precise, fa circolare un’aria di sconfitta che mina il morale degli uomini. Mantenere la disciplina in queste condizioni è molto difficile, benché arrivino messaggi che si vogliono stimolanti o minacciosi dall’Italia. Il generale Roatta è capo di Stato maggiore dell’Esercito. Non esita a fare fucilare 28 alpini che si sono arresi senza eccessiva resistenza ai partigiani. I militaritaliani hanno perso le loro motivazione. E ben prima dell’8 settembre si ritrovano privi di istruzioni. Questo spiega che il comportamento sia diverso, secondo la posizione geografica dei corpi, e persino dei singoli ufficiali. Per esempio, una Compagnia del Battaglione “Intra”, capitano Piero Zavattaro Ardizzi , aggredito dai partigiani, ne uccide uno e si prepara ad una azione a vasto raggio in collaborazione con i tedeschi. L’azione è prevista, fortunatamente, solo per il 9 settembre. Altri come Pirzio Biroli, conosciuto per i massacri compiuti sui partigiani, ma genero del Generale Von Hassel, fucilato dopo l’attentato a Hitler guidato da Stauffenberg , riesce ad arrivare in Italia e a Sud e si vede affidare dagli americani compiti nell’Esercito alleato. Le poche notizie che arrivano della situazione della patria contribuiscono alla confusione generale.

All’annuncio dell’Armistizio i nostri corpi rimangono isolati. Quali sono le soluzioni? Qualcuno fugge verso l’Italia, la famosa fuga verso il mare; qualcuno, pochi elementi, si unisce ai nazisti, nei campi tedeschi finiscono i prigionieri italiani fatti dagli stessi tedeschi. Alcuni tentano di resistere ai tedeschi, rimanendo uniti, altri sono persino abbandonati dai loro ufficiali, altri raggiungono i partigiani dai primi di settembre. Lo sbandamento è prima di tutto morale, e colpisce soprattutto ovviamente chi si ritrova in piccoli gruppi o isolato.

Emblematico il caso della Divisione “Venezia” che confluisce tutta intera nell’Esercito partigiano, evitando perdite e sbandamenti. I resti del Divisione “Taurinense” seguono poco dopo, ed altri piccoli distaccamenti come la Divisione “Italia”. Gli ufficiali stessi agiscono secondo coscienza, chi tentando di mantenere unita la sua formazione, chi aderendo alla Repubblica di Salò.

Ma quale era la situazione alla data dell’Armistizio? L’8 settembre, il territorio della Slavia del Sud, comprendente il Montenegro, il Sangiaccato e le Bocche di Cattaro, era presidiato dal XIV ( 14 ) Corpo d’Armata. Vi erano dislocati:

La Divisione Alpina Taurinense ( generale Lorenzo Vivalda, poi vicecomandante),
La Divisione di montagna Venezia ( generale G.B.Oxilia, poi comandante )
La Divisione di fanteria Ferrara ( generale Antonio Franceschini ), che si proclamò subito fascista e filo tedesca. La Divisione di fanteria Emilia ( generale Ugo Buttà ).
Gli effettivi erano di 16.986 uomini, di cui 803 ufficiali e 1589 sott’ufficiali.
Il comandante generale di Corpo d’Armata Carlo Ravnich, ultimo comandante de
lla Garibaldi, così commenta:

“Tutti gli altri (meno la Divisione Ferrara ) iniziarono la lotta con grande entusiasmo e spirito di abnegazione, animati dalla ferma volontà di resistere ad ogni costo ai nemici storici della Patria, spregiando gli umilianti ordini che questa o quella fazione armata intendeva imporre. ...Essi sentivano di dovere seguire solo la via stabilita dal legittimo Governo d’Italia, anche se questo non era in grado di scendere nei particolari... ( splendido eufemismo ). Tutti coloro che intrapresero volontariamente l’eroica determinazione ebbero ben chiara la visione delle avversità eccezionali che avrebbero incontrato in terra straniera. “

Ravnich definisce la zona “ povera di tutto fuorché di sassi”, gli abitanti nemici tra di loro ma comunque nemici dello straniero, ed il nemico spietato.

La Divisione “Emilia” riesce ad accorparsi, altri gruppi sono decimati. Il battaglione “Intra” segue una formazione nazionalista jugoslava, accorgendosi troppo tardi che collabora con i tedeschi, ai quali il battaglione “Aosta” si arrende l’8 ottobre.

Tra l’ultima decade di settembre e la prima di ottobre del 1943, quando nasce l’idea di collegarsi con i partigiani e di ripiegare verso l’interno del territorio, in Bosnia, la “Taurinense” ha più di 400 morti, così come quasi 400 sono i morti della “Venezia” e del battaglione di lavoratori. A questo si aggiunge una micidiale epidemia di tifo petecchiale.

Questo disastro dura per tutto ottobre 1943, alcuni aiuti cominciano a pervenire nel mese di novembre, ma insufficienti. Ci si deve spostare di continuo, nel freddo e nella fame, e combattendo. Dall’8 settembre al 2 dicembre 1943 si compie il passaggio delle Divisioni suddette nell’Esercito di Liberazione Jugoslavo. Il 2 dicembre, a Pljevlja ( Plevia) le due brigate della Divisione “Taurinense” e le sei brigate della Divisione “Venezia”, per rafforzarsi e razionalizzare l’uso del materiale, si uniscono nella Divisione Italiana partigiana Garibaldi. Si costituiscono tre brigate, e 10 battaglioni di lavoratori. La Brigata “Aosta “ed altri gruppi rimangono con la loro identità affiancati alla Divisione Garibaldi.

Il battesimo del fuoco è del 5 dicembre, a Pljevlja ( Plevia). Le perdite sono di 560 uomini, molti sono i prigionieri, soprattutto tra i lavoratori che non sono armati. Altri morti e feriti in quei giorni nella cosiddetta “ Tomba degli italiani “. Molti dubbi rimangono sul comportamento dei partigiani: furono avvertiti dell’avanzata tedesca, e si ritirarono in tempo, lasciando gli italiani senza le informazioni utili. Difficile non pensare ad un terribile strascico del periodo precedente, alle sofferenze subite dai partigiani per mano italiana.

Se vi furono molte manifestazioni di solidarietà del popolo jugoslavo verso gli italiani che combattevano con i partigiani, sentimenti che appaiono soprattutto nei numerosi diari e testimonianze dei sopravissuti, rimane vero che i partigiani non ebbero sempre come principale preoccupazione la lotta ai tedeschi, alla quale esposero volentieri gli italiani. Gli jugoslavi erano dilaniati da lotte interne e l’occupazione del territorio dalle varie frazioni prevaleva spesso sul fronte comune contro il nemico, come si vide alla fine della guerra quando l’Armata tedesca si ripiego abbastanza indisturbata dal sud della Jugoslavia verso l’Austria perché l’Esercito jugoslavo si muoveva verso la Venezia Giulia e l’Istria.

“Anche questa azione rappresentava in campo internazionale il corollario della prevalente concezione politica della guerra partigiana, per cui, ancor prima di avere totalmente sconfitto il nemico, occorreva mettere le mani sui pegni che la futura vittoria alleata doveva assicurare. “scrivono Viazzi e Taddia.

I combattimenti dureranno per dodici mesi ininterrotti, su tutto il territorio della Bosnia, con ingenti perdite, talvolta di corpi interi. Si lotta contro cetnici, ustascia, musulmani e truppe bulgare, oltre che tedeschi. La Divisione riesce ad inquadrare altri italiani rimasti sbandati, vive e soffre ma unita, sentendosi investitasi del ruolo di rappresentare l’Italia. Il cappellano militare benvoluto da tutti, la solidarietà tra questi uomini è esemplare, va oltre i loro personali convincimenti politici e religiosi, e la disciplina eccellente, considerato il contesto.

La 1° Brigata è a Sarajevo quando arriva inaspettato, nel febbraio 1945, l’ordine di riunione a Ragusa per il rimpatrio, previsto per il 7 marzo. Dall’8 marzo partirono a scaglioni vari gruppi composti complessivamente di 3913 tra ufficiali, sott’ufficiali e truppa, poi 5870 sbandati tra cui 209 mogli e figli.

Al dolore della sofferenza di tutti, delle tante morti, si aggiunge l’amarezza del “dopo “. Per capire l’accaduto alla Divisione Garibaldi dopo il rientro, concluso l’8marzo 1945, bisogna partire dal messaggio che Umberto di Savoia manda a Taranto, dove sono accolti i rientranti, al col. Ravnich il 16 marzo 1945:

“Ho stamane nei vostri soldati molto ammirato magnifico aspetto veramente degno loro eroico comportamento. A Lei, ufficiali militari tutti della Divisione Garibaldi rinnovo il mio saluto affettuoso e i miei migliori voti augurali. Umberto di Savoia. “

Il magnifico aspetto... dei vivi naturalmente. .. E’ vero che nel quadro generale della guerra, gli eventi della Jugoslavia possono non sembrare avere avuto un grande rilievo. La “ Garibaldi “ non ha avuto molto risaltonelle rievocazioni storiche e nelle celebrazioni: i reduci se ne sono sempre lamentati.

Se al ritorno i caduti accertati sono 3556, i dispersi sono circa 5000. Si raggiunge dunque, decorsi i tempi della speranza, il numero di 8500 caduti.

Anche nell’opera di Viazzi e Taddia voluta dalla Commissione presieduta dal Generale Elio Muraka, talvolta severa nel denunciare una autogiustificazione e una autocelebrazione dei reduci, si riconosce che “ dal punto di vista storico, può essere di grande efficacia morale riscontrare che nel crollo generale al momento dell’armistizio ci sono state delle strutture che hanno retto e che, pur tra insidie di ogni genere, hanno tenuto fede all’obiettivo primario di salvaguardare il proprio onore militare.”

Per l’onore d’Italia, infatti, avevano combattuto questi soldati, e nella posizione presa accanto ai partigiani jugoslavi avevano cercato la coerenza dell’impostazione antitedesca che l’armistizio imponeva ma che nell’incertezza della sorte della guerra, e di notizie precise, nessuno si sentiva di sostenere come la scelta “ giusta “ moralmente e, si sperava, vincente militarmente.L’onore consisteva di avere potuto finalmente combattere il fascismo, che si fosse poi monarchici, repubblicani, comunisti, liberali, cattolici o laici, non importava. Chi non lo voleva combattere sul terreno se ne era andato, almeno questo era chiaro. E l’avere al momento del ritorno riposto sui laceri vestiti dell’armata “stracciona” le stellette e le insegno dell’Esercito italiano diceva chiaramente la certezza di avere combattuto nella fedeltà all’impegno iniziale, che non era diretto al Regime vigente bensì alla patria. 5

Al momento del ritorno, i reduci della Divisione Garibaldi sono alquanto imbarazzanti. E’ vero che sbarcano a Brindisi e sono mandati al deposito di Taranto, ma sopra la linea gotica soffia ancora il “vento del nord”, e diversi vogliono combattere ancora. I tempi del loro reinserimento saranno lunghi e faranno si che non lo potranno fare. Altri saranno mandati in congedo.

Si sta delineando il nuovo equilibrio del mondo. In Europa le zone d’influenza sono ormai chiare, e la Jugoslavia è zona molto sensibile. Tuttavia considerare, con Viazzi e Taddia, quei 18 mesi “una catabasi, un ritorno durato troppo a lungo “ lascia veramente sgomenti. Si sarebbe dato una colorazione politica “ negli ultimi mesi ad una vicenda rimasta fino allora nei cannoni tradizionali di una formazione militare, sorpresa all’estero dall’armistizio, che aveva inteso salvaguardare il proprio onore e la propria dignità respingendo umilianti condizioni di resa.” Ma avrebbero combattuto con tanto slancio soldati che miravano solo al ritorno in patria, non lottavano loro anche per la democrazia e per la libertà, che uniti nella lotta portavano ciascuno in cuore con il colore della propria coscienza politica ?

In quanto concerne la Divisione Garibaldi, ci fu un notevole divario tra la storia ufficiale e la memoria dei singoli. La memorialistica ha tramandato una storia molto sofferta e mai dimenticata. Stefano Gestro fu forse il migliore nello scrivere, ma era anche un poeta, e i Quaderni di camicia rossa hanno pubblicato le sue poesie come tante altre testimonianze: “Crocefisse nel sangue, dissolte nella neve, disperse nel vento, erano esse le storie che dovevamo raccontare e che mai avrebbero fatto la verità della storia ufficiale”.

Ci furono opere di notevole spessore, come quella di Giacomo Scotti , che sembrano un grido di dolore, composto, da soldato, una testimonianza dettagliata, inconfutabile anche su chi raggiunge i partigiani prima dell’8 settembre. Li chiamarono ” disertori “. Rileggiamo “ il verde Lim “, di Eugenio Lisserre, e tanti altri. Ognuno seguì la sua coscienza e la sua sensibilità. L’archivio del Generale Ravnich, monarchico , fu da lui consegnato alla Fondazione Maria José di Savoia, ed è irraggiungibile. Non può non venire il sospetto che l’ultimo comandate della Divisione Garibaldi non avesse come prima preoccupazione la memoria della lotta partigiana dei nostri soldati.

Ci sono tanti reduci che non vollero mai più parlare della loro esperienza, e rientrarono nella vita civile come erano entrati , di leva, nell’Esercito. L’Associazione è servita a dare voce ai garibaldini moderni, per non dimenticare e tracciare una linea retta tra i valori Risorgimento e della Resistenza. Un indirizzo lo diede il nome di Garibaldi: strumentalizzato per un ventennio, fu portato sul campo di battaglia a ritrovare se stesso, restituendolo alla democrazia.

24 ottobre 2013. 


S.GESTRO La Divisione italiana partigiana Garibaldi. Mursia, 1981-1982.
E.GOBETTI Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia 1941-1943. Laterza, Bari, 2013.
L.VIAZZI L.TADDIA La resistenza dei militari italiani all’estero La Divisione “ Garibaldi “ Rivista Militare 1994
L.MANNUCCI Per l’onore d’Italia. ANVRG 1985,1994.
GESTRO S. L’armata Stracciona. L’epopea della Divisione Garibaldi in Montenegro (1943-1945). Regione Toscana. 1976.



29 NOVEMBRE 1943-2013

70.mo Anniversario della II Sessione plenaria dell'AVNOJ - Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia - tenuta a Jajce, Bosnia-Erzegovina; atto fondativo della nuova Jugoslavia federativa e socialista

SRETAN DAN REPUBLIKE SVIM JUGOSLAVENIMA I PRIJATELJIMA JEDINSTVENE, NEZAVISNE JUGOSLAVIJE

http://www.youtube.com/watch?v=_in4ysLpVLY

Sulla II Sessione plenaria dell'AVNOJ (Jajce 28-29 Novembre 1943) e sulla fondazione della nuova Jugoslavia vedi anche testo e fotografie alla nostra pagina dedicata:

https://www.cnj.it/documentazione/danrepublike.htm

Aggiornamenti sull'anniversario alla splendida pagina Facebook dei compagni jugoslavisti, SFR Jugoslavija - SFR Yugoslavia:

https://www.facebook.com/pages/SFR-Jugoslavija-SFR-Yugoslavia/36436743833


Da: Michael Parenti <mp @ michaelparenti.org>
Oggetto: [Clarity] The JFK assassination, strange accounts
Data: 22 novembre 2013 05:36:06 CET


A number of people have asked me if I was going to write anything about the JFK assassination, or had I done so in the past .
Yes, 17 years ago I wrote two longish articles about the JFK killing. (They appeared in DIRTY TRUTHS, a book of my essays dealing with a wide variety of subjects.)  
Here is a substantial excerpt from one of those essays, with minor edits, attached and printed just below. Please feel free to post and circulate. 


--excerpt from an article entitled "The JFK Assassination: Defending the Gangster State"
 
by  Michael Parenti
 
(originally published, 1996, in Parenti's book, Dirty Truths, lightly edited 2013)

 
          Today in the much vaunted western democracies there exists a great deal of unaccountable state power whose primary function is to maintain the existing politico-economic structure, using surveillance, infiltration, sabotage, judicial harassment, disinformation, trumped-up charges and false arrests, tax harassment, blackmail, and even violence and assassination to make the world safe for those who own it.
 
"Buffs" and Cover-Ups
There exists a state within the state, known as the national security state, a component of misgovernment centering around top officers in the CIA, DIA, FBI, NSA, the Pentagon, and policymakers in the Executive Office of the White House. These elements have proven themselves capable of perpetrating terrible crimes against dissidents at home and abroad. National security state agencies like the CIA, in the service of dominant economic interests, have enlisted the efforts of mobsters, drug traffickers, assassins, and torturers, systematically targeting peasant leaders, intellectuals, journalists, student leaders, clergy, labor union leaders, workers, and community activists in numerous countries. Hundreds of thousands of people have been murdered to prevent social change, to destroy any government or social movement that manifests an unwillingness to reduce its people to economic fodder for the giant corporations that rule the world's economy.[1] 
          Occasionally an incident occurs that reveals in an unusually vivid manner the gangster nature of the state. The assassination of President John Kennedy in November 1963 is such an occasion. The dirty truth is that Kennedy was heartily hated by right-wing forces in this country, including many powerful people in the intelligence organizations. He had betrayed the national interest as they defined it, by refusing to go all out against Cuba, making overtures of rapprochement with Castro, and refusing to escalate the ground war in Vietnam. They also saw him as an anti-business liberal who was taking the country down the wrong path. Whether Kennedy really was all that liberal is another matter. I don't believe he was. But what the national security rightists saw him to be was what counted.
          To know the truth about the assassination of John Kennedy is to call into question the state security system and the entire politico-economic order it protects. This is why for [fifty] years the corporate-owned press and numerous political leaders have suppressed or attacked the many revelations about the murder unearthed by independent investigators like Mark Lane, Carl Oglesby, Harold Weisberg, Anthony Summers, Philip Melanson, Jim Garrison, Cyril Wecht, Jim Marrs, Gaeton Fonzi, James DiEugenio, Peter Dale Scott, Sylvia Meagher, Michael Canfield, Gary Aguilar,  and still many others more recently.
          These investigators have been described as "assassination buffs." The term "buff" is a diminishing characterization, describing someone who pursues odd hobbies. For the same reason that we would not refer to "Holocaust buffs," so should we not refer to these serious investigators as "assassination buffs." Their efforts reveal a conspiracy to assassinate the president and an even more extensive conspiracy to hide the crime.
           Sociologist David Simone compiled a study of the books published on the Kennedy assassination, some 600 titles, and found that 20 percent of them blamed either a lone assassin or the mafia or the Cubans or Russians. The other 80 percent ascribed the assassination to a conspiracy linked to U.S. intelligence agencies, some of these also saying that mobsters were involved at the operational level. Ignoring this 80 percent of the literature, publications like the New York Times and Washington Post have listed the various theories about the JFK assassination as follows: (a) lone assassin, (b) mafia, (c) Cubans/Soviets, and (d) the "Oliver Stone movie theory." In other words, they ignore the existence of a vast literature from which the [Oliver Stone movie, JFK]  is derived and ascribe the critical theme presented within the film solely to the imagination of a film maker. The mainstream press would have us believe that the notion of a state-sponsored assassination conspiracy and cover-up came out of a movie--when actually the movie was based on a rich and revealing investigative literature.
          Like the Warren Commission itself, the press assumed a priori that Oswald was the killer. The only question it asked was: Did Oswald act alone?  The answer was a loudly orchestrated YES.  Meanwhile, almost every in-depth investigator had a different conclusion:  Oswald did not act at all. He was not one of the people who shot Kennedy, although he was involved in another way, as a fall guy, in his own words "just a patsy."
          The U.S. mainstream media have been tireless in their efforts to suppress the truth about the gangster state. In 1978, when a House Select Committee concluded that there was more than one assassin involved in the Kennedy shooting, the Washington Post  (1/6/79) editorialized:
                     Could it have been some other malcontent who Mr. Oswald met casually? Could not as much as three or four societal outcasts with no ties to any one organization have developed in some spontaneous way a common determination to express their alienation in the killing of President Kennedy? It is possible that two persons acting independently attempted to shoot the President at the very same time.
It is "possible," but also most unlikely and barely imaginable. Instead of a conspiracy theory the Post creates a one-in-a-billion  "coincidence theory" that is the most fanciful of all explanations. 
 
Ignored Evidence, Unanswered Questions
David Garrow, author of a biography of Martin Luther King, condescendingly says: "A large majority of the American people do believe in assassination conspiracies.  That allows events to have large mysterious causes instead of small idiosyncratic ones."  Contrary to Garrow, the question of whether a conspiracy exists in any particular situation has to be decided by an investigation of evidence, not by patronizing presumptions about the public mind.  Investigators who concluded there were conspiracies in the Kennedy and King murders did not fashion "large mysterious causes" but came to their conclusions through painstaking probes of troubling discrepancies, obvious lies, and blatant cover-ups. They have been impelled not by the need to fashion elaborate theories but by the search for particular explanations about some simple and compelling truths. 
          Many people talk about finding the "smoking gun" behind this or that mystery, the one evidentiary item that dramatically resolves the case and puts to rest all further questions. Unlike fictional mysteries, in real life there usually is no smoking gun. Historians work by a process of accretion, putting piece by piece together until a picture emerges. In the Kennedy murder the pieces make an imposing picture indeed, leaving one with the feeling that while there may not be a smoking gun there is a whole fusillade of impossibilities regarding the flight of bullets, the nature of the wounds, the ignored testimony of eye witnesses, the sudden and mysterious deaths of witnesses, the disappearance and deliberate destruction of evidence, and the repeated acts of official cover-up that continue to this day regarding the release of documents.
          Let us focus on just a small part of the immense brief that has been assembled by investigators. Consider the background of Lee Harvey Oswald. Over the decades to this very day, mainstream commentators have been telling us that Oswald was an incompetent "loner" and not very bright. Gerald Posner, transforming himself into an instant psychiatric expert, announced that Oswald "had a very disturbed childhood, and he was a passive-aggressive."  A passive-aggressive assassin? He was also repeatedly labeled a "loner" and a "leftist." The truth is something else.
          Lee Harvey Oswald spent most of his adult life not as a lone drifter but directly linked to the U.S. intelligence community.  All of his IQ tests show that he was above average in intelligence and a quick learner. At the age of eighteen in the U.S. Marines he had secret security clearance and was working at Marine Air Control in Atsugi Air Force Base in Japan, a top secret location from which the CIA launched U2 flights and performed other kinds of covert operations in China. The next year he was assigned to El Toro Air Station in California with security clearance to work radar.    
          Strange things began to happen. While at El Toro, Oswald emerged as a babbling Russophile and a "communist."  He started playing Russian language records at blast level in his barracks and addressing his fellow Marines in Russian, calling them "comrade."  He read Russian books and hailed Soviet Communism as "the best system in the world." If Oswald was a Soviet or a Cuban spy, as some people now claim, he certainly had a novel way of building a cover.
          Philip Melanson, author of Spy Saga, a book about Oswald's links to intelligence, reminds us that the U.S. Marine Corps in 1958 was not exactly a bastion of liberal tolerance and freethinking. But in this instance, for some strange reason, Oswald's Marine commanders did not seem to mind having a ranting commie sympathizer in their midst. In fact, he kept his security clearance and retained access to a wealth of sensitive radar information and classified data from secret facilities!  
          Other odd things happened. In February 1959, Oswald failed the Marine Corps proficiency test in Russian. Six months later he had developed some fluency in that language. In 1974, a document classified by the Warren Commission--and dislodged mostly by Harold Weisberg's legal efforts--revealed that Oswald had attended the U.S. Army's School of Languages at Monterey.  Monterey is not open to anyone who just happens to have a language hobby. One is sent by the government, for training in a specific language pertaining to a specific assignment. Oswald learned Russian at Monterey.     
          Another curious thing: Oswald applied for an early dependency discharge from the Marines because his mother had injured her foot--the accident had occurred a year earlier. He was released one week after putting in his request, a decision so swift as to astonish his fellow Marines.  
 
Luxury Defection 
Oswald then "defected" to the USSR, but how? Melanson notes that such a trip would have cost at least $1,500 in those days, but Oswald's bank account showed a balance of $203. And how did he get from London to Helsinki on October 11, 1959, when no available commercial flight could have made it in one day? He must have had some kind of private transportation to Helsinki.
          Once in Russia, he went to the U.S. embassy and openly renounced his U.S. citizenship, declaring that he was going to give military secrets to the Soviets. Embassy officials made no effort to detain him. As the KGB files opened in 1991 show, the Soviets kept him under constant surveillance. KGB defector Yuri Nosenko, who had been responsible for investigating every contact Oswald made in the USSR, reported that the young American had never been associated with Soviet intelligence and that the KGB suspected he was connected with U.S. intelligence.
      While in Russia Oswald belonged to a gun club at the factory in which he worked, though he showed no interest in guns. He reportedly used to join in rabbit shoots but could never score a hit. Someone would have to stand behind him and shoot the rabbit while he was firing. His performance became something of a joke among his co-workers.  His marksmanship in the U.S. Marines had been no better.
         U.S. intelligence mysteriously departed from normal procedure and made no damage assessment of Oswald's "defection," or so they claimed. Another odd thing: after two-and-a-half years, Oswald's sudden request to return to the United States was immediately granted by U.S. officials--all this after he had threatened to give away state secrets to the Soviets. Instead of being arrested for treason, Oswald was accepted with open arms by U.S. authorities.
          The CIA claimed it had no record of debriefing him and was never near him.  Their explanation before the Warren Commission was that there were so many tourists coming in and out and there was nothing particularly unusual about Oswald that would have caught their attention. One might wonder what was needed to catch the CIA's attention.
          Yet, CIA officials claimed they had suspected all along that he was a Soviet spy--which makes it even more curious that they did not debrief him. In fact, they did debrief him in Holland. But being so eager to cover up any association with Oswald, they could not recognize how in this instance the truth would have been a less suspicious cover than the improbable lie they told about never noticing his return.
          State Department officials also behaved strangely. They paid all travel and moving expenses back to the United States for Oswald and his wife. Without a moment's delay they gave him back his passport with full rights to travel anywhere in the world. Another curious thing: his wife was exempted from the usual immigration quotas and granted immediate entry. Years before she had belonged to the Soviet Komsomol, the Communist youth organization, which automatically would have barred her from the United States. Yet in violation of U.S. immigration laws, she was allowed into the country with Oswald.  
 
The FBI/CIA "Leftist"
In Dallas, Lee Harvey Oswald settled under the wing of White Russian emigre' and former cavalry officer George de Mohrenschildt, an aristocratic reactionary and an associate of oil millionaires H. L. Hunt and Clint Murchinson and other Dallas economic elites. In de Mohrenschildt's telephone book was found the name of George "Pappy" Bush.  A correspondence existed between Bush Sr. and de Mohrenschildt indicating that they were personal acquaintances.
          De Mohrenschildt and his wife Jeanne were identified by the Warren Commission as the people closest to Oswald just before the assassination. An investigator for the House Select Committee, Gaeton Fonzi, noted, "Given his background, it seemed strange that de Mohrenschildt would have spontaneously befriended someone with the look of a working-class drifter like Lee Harvey Oswald." That was not the only strange thing about de Mohrenschildt. He also was part of a network of ex-Nazis contracted by the CIA.
          A CIA memorandum written not long after Oswald returned from Russia advised de Mohrenschildt on how to handle the young "defector." De Mohrenschildt also had a close friendship with J. Walter Moore, who was an agent of the CIA's Domestic Contacts Division. As de Mohrenschildt told one investigator just before his sudden death, it was Moore who encouraged him to see Oswald. Investigator Jim Marrs observes in his book Crossfire: "The CIA memos, Moore's closeness, and de Mohrenschildt's own testimony all confirm that a certain relationship existed between the CIA and the man closest to Oswald in early 1963. While this does not necessarily involve the Agency in a plot to kill Kennedy, it raises questions about what Agency officials might have known regarding such a plot."
          Oswald embarked on a series of short-lived public forays as a "leftist." He started a one-person Fair Play for Cuba chapter in New Orleans, without ever bothering to recruit another member. He never met with a single member of the Communist Party or any other left organization, although he wrote friendly letters to the Communist Party and to the Socialist Workers Party (two groups that were not even talking to each other) supposedly asking for instructions. Again, all this was a puzzling way for a Soviet agent and would-be assassin to act.
          He blazed a highly visible trail as a "leftist" agitator: managing to get exposure on local T.V. in New Orleans after getting involved in some fistfights while leafleting. One of the leaflets he distributed showed that his organization was on Camp Street in the very same building that a former FBI bureau chief, Guy Banister, had his office. Banister retained close working relations with émigré' Cuban right-wing groups and with Lee Harvey Oswald.
          When he wasn't playing the communist agitator, Oswald spent most of his time with rabid anti-communists, including émigré Cubans and CIA operatives. Besides Banister and de Mohrenschildt, there was David Ferrie. (In his book First Hand Knowledge, Robert Morrow, a conservative businessman and CIA operative, tells how he served as a pilot on CIA missions with Ferrie.)  Oswald also knew businessman Clay Shaw who was CIA, as later confirmed by the agency's director Richard Helms. These were hardly the sort of friends we would expect for a loudmouthed "Marxist revolutionary" just returned from giving away classified secrets in the USSR.      
          The attorney general of Texas, Waggoner Carr, told the Warren Commission that Oswald was an FBI informant or contract agent, with assigned number S-172 or S-179. For his services, Oswald was paid two hundred dollars a month by the FBI.[2]  Orest Pena, a Cuban émigré and FBI informant, told Mark Lane that Oswald worked for the FBI and met with FBI personnel from time to time.
          If not paid by security agencies, how did Oswald support himself during his forays into New Orleans and Dallas? He was employed for a brief time in 1962 by a printing company in Dallas that specialized in highly classified government work, including the making of secret maps of the Soviet Union for U.S. Army Intelligence--again hardly the sort of job to assign an openly pro-Soviet communist agitator. Oswald's overall employment record and income sources remain something of a mystery. To this day, the U.S. government refuses to release his tax returns, with no explanation as to what issue of national security is at stake.
 
The Impossible "Assassin"
We are asked to believe that Oswald just happened to get a job at the Texas School Book Depository five weeks before the assassination, when it had not yet been publicized that Kennedy's limousine was going to pass in front of that building. In fact, George de Morenschildt got him the job.
          We are asked to believe that Oswald, who could not hit the side of a barn, chose a Mannlicher-Carcano to kill the president, a cheap, poor performance Italian rifle that the Italians jokingly said never killed anyone on purpose and caused them to lose World War II.
          We are asked to believe that Oswald would forgo shooting President Kennedy when he had a perfect target of him as he rode right down Houston Street directly toward the Texas School Book Depository. Instead he supposedly waited until the car had turned down Elm Street and was a half-block away. With the President's head and shoulders barely visible through a tree, Oswald supposedly fired rapidly, getting off three shots in record time, one missing the limousine by twenty-five feet and the other two hitting their target with devastating accuracy and record rapid succession, a feat the best marksmen in the country found impossible to emulate even after much practice and after the sights on the Mannlicher-Carcano were properly reset in a laboratory.[3]
          We are asked to believe that Oswald then left his rifle at the window, complete with a perfect palm print and, they now say, his fingerprints (but no fingerprints on the clip or handloaded cartridges), along with three spent shells placed on the floor neatly in a row, in a manner no spent shells would fall.
          We are asked to believe that a bullet would go through John Kennedy, pause in mid-air, change direction, and wound Governor Connally in several places--something Connally never believed--and reappear perfectly intact wedged into the flap of a stretcher in Parkland Hospital, supposedly having fallen out of Connally's body but obviously pushed into the flap by hand. (It became known as the "magic bullet" among skeptics.)  
          We are asked to believe that only three shots were fired when in fact six bullets were noted: one that entered the president's throat and remained in his body; the second extracted from Governor Connally's thigh; a third discovered on the stretcher; a fourth found in fragments in the limousine; a fifth that missed the president's car by a wide margin, hitting the curb according to several witnesses, and wounding onlooker James Thomas Tague on his face; a sixth found in the grass by Dallas police directly across from where the president's vehicle had passed.
          The Secret Service took possession of the presidential limousine, ignored reports in the St. Louis Post-Dispatch (12/1/63) that there was a bullet hole in the windshield, and rejected all requests to inspect the vehicle. The inside of the limousine, a trove of physical evidence, was then quickly torn out and rebuilt, supposedly with no thought of covering up anything.
          We are asked to believe that Kennedy's autopsy was innocently botched and his brain just accidentally disappeared. The X-ray purporting to be Kennedy's head now shows a rear entry wound, different from the rear exit wound all the pathologists saw. Someone cropped the jaw out of the picture, so there is no opportunity to determine by dental identification if the X-ray really is the president's.
          We are asked by people like Max Holland, writing in the Nation, to believe that the "infamous picture of Oswald posing with rifle in hand" is not a forgery. Actually there are two pictures, both proven composites, with bodies of different sizes but with the identical head that matches neither body, and with shadows going in incongruous directions. Who fabricated these well publicized photos?
 
Rubbing Out the Witnesses
The supposedly "lone leftist assassin," Lee Harvey Oswald, was a friend of Jack Ruby, a gangster with links to Cuban exiles and the FBI. Ruby once worked for Congressman Richard Nixon and the House Un-American Activities Committee in Chicago when his name was still Jack Rubenstein. He also worked for the FBI in Dallas during the years before the JFK assassination. Ruby claimed he was just an ordinary private citizen, moved to kill Oswald in order to avenge the suffering Oswald had inflicted upon the Kennedy family.[4] 
          While in prison Ruby pleaded with the Warren Commission to be taken to Washington where he could tell the whole story. He feared for his life and claimed "they are killing me here."  Indeed, he died in jail, supposedly of natural causes.
          We are asked to believe that when twenty-four persons who had information related to the case met violent deaths, this was a colossal coincidence.[5]  In 1978, after the House Select Committee investigation got underway, Anthony Summers records that another sixteen connected to the case died violently. This too supposedly was just a coincidence. This latter group included George de Mohrenschildt, killed by a gun blast to the head three hours after a House Assassinations Committee Investigator had tried to contact him. De Mohrenschildt had been worried that he would be murdered. His daughter Kressy Keardon believes it "impossible" that he shot himself. The sheriff's office in Palm County, Florida, found the shooting "very strange." But it was ruled a suicide. Generally, people who voice fears that they might be killed do not then kill themselves.
          William Sullivan, number three man in the FBI, was secretly on the CIA payroll, according to CIA operative Robert Morrow. He was scheduled to appear before the House Select Committee but before he could do so, he was shot outside his home by a man who claimed to have mistaken him for a deer. The killer was charged with a misdemeanor and released in custody of his father, a state policeman.           While under government protection, mobster Sam Giancana was shot dead a day before he was to testify before the House Select Committee about mob and CIA connections. One of the things that emerges from this whole story is the widespread linkages between the CIA and organized crime, between the gangsters and the gangster state.
          When the House committee was putting its staff together, it was heavily pressured to employ only persons acceptable to the CIA, the very agency it was supposed to investigate. In his book Plausible Denial, Mark Lane reports that when Bernard Fensterwald, an independent minded Washington lawyer, was offered the job of general counsel, a CIA representative called on him and said that the Agency would hand him "his head on a platter" if he took the assignment. Fensterwald turned it down.
          Is the Kennedy assassination conspiracy just a lot of hoopla kicked up by "conspiracy buffs"? Most of the independent investigators I have met seem to be serious politically literate people. Their struggle to arrive at the truth is not impelled by a love of conspiracies but by a concern for the political and historic importance of the case. They seek the truth no matter how dirty it might be. That process of confronting the machinations of the national security state is not a conspiracy hobby. It is an essential part of the struggle for democracy.
          Let me end with a summary quotation by John Judge, which he was kind enough to send me by Gmail:
 
85% of the American public reject the findings of the Warren Commission report, as did the House Select Committee on Assassinations in 1978, finding instead a "probable conspiracy" in the murders of President Kennedy and Dr. Martin Luther King. No federal investigation or action followed. We are the mainstream, not the dissent. Oswald's role as a patsy, not a shooter, is supported by all the best evidence that has been released. The real evidence clearly points to a crime and a cover-up that reaches to the highest levels of the U.S. government and military.
 
        
  1   Colonel L. Fletcher Prouty, a military intelligence chief closely connected with the CIA, tells of his visit to "a special 'village' in the Mediterranean where a highly select group of stateless 'mechanics' in the CIA are hit-men, assassins, and other related specialists. They are absolutely anonymous"; see his introduction to Mark Lane's Plausible Denial (New York: Thunder's Mouth Press, 1991). For a further discussion on U.S. repression abroad, see "Making the World Safe for Hypocrisy," p.       ; also my two books Against Empire (San Francisco: City Lights Books, 1995); and The Sword and the Dollar (New York: St. Martin's Press, 1989).
 
    2  The Warren Commission reacted with extreme alarm toward Carr's testimony. Its general counsel, J. Lee Rankin said that evidence linking Oswald to the FBI "is very damaging to the agencies that are involved in it, and it must be wiped out insofar as it is possible to do so by this commission." The "wipe out" consisted of a statement from Hoover reassuring the commission that Oswald never worked for the FBI. In the New York Timesedition of the Warren Commission report, Waggoner Carr's testimony is nowhere to be found.
 
   3  In his political memoirs, Speaker of the House Tip O'Neil writes that Kenneth O'Donnell, a top JFK aide, said he was sure he had heard two shots that came from behind the fence on the grassy knoll. "I told the FBI what I had heard, but they said it couldn't have happened that way and that I must have been imagining things. So I testified the way they wanted me to." O'Neil reports that another top Kennedy aide, Dave Powers, who was present when O'Donnell made this statement, said he had the same recollection of the shots.
 
   4  At a Washington, D.C. conference in October 1995, assassination investigator John M. Williams reported on an interview he had with Robert Morrow, March 10, 1994. Morrow said that on the day after JFK's assassination, Marshall Diggs, the man who recruited Morrow as a CIA operative, confided to him a warning of Oswald's impending assassination: "He won't be around to testify for his trial."
 
   5 See Penn Jones, Jr., Pardon My Grief vols. 1 and 2 for details about the death of these twenty-four. 


(srpskohrvatski / italiano)


1) Trieste, Venerdì 29 novembre 2013, ore 18.30
a Sottolongera, presso la Casa del Popolo di via Masaccio 24

DAN REPUBLIKE - GIORNATA DELLA REPUBBLICA

... Il 29 novembre 1943 a Jajce (Bosnia) fu fondata la Repubblica Jugoslava ...

serata commemorativa con la partecipazione di rappresentanti dell'associazione di solidarietà con i lavoratori bombardati dalla Nato nel 1999 "Non bombe ma solo caramelle"


Sulla II Sessione plenaria dell'AVNOJ (Jajce 28-29 Novembre 1943) e sulla fondazione della nuova Jugoslavia vedi anche testo e fotografie alla nostra pagina dedicata:


2) Jajce 29 Novembre 2013

Manifestazioni per il 70.m o della proclamazione della Federazione jugoslava 
Program manifestacije Dani AVNOJ-a u Jajcu 2013


Program manifestacije Dani AVNOJ-a u Jajcu 2013


28.11. (četvrtak)
- Otvaranje naučnog skupa na temu: Drugo zasjedanje AVNOJ-a i državnost zemalja nasljednica Jugoslavije 1943.-2013. 

29.11. (petak)
- Otvaranje izložbe crteža Božidara Jakca
- Otvaranje izložbe fotografija i dokumenata
- Promocija knjige
- Prigodno predavanje

30.11. (subota)
- Doček gostiju (posjetilaca iz drugih gradova) ispred Muzeja II zasjedanja AVNOJ-a i prigodan muzički program (limena glazba, kulturno-umjetnička društva iz Jajca, rock band)
- Polaganje vijenaca na Spomen-fontanu
- Svečana akademija povodom 70 godina II zasjedanja AVNOJ-a 
- Cjelovečernji koncert horova

01.12. (nedjelja)
- Organiziran obilazak kulturno-historijskih i prirodnih znamenitosti grada Jajca,
- Ispraćaj gostiju ispred Muzeja II zasjedanja AVNOJ-a



(français / italiano)

Vedi anche / à lire aussi:

Scriviamo per la libertà a Bahar 
23-25 novembre 2013 - Marinella Correggia
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/7823

Fermato a Milano Bahar Kimyongür. Italia serva della Turchia
21 Novembre 2013 - Redazione Contropiano

Bahar Kimyongür arrêté en Italie :: la Belgique doit protéger son ressortissant
21 novembre 2013 - Axel Bernard

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Info Spazio Chinatown ci scrive:

Ieri (lunedì 25/11) il compagno Bahar, davanti al giudice del tribunale di Brescia, ha rifiutato di essere estradato in Turchia. Ci sarà una nuova udienza lunedì 2 dicembre, sempre a Brescia, nella quale verrà discusso sulla sua libertà. C’è il fondato pericolo che, se non verrà liberato, venga trasferito in un carcere dove ci sono le sezioni apposite per prigionieri accusati di “terrorismo internazionale”. In Italia, nei gironi dell’inferno carcerario, in Alta Sorveglianza, esiste un circuito di tre prigioni, Macomer, Benevento e Rossano dove sono rinchiusi detenuti in condizioni allucinanti. A Benevento nel 2009 è morto, privato di cure, il palestinese Khaled Hussein.

CONTINUIAMO LA MOBILITAZIONE

LUNEDI’ 2 DICEMBRE ORE 11

TUTTI DAVANTI AL TRIBUNALE DI BRESCIA

Invitiamo a scrivere al compagno, inviare tegrammi, cartoline,
l’indirizzo è: BAHAR KIMYONGUR
CASA CIRCONDARIALE. Via Monte Gleno, 6124125 BERGAMO (BG)

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« Bahar Kimyongür n’est pas un terroriste ! »

Daniel Flinker - 26 novembre 2013
 
Discours de Daniel Flinker lors du rassemblement pour la libération de Bahar Kimyongür devant le Consulat d'Italie à Bruxelles hier [25/11/2013] après-midi.

Plus de deux millions de personnes, dans quatre-vingts villes, ont manifesté cet été en Turquie.


Leur volonté : la démission du Premier ministre ; leur cri de ralliement : « La révolte est partout ! » ; leur ambition : mettre fin au régime autoritaire en place à Ankara...


Policière, voilà l'unique réponse du gouvernement au mouvement citoyen : la terreur de masse, les balles en caoutchouc, les capsules de gaz tirées à même la tête.

La réaction de l'AKP : considérer les médecins qui portent secours aux manifestants, les avocats qui défendent les contestataires, les journalistes qui rendent compte des événements... les considérer tous comme des terroristes.


L'attitude d'Erdogan face aux protestataires de Gezi et de Taksim : la répression, rien que la répression. Son bilan : 6 morts, 8 500 blessés.


C'est cet État, un État qui tire sur sa propre population ; c'est cet État, un État qui définit tous ceux qui s'opposent à son action comme des criminels, c'est cet État qui accuse Bahar d'être un terroriste.


« Bahar Kimyongür n'est pas un terroriste »... Après quatre procès et deux cassations, tel est le verdict rendu par la justice belge.
« Bahar est un protestataire, un opposant politique », telle est la conviction de la justice hollandaise qui a refusé, dès 2006, de l'extrader vers la Turquie.


Mais la Turquie ne s'intéresse pas à la Justice ; la Turquie continue à s'acharner sur le citoyen belge, continue sa persécution. Au moment même où les autorités turques réprimaient dans le sang les manifestants à Istanbul et Ankara, elles faisaient arrêter Bahar en Espagne où il passait des vacances en famille.


Pour faire face à cette nouvelle atteinte aux droits et aux libertés, un mouvement de solidarité s'est développé en Belgique. A cet égard, 100 représentants de la société civile, parmi lesquels le Secrétaire général de la FGTB wallonne, celui de la FGTB-Bruxelles, celui de la CNE ; les présidents de la Ligue des droits de l'homme francophone et néerlandophone ; des dizaines de professeurs d'université du Nord et du Sud du pays ont posé une demande très claire : la Belgique doit tout faire pour empêcher l'extradition de Bahar vers la Turquie.


Mais il faut croire que Didier Reynders ne lit pas la presse car du côté du ministère des affaires étrangères, c'est le silence radio. Pire : quand le sénateur Benoit Hellings demande par écrit que la Belgique s'occupe de cette affaire, il se voit répondre que Bahar, vu qu'il a un avocat, n'a qu'à se débrouiller tout seul !

Aujourd'hui, pour Bahar, pour sa famille ; pour nous, pour la liberté d'expression, c'est un drame : Bahar est, depuis le 21 novembre, emprisonné à Bergame.


En raison d'un crime ? Bahar n'a commis aucun crime. Pour un délit ? Bahar n'a commis aucun délit. Sauf à considérer la vérité comme un crime, sauf à considérer que critiquer la politique turque est un délit, sauf à considérer que dénoncer les violations des droits de l'homme perpétrées par le régime d'Ankara est une infraction.


Chers amis, l'« affaire Kimyongür » met la démocratie belge à l'épreuve.
La crise économique nous a rappelé que l'Union européenne, c'est l'Europe du fric. Chaque fois qu'il est arrêté, Bahar nous fait découvrir l'Europe des flics !


De la part des mandataires politiques qui n'ont que les mots « démocratie » et « liberté » à la bouche, nous exigeons désormais des actes. Didier Reynders doit prendre ses responsabilités et mettre tout en œuvre pour sortir Bahar Kimyongür de la situation kafkaïenne dont il est la victime et pour empêcher qu'il ne soit remis entre les mains des bourreaux dont il dénonce les crimes.

Bahar est en prison. Notre urgence, c'est sa libération ! L'Italie compte un prisonnier politique car aujourd'hui, un citoyen belge est incarcéré dans ce pays pour ses convictions !


Mesdames, Messieurs, si nous sommes venus aujourd'hui manifester devant le Consulat d'Italie à Bruxelles, c'est pour montrer notre détermination ; pour réclamer, haut et fort : « La liberté pour Bahar ! »

 
Daniel Flinker
 
 
La sœur de Bahar lance un appel :

Bonjour à toutes et à tous,

Vous pouvez écrire à Bahar en prison. Il n'a toujours eu aucun contact avec l'extérieur, mis à part son avocat !
Gülay 

Ecrivez-lui afin qu'il se sente moins seul derrière les barreaux.
A vos crayons les ami(e)s.
Merci pour votre soutien,
Sa sœur Gülay

Adresse de la prison :
Bahar Kimyongür
Casa Circondariale di Bergamo
Via Monte Gleno 161
24125 Bergamo
Italie




TURCHIA

L'arresto in Italia di Bahar Kimyongür

Perseguitato da Erdogan per le accuse sulla Siria

di Marinella Correggia 
da " Il Manifesto"  23 Novembre 2013

È detenuto da giovedì nel carcere di Bergamo lo storico, giornalista e militante per la pace Bahar Kimyongür, di origine turca ma nato in Belgio dove vive. Appena arrivato in Italia, per partecipare a una conferenza internazionale sulla Siria, è stato arrestato sulla base di un mandato dell'Interpol richiesto dal governo di Ankara. L'accusa? Minaccia a un ministro e fiancheggiamento del terrorismo, in particolare dell'organizzazione turca Dhkpc. 
Come spiega l'avvocato penalista fiorentino Federico Romoli, nominato dalla famiglia (e membro dell'Ong Fair Trials International che si batte per un sistema penale più giusto), «lunedì la Corte d'appello di Brescia gli chiederà se vuole essere estradato in Turchia. Ovviamente dirà di no. Io chiederò la sua immediata liberazione». 
Per la stessa accusa in precedenza Kimyongür era stato già assolto in Belgio e nei Paesi bassi. 
Risale a un fatto del 2000 l'«accanimento del governo turco sulla base di un dossier vuoto» per usare le parole dello stesso Bahar, che da tempo collabora con il sito Investig'action del giornalista belga Michel Collon e con l'Istituto internazionale per la pace la giustizia e i diritti umani (Iipjhr) accreditato presso l'Onu a Ginevra. All'epoca diversi prigionieri politici in Turchia erano in sciopero della fame per protesta; durante una visita dell'allora ministro degli Esteri turco al Parlamento europeo Bahar lo interrompe pubblicamente denunciando le violenze e le persecuzioni, e gettando volantini. L'indomani la stampa turca lo descrive come amico di terroristi e nemico della nazione. In seguito la Turchia ne chiede l'estradizione accusandolo anche di far parte dell'associazione terroristica. È arrestato nei Paesi bassi, ma in seguito sia la giustizia olandese che quella belga dichiarano infondate le accuse. Rimane però in piedi purtroppo il mandato di cattura internazionale. 
Poi nel 2012, Bahar si attira nuovamente le ire turche denunciando pubblicamente, con articoli, conferenze e il libro Syriana. La conquete continue, il ruolo diretto del governo Erdogan nell'addestramento, nel finanziamento e nel transito delle formazioni estremiste e jihadiste attive in Siria. Aiuta anche le famiglie belghe a reclamare i figli partiti a combattere. Così, mesi fa viene arrestato in Spagna dove è in vacanza. Liberato poi su cauzione, il processo è in corso. 
In Italia si sta già preparando una mobilitazione a più livelli.



Inizio messaggio inoltrato:

Da: comitatocontrolaguerramilano <comitatocontrolaguerramilano  @gmail.com>
A: Comitato Contro la Guerra Milano <comitatocontrolaguerramilano  @gmail.com>
Inviato: Lunedì 25 Novembre 2013 21:22
Oggetto: Fwd: Scriviamo per la libertà a Bahar

RICEVIAMO DA MARINELLA CORREGGIA E VI GIRIAMO  CALDEGGIANDO LA VOSTRA ATTENZIONE ED AZIONE:

Ciao, Bahar Kimyongur cittadino belga di origine turca e da 15 anni attivo contro gli abusi in carcere da parte delle autorità turche e negli ultimi due anni contro l'appoggio che la Turchia offre ai terroristi in Siria,
E' IN PRIGIONE A BERGAMO e la Turchia ne chiede l'estradizione. Per saperne di più su questa situazione vergognosa (in Italia un cittadino belga prigioniero per fatti di pura opinione!) leggete qui [articolo riportato sopra, ndCNJ]:
Oggi pomeriggio prima udienza, l'avvocato ne chiederà la liberazione e il rimpatrio ma intato l'ambasciatore turco fa pressione (immaginate che sarà presente all'udienza)
 
Sua moglie chiede di mandare questa lettera alla Cancellieri, grazie, Marinella Correggia
 
Anna Maria Cancellieri centrocifra.gabinetto@...
  
Al ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, Ministero di Grazia e Giustizia, via Arenula, Roma
Oggetto: detenzione di un cittadino belga nelle carceri italiane per reato di opinione
Signor Ministro,

Dallo scorso 21 novembre, il cittadino belga Bahar Kimyongür è detenuto a Bergamo su richiesta della Turchia, la quale ne richiede l’estradizione.
Dal momento che oggi alle 11 si svolge un’udienza davanti alla Corte d’Appello di Brescia, ritengo sia mio dovere come cittadino sottoporLe alcuni elementi, importanti per la conoscenza del caso.
In primo luogo, occorre sapere che da oltre dieci anni Bahar Kimyongür subisce una vera e propria persecuzione da parte dello Stato turco che lo accusa senza prove di essere un “terrorista”. Questa persecuzione è avvenuta soprattutto in Belgio. Tuttavia, dopo quattro processi e due giudizi in cassazione, Bahar Kimyongür è stato completamente assolto dalla Corte d’Appello di Bruxelles.
La Turchia ha anche fatto pressione sui Paesi Bassi, ma nel 2006 la Camera di estradizione dell’Aja ha rifiutato l’estradizione. Sulla base dello stesso mandato d’arresto internazionale emesso dalla Turchia, il signor Kimyongür è stato poi arrestato in Spagna, lo scorso 17 giugno. In questo caso, la giustizia spagnola ha rimesso in libertà molto rapidamente il cittadino belga, anche se la procedura per l’estradizione è tuttora in corso.
E adesso è la volta del Suo paese a essere il teatro della persecuzione che Bahar Kimyongür subisce da parte di Ankara. E’ indispensabile che questo accanimento cessi perché, come indicano le giustizie belga e olandese, Bahar Kimyongür non ha commesso alcun atto di violenza o delitto. Quel che risulta insopportabile per il governo turco, sono le prese di posizione critiche di questo cittadino belga, i suoi scritti nei quali egli si oppone alla politica di Ankara, le sue coraggiose denunce delle violazioni dei diritti umani e i casi di tortura nelle prigioni turche.
Signor Ministro, in questo momento Bahar Kimyongür, cittadino belga, è un prigioniero politico in Italia per le sue sole opinioni. E’ una situazione intollerabile. Ecco perché mi permetto, in nome della libertà di espressione, di scriverLe e appellarmi a Lei affinché possa ispirare tutti passi necessari a ottenere la liberazione di Bahar Kimyongür.
 
Voglia gradire, signor Ministro, i miei saluti e ringraziamenti
 
In fede, 

 


Partigiani italiani nei Balcani: iniziative e documentazione

1) Parma: i partigiani italiani del "Battaglione Gramsci" in Albania in mostra a Palazzo Sanvitale, fino al 30 novembre
2) RaiStoria / E. Gobetti, M. Sangermano: la Divisione Italiana Partigiana Garibaldi


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Da: "Comitato antifascista e per la memoria storica-Parma" <comitatoantifasc_pr@...>
Data: 23 novembre 2013 15.55.26 GMT+01.00
Oggetto: i partigiani italiani del "Battaglione Gramsci" in Albania in mostra a Palazzo Sanvitale da oggi 23 novembre

I soldati italiani del "Battaglione Gramsci" partigiani contro i nazifascisti in Albania
in mostra fotografica a Palazzo Sanvitale (Parco Ducale di Parma) dal 23 novembre
 
Come sul fronte jugoslavo l'indomani dell'8 settembre '43 migliaia e migliaia (quarantamila) soldati italiani non si arresero ai tedeschi e scelsero di combattere contro i nazifascisti al fianco dei partigiani della Resistenza jugoslava, così in Albania l'indomani dell'8 settembre militari italiani della 41a Divisione fanteria "Firenze" e della 53a Divisione fanteria "Arezzo" costituirono il "Battaglione Antonio Gramsci" che combattè contro i nazifascisti insieme con l'Esercito Albanese di Liberazione Nazionale fino alla completa liberazione dell'Albania.
La mostra fotografica “Da oppressori a combattenti per la libertà" ripercorre la storia del glorioso “Battaglione Antonio Gramsci”. La mostra viene inaugurata a Palazzo Sanvitale di Parma (all'interno del Parco Ducale) sabato 23 novembre alle 15. In serata ex-combattenti del “Battaglione Antonio Gramsci” racconteranno della loro esperienza in Albania. Inoltre verranno consegnate ai militari italiani del Gramsci delle onorificenze firmate dal Presidente della Repubblica albanese.

L'iniziativa è organizzata dall’"Associazione Scanderbeg", associazione albanese a Parma e Provincia, col patrocinio del Comune e della Provincia di Parma, nell'ambito della "Settimana della cultura albanese” a Parma dal 23 al 30 novembre.


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RaiStoria / E. Gobetti, M. Sangermano: la Divisione Italiana Partigiana Garibaldi

Sono andati recentemente in onda, nell'ambito della trasmissione R.A.M. su RaiStoria, tre servizi a cura di Massimo Sangermano (regista) ed Eric Gobetti (storico), dedicati alla Divisione italiana partigiana Garibaldi in Jugoslavia:

04/11/2013 : La divisione Garibaldi. La scelta

11/11/2013 : La divisione Garibaldi. Un’alleanza particolare

18/11/2013 : La divisione Garibaldi. Una memoria scomoda, di Massimo Sangermano.

La terza puntata della serie è la più importante delle tre: essa pone la grave questione storiografica della rimozione della memoria della Divisione Garibaldi in Jugoslavia. Rimozione per la quale - lo scopriamo grazie a Gobetti - esistono gravi e dirette responsabilità fin dentro Casa Savoia...

Per quanto ci riguarda, con il passaggio della Divisione di fanteria da montagna «Venezia» nel II Korpus dell'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, il 9 ottobre 1943, NASCEVA IL NUOVO ESERCITO dell'Italia DEMOCRATICA. A sostenerci nella nostra opinione è nientemeno che SANDRO PERTINI:

<< La nascita del nuovo esercito italiano "inteso come esercito democratico antifascista e parte integrante della coalizione antihitleriana nella seconda guerra mondiale" deve essere anticipata ... al 9 ottobre 1943, quando il Generale Oxilia, Comandante della Divisione di Fanteria da montagna "Venezia", forte di dodicimila uomini, dette ordini alle sue truppe di attaccare i nazisti, coordinando le azioni militari con l'esercito popolare di liberazione della Jugoslavia. >>

Grazie agli autori per averci fatto rivedere, in quella terza puntata, le immagini preziose del 21 settembre 1983 a Pljevlja, in Montenegro, quando fu inaugurato il monumento alla Divisione Italiana Partigiana Garibaldi, alla presenza di Sandro Pertini e di Giulio Andreotti.

Per altra documentazione sulla Divisione Italiana Partigiana Garibaldi si veda la nostra pagina dedicata: https://www.cnj.it/PARTIGIANI/garibaldi_scotti.htm

(a cura di AM per JUGOINFO)





16 aprile 2013

Alleati del nemico. L'occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943)


di Eric Gobetti
casa editrice: Laterza
anno di pubblicazione: 2013
collana: Quadrante Laterza
pagine: 208
prezzo: 19,00 euro
disponibile anche in formato Ebook

Negli anni cruciali della Seconda guerra mondiale, l’Italia fascista impiega enormi risorse militari, diplomatiche, economiche e propagandistiche per imporre il suo dominio su circa un terzo dell’intero territorio jugoslavo. È una parabola breve, in cui però si condensa tutta la pochezza dell’impero di Mussolini: dai sogni di dominio sui Balcani nella primavera del 1941 al senso di sconfitta nell’estate del 1943. Efficacemente osteggiati dai partigiani di Tito, gli occupanti stringono ambigue alleanze con diverse realtà collaborazioniste, contribuendo a scatenare una feroce guerra civile. Vittime e carnefici al tempo stesso, i soldati del regio esercito combattono con pochi mezzi e scarse motivazioni ideali, costretti a vivere mesi e mesi in condizioni estreme, vinti dalla noia, dalla paura, dall’abbandono e, in fondo, anche dal fascino del ribelle.

Eric Gobetti è uno studioso del fascismo e della Jugoslavia particolarmente sensibile al tema delle identità e dei conflitti nazionali. È autore di "Dittatore per caso. Un piccolo duce protetto dall’Italia fascista" (L’ancora del Mediterraneo 2001), "L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943)" (Carocci 2007) e del diario-reportage "Nema problema! Jugoslavie, dieci anni di viaggi" (Miraggi edizioni 2011). Ha inoltre curato il volume collettaneo "1943-1945. La lunga liberazione" (Franco Angeli 2007).

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Alleati del nemico

Vittorio Filippi 15 maggio 2013

Una recente pubblicazione ripercorre la storia e le contraddizioni dell'occupazione italiana della Jugoslavia, tra il 1941 e il 1943. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Attaccata dalle truppe tedesche (soprattutto) ed italiane, nell’aprile del 1941 la fragile Jugoslavia monarchica dei Karadjordević capitola e viene rapidamente smembrata. All’Italia arrivano in dote il Montenegro, la Dalmazia, la Slovenia meridionale, il Kosovo e qualcosa della Macedonia; inoltre nasce, con tutela ed ispirazione fasciste, lo Stato degli ustascia croati (l’NDH) guidati da Ante Pavelić.
Il potere italiano che vi si insedia mescola la forte presenza dei militari (si arriverà a ben 300 mila unità, venti divisioni), i diplomatici di Ciano, gli interessi dei gruppi industriali e finanziari nonché il protagonismo dei Savoia, che hanno pur sempre una regina che viene dal Montenegro. In più c’è da fare i conti con la complessità etnica e perfino antropologica dei Balcani: l’invasione dell’Asse scoperchia infatti un vaso di Pandora fatto di nazionalismi, di violenze etniche e di persecuzioni – soprattutto tra serbi, croati e musulmani - in cui è difficile muoversi e soprattutto capire.
Gli italiani cercano di barcamenarsi con la solita politica del divide et impera ed all’impiego dei collaborazionisti, raggruppati nella Milizia volontaria anticomunista (Mvac). Ma ricorrono anche alla spietatezza della repressione, che mette assai in crisi lo stereotipo del buon soldato italiano. Tanto è vero che fucilazioni, deportazioni (solo il campo sull’isola di Rab/Arbe ospiterà 10 mila prigionieri) e saccheggi daranno agli italiani l’immagine ben poco nobile di incendiari di case (palikući) e di rubagalline. Anche se, a dire il vero, l’atteggiamento verso gli ebrei sarà invece spesso benevolente, arrivando addirittura ad azioni di salvataggio.
A complicare il tutto c’è, a cavallo tra il 1941 ed il 1942, lo scoppio della sanguinosa guerra civile, che opporrà i partigiani di Tito alle forze collaborazioniste, tra cui, di fatto, vi sono i cetnici filomonarchici. Gli italiani diventano, paradossalmente, “alleati del nemico”, secondo la formula con cui l’autore titola efficacemente il libro. Alleati cioè dei cetnici serbi contro gli ustascia ormai sotto influenza tedesca. Una situazione surreale che vede il vojvodadei cetnici Mihailović collaboratore degli italiani ma al tempo stesso ministro della guerra del governo jugoslavo in esilio a Londra, un governo formalmente in conflitto con l’Italia. Per di più da parte dei generali italiani gioca un vero e proprio pregiudizio anti croato e, viceversa, una sorta di ammirazione verso serbi e montenegrini. Che sono visti come guerrieri leali mentre i primi vengono giudicati “untuosi e falsi”.
Ad accentuare la confusione – o la schizofrenia – dei sentimenti italiani vi è anche una crescente ammirazione del movimento partigiano titoista a cui l’autore dedica due paragrafi proprio per sottolinearne la presa ideale e la modernità internazionalistica ed insieme patriottica che sa proporre. Tanto è vero che in diverse unità italiane si attivano contatti con i partigiani, contatti che poi al crollo dell’8 settembre produrranno la totale collaborazione militare con questi ultimi.
Alla metà del 1943 la presenza italiana è ormai in disfacimento e priva di prospettive. In soli due anni l’occupazione di un’area che voleva essere lo sbocco ideale dell’espansionismo nazionalista italiano si era “balcanizzata” sprofondando nella confusione, nell’impotenza e nello scoramento. Oltre a perdere 15 mila uomini tra caduti e dispersi.
La sconfitta dei cetnici, indeboliti dalla loro ambiguità oltre che dalla caduta dell’alleato italiano, toglierà ogni alternativa politica alla Jugoslavia che nasce dalle lotte partigiane. Che sarà repubblicana, federale e socialista. Ma questa è già un’altra storia.

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Un libro che sfata i miti

Categoria: Cultura e spettacoli
Creato Venerdì, 25 Ottobre 2013 15:00
Scritto da Helena Labus Bačić

FIUME L’occupazione italiana di un vasto territorio dell’ex Jugoslavia e i crimini commessi in quei territori dall’esercito del regime fascista nel periodo dal 1941-1943 sono temi ancora spesso trascurati, sottaciuti dalla storiografia e dalla società italiana che, non avendo mai processato i suoi esponenti fascisti, nel dopoguerra ha prodotto il mito, diffusosi poi in tutto il mondo, dell’“italiano buono”. Nel libro ”Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia 1941-1943”, presentato ieri alla facoltà di Filosofia, lo storico italiano Eric Gobetti sfata il succitato mito e dipinge un quadro diverso dell’occupazione italiana dell’ex Jugoslavia, che ha compreso la Slovenia meridionale, l’Istria e Fiume, la Dalmazia, la Bosnia ed Erzegovina, il Montenegro e il Kosovo. Come rilevato dallo storico Pietro Purini, oltre che sfatare il cliché degli italiani buoni e sempre pronti ad aiutare la popolazione locale, Gobetti mette in luce la cattiva organizzazione, ovvero il caos organizzativo e istituzionalizzato all’interno dell’apparato italiano, in quanto in certi territori occupati determinate unità dell’esercito rispondevano a diversi comandi. 

“Le forze di occupazione si trovano a dover combattere con un movimento di resistenza forte ed efficace (i partigiani, nda) e in questo contesto, gli italiani si macchiano di crimini che non sono diversi da quelli che riguardano la Wehrmacht – sottolinea Purini -. Com’era il caso con gli occupatori tedeschi, anche quelli italiani fanno il conteggio delle vittime, uccidendo dieci jugoslavi per un italiano. Vengono distrutti e incendiati interi villaggi, istituiti campi di concentramento…”, aggiunge lo storico, ricordando che, nonostante le reiterate richieste del governo jugoslavo nel dopoguerra, questi crimini di guerra non sono stati mai processati, grazie all’amnistia richiesta da Togliatti. Purini sottolinea un altro aspetto interessante che viene analizzato nel libro, ossia il sistema delle alleanze che gli italiani instaurarono con la parte più conservatrice dei movimenti esistenti nei territori occupati, avviando collaborazioni con gli ustascia e i cetnici, per nominare soltanto quelli più rilevanti.
L’autore ha esordito affermando che l’occupazione italiana dell’ex Jugoslavia non è un tema marginale, anche se nel corso dei decenni è stato sempre sminuito dall’opinione pubblica sia jugoslava sia italiana. “Si è preferito parlare dell’occupazione tedesca, mentre quando si faceva riferimento all’Italia venivano menzionati sempre altri fronti di guerra dai quali il Belpaese è sempre uscito sconfitto. Nel caso jugoslavo, invece, l’Italia è un occupatore vincente, con addirittura 300mila soldati disseminati in questi territori. Per fare un paragone, in Russia vengono mandati appena 60mila uomini”, ha puntualizzato Gobetti, soffermandosi sul tema del collaborazionismo nei territori occupati. Dal 1941 al 1943, il comando di Tito e il movimento partigiano si rafforzano, mentre al contempo si sviluppano i movimenti collaborazionisti (primi fra tutti gli ustascia croati e i cetnici serbi). 
“L’aspetto del collaborazionismo è significativo da tutti i punti di vista. Gli italiani stabiliscono alleanze che spesso risultano delle contraddizioni che si trascinano in tutto il periodo di occupazione. L’alleanza con gli ustascia inizia già nel 1929, quando Ante Pavelić è in esilio in Italia. Ed è proprio lì che nasce il movimento ustascia, che raggiunge il suo apice nel 1941, quando Pavelić diventa dittatore dello Stato croato indipendente (NDH). Ma l’alleanza tra l’Italia e gli ustascia manifesta un’incoerenza interna. Infatti, gli ustascia sono fascisti e al contempo nazionalisti, per cui vogliono governare lo stesso territorio che è occupato dall’Italia (la Dalmazia). Quindi, questa è una contraddizione che porta gli italiani a stabilire un’alleanza con i cetnici, che sono filoinglesi, in quanto il loro governo si trova in esilio a Londra; di conseguenza si trovano in guerra con l’Italia. Una situazione paradossale.
Lo scrittore Giacomo Scotti, nel commentare quanto esposto da Gobetti, ha definito il volume ”Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia 1941-1943” come un libro coraggioso perché analizza un aspetto scomodo e sottaciuto della storia italiana. “Il fascismo ha gettato l’onta sul popolo italiano, per cui ammiro il coraggio di Gobetti, che ha messo in luce i delitti fascisti, rimasti coperti da troppo tempo”.

Al termine della presentazione abbiamo voluto sapere dallo storico Gobetti in che modo venga insegnata la Seconda guerra mondiale nelle scuole italiane. “In Italia è diffuso il concetto di ‘Norimberga mancante’, in quanto non c’è mai stato un processo simile in Italia. Questo ha favorito lo stereotipo dell’‘italiano buono’ e l’impressione che sia stato meno peggiore degli altri. Di conseguenza, nelle scuole superiori non si insegna la storia dell’Italia nella Seconda guerra mondiale e non si parla assolutamente dell’occupazione balcanica. Quest’ultima non si insegna nemmeno nelle università”, ha fatto notare Eric Gobetti. 

Helena Labus Bačić




(in english: “Responsibility to Protect” (R2P): An Instrument of Aggression
by Edward S. Herman
http://www.voltairenet.org/article180927.html )



La « Responsabilité de protéger » (R2P) comme instrument d’agression

par Edward S. Herman

Alors que les néo-conservateurs évoquaient la « révolution mondiale » et la « démocratie » pour justifier l’impérialisme états-unien, les faucons libéraux préfèrent dénoncer le « risque de génocide » et promouvoir la « responsabilité de protéger ». Au demeurant ces nouveaux concepts ne sont jamais que la réactualisation du vieux discours colonial en faveur de la « civilisation ». En définitive, ces belles paroles servent exclusivement à masquer la loi du plus fort.

RÉSEAU VOLTAIRE  | 9 NOVEMBRE 2013

La « responsabilité de protéger » est une fausse doctrine conçue pour miner les fondements mêmes du droit international. C’est le droit réécrit en faveur des puissants. « Les structures et les lois qui fondent l’application de la R2P exemptent bel et bien les Grandes Puissances —défenseurs du droit international— du respect des lois et des règles mêmes qu’elles imposent aux autres pays. »
La Responsabilité de Protéger (R2P) et le concept d’intervention humanitaire datent tous les deux du lendemain de l’effondrement de l’Union Soviétique —qui levait subitement toutes les entraves que cette Grande Puissance avait pu jusqu’ici opposer à la constante projection de puissance des États-Unis—. Dans l’idéologie occidentale, bien sûr, les États-Unis s’étaient efforcés depuis la Seconde Guerre mondiale de contenir les Soviétiques ; mais ça, c’est l’idéologie… En réalité, l’Union Soviétique avait toujours été bien moins puissante que les États-Unis, avec des alliés plus faibles et moins fiables, et de 1945 à sa disparition en 1991 elle avait finalement toujours été sur la défensive. Agressivement lancés à la conquête du monde depuis 1945, les États-Unis, eux, n’avaient de cesse d’augmenter le nombre de leurs bases militaires dans le monde, de leurs sanglantes interventions grandes ou petites sur tous les continents, et bâtissaient méthodiquement le premier empire véritablement planétaire. Avec une puissance militaire suffisante pour constituer une modeste force d’endiguement, l’Union Soviétique freinait l’expansionnisme états-unien mais elle servait aussi la propagande états-unienne en tant que soi-disant menace expansionniste. L’effondrement de l’Union Soviétique engendrait donc un besoin vital de nouvelles menaces pour justifier la continuation voire l’accélération de la projection de puissance US, mais on pouvait toujours en trouver : depuis le narco-terrorisme, Al-Qaïda et les armes de destruction massive de Saddam Hussein, jusqu’à une nébuleuse menace terroriste dépassant les limites de la planète et de l’espace environnant.
Tensions inter-ethniques et violations des Droits de l’Homme ayant engendré une prétendue menace globale, planétaire, contre la sécurité, qui risquait de provoquer des conflits encore plus vastes, la communauté internationale (et son superflic) se retrouvaient face à un dilemme moral et à la nécessité d’intervenir dans l’intérêt de l’humanité et de la justice. Comme nous l’avons vu, cette poussée moraliste arrivait justement au moment où disparaissait l’entrave soviétique, où les États-Unis et leurs proches alliés célébraient leur triomphe, où l’option socialiste battait de l’aile et où les puissances occidentales avaient enfin toute liberté d’intervenir à leur guise. Bien sûr, tout cela impliquait de passer outre le principe westphalien multiséculaire gravé au centre des relations internationales —à savoir le respect de la souveraineté nationale— qui, si l’on y adhérait, risquait de protéger les pays les plus petits et les plus faibles contre les ambitions et les agressions transfrontalières des Grandes Puissances. Cette règle était en outre l’essence même de la Charte des Nations Unies et on peut dire qu’elle était même la clé de voûte de ce document que Michael Mandel décrivait comme « la Constitution du monde ». Passer outre cette règle et le principe de base de cette Charte impliquait l’entrée en lice de la Responsabilité de Protéger (R2P) et des Interventions Humanitaires (IH), et ouvrait à nouveau la voie à l’agression pure et simple, classique, avec des visées géopolitiques, mais parée désormais du prétexte commode de la R2P et de l’IH.
Bien évidemment, lancer des interventions humanitaires transfrontalières au nom de la R2P reste l’apanage absolu des Grandes Puissances —spécificité communément admise et regardée comme parfaitement naturelle à chaque fois que ces mesures ont été appliquées au cours des dernières années—. Les Grandes Puissances sont seules à disposer des connaissances et des moyens matériels nécessaires pour mener à bien cette œuvre sociale planétaire. En effet, comme l’expliquait en 1999 Jamie Shea, responsable des relations publiques de l’Otan, lorsque on commença à se demander si le personnel de l’Otan ne risquait pas d’être poursuivi pour les crimes de guerre liés à la campagne de bombardements de l’Alliance contre la Serbie, ce qui découlait logiquement du texte même de la Charte du TPIY (Tribunal Pénal International pour l’ex-Yougoslavie) : Les membres de l’Otan ont « organisé » le TPIY et la Cour Internationale de Justice. Ils « financent ces tribunaux et soutiennent quotidiennement leurs activités. Nous sommes les défenseurs, non les violateurs du droit international ». La dernière phrase est évidemment contestable mais pour le reste, Shea avait parfaitement raison.
Détail particulièrement éloquent, lorsqu’un groupe de juristes indépendants déposa en 1999 un dossier détaillé qui documentait les violations manifestes des règles du TPIY par l’Otan, après un délai considérable et suite à des pressions exercées ouvertement par les responsables de l’Alliance, les plaintes contre l’Otan étaient déboutées par le procureur du TPIY au prétexte que, avec seulement 496 victimes documentées tuées par les bombardements, il n’y avait « simplement aucune preuve d’intention criminelle » imputable à l’Otan —alors que pour inculper Milosevic en mai 1999, 344 victimes suffisaient largement—. On trouvera intéressant aussi que le procureur de la Cour Pénale Internationale (CPI), Luis Moreno-Ocapmo, ait lui aussi refusé de poursuivre les responsables de l’Otan pour leur agression contre l’Irak en 2003, malgré plus de 249 plaintes portées auprès de la CPI, au prétexte que là aussi, « il n’apparaissait pas que la situation ait atteint le seuil requis par le Statut de Rome » pour intenter une action en justice.
Ces deux cas montrent assez clairement que les structures et les lois qui fondent l’application de la R2P (et des IH) exemptent bel et bien les Grandes Puissances —défenseurs du droit international— du respect des lois et des règles mêmes qu’elles imposent aux autres pays. Leurs alliés et clients en sont d’ailleurs exempts aussi. Ce qui signifie très clairement que, dans le monde réel, personne n’a le devoir de protéger les Irakiens ou les Afghans contre les États-Unis, ou les Palestiniens contre Israël. Lorsque sur une chaîne nationale en 1996, la secrétaire d’État, Madeleine Albright, reconnaissait que 500 000 enfants irakiens [de moins de cinq ans] avaient sans doute perdu la vie, victimes des sanctions imposées à l’Irak par l’Onu (en réalité par les États-Unis), et déclarait : Pour les responsables états-uniens « l’enjeu en vaut la peine » ; il n’y eut de réaction ni sur le plan national ni sur le plan international pour exiger la levée de ces sanctions et le déclenchement d’une IH en application de la R2P, afin de protéger les populations irakiennes qui en étaient victimes. De même aucun appel ne fut lancé pour une IH au nom de la R2P pour protéger ces mêmes Irakiens lorsque les forces anglo-américaines envahirent l’Irak en mars 2003 ; invasion qui, doublée d’une guerre civile induite, allait faire plus d’un million de morts supplémentaires.
Lorsque la Coalition Internationale pour la Responsabilité de Protéger, sponsorisée par le Canada, se pencha sur la guerre d’Irak, ses auteurs conclurent que les exactions commises en Irak par Saddam Hussein en 2003, n’étaient pas d’une ampleur suffisante pour justifier une invasion. Mais la coalition ne souleva jamais la question de savoir si les populations irakiennes n’auraient pas de factobesoin d’être protégées contre les forces d’occupation qui massacraient la population. Ils campaient simplement sur l’idée que les Grandes Puissances, qui imposent le respect du droit international, même lorsque leurs guerres d’agression violent ouvertement la Charte des Nations Unies et font des centaines de milliers de morts, restent au-dessus des lois et ne peuvent faire l’objet d’une R2P.
Et c’est comme ça depuis le sommet de la structure internationale du pouvoir, jusqu’en bas : George Bush, Dick Cheney, Barack Obama, John Kerry, Susan Rice, Samantha Power au sommet et en descendant Angela Merkel, David Cameron, François Hollande, puis au-dessous Ban Ki-Moon et Luis Moreno-Ocampo —qui n’ont aucune base politique en dehors du monde des affaires et des médias—. Ban Ki-Moon et son prédécesseur Kofi Annan ont toujours œuvré ouvertement au service des principales puissances de l’Otan, auxquelles ils doivent leur position et leur autorité. Kofi Annan était un fervent partisan de l’agression de l’Alliance contre la Yougoslavie, de la nécessité de renforcer la responsabilité des puissances de l’OTAN, et de l’institutionnalisation de la R2P. Ban Ki-Moon est exactement sur la même fréquence.
Cette même structure internationale du pouvoir implique aussi la possibilité de créer et d’utiliser à volonté des tribunaux internationaux ad hoc et des Cours Internationales contre des pays cibles. Ainsi en 1993, lorsque les États-Unis et leurs alliés souhaitaient démanteler la Yougoslavie et affaiblir la Serbie, ils n’avaient qu’à utiliser le Conseil de Sécurité [dont les États-Unis, le Royaume-Uni et la France sont membres permanents] pour créer un tribunal précisément à cet effet, le TPIY, qui allait s’avérer parfaitement fonctionnel. De même, lorsqu’ils souhaitaient aider un de leurs clients, Paul Kagame, à assoir sa dictature au Rwanda, ils créèrent le même type de tribunal : le TPIR (ou tribunal d’Arusha). Lorsque ces mêmes pays souhaitèrent attaquer la Libye et en renverser le régime, il leur suffit de faire condamner Kadhafi par la CPI pour crimes de guerre, aussi rapidement que possible et sans contre-enquête indépendante sur aucune des allégations de crime, lesquelles reposaient essentiellement sur des anticipations de massacres de civils [jamais commis]. Bien sûr, comme nous l’avons vu plus haut, concernant l’Irak, la CPI ne trouvait vraiment rien qui puisse justifier des poursuites contre l’occupant, dont les massacres de civils étaient de proportions autrement supérieures et avaient bel et bien été commis, et non simplement anticipés. En réalité, un vaste Tribunal International pour l’Irak a finalement été organisé afin de juger les crimes commis en Irak par les États-Unis et leurs alliés [le BRussell Tribunal], mais sur une base privée et avec un parti-pris clairement anti-belliciste. De fait, bien que ses séances se soient tenues très officiellement dans de nombreux pays et que de nombreuses personnalités importantes y soient venues témoigner, les médias n’y prêtèrent littéralement aucune attention. Ses dernières sessions et son rapport, rendu en juin 2005, ne furent même évoqués dans aucun grand média nord-américain ou britannique.
La R2P correspond parfaitement à l’image d’un instrument au service d’une violence impériale exponentielle, qui voit les États-Unis et leur énorme complexe militaro-industriel engagés dans une guerre mondiale contre le terrorisme et menant plusieurs guerres de front, et l’Otan, leur avatar, qui élargit sans cesse son « secteur d’activité » bien que son rôle supposé d’endiguement de l’Union Soviétique ait expiré de longue date. La R2P repose très commodément sur l’idée que, contrairement à ce qui était la priorité des rédacteurs de la Charte des Nations Unies, les menaces auxquelles le monde se trouve aujourd’hui confronté ne dérivent plus d’agressions transfrontalières comme c’était traditionnellement le cas, mais émanent des pays eux-mêmes. C’est parfaitement faux ! Dans son ouvrageFreeing the World to Death [1], William Blum dresse une liste de 35 gouvernements renversés par les États-Unis entre 1945 et 2001 (sans même compter les conflits armés déclenchés par George W. Bush et Barak Obama).
Dans le monde réel, tandis que la R2P parait merveilleusement auréolée de bienveillance, elle ne peut être mise en œuvre qu’à la demande exclusive des principales puissances de l’Otan et ne saurait donc être utilisée dans l’intérêt de victimes sans intérêt, à savoir celles de ces mêmes Grandes Puissances [ou de leurs alliés et clients] [2]. Jamais on n’invoqua la R2P [ou quoi que ce soit de similaire] pour mettre fin aux exactions lorsque en 1975 l’Indonésie décida d’envahir et d’occuper durablement le Timor Oriental. Cette occupation allait pourtant se solder par plus de 200 000 morts sur une population de 800 000 au total —ce qui proportionnellement dépassait largement la quantité de victimes imputables à Pol Pot au Cambodge—. Les États-Unis avaient donné leur feu vert à cette invasion, fourni les armes à l’occupant et lui offraient leur protection contre toute réaction de l’Onu. Dans ce cas précis, il y avait violation patente de la Charte des Nations Unies et le Timor avait impérativement besoin de protection. Mais dès lors que les États-Unis soutenaient l’agresseur, on n’entendrait jamais parler de réponse des Nations Unies. [3]
Comble d’ironie mais particulièrement révélateur, Gareth Evans, ex-Premier ministre d’Australie, ex-Président de l’International Crisis Group [4], co-fondateur de la Commission Internationale sur l’Intervention et la Souveraineté Internationale, lui-même auteur d’un ouvrage sur la R2P et qui aura sans doute été le principal porte-parole en faveur de la R2P comme instrument de justice internationale, était Premier ministre d’Australie pendant l’occupation génocidaire du Timor Oriental par l’Indonésie et en tant que tel fêtait et encensait les dirigeants indonésiens, dont il était ouvertement complice pour spolier le Timor de ses droits sur ses réserves naturelles de pétrole [5]. Evans était donc lui-même complice et contributeur de l’un des pires génocides du XXe siècle. Vous imaginez la réaction des médias à une campagne en faveur des Droits de l’Homme menée sans le soutien de l’Otan, et ayant pour porte-parole un dignitaire chinois qui aurait entretenu des relations très amicales avec Pol Pot pendant les pires années de sa dictature ?
Ce qui est réellement éloquent c’est de voir comment Evans gère ce passif notoire pour promouvoir la R2P. Interrogé à ce sujet lors d’une session de l’Assemblée Générale des Nations Unies sur la R2P, Evans en appelait au bon sens : La R2P « se définit d’elle-même », et les crimes mis en cause, y compris le nettoyage ethnique, sont tous intrinsèquement révoltants et par leur nature même d’une gravité qui exige une réponse […]. Il est réellement impossible de parler ici de chiffres précis ». Evans souligne que parfois, des chiffres minimes peuvent suffire : « Nous nous souvenons très clairement de l’horreur de Srebrenica… [8 000 morts seulement]. Avec ses 45 victimes au Kosovo en 1999, Racak suffisait-il à justifier la réponse qui fut déclenchée par la communauté internationale ? » En fait, l’événement de Racak avait effectivement paru suffisant pour une bonne et simple raison : il donnait un coup d’accélérateur au programme de démantèlement de la Yougoslavie d’ores et déjà lancé par l’Otan. Mais Evans évite soigneusement de répondre à sa propre question au sujet de Racak. Inutile de dire qu’Evans ne s’est jamais demandé et n’a jamais cherché à expliquer pourquoi le Timor Oriental, avec plus de 200 000 morts n’avait jamais suscité aucune réaction de la communauté internationale ; et l’Irak pas davantage malgré un million de morts dus aux sanctions, dont 500 000 enfants de moins de cinq ans et plus d’un million supplémentaires suite à l’invasion. Les choix sont ici totalement politiques mais manifestement, Evans a si parfaitement intégré la perspective impériale qu’un aussi vertigineux écart ne le révolte pas le moins du monde. Mais ce qui est encore plus extraordinaire, c’est qu’un criminel de cette envergure avec un parti pris aussi évident puisse être considéré internationalement comme une autorité dans ce domaine et que des positions aussi ouvertement partiales que les siennes puissent être regardées avec respect.
Il est intéressant aussi de constater qu’Evans ne mentionne jamais Israël et la Palestine, où un nettoyage ethnique est activement mené depuis des décennies et ouvertement —comme en témoigne le très grand nombre de réfugiés aux quatre coins du monde—. D’ailleurs, aucun autre membre de la pyramide du pouvoir ne considère la région israélo-palestinienne comme une zone révoltante où la nature et l’envergure des exactions commises exige une réponse de la « communauté internationale ». Pour obtenir le titre de représentante permanente des États-Unis auprès de l’ONU, Samantha Power jugea même nécessaire de se présenter très officiellement devant un groupe de citoyens états-uniens pro-israéliens pour les assurer, les larmes aux yeux, de son profond regret pour avoir laissé entendre que l’AIPAC était une puissante organisation sur l’influence de laquelle il serait nécessaire de reprendre contrôle afin de pouvoir développer une politique à l’égard d’Israël et de la Palestine qui puisse œuvrer dans l’intérêt des États-Unis. Elle prêta même serment de rester dévouée à la sécurité nationale d’Israël. Manifestement, le monde devra attendre longtemps avant que Samantha Power et ses parrains exigent que la R2P soit appliquée aussi au nettoyage ethnique de la Palestine.
En définitive, dans le monde post-soviétique, la structure internationale du pouvoir n’a fait qu’aggraver l’inégalité internationale, renforçant dans le même temps l’interventionnisme et la liberté d’agression des Grandes Puissances. L’accroissement du militarisme a certainement contribué à l’accroissement des inégalités mais il a surtout été conçu pour servir et favoriser la pacification, tant à l’étranger que dans nos propres pays. Dans un tel contexte, IH et R2P ne sont que des évolutions logiques qui apportent une justification morale à des actions qui scandaliseraient énormément de gens et qui, éclairées froidement, constituent des violations patentes du droit international. Présentant les guerres d’agressions sous un jour bienveillant, la R2P en est devenu un instrument indispensable. En réalité, c’est seulement un concept aussi frauduleux que cynique et contraire à la Charte des Nations Unies.

Traduction 
Dominique Arias

       

[1] Common Courage, 2005, Ch. 11 et 15.

[2] Cf. Manufacturing Consent, Ch. 2 : « Worthy and Unworthy Victims ».

[3] Ndt : En tant que membre permanent du Conseil de Sécurité de l’ONU, les USA ont droit de veto sur toutes les décisions de l’ONU ; or toute décision d’intervention ou de sanction passe nécessairement par le Conseil de Sécurité

[4] L’International Crisis Group : officiellement, ONG engagée dans la prévention et le règlement des conflits internationaux, financée par George Soros.

[5] Cf. John Pilger “East Timor : a lesson in why the poorest threaten the powerful,” April 5, 2012, pilger.com.






Al via la nuova missione Libia

di Manlio Dinucci 
da il manifesto, 19 novembre 2013

Dopo aver demolito lo stato libico con 10mila attacchi aerei e forze speciali infiltrate, Stati uniti, Italia, Francia e Gran Bretagna dichiarano la propria «preoccupazione per l’instabilità in Libia». 

La Farnesina informa che a Tripoli sono in corso violenti scontri tra milizie anche con armi pesanti e che sono stati danneggiati numerosi edifici, per cui la sicurezza non è garantita nemmeno nei grandi hotel della capitale. Non solo per gli stranieri, ma anche per i membri del governo: dopo il rapimento un mese fa del primo ministro Ali Zeidan dalla sua residenza in un hotel di lusso, domenica è stato rapito all’aeroporto il vicecapo dei servizi segreti Mustafa Noah. E mentre nella capitale miliziani di Misurata sparano su cittadini disarmati esasperati dalle violenze, a Bengasi prosegue senza soluzione di continuità la serie di omicidi di matrice politica.

Che fare? Il presidente Obama ha chiesto al premier Letta di «dare una mano in Libia» e questi ha subito accettato. La sua affidabilità è fuori discussione: nel 2011 Enrico Letta, allora vicesegretario del Pd, è stato uno dei più accesi sostenitori della guerra Usa/Nato contro la Libia. Sarà ricordata sui libri di storia la sua celebre frase: «Guerrafondaio è chi è contro l'intervento internazionale in Libia e non certo noi che siamo costruttori di pace». 

Ora, mentre la Libia sprofonda nel caos provocato dai «costruttori di pace», è arrivato il momento di agire. L’ammiraglio William H. McRaven, capo del Comando Usa per le operazioni speciali, ha appena annunciato che sta per essere varata una nuova missione: addestrare e armare una forza libica di 5-7mila soldati e «una unità più piccola, separata, per missioni specializzate di controterrorismo». 

Specialisti del Pentagono e della Nato sono già in Libia per scegliere gli uomini. Ma, data la situazione interna, questi verranno addestrati fuori dal paese, quasi certamente in Italia (in particolare in Sicilia e Sardegna) e forse anche in Bulgaria, secondo un programma agli ordini del Comando Africa del Pentagono. 

L’ammiraglio McRaven non nasconde che «vi sono dei rischi: una parte dei partecipanti all’addestramento può non avere la fedina pulita». È molto probabile quindi che tra di loro vi siano criminali comuni o miliziani che hanno torturato e massacrato (elementi che, una volta in Italia, potranno circolare liberamente). E tra quelli addestrati in Italia vi saranno anche i guardiani dei lager libici in cui vengono rinchiusi i migranti. 

Per il loro addestramento e mantenimento non basteranno i fondi già stanziati per la Libia nel decreto missioni all’esame del parlamento: ne occorreranno altri molto più consistenti, sempre attinti dalle casse pubbliche. 

L’Italia contribuirà in tal modo alla formazione di truppe che, essendo di fatto agli ordini dei comandi Usa/Nato, saranno solo nominalmente libiche: in realtà avranno il ruolo che avevano un tempo le truppe indigene coloniali. Scopo della missione non è quello di stabilizzare la Libia perché torni ad essere una nazione indipendente, ma quello di controllare la Libia, di fatto già balcanizzata, le sue preziose risorse energetiche, il suo territorio strategicamente importante. 

Ci permettiamo di dare un consiglio al governo Letta: l’Expo galleggiante della Cavour, rientrando nel Mediterraneo ad aprile dopo il periplo dell’Africa, potrebbe fare tappa anche in Libia per pubblicizzare i prodotti del Made in Italy. Come il cannone a fuoco rapido Vulcano della Oto Melara che, in mano ai libici che oggi mitragliano i barconi dei migranti, potrebbe risolvere il problema dell’emigrazione clandestina.




Inizio messaggio inoltrato:

Da: "Trieste USB" <trieste @ usb.it>
Data: 21 novembre 2013 10.24.36 GMT+01.00
A: "Trieste USB" <trieste @ usb.it>
Oggetto: testo nostro intervento sulla situazione della Bibliotca nazionale slovena e degli studi all'assemblea "La precarietà della storia" del 7 ottobre

In allegato il testo del nostro intervento all’assemblea del 7 ottobre. Nel ritenere che opinione pubblica e rappresentanze politiche abbiano il diritto/dovere di esprimersi in merito a quanto sta accadendo rimaniamo a disposizione per approfondimenti e chiarimenti.
Cordiali saluti
USB Lavoro privato - FVG


IL CASO DELLA BIBLIOTECA NAZIONALE SLOVENA E DEGLI STUDI

USB LAVORO PRIVATO Trieste
Intervento all'incontro pubblico “LA PRECARIETÀ DELLA STORIA”, Trieste, 7 ottobre 2013


La Biblioteca nazionale slovena e degli studi (BNS) è nata subito dopo la seconda guerra mondiale per iniziativa dei massimi organismi di potere filo jugoslavi nell'ambito del processo di ricostruzione delle istituzioni slovene distrutte dal fascismo. A causa della legislazione essa è nata quale ente privato, anche se viveva esclusivamente grazie ai fondi forniti dagli enti ufficiali jugoslavi a ciò preposti. Viveva quindi di fondi pubblici, »jugoslavi« ma comunque pubblici, il cui utilizzo era sottoposto al controllo di organismi ufficiali jugoslavi. Del suo carattere pubblico testimonia anche il fatto che solo nel 1948 la BNS è divenuta proprietaria formale dei libri e degli arredi dei quali disponeva, che erano stati fino ad allora proprietà della massima organizzazione dell'associazionismo culturale sloveno (e croato) a Trieste, la Slovensko (hrvatska) prosvetna zveza (Unione culturale sloveno croata). Di fatto la BNS è nata allo scopo di essere a disposizione di tutta la minoranza slovena.
In un periodo in cui nessuna autorità locale – né il Governo militare alleato e tanto meno il Comune di Trieste – era disposta a dare vita a un tale ente, a farlo furono gli organismi (para) statali jugoslavi. Tali circostanze storiche hanno portato al fatto che l'ambito delle istituzioni slovene fosse una sorta di mondo a parte (certamente non l'unico) circondato da nemici pronti in ogni istante a distruggerlo. In questo mondo vigevano delle regole particolari e non scritte: le cose si risolvono internamente, in silenzio, personalmente. Se tale approccio aveva allora delle sue precise ragioni e un suo senso, esso era però esposto ad abusi, divenendo in seguito quasi solo un pretesto per coprire abusi e irregolarità.
La stessa denominazione della biblioteca segnalava che si trattava di qualcosa di più di una semplice biblioteca popolare: era nazionale in quanto raccoglieva sopratutto – ma non esclusivamente – pubblicazioni in lingua slovena, ma era anche di studio, un luogo in cui raccogliere in maniera sistematica testi e materiali necessari alle attività di studio di studenti e studiosi. Non si trattava solo di raccogliere e prestare libri, si trattava di portare l'attività bibliotecaria ad un livello più alto, professionale e scientifico. Dato il suo carrattere »di studio« fu del tutto naturale che qualche anno dopo venisse aggregato alla BNS anche la Sezione storia ed etnografia (SSE), nata con il compito di raccogliere sitematicamente, ordinare e valorizzare materiale storiografico e di altro tipo importante per la ricerca a livello scinetifico del passato e del presente degli sloveni in Italia. Come nel caso della biblioteca lo scopo era quello di sistematizzare e portare ad un livello professionale e scientifico questo tipo di attività.
Fino alla fine degli anni '80 del secolo passato l'attività della BNS e della SSE si espanse, assumendo una importanza sempre più ampia, tanto che nel 1976 la Regione Autonoma Friuli – Venezia Giulia le riconobbe lo status di ente di interesse regionale. Poprio alla fine di tale periodo, nel 1989, entrò a far parte della BNS anche la Biblioteca slovena “D. Feigel” di Gorizia. In parallelo era cresciuto anche il numero dei dipendenti, anche se era caratteristico l'ampio ricorso a »collaboratori esterni«, collaboratori a onorario e simili. Con il corollario che non si doveva nemmeno menzionare un qualche tipo di attività sindacale, tutto doveva passare attraverso contatti e accordi personali, il tutto nel nome »del bene del popolo«. Negli anni '90 le cose iniziarono a prendere un indirizzo diverso. I fondi dell'allora già ex Jugoslavia scomparvero, il numero dei dipendenti prese a scendere velocemente e l'ente fu in qualche modo lasciato a sé stesso: l'attrezzatura non veniva rinnovata (tranne quella indispensabile), non c'era alcuna prospettiva che andasse al di la della mera sopravvivenza. Quanto venne fatto in questo periodo – e non si trattò di poca cosa - venne fatto per iniziativa dei dipendenti, che non si limitarono solo ad adattarsi a condizioni di lavoro sempre peggiori cercando di tamponare per quanto possibile le falle. Solo alla loro dedizione va il merito se l'ente è riuscito a mantenere e addirittura accrescere il suo carattere professionale e scientifico. Va però anche sottolineato che proprio tale disponibilità ad adeguarsi e adattarsi senza contestazioni ha contribuito a fare si che si arrivasse alla situazione attuale.
A partire dagli anni '90 i fondi per l'attività della BNS arrivano dalla Slovenia, ma sopratutto dallo Stato italiano, fino al 2000 in base alla legge per le aeree di confine e dal 2001 in base alla legge di tutela della minoranza slovena. E' necessario spendere alcune parole circa le modalità con cui lo Stato italiano finanzia l'attività degli enti della minoranza. In base alla legge di tutela il governo italiano decide di anno in anno l'ammontare dei fondi da mettere a disposizione degli enti della minoranza sloveni a sua discrezione, non essendo vincolato da alcun criterio oggettivo. Della suddivisione degli stanziamenti tra i vari enti decide poi l'Assessore alla Cultura della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia sulla base delle indicazioni fornite dalla Commissione consultiva regionale per la minoranza slovena, in cui la maggioranza dei componenti è designata dalle due organizzazioni maggiori della minoranza. Questa modalità di finanziamento significano che lo Stato italiano non considera le attività della minoranza come attività di una parte della comunità nazionale svolte nell'interesse di tutti i cittadini, ma ancora sempre come appartenente a un qualcosa di separato, a un corpo estraneo, al quale è disposto ad elargire un po di danaro di tanto in tanto. Si tratta di un approccio offensivo per tutta la minoranza, soprattutto per gli enti che sono al servizio di tutta la comunità, regionale e nazionale. Se infatti nella gran parte dei casi tali enti sono nati come descritto all'inizio nel caso della BNS, essi hanno assunto nel corso degli anni un'importanza e un ruolo più ampi, che travalicano la conservazione del patrimonio storico e culturale della minoranza, divenendo parte del patrimonio culturale di tutta la regione e di tutti i suoi abitanti. Perciò dovrebbero essere trattate come tali. L'unico senso che pare avere l'attuale sistema di finanziamento è quello di affidare alle due organizzazioni maggiori della minoranza – organismi privati - la gestione (o almeno la partecipazione alla gestione) di somme non indifferenti di denaro proveniente dalle casse dello Stato (cosa che vale in misura ancora maggiore per i fondi stanziati dalla Repubblica di Slovenia). Si poteva regolare la cosa in maniera diversa, con probabili risparmi, facendo in modo che gli organismi statali italiani finanziassero direttamente, a bilancio, gli enti della minoranza, almeno quelli a carattere scientifico e di interesse generale, in base ai loro bisogni concreti. Facendo diventare tali enti degli enti pubblici, alla pari delle biblioteche civiche e statali, degli archivi regionali e statali.... Ma si è scelto diversamente, di mettere i fondi pubblici a disposizione di organizzazioni private.
Ritornando alla BNS, nonostante nel corso degli anni '90 si sia affiliata ad entrambe le organizzazioni maggiori queste non le hanno dedicato gran che interesse, se non come problema. Il denaro per iniziative occasionali si trovava, non però per una attività programmata di sviluppo. La BNS era la benvenuta per le occasioni »di parata«, ma null'altro. Il numero dei dipendenti è così continuato a scendere. Oggi la biblioteca di Trieste, che conta più di 150.000 titoli, ha due sole bibliotecarie dipendenti a tempo indeterminato, mentre dovrebbe essercene una ogni 10.000 titoli, il che significa che la biblioteca di Trieste dovrebbe impiegare almeno 15 bibliotecari/e! Con il paradosso agiuntivo che mentre a Trieste ci sono 2 dipendenti per 150.000 titoli, la biblioteca di Gorizia, che di titoli ne ha circa 40.000, di dipendenti ne ha 3.
Mentre la BNS cresceva per qualità dei servizi, professionalità dei dipendenti, quantità del materiale custodito, numero di utilizzatori di servizi e materiali, riconoscinibilità e riconoscimenti scientifici, chi la amministrava non ha saputo, voluto o potuto valorizzare tale realtà. Bisogna anche sottolineare che tali sviluppi si sono avuti nonostante le condizioni organizzative interne: la BNS non ha mansionari, né regolamenti interni (ad eccezione di quello che regolamenta i servizi bibliotecari). Nonostante il Consiglio Direttivo abbia affidato al direttore (ora pensionato) il compito di redarre una bozza di regolamento interno/ mansionario, questi non l'ha mai fatto senza per questo subire conseguenze. Evidentemente la normalizzazione delle condizioni interne non è tra le priorità del direttivo. D'altra parte tale situazione consentiva di accollare a singoli dipendenti compiti che comportano pesanti responsabilità, per le quali non percepiscono alcun integrazione stipendiale, né beneficiano di una qualche forma di copertura assicurativa. In questo genere di cose la BNS è stata »all'avanguardia«, visto che non dispone di alcun regolamento sull'accesso e utilizzo del materiale, anche se a scopo di profitto. A decidere di tutto, sulla base delle sue valutazioni e simpatie, era esclusivamente il direttore. Sarebbe interessante verificare se tale situazione abbia causato all'ente dei mancati introiti ed il loro eventuale ammontare.
La BNS ha attualmente lo status di associazione privata non a scopo di lucro i cui proprietari formali sono i soci, che però non hanno mai speso un euro per la loro »proprietà«, dato che non è previsto il pagamento di alcuna quota sociale. D'altra parte ci sono invece gli utenti, che in base all'unico regolamento esistente, quello per l'accesso ai servizi bibliotecari, devono versare un contributo annuo per poter usufruire del prestito dei librI e degli altri servizi. Abbiamo così i soci, che non versano nulla ma sono i proprietari formali dell'ente e decidono della sua amministrazione, mentre gli utenti, che pure versano un contributo annuale, non hanno alcuna voce in capitolo circa la gestione dell'ente.
I soci hanno diritto a partecipare alle assemblee dei soci ed eleggere il Consiglio Direttivo (CD). Di fatto della compisizione del direttivo decidono le due organizzazioni maggiori della minoranza, che però affermano che in base allo statuto sono i soci - la cui stragrande maggioranza non partecipa alle assemblee, tranne un gruppo ristretto in gran parte legato alle due organizzazioni maggiori – a decidere in base alle loro libere determinazioni, cosa che, naturalmente, varrebbe anche per gli eletti nel CD. Un CD che negli ultimi anni pare essere caratterizzato dalle sistematiche violazioni dello statuto, divenute ormai quasi una abitudine. L'attuale CD è stato infatti eletto nel 2010 da una assemblea generale convocata in maniera irregolare. Parimenti irregolare è stata anche la convocazione dell'assemblea generale tenutasi nel giugno di quest'anno a Gorizia (e che dovrebbe continuare in dicembre con l'elezione del nuovo CD). Il CD attualmente in carica è stato eletto dopo il rifiuto da parte di quello precedente di dare il suo assenso al progetto, molto discutibile, di ristrutturazione dell'edificio in cui ha sede la biblioteca di Trieste. Va sottolineato che il progetto – ora cestinato (ma regolarmente pagato) – è stato presentato proprio nel periodo in cui la BNS ha dovuto rinunciare per mancanza di fondi all'assunzione in pianta stabile di una bibliotecaria e dopo che la Unione culturale economica slovena (Slovenska kulturno gospodarska zveza - SKGZ), l'organizzazione maggiore che il suo presidente ha definito »proprietaria indiretta« dei locali utilizzati a Trieste da biblioteca e SSE (ma lo stesso si può dire anche di quelli utilizzati a Gorizia), ha rifiutato di intercedere per ottenere dal »proprietario diretto« la cancellazione o almeno la riduzione temporanea dei canoni di locazione pagati dalla BNS a Trieste e Gorizia e liberare così risorse finanziaria per poter assumere la citata bibliotecaria.
Dopo che nel 2009 si erano diffuse voci circa l'intenzione di sopprimere la SSE, con l'elezione del nuovo CD divenne chiaro che la stessa era sotto attacco. Il nuovo CD fece sapere molto chiaramente che l'assemblea generale in cui era stato eletto aveva deciso che la priorità andava assegnata all'attività bibliotecaria, priorità che evidentemente il vertice del nuovo CD interpretò come il via libera per disfarsi della SSE e dei suoi dipendenti. L'occasione propizia si presentò nel corso del 2012, nel momento in cui lo Stato italiano decise di decurtare l'ammontare degli stanziamenti e ritardò in maniera inacettabile l'erogazione di quelli dovuti (la prima rata venne erogata a fine dicembre!). In novembre il CD deliberò la messa in cassa integrazione di tutti e 3 i dipendenti impiegati alla SSE, cosa che ebbe quale immediata conseguenze le dimissioni - anche in correlazione ad altri fatti poco edificanti – di uno dei tre. Tale deliberazione venne assunta senza alcuna consultazione con tutti i dipendenti per individuare possibili soluzioni alternative e in presenza di un crescendo di dichiarazioni allarmistiche sul probabile deficit di bilancio (dimostratosi in seguito inferiore rispetto a quanto inizialmente prospettato) diffuse sopratutto da presidente e vicepresidente del CD.
Durante il primo ed unico incontro avuto con il CD il nostro sindacato ha sottolineato la necessità di ritirare immediatamente la cassa integrazione al momento in cui fossero stati percepiti gli stanziamenti pubblici, ma la risposta è stata che la prima preoccupazione sarebbe stata invece quella di pagare i canoni di locazione arretrati. Durante tale incontro il nostro sindacato ha anche consegnato al CD una copia dei numerosissimi messaggi di solidarietà alla SSE pervenuti ai dipendenti della stessa da singoli ed enti dalla Slovenia, ma sopratutto da tutta Italia e anche dall'estero. Si trattava di un evidente attestato dell'importanza della SSE che veniva messo a disposizione del CD quale strumento volto a dare più forza alle sue eventuali richieste di ulteriori stanziamenti. Una possibilità della quale il CD non si è mai avvalso. Nel gennaio del 2013 il CD rinnovò fino a fine marzo la cassa integrazione per i due dipendenti della SSE rimasti. Poco prima del termine della cassa integrazione il CD ha però deciso in tutta fretta l'immediata chiusura, formalmente per motivi di sicurezza, dei locali della SSE. Una mossa drammatica con la quale si è voluto addossare a presunte circostanze oggettive la decisione di chiudere la SSE senza che fosse mai esplicitato quali fossero, in concreto, i gravi problemi di sicurezza per cui era stata assunta tale decisione. Una decisione che non ha garantito la sicurezza del materiale, rimasto in locali inadatti e per giunta del tutto incustodito, ma l'ha messo ulteriormente in pericolo. Poi è arrivata la distruzione definitiva della SSE con il pensionamento di una dei due dipendenti rimasti ed il licenziamento – senza preavviso – dell'altro, nostro iscritto (ed unico iscritto a un qualche sindacato tra tutti i dipendenti). Va evidenziato che tali decisioni sono state deliberate proprio nel momento in cui la BNS si era vista garantire il raddoppio dei contributi pubblici che avrebbe percepito dallo Stato italiano negli anni dal 2013 al 2015 (decisione che il 22 ottobre 2013 il governo ha confermato e prolungato fino al 2016).
È evidente quindi che le ragioni di queste misure non possono essere le difficoltà finanziarie. La fretta con cui hanno voluto liberarsi dei due ultimi dipendenti è in stridente contraddizione con la loro insostituibilità per la gestione del materiale della SSE, come attesta il fatto ad appena qualche settimana dal suo pensionamento è stato chiesto alla ex dipendente di dirigere il trasferimento di parte del materiale della SSE e altri tipi di aiuto. Ed i fumosi accenni a »future collaborazioni« con il dipendente appena licenziato senza preavviso. Proprio nella lettera di licenziamento di quest'ultimo troviamo la chiave per comprendere il comportamento tenuto ed il progetto – l'unico espresso chiaramente e nero su bianco – per la SSE: il CD intende riorganizzare il lavoro affidando la SSE in »outsourcing«. Ciò significa una sola cosa: il ricorso a personale precario, si tratti di contrattisti a progetto o in altra forma. Se a ciò aggiungiamo la proposta, più volte ripetuta, di dare alla BNS un amministratore professionale, cioé pagato, appare chiaro quale sia il modello che si vuole applicare e che è già stata applicato in passato ad altri enti sloveni, come l'ex Istituto regionale sloveno di istruzione professioale: personale precario che costi il meno possibile con un presunto professionista lautamente retribuito. In estrema sintesi: risparmiare sui dipendenti per poter destinare ad altri scopi i finanziamenti pubblici incamerati in un contesto di opacità gestionali, stravaganze, singolari coincidenze e potenziali conflitti di interesse.
Per comprendere a pieno quanto avvenuto è però necessario sapere chi sono i suoi attori principali. La presidente ed il vicepresidente della BNS sono entrambi membri influenti della SKGZ, vale a dire l'organizzazione che è »proprietaria indiretta« di tutti i locali utilizzati dalla BNS. La prima è componente dell'Esecutivo regionale della SKGZ, il secondo è invece presidente della SKGZ della provincia di Gorizia. Entrambi fanno poi parte del Consiglio di Sorveglianza della Società finanziaria per azioni »KB 1909«, »proprietaria diretta« dei locali in cui ha sede la biblioteca di Gorizia. Va aggiunto che per svolgere tale funzione i due vengono pagati, cosa non prevista per i componenti del CD della BNS. Il vicepresidente ha esplicitato il suo pensiero in merito nel corso di un incontro ufficiale del CD con uno dei dipendenti, quando ha affermato che l'incarico non remunerato presso la BNS è per lui un impegno marginale.
Vanno inoltre chiariti alcuni dettagli. La proprietaria dei locali utilizzati dalla biblioteca di Trieste è la Società finanziaria adriatica, il cui socio di maggioranza è, per tramite del Fondo Trinko e dell'Associazione benefica Tržaška matica, la SKGZ. La stessa è anche proprietaria, attraverso il Fondo Trinko, della quota di maggioranza delle azioni della KB 1909. Il terzo soggetto a cui la BNS ha corrisposto fino a poco tempo fa dei canoni di locazione è la Cooperativa a responsabilità limitata Slovenski Dom (nel 2010 ha percepito per un magazziono di circa 100 mq 4.523,59 € e nel 2011 4.561,29 €), che appartiene agli ambienti legati all'altra organizzazione maggiore della minoranza (lo Svet slovenskih organizaciji, Unione delle organizzazioni slovene). Va inoltre chiarito che la SSE era l'unica delle articolazioni della BNS che non pagava alcun affitto per i locali (inadatti) che occupava, mentre ora la BNS paga, per i locali in cui sono stati trasferiti parte del deposito della biblioteca triestina e parte del materiale della SSE dei canoni aggiuntivi alla ..... Società finanziaria adriatica.
Tali nuove spese vanno sommate a quelle pregresse, che non erano poca cosa. Nel 2010 la BNS avrebbero pagato 23.679,79 € per i locali occupati a Trieste e 20.009,36 € (ma, secondo altri calcoli 25.372,27 €) per quelli di Gorizia, per un totale presunto di 43.689,15 € (ovvero 49.052,06 €); nel 2011 ha speso 23.758,29 € per i locali a Trieste e 26.557,77 € per quelli a Gorizia, per un totale presunto di 50.316,06 €. La BNS avrebbe così speso nel 2010 per il solo utilizzo dei locali, il 14,13% dell'importo del contributo erogato dallo Stato italiano, percentuale salita nel 2011 fino al 15,63%. Quello che è più interessante è il fatto che nel 2010 di tali spese ben 9.579,9€ risulterebbero catalogate alla voce »accessori« a Trieste e 4.734,93€ a Gorizia (per un totale di 14.313,03€, il 32,76% della spesa totale per i locali). Nel 2011 la BNS avrebbe invece speso per »accessori« 6.733,11€ a Trieste e 6.312,22€ a Gorizia (13.045,33 € in totale, ovvero il 25,93% della spesa totale per i locali). E tale tipo di spesa è in costante aumento, a scapito delle spese per il personale.
La BNS – ma non è l'unico caso – finanziererebbe così con parte dei fondi pubblici ricevuti in funzione della sua attività, alcune imprese economiche: l'esatto contrario di quanto accadeva al momento della sua nascita. Appare evidente che i motivi e gli scopi di quanto accaduto non hanno nulla a che fare con la cura per l'esistenza e lo sviluppo della BNS e sono in palese contraddizione con l'affermazione che »la direzione della BNS deve cercare soluzioni tecniche e professionali, che non si riducano al solo licenziamento di personale« rilasciata dal presidente della SKGZ nell'aprile del 2010. Quello a cui assistiamo e la riproposizione di un modello già applicato in altri enti della minoranza: precarizzazione dei dipendenti gestiti da »manager« lautamente retribuiti di dubbia professionalità ma di certa affiliazione. Accanto a tutto questo esiste il fondato sospetto che si sia perseguito l'obbiettivo di liberarsi di quanti politicamente non allineati e impegnati sindacalmente.
Ma, giova ripeterlo ancora una volta, la BNS non è proprietà del direttivo, nemmeno dei suoi soci, perché vive esclusivamente grazie a finanziamenti pubblici. Inoltre l'accesso alla cultura e alla conoscenza non è un privilegio, un lusso, ma appartiene a quei beni e servizi che sono parte del salario indiretto, come l'assistenza sanitaria, i trasporti pubblici e così via.
L'accesso alla cultura e alla conoscenza è il presupposto indispensabile per uno sviluppo equilibrato di ogni singola persona e della società nel suo complesso. Che la BNS, come tutte le istituzioni culturali, appartenga e debba appartemere a tutti noi lo dimostrano anche le oltre duecento persone di varie nazionalità che su invito del nostro sindacato hanno presentato domanda di associazione alla BNS proprio per sostenere la sua esistenza e che sono ancora in attesa di una risposta alla loro richiesta. Invitiamo tutti a seguire il loro esempio.
Non è accettabile che nel momento in cui la BNS ha ottenuto il raddoppio dei finanziamenti pubblici, decida di licenziare il personale a tempo indeterminato, annunci la precarizzazione degli ipotetici nuovi assunti e proponga, al contempo, l'assunzione di un dirigente professionale, lautamente pagato.

Tutto ciò premesso, è possibile riassumere la proposta del sindacato USB per portare a soluzione la questione della BNS, del suo patrimonio culturale e del suo personale:

In considerazione del carattere pubblico dell'ente (al quale la Regione autonoma Friuli Venezia Giulia ha già riconosciuto lo status di ente di interesse regionale); Valutata la triste prova di sé che alcuni dei preposti alla cura e allo sviluppo della presenza culturale slovena in Italia hanno dato in questa vicenda; Considerata la necessità di ripristinare la garanzia di partecipazione, trasparenza e controllo nella gestione delle risorse pubbliche;

Considerata l'importanza che la promozione, la tutela e la diffusione della memoria e della ricerca storica riveste per tutta la comunità regionale anche quale strumento di strutturazione della identità di un popolo e di ogni minoranza nazionale;

In considerazione che la cultura, nelle sue diverse declinazioni, è, per questo sindacato, un bene comune;

Il sindacato USB propone quale soluzione concretamente percorribile, anche nel breve termine

di far transitare la BNS sotto la tutela della regione autonoma Friuli Venezia Giulia, in forme e modi che dovranno essere il risultato di un accordo, considerato che già esistono esempi di percorsi e soluzioni simili (p.es. Il Teatro stabile sloveno).