Informazione


Per intervenire è necessario iscriversi inviando la propria richiesta a: jugocoord @ tiscali.it

Nel corso del convegno saranno presentati i Dossier "I FALSI AMICI" e "LA FONDAZIONE RSI"

Per ogni ulteriore informazione o aggiornamento fare riferimento alla pagina: https://www.cnj.it/INIZIATIVE/falsiamici.htm

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CONVEGNO
I FALSI AMICI

Il fenomeno "rossobruni" / I fascisti del terzo millennio / Nazifascismo e Balcani / Nazifascismo e Medioriente / La Fondazione RSI / Infiltrazione nera nell'estrema sinistra / Nazifascismo e nazionalismi



A 70 ANNI DALLA RESISTENZA
CONTRO LE INFILTRAZIONI NEOFASCISTE
NELLE INIZIATIVE DI SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE
E NELLE LOTTE SOCIALI


AREZZO, SABATO 7 DICEMBRE 2013, ORE 11-18
presso la Camera del Lavoro, via Monte Cervino 24


# organizzano:

 ANPI - Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, sezione di Arezzo

 CAAT - Coordinamento Antifascista Antirazzista Aretino

# promuovono:

 Un Ponte per... ONG

 Coordinamento nazionale per la Jugoslavia ONLUS

 Contropiano rivista


# il programma del convegno in dettaglio:

ORE 11:00 Interventi degli organizzatori e dei promotori

coordina Susanna Angeleri 

Guido Occhini (ANPI - Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, sezione di Arezzo)
saluto

Laura Vichi (CAAT - Coordinamento Antifascista Antirazzista Aretino)
presentazione del Dossier Fondazione RSI

Alessandro Di Meo (Un Ponte per... ONG)
presentazione del Dossier I FALSI AMICI

Andrea Martocchia (Coordinamento nazionale per la Jugoslavia ONLUS)
nazifascismo e Balcani

Sergio Cararo (Contropiano Rivista)
i fascisti del Terzo Millennio

ORE 13:30 Pausa

pranzo in loco, a sottoscrizione

ORE 14:30 Relazioni ad invito

Claudia Cernigoi (La Nuova Alabarda / Diecifebbraio.info - Trieste)
"rossobruni" e nuova destra "internazionalista"

Fabio De Leonardis (storico - Bari)
le "relazioni pericolose" del sionismo

Davide Conti (storico - Roma)
per una storia dell'infiltrazione "nera" nell'estrema sinistra 

Marco Santopadre (Rete dei Comunisti - Roma)
la strumentalizzazione della causa irlandese e basca

Vincenzo Brandi (Rete No War - Roma)
la strumentalizzazione della questione medio-orientale

A SEGUIRE Interventi programmati di gruppi e associazioni
Per intervenire è necessario iscriversi inviando anticipatamente la propria richiesta a: jugocoord @ tiscali.it




"TANTO SEMO SEMPRE NOI MONA A PAGAR"



Roma stanzia 6,5 milioni per la memoria dell’esodo

La Farnesina firma una convenzione triennale per attività storiche e culturali Codarin: «Giusta attenzione». Tra i progetti una mostra permanente al Vittoriano

TRIESTE. Oltre 6,5 milioni di euro nel triennio 2013-2015 per la tutela del patrimonio storico e culturale degli esuli istriani, fiumani e dalmati. È stata firmata a Roma, nella sede del Ministero degli Esteri, la Convenzione triennale per la realizzazione del piano di interventi per la promozione culturale del dramma dell’esodo.
A firmare il documento, che rinnova la convenzione prevista per legge a partire dal 2003, sono stati il Segretario Generale del Ministero dei Beni e delle attività Culturali e il Turismo, Antonia Pasqua Recchia, il Direttore Generale per l'Unione Europea, ambasciatore Luigi Mattiolo, e il presidente della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati, Renzo Codarin. Con questo documento vengono assegnati, per attività di stampo storico, divulgativo e culturale, poco più di 2 milioni di euro per l’anno 2013, 2,3 milioni per il 2014 e altrettanti per il 2015.
«Siamo soddisfatti perché, nonostante il periodo di crisi e di risorse limitate, sono stati confermati gli stanziamenti – spiega Codarin – a conferma dell’attenzione che c’è nei nostri confronti da parte del Governo e della Presidenza della Repubblica come già dimostrato nel corso di questi anni da tutti i soggetti che si sono alternati».
I fondi possono essere utilizzati per pubblicazioni, centri di documentazioni (in particolare per l’informatizzazione), spettacoli (possibile che possano essere utilizzate delle risorse per divulgare “Magazzino 18” di Simone Cristicchi) e opere di divulgazioni. «Questi fondi – aggiunge Codarin – sono stati fondamentali negli ultimi anni per realizzare numerose iniziative che hanno permesso di accrescere la conoscenza delle vicende dell’esodo in Italia».
Nel corso di questi anni le risorse che sono arrivate da Roma hanno consentito di finanziare diversi progetti, tra cui i più conosciuti sono il Museo di via Torino e quello di Padriciano. L’obiettivo più ambizioso per il prossimo triennio, spiega ancora Codarin, è la realizzazione di una mostra permanente sull’esodo all’interno del Museo del Vittoriano a Roma che vada a completare il percorso storico contenuto nell’esposizione dell’Altare della Patria sulle vicende che hanno portato all’indipendenza e all’unificazione d’Italia.
«Ad oggi il museo sulla storia dell’indipendenza italiana si ferma alla Prima Guerra e a Nazario Sauro. Il nostro obiettivo è raccontare anche la storia dell’esodo che è parte integrante della storia d’Italia. L’ingresso della Croazia nell’Unione Europea e i rapporti migliorati tra i due Paesi – aggiunge Codarin – dovrebbe rendere più agevole il percorso per realizzare questo obiettivo».
Entro la fine di novembre si riunirà il tavolo di lavoro con la Presidenza del Consiglio e i Ministeri coinvolti nei vari progetti: siedono al tavolo i rappresentanti degli Esteri, dell’Economia (per le questione relative ai beni abbandonati), della Cultura, degli Interni e della Pubblica Istruzione. In questo tavolo verranno concretamente presentati e portati avanti i progetti per il triennio 2013-2015.

10 novembre 2013

I COMMENTI

Andrea Assistenza Self Everio ·  Top Commentator · Università degli studi di Trieste
e CODARIN quanto prende o lo fa gratis!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!,e dopo non ci sono i soldi per gli ammortizzatori sociali
Rispondi · 2 ·  · 10 novembre alle ore 4.18

Marina Furlani ·  Top Commentator
tutti soldi rubadi ai esuli che aspetta ancora de esser risarcidi dai beni nazionalizzati con la truffa de osimo invece li magna i vari enti e associazioni varie istriane ma italiotte per far ste robe inutili giusto per cior in giro la gente de trieste
Rispondi ·  · Ieri alle 8.16

Bruno Kaiser ·  Top Commentator
Però del dramma de quando xe rivadi lori a redimerne e farne far le valige per scampar, mai più, vero?
Rispondi · 1 ·  · 10 novembre alle ore 15.26

Dany Beau
Promozione culturale del dramma del'esodo??? Tra poco si renderanno conto del dramma delle scuole che cadono a pezzi?!!!
Rispondi ·  · 10 novembre alle ore 7.26

Gianluigi Rupel ·  Top Commentator · HTWG Konstanz
tanto semo sempre noi mona a pagar.
Rispondi ·  · 11 novembre alle ore 7.17

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Confronta con i contenuti dello spettacolo di Cristicchi:
Confronta con la minaccia di taglio dei fondi anche per l' ANPI:





Nazi looted art works discovered in Munich


By Verena Nees 
13 November 2013


Two weeks ago, the German FOCUS magazine revealed that, while conducting the authorised search of a flat in Munich-Schwabing on February 28, 2012, police found and seized about 1,400 paintings and prints, most of which probably consisted of Nazi-looted property that was considered lost.

Among the works are paintings by Picasso, Chagall, Matisse, Nolde, Renoir, Toulouse-Lautrec, Liebermann, Beckmann, Otto Dix, as well as artists of the Dada, Expressionism, Surrealism and Cubism movements, outlawed by the Nazis as “degenerate art”. There are also works by artists from earlier centuries, such as Dürer and Spitzweg.

The flat is owned by the almost 80-year-old Cornelius Gurlitt, son of Nazi art dealer Hildebrand Gurlitt, who apparently harboured this huge collection of paintings until his death in 1956.

His son Cornelius, who is not an art dealer, ostensibly lived from the proceeds of the sale of some of these works on the art market. On September 22, 2010, customs officers had searched him on a train from Zurich to Munich, found €9,000 in cash in his bag and arrested him on suspicion of tax evasion.

In December 2011, Gurlitt was nevertheless easily able to auction off a gouache painting until then considered lost—The Lion Tamer, by expressionist painter Max Beckmann—at the Lempertz auction house in Cologne. A search warrant issued a few months later led to the confiscation of 121 framed and 1,285 unframed works of art from his flat.

A fierce debate about the Nazi art theft has been triggered by this large-scale recovery of valuable art works in the middle of Munich almost 70 years after the war and nearly 80 years after the Nazis’ “degenerate art” propaganda offensive. More remarkable still is the fact that the public prosecutor had been secretly in possession of the confiscated pictures since February 2012 and is even now unwilling to publish a complete list of the works found.

The federal government was informed of the matter several months ago, according to spokesman Steffen Seibert. But the general public, relatives of the former Jewish owners and public museums throughout Europe, from which the Nazis seized works of art, were—and continue to be—denied the right to inspect the collection.

At a press conference on November 4, Augsburg senior prosecutor Reinhard Nemetz justified this by claiming that proceedings against Cornelius Gurlitt for tax evasion and embezzlement had not yet been completed. “Priority is given to the investigations. I can’t speculate about who may be the owners of any of these objects”, he said, adding that people believing they are entitled to any of the works are welcome to register their claim.

No indication was given regarding Cornelius Gurlitt’s whereabouts. “I don’t know where he is, because that’s not a matter we’re dealing with”, Nemetz said. No investigations have been carried out by the judicial authority either in Salzburg, where Gurlitt owns a house and—according to press reports—also rents a flat, nor in the home of his sister.

Nemetz’s assertion that informing the public about the trove would threaten the preservation of the art works was criticised by Berlin art expert and lawyer Peter Raue as “verging on insolence”. A list of images published on the Internet would enable museums and relatives of former Jewish owners to help resolve questions of ownership.

The Israeli Haaretz newspaper wrote that the works found in Munich were “only the tip of the iceberg”. According to the Culture and Media Advisor to the German government, there were about 80 German art dealers who had acted like Hildebrand Gurlitt.

Alfred Weidinger, vice director of the Vienna Belvedere Palace Museum, told the Austrian APA news agency: “It was no secret that this collection existed. Basically, every important art dealer in southern Germany knew it existed—and knew how much of it there was, too”.

Weidinger claimed the collection would have been found much earlier, if the relevant German authorities had carried out their investigations more carefully. “If they didn’t know until 2013 that there was a Gurlitt collection in Munich, they weren’t doing their job properly”, he said.

In a FOCUS Online video interview, Lempertz auction house legal adviser Karl-Sax Feddersen defended the auction of the Beckmann painting from Gurlitt’s collection as “a normal affair”. He admitted that Gurlitt was known to the house: “The name Gurlitt—Gurlitt was a colourful character who did business even in those crazy times (sic). If you are familiar with the background, you will of course understand that there can be problems in this respect”. But the auction house reconciled itself to the inheritance of the Beckmann picture.

“Degenerate Art”

In 1937 the Nazis launched their “Degenerate Art” campaign with a touring exhibition in Munich and later in other major cities in Germany and Austria. In preparing for the exhibition more than 21,000 works of modern art were confiscated from German museums. After the war began, another 600,000 works of art were stolen in the occupied countries of Europe.

The propaganda exhibition, “Degenerate Art”, displayed to the public for the last time many modern masterpieces that had been confiscated from museums. It attracted a record number of over 2 million visitors. The confiscated works were then stored in depots in Berlin—for example, in the Victoria warehouse in Kreuzberg, in the Schönhausen Palace in Berlin-Niederschönhausen and also in the basement of the wartime propaganda ministry, where a number of leading Nazis like Hermann Göring stored valuable appropriated works they later privately sold.

In May 1938, the confiscation of the art works was legitimised by the “Law on Sequestration of Products of Degenerate Art”.

A total of 1,004 paintings and 3,825 graphics, officially declared to be unusable eminent pictures, were burned in the courtyard of Berlin’s main fire station on March 20, 1939. Some 125 works, chosen by a “Commission for the Liquidation of Products of Degenerate Art” under the direction of Hermann Göring, were scheduled for an auction in Switzerland, which was to be transacted by the Theodor Fischer auction house in Lucerne.

Joseph Goebbels’s propaganda ministry then commissioned qualified art experts to sell other works of art in order to obtain foreign currency for the imperial treasury and the war. Among these art sellers were Ferdinand Möller, Karl Buchholz, Bernhard A. Böhmer and others, including the Dresden art historian, Hildebrand Gurlitt.

Although Gurlitt had a Jewish grandmother and was involved in modern art prior to 1933 as director of the Zwickau Museum and head of the Hamburg Art House, he rose to become one of the Nazis’ most successful art dealers after Hitler’s seizure of power.

From 1942, Gurlitt operated in France and the Netherlands on behalf of Hitler’s “Special Mission Linz”, cooperating there with Erhard Göpel and Bruno Lohse. The commission involved the gathering of looted art objects for a monumental “Führer Museum” in Linz.

Bruno Lohse, SS lieutenant colonel and deputy head of a special staff for visual arts at the notorious Task Force of Reich Leader Alfred Rosenberg (ERR) in Paris, organized—among other cultural crimes—the destruction of Alphonse Schloss’s famous Jewish collection in southern France. The collection contained numerous Dutch masterpieces of the 17th century, including some by Rembrandt, Brueghel, Rubens and Frans Hals. Hermann Göring selected hundreds of paintings from those confiscated in the ERR’s Jeu de Paume headquarters for his personal collection. Apparently, Gurlitt also had access to this collection and was in a position to exploit it for himself. Only a few of the works were to resurface after the war.

As is now known, Hildebrandt Gurlitt also participated in an October 1943 visit by Erhard Göpel to expressionist painter Max Beckmann, who was living in exile in Amsterdam. The two art dealers talked Beckmann into selling his pictures. In the postwar period, this was portrayed as an heroic feat on part of Göpel, who allegedly wanted to secure Beckmann’s financial livelihood. Such euphemistic accounts survive even today on Wikipedia.

No legal consequences after 1945

After the war, the raids conducted by the Nazi looters went unpunished. Hildebrand Gurlitt and many others continued to work as art dealers. Gurlitt participated in denazification proceedings that exonerated him, partly because of his Jewish grandmother.

Gurlitt claimed during his interrogation that most of the works in his collection were burned in the bombing of Dresden, shortly before the war ended. In the 1960s, his widow repeated this claim, which the discovery of the Munich trove has now proved to be a lie.

Approximately a hundred works, found and confiscated by the Americans during Gurlitt’s arrest at the von Pölnitz family castle in northern Bavaria, were described by Gurlitt as “a private collection”. His demand for their return proved successful. The Allies also handed collections back to many other Nazi art dealers.

In the postwar period, Hildebrand Gurlitt again dealt in modern art, heading the Düsseldorf Art Association until his death in 1956. He was revered in polite society to such an extent that a street in Düsseldorf was named after him.

Following the war, other Nazi art dealers also managed to pursue their former profession undisturbed or attain honourable positions in the cultural sector, as did Ferdinand Möller and Erhard Göpel. The latter was an editor at the Prestel publishing company from 1948, as well as art critic for theSüddeutsche Zeitung and Die Zeit newspapers. His museum career at the Bavarian State Picture Collection failed only because his advocates had themselves been connected with “Special Mission Linz”—as was attested by the director general of the collection, Ernst Buchner, formerly one of Hitler’s most important art advisers.

Hermann Voss, head of “Special Mission Linz”, was appointed director of the Dresden State Art Collections by Goebbels in 1943 and removed from the post by the Soviet occupiers in 1945. Only when he fled to the West was he arrested and interrogated by the American occupation authorities. However, he was able to evade conviction and eventually even managed to rise to the position of Bavarian state government adviser on the sale of works of art.

In the latest issue of Die Zeit, US historian and expert on Nazi looted art Jonathan Petropoulos declared that trading in stolen art is once again flourishing, particularly in Munich, where a network of former Nazis is active. He pointed out that those involved included Bruno Lohse, Andreas Hofer, Karl Haberstock and Hildebrand Gurlitt.

When former SS officer Bruno Lohse died at the age of 95 in 2007, stolen paintings by Claude Monet, Auguste Renoir and Camille Pissarro were discovered in his Zurich safe, which was managed under the code name of a certain “Schönart” company based in Liechtenstein.

The German judiciary, itself riddled with former Nazi attorneys, showed no interest in pursuing the art dealers and museum directors who were involved in Nazi art theft. “The parties concerned were able to continue their lives unmolested and became a normal part of the West German art scene”, says Petropoulos.

When two members of the Task Force of Reich Leader Alfred Rosenberg, Robert Scholz and Walter Andreas Hofer, were sentenced to ten years’ incarceration in Paris in 1950, the Federal Republic refused to extradite them.

To this day, works that the Nazis seized from public museums and passed on to their licensed art dealers—including Gurlitt—in order to be resold are regarded as property lawfully acquired through purchase. The transactions made at the time under conditions of force were never declared annulled. The “Law on Sequestration of Products of Degenerate Art” was not revoked after 1945, and art dealers consequently had free rein to trade in the stolen works of art.

The current conduct of the office of the public prosecutor has to be seen in this context. It wants to avoid an open debate about the recently discovered paintings and the behaviour of the post-war German judiciary in relation to art theft perpetrated by the Hitler regime. At the same time, it wants to protect stakeholders in the art market, who are still enriching themselves through the sale of art works plundered by the Nazis.



 
Sent: Monday, November 04, 2013 9:00 PM
Subject: Srebrenica Historical Project: Announcing a new volume, "Rethinking Srebrenica"

SREBRENICA HISTORICAL PROJECT

Postbus 90471,

2509LL

Den Haag, The Netherlands

+31 64 878 09078  (Holland)

+381 64 403 3612  (Serbia)

E-mail: srebrenica.historical.project@...

Web site: www.srebrenica-project.com

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“RETHINKING SREBRENICA” IN ENGLISH

 

          Srebrenica Historical Project is pleased to announce that in cooperation with its American publisher Unwritten History Inc. it has published a new, revised, and expanded edition of its classic comprehensive critique of the standard account of Srebrenica events in July 1995, “Deconstruction of a Virtual Genocide,” now under a new title: “Rethinking Srebrenica.” The authors are Stephen Karganović and Ljubiša Simić.

          While retaining the structure of the original volume, “Rethinking Srebrenica” has been considerably updated to include new evidence and testimony of relevant witnesses in the Mladić and Karadžić trials which was received since the last edition went to press. Also included are two new chapters, “ICTY radio intercept evidence” and “Srebrenica: Uses of the narrative.”

          The new chapter on intercept evidence raises serious questions about the authenticity of the transcripts of alleged incriminating conversations that were used in trial proceedings before ICTY, upon which many significant factual and legal conclusions were based. The new final chapter, “Uses of the narrative,” presents a compelling argument that Srebrenica has not been treated primarily as it should have been, as a criminal investigation,  but rather as a political device serving at least two objectives which have nothing to do with any interest in the facts on the ground. The first is to provide a founding myth to cement the new Bosnian Muslim identity and produce an unbridgeable rift with the neighbouring Orthodox community, thus providing a rationale for permanent interference and arbitration by interested foreign parties. The second is to furnish a plausible motive for the R2P [Responsibility to protect] doctrine which was developed gradually after the Srebrenica events of July 1995 and has served  since as an interventionist vehicle against targeted sovereign states such as Serbia (Kosovo), Iraq, Libya, and now Syria.  

          Chapters IV and V by Ljubiša Simić on the forensic evidence have been thoroughly revised and updated to reflect new information. They present an even more devastating picture than in the previous editions of the huge gap which separates the unfounded claims of the official Srebrenica narrative from the empirical evidence as collected by ICTY Prosecution’s own teams of experts and their admissions under cross examination in the Mladić and Karadžić trials.

          For our readers’ benefit we have attached the electronic version of “Rethinking Srebrenica” and we encourage reader comments and criticisms. [DOWNLOAD (PDF, 6,5 MB): https://www.cnj.it/documentazione/Srebrenica/RethinkingSrebrenica.pdf ]




Devastazione e ri-colonizzazione della Libia

1) Il Grande Nulla, due anni dopo Muammar Gheddafi (M. Forte)
2) La Libia nel caos a due anni dalla liberazione umanitaria della NATO (F. W. Engdahl)
3) La Libia da Gheddafi ad Al Qaida: terrorismo, CIA e militarizzazione dell'Africa (M. Vandepitte)
4) Lo squartamento libico (N. Nuñez Dorta)
5) La ricostruzione libica: un affare italiano (F. La Bella)


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(the original text, in english: The Great Nothingness of Libya, Two Years After Muammar Gaddafi
By Maximilian Forte - Global Research, October 21, 2013 / Zero Anthropology 20 October 2013

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Il Grande Nulla, due anni dopo Muammar Gheddafi

Maximilien Forte
, Global Research, 21 ottobre 2013

La nozione di “Libia” ha cessato di avere qualsiasi significato pratico, quale concetto in riferimento a un certo grado di unità nazionale, comunità immaginata, sovranità o esercizio di un’autorità statale sul proprio territorio, la “Libia” è tornata indietro, quando doveva ancora formalizzarsi come concetto. Coloro che una volta celebravano i “ribelli rivoluzionari”, Obama, la NATO, le ONG, i media occidentali e l’opinione pubblica imperialista, liberale e “socialista” che, dopo un lungo periodo di aggiustamento strutturale interiorizzato, ora ha per filosofia il migliore accordo con i principi neoliberali, raramente, se mai, hanno incarnato il “futuro migliore” che doveva venire.  Visioni, come allucinazioni e deliri, del meglio che sarebbe venuto una volta che Gheddafi sarebbe stato doverosamente giustiziato, abbondavano negli scritti politicamente infantili sulla “primavera araba”.
Se mai c’è stata una “primavera araba” in Libia, in pochi giorni si trasformò in un incubo africano.  Questo fu particolarmente vero riguardo al terrorismo razzista contro decine di migliaia di inermi civili libici neri e di lavoratori migranti africani. Da quando la “Libia” non esiste più, l’assenza è una vergognosa macchia. La Libia è ora il nuovo “Stato” dell’apartheid e il nuovo “regime” torturatore in Africa. Perché le virgolette? A differenza dell’apartheid in Sud Africa, la “nuova Libia” è priva di qualsiasi tipo di coesione, come Stato e, tra governanti effettivi o potenziali, come classe, e le analisi di classe, infatti, quando applicata alla Libia utilizzando Marx come un manuale produce quei risultati risibili che ci si può aspettare dagli ortodossi eurocentristi, da coloro che indicano il presente nei contesti non occidentali come mera proiezione o ripetizione dello “stalinismo”. Le torture grottesche e criminali, l’omicidio e il massacro di Muammar Gheddafi simboleggiarono ciò che venne subito inflitto a tutta la Libia, proprio come fu fatto a migliaia di libici neri e di migranti africani dagli “eroici ribelli” nella guerra della NATO contro la Libia del 2011. La Libia è stata smembrata, come è stato scritto, sprofondando nella guerra di tutti contro tutti a vantaggio di pochi.
Giorni, settimane, mesi e ora anni sono passati, segnati da sequestri quotidiani, torture, ingiusta detenzione, omicidi, attentati, incursioni e sanguinosi scontri tra milizie rivali, estorsioni armate, assalti che hanno ridotto l’industria petrolifera in un miraggio di ciò che “una volta era”, ed esplosione di razzismo, fondamentalismo religioso e regionalismo. Se “Gheddafi” era il loro nemico, allora i libici hanno uno strano modo di dimostrarlo: massacrandosi a vicenda, i libici si dichiarano i propri peggiori nemici. Gheddafi non era chiaramente il problema: era la soluzione che doveva essere spezzata, in modo che la Libia fosse “fermata”, bloccata e costretta nella visione dei crudeli tiranni di Arabia Saudita, Qatar e Stati Uniti.
Se la Libia ha subito migliaia di morti dal brutale rovesciamento di Gheddafi e di tutto ciò che aveva creato, è un bene ed una felice notizia per tutti quei puerili e pretesi sempliciotti che basano infantilmente le loro teorie su idee e contrapposizioni binarie eurocentriche, appena velate dalle traduzioni idiote delle demonizzanti caricature di Gheddafi. Così era “il dittatore”, che a quanto pare governava senza uno Stato, se si crede a ciò che Reuters tenta di far passare da analisi politica.  (Nessuna quantità di “esserci stato” ti curerà se insisti nella tua ignoranza). Qui c’era il dittatore “brutale”, che evidentemente manteneva debole il suo esercito. O c’era uno Stato, che era anche un one-man show, qualsiasi cosa per incolparlo di tutto il passato e per distogliere l’attenzione da tutti coloro che hanno la responsabilità del presente. Se continuano a combattere “Gheddafi” e ad accusare Gheddafi per il presente, allora non vi è stata alcuna “rivoluzione”, ma solo continue rievocazioni di tutto ciò che fu “Gheddafi.” Se i leader delle milizie vedono Gheddafi ovunque e in tutti, è perché non sono da nessuna parte. Perfino le grandiose dichiarazioni, vengono passate per analisi di esperti come Juan Cole e altri amici della Libia “che si ribella”, del popolo unito nel “rovesciare il regime” del dittatore. Davvero, è imbarazzante quando si pensa che tali presunti adulti, perfino “studiosi”, fossero dietro tale sciocco cartone animato.
Per i “socialisti” occidentali che hanno applaudito i “rivoluzionari” libici, chiediamogli: dov’è il socialismo in Libia oggi? Per i liberali che parlavano di “democrazia” e “diritti umani”, dove sono oggi? Per i sostenitori dei principi dell’intervento e della “protezione umanitaria”, perché siete così  silenziosi dopo aver chiuso con l’omicidio di Gheddafi? A chi immaginava presunti “massacri” futuri, accompagnando le invocazioni dei chierichetti inglesi e americani secondo cui “Gheddafi doveva sparire”, perché la vostra immaginazione improvvisamente scompare davanti ai veri massacri da voi stessi commessi e permessi? A coloro che affermano “delle vite sono state salvate,” dov’erano quando corpi insanguinati cominciarono ad accumularsi tra sciami di mosche negli ospedali abbandonati? Quando i pazienti negli ospedali furono freddati nei loro letti, e quando i prigionieri ammanettati, supini, furono assassinati con colpi a bruciapelo, tanto che l’erba sotto le loro teste fu bruciata; avete sussultato? In altre parole, dove vedete questo grande “successo” nell’ossario che oggi è la “Libia”?
E’ una piana ‘analisi che parla della compressione dello spazio-tempo nella globalizzazione, che spiega presumibilmente quanti imperialisti iPad si siano investiti personalmente di “correggere” la Libia, in modo che potesse diventare simile a quello che hanno immaginato di possedere. Non guardano a nulla, se non a un’altra occasione di presentarsi, lusingando se stessi con un evoluto rinvigorimento culturale, applicato a forza dai bombardamenti della NATO. La Libia è ora “pronta alla democrazia”, e i missili da crociera hanno dimostrato quanto la Libia fosse matura per “il miglioramento.” Compressione spazio-temporale? La globalizzazione della coscienza? La coscienza, per quanto ce ne sia mai stata, è stata sicuramente compressa, in un minuscolo guscio di noce in cui sono vietate le opinioni contrarie, come soltanto ha sempre dimostrato di essere.
In tal senso, raccomando al lettore d’investire 40 minuti circa, per rivedere come stavano le cose prima di farsi illudere dalle nostre stesse bugie. Si tratta di una panoramica della Libia di Gheddafi, prodotta da BBC e CBS (che ci crediate o no), quando le fantasie demonologiche non si erano ancora completamente schiuse, volando e scaricando tanti escrementi propagandistici sulle nostre teste, come avviene con i vanagloriosi monologhi imperiali di Obama. Sfidate voi stessi e guardate alcune delle cose che la Libia ha perso, tutto in nome del grande nulla.


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(the original text, in english: Libya in Anarchy Two Years after NATO Humanitarian Liberation
By F. William Engdahl - Global Research, September 27, 2013

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La Libia nel caos a due anni dalla liberazione umanitaria della NATO

F. William Engdahl, Global Research, 27 settembre 2013

Nel 2011, quando Muammar Gheddafi si rifiutò di lasciare tranquillamente il governo della Libia, l’amministrazione Obama, nascondendosi dietro le sottane dei francesi, lanciò una feroce campagna di bombardamenti e una “no-fly zone” sul Paese per supportare i cosiddetti combattenti per la democrazia. Gli Stati Uniti mentirono a Russia e Cina, con l’aiuto del filo-USA Consiglio di cooperazione del Golfo, per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulla Libia, utilizzata per giustificare una guerra illegale. La dottrina della “responsabilità di proteggere” fu anche usata, la stessa dottrina che Obama vuole utilizzare in Siria. E’ utile guardare alla Libia due anni dopo l’intervento umanitario della NATO.
Il caos nel settore petrolifero
L’economia della Libia dipende dal petrolio. Subito dopo la guerra, i media occidentali salutarono il fatto che le installazioni petrolifere non fossero state danneggiate dai bombardamenti sulla popolazione e che la produzione di petrolio fosse quasi normale, pari a 1,4 milioni di barili/giorno (bpd). Poi, a luglio le guardie armate al soldo del governo di Tripoli improvvisamente si ribellarono e presero il controllo dei terminali dei giacimenti petroliferi orientali che dovevano proteggere. Vi si estraeva il grosso del petrolio della Libia, nei pressi di Bengasi, dove dalle pipeline le petroliere ricevevano il petrolio per l’esportazione nel Mediterraneo. Quando il governo perse il controllo della produzione e dei terminali, le esportazioni registrarono un netto calo. Poi un altro gruppo tribale armato prese il controllo dei due giacimenti petroliferi nel sud, bloccando il flusso di petrolio per i terminali sulla costa nord-ovest. Gli occupanti tribali chiedevano maggiori paghe e scesero in sciopero per chiedere maggiore retribuzione e la fine della corruzione. Il risultato finale, oggi, inizio di settembre, è che la Libia ha pompato solo 150.000 barili su una capacità di 1,6 milioni di barili al giorno. Le esportazioni sono diminuite a 80.000 barili al giorno. [1]
Milizie armate contro i Fratelli musulmani
La Libia è uno Stato artificiale, come gran parte del Medio Oriente e dell’Africa, tracciato dall’Italia in epoca coloniale, nella prima guerra mondiale. Era governato per consenso delle numerose tribù. Gheddafi fu scelto con un lungo processo di voto dagli anziani delle tribù, cosa che poteva richiedere fino a 15 anni, mi è stato detto da un esperto. Quando fu assassinato e la sua famiglia braccata, la NATO impose il dominio del Consiglio nazionale di transizione (CNT) dominato dalla Fratellanza musulmana. Ora, ad agosto, una nuova Assemblea è stata eletta, sempre dominata dalla Fratellanza come l’Egitto di Mursi o la Tunisia. Suonava bene sulla carta, ma la realtà è che, a detta di tutti, le bande di fuorilegge armati, per la prima volta dalla guerra, con armi moderne e jihadisti  stranieri di al-Qaida, compiono bombardamenti quotidiani in tutto il Paese per avere il controllo locale. Tripoli stessa ha numerose bande armate che ne controllano i quartieri. Si sta passando alla lotta armata tra le milizie tribali locali, che vanno formandosi, e la fratellanza che controlla il governo centrale. I leader delle province di Cirenaica e Fezzan prendono in considerazione la rottura con Tripoli, e le milizie ribelli di mobilitano in tutto il Paese. [2]
Attentati a Tripoli ogni giorno, mentre si diffonde l’illegalità
Nuri Abu Sahmain, fratello musulmano e neoeletto Presidente del Congresso, ha convocato le milizie alleate della Confraternita nella capitale, per cercare d’impedire un colpo di stato, un’azione che l’opposizione vede come un colpo di Stato della Fratellanza. Il principale partito di opposizione, le forze di centro-destra dell’Alleanza nazionale, di conseguenza ha abbandonato il Congresso insieme a diversi partiti etnici più piccoli, lasciando il partito della Giustizia e della Costruzione della Fratellanza a capo di un governo dall’autorità in rovina. “Il Congresso è  sostanzialmente collassato”, ha detto un diplomatico a Tripoli. [3] L’amministrazione Obama ha promosso il cambio di regime in tutto il mondo musulmano, dall’Egitto alla Tunisia alla Siria, in favore degli oscuri Fratelli musulmani, nell’ambito della strategia a lungo termine per il controllo dell’Arco di Crisi musulmano, dall’Afghanistan alla Libia. Mentre il colpo di Stato militare sostenuto dai sauditi contro il presidente della Fratellanza Muhammad Mursi, in Egitto, a luglio, ha dimostrato che la strategia di Obama ha qualche problema.
Rivolte e illegalità
Con l’aumento delle violenze, il ministro dell’Interno Muhammad Qalifa al-Shaiq si è dimesso ad agosto. Circa 500 prigionieri nel carcere di Tripoli entrarono in sciopero della fame per protestare contro due anni di detenzione senza accuse. Quando il governo ha ordinato al Comitato supremo della sicurezza di ristabilire l’ordine, spararono ai prigionieri attraverso le sbarre. A luglio, 1200 prigionieri fuggirono da una prigione dopo una rivolta a Bengasi. Illegalità e anarchia si  diffondono. [4] I berberi, la cui milizia aveva assaltato Tripoli nel 2011, hanno occupato temporaneamente il parlamento a Tripoli. Poiché Stati Uniti e NATO furono irremovibili nel non avere “stivali sul terreno”, consegnarono deliberatamente qualsiasi arma a tutti i ribelli che avrebbero sparato alle truppe del governo di Gheddafi. Ancora oggi hanno armi e la Libia mi viene descritta, da un giornalista francese che di recente vi si era recato, come “il più grande bazar all’aperto di armi del mondo“, dove chiunque può acquistare qualsiasi moderna arma della NATO. Gli stranieri sono in gran parte fuggiti da Bengasi, laddove l’ambasciatore statunitense fu ucciso nel consolato degli Stati Uniti dai miliziani jihadisti, lo scorso settembre. E il procuratore militare della Libia, colonnello Yusif Ali al-Asaifar, incaricato di indagare sugli omicidi di politici, militari e giornalisti, è stato lui stesso assassinato da una bomba nella propria auto, il 29 agosto. [5]
Le prospettive sono tristi mentre si allarga l’illegalità. Suleiman Qajam, un membro della commissione parlamentare per l’energia, ha detto a Bloomberg che “il governo utilizza le sue riserve. Se la situazione non migliora, non sarà in grado di pagare gli stipendi entro la fine dell’anno“. L’amministrazione Obama sostiene che l’uso, non ancora provato, del governo di Assad di armi chimiche in Siria giustifica una guerra con bombardamenti da parte della NATO e di alleati come Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Giordania, in base all’ingannevole dottrina “umanitaria” detta “responsabilità di proteggere”, che sostiene che certe violazioni dei diritti o della sicurezza delle persone, sono così gravi da trascendere il diritto internazionale, la Carta delle Nazioni Unite o le norme costituzionali degli Stati Uniti, facendo sì che per motivi morali, qualsiasi presidente degli Stati Uniti possa bombardare un Paese di sua scelta. C’è qualcosa di sbagliato qui…

Note
[1] Krishnadev Calamur, Libya Faces Looming Crisis As Oil Output Slows To Trickle, NPR, 12 settembre 2013;
[2] Patrick Cockburn, We all thought Libya had moved on — it has, but into lawlessness and ruin, 3 settembre 2013
[3] Chris Stephen, Libyans fear standoff between Muslim Brotherhood and opposition forces, The Guardian, 20 agosto, 2013
[4] Patrick Cockburn, op.  cit.
[5] Ibid.
Copyright © 2013 Global Research
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora


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(cet article en francais: État défaillant. Les États-Unis sont-ils sérieusement en guerre contre le terrorisme en Afrique ou le suscitent-ils au contraire pour servir leurs intérêts ?
par Marc Vandepitte - 21 octobre 2013

www.resistenze.org - popoli resistenti - libia - 11-11-13 - n. 474

La Libia da Gheddafi ad Al Qaida: terrorismo, CIA e militarizzazione dell'Africa

Marc Vandepitte | mondialisation.ca
Traduzione da ossin.org

21/10/2013

Gli Stati Uniti sono davvero in guerra contro il terrorismo in Africa, o piuttosto lo suscitano per utilizzarlo a loro vantaggio? Inchiesta di Marc Vandepitte

Stato debolissimo
L'11 ottobre il Primo Ministro libico è stato brutalmente rapito, per poi essere liberato nel giro di qualche ora. Questo sequestro è sintomatico della situazione del paese. Il 12 ottobre un'auto bomba è esplosa vicino alle ambasciate della Svezia e della Finlandia. Una settimana prima l'ambasciata russa era stata evacuata dopo essere stata invasa da uomini armati. Un anno fa era successo lo stesso all'ambasciata statunitense. L'ambasciatore e tre collaboratori vi avevano trovato la morte. Altre ambasciate erano state in precedenza prese di mira.

L'intervento occidentale in Libia, come in Iraq e in Afghanistan, ha messo in piedi uno Stato debolissimo. Dopo la destituzione e l'assassinio di Gheddafi, la situazione dell'ordine pubblico nel paese è fuori controllo. Attentati contro politici, attivisti, giudici e servizi di sicurezza sono moneta corrente. Il governo centrale ha difficoltà a controllare il paese. Le milizie rivali impongono la loro legge. A febbraio il governo di transizione è stato costretto a convocarsi sotto le tende, dopo essere stato espulso dal parlamento da ribelli infuriati. Il battello colato a picco vicino a Lampedusa, facendo annegare 300 rifugiati, veniva dalla Libia, ecc.

La Libia possiede le più importanti riserve di petrolio dell'Africa. Ma, a causa del caos che regna nel paese, l'estrazione è quasi ferma. Siamo arrivati al punto che deve importare il petrolio necessario a soddisfare i suoi bisogni di elettricità. A inizio settembre sono state sabotate le condutture d'acqua verso Tripoli, minacciando la capitale di penuria.

Basi per terroristi islamisti
Ma la cosa più inquietante è la jihadizzazione  del paese. Gli islamisti controllano interi territori e hanno uomini armati ai checkpoint delle citta di Bengasi e Derna. La figura di Belhadj illustra bene la situazione.
Questo ex (per così dire) membro eminente di Al Qaida era coinvolto negli attentati di Madrid del 2004. Dopo la caduta di Gheddafi, divenne governatore di Tripoli e inviò centinaia di jihadisti libici in Siria per combattere contro Assad. Lavora oggi alla costruzione di un partito conservatore islamista.

La jihadizzazione si estende ben al di là delle frontiere del paese. Il Ministro tunisino dell'interno descrive la Libia come un "rifugio per i membri nordafricani di Al Qaida". Dopo il crollo del governo centrale libico, armi pesanti sono cadute nelle mani di ogni sorta di milizie. Una di queste, il Libyan Fighting Group (LIFG), di cui Belhadj è un dirigente, ha stretto un'alleanza con i ribelli islamisti del Mali. Questi ultimi sono riusciti, con i Tuareg, a impossessarsi di tutto il Nord del Mali per qualche mese. L'imponente operazione di sequestro di ostaggi in una base petrolifera algerina, in gennaio, è stata realizzata partendo dalla Libia. Oggi la ribellione siriana è controllata dalla Libia e la macchia d'olio jihadista si estende verso il Niger e la Mauritania.

Ringraziando la CIA
A prima vista, gli Stati Uniti e l'Occidente sembrano preoccuparsi di questa recrudescenza di attività jihadista in Africa del Nord. Aggiungiamo anche la Nigeria, la Somalia e più recentemente il Kenya. Ma a ben vedere la situazione è più complicata. La caduta di Gheddafi è stata resa possibile dall'alleanza tra, da una parte, le forze speciali francesi, inglesi, giordane e del Qatar e, dall'altra, gruppi ribelli libici.  Il più importante di essi era proprio il Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), che figurava nella lista delle organizzazioni terroriste vietate. Il suo leader, il sunnominato Belhadj, aveva due o tremila uomini ai suoi ordini. Questi ultimi furono addestrati dagli Stati Uniti subito prima dell'inizio della ribellione in Libia.

Gli Stati Uniti non sono al loro primo tentativo in questo campo. Negli anni 1980, essi si occuparono della formazione e dell'organizzazione dei combattenti estremisti islamisti in Afghanistan. Negli anni 1990 fecero lo stesso in Bosnia e, dieci anni più tardi, in Kosovo. Non è poi da escludere che i servizi di informazione occidentali siano direttamente o indirettamente coinvolti nelle attività terroriste dei Ceceni in Russia e degli Uiguri in Cina.

Gli Stati Uniti e la Francia si sono finti sorpresi quando i Tuareg e gli islamisti hanno occupato il Nord del Mali. Ma era solo una facciata. Ci si può perfino chiedere se non siano stati loro stessi a provocarla, come avvenne nel 1990 con l'Iraq contro il Kuwait.  Tenuto conto del livello di presenza di Al Qaida nella regione, qualsiasi specialista in geo-strategia avrebbe saputo che l'eliminazione di Gheddafi avrebbe provocato una recrudescenza della minaccia terrorista in Maghreb e nel Sahel. E siccome la caduta di Gheddafi è stata per gran parte opera delle milizie jihadiste, che gli Stati Uniti avevano formato e organizzato, è il caso di cominciare a porsi delle serie domande. Per maggiori dettagli, rinvio a un mio articolo precedente.

Agenda geo-politica
Comunque sia, la minaccia terrorista islamista nella regione e altrove sul continente africano fa comodo agli Stati Uniti. Costituisce la scusa perfetta per essere presente militarmente e intervenire nel continente africano. Non è sfuggito, a Washington, che la Cina e altri paesi emergenti sono sempre più attivi sul continente mettendo in pericolo l'egemonia degli Stati Uniti. La Cina è oggi il più importante partner commerciale dell'Africa. Secondo il Financial Times, "la militarizzazione della politica statunitense dopo l'11 settembre è da tempo discussa perché viene considerata, nella regione, come un tentativo degli Stati Uniti di rafforzare il loro controllo sulle materie prime e di contrastare il ruolo commerciale esponenziale della Cina.

Nel novembre 2006 la Cina organizzò un summit straordinario sulla cooperazione economica, cui parteciparono almeno 45 capi di Stato africani. Giusto un mese più tardi, Bush approvava la costituzione di Africom. Africom è il contingente militare statunitense (aerei, navi, truppe ecc) per le operazioni sul continente africano. L'abbiamo visto per la prima volta in azione in Libia e in Mali. Africom è oramai operativo in 49 dei 54 paesi africani e gli Stati Uniti dispongono in almeno dieci paesi di basi o installazioni militari permanenti. La militarizzazione degli Stati Uniti nel continente si allarga continuamente.

Sul piano economico, i paesi del Nord perdono terreno nei confronti dei paesi emergenti del Sud, ed è così anche per l'Africa, un continente ricco di materie prime. E' sempre più evidente che i paesi del nord intendano contrastare questo riequilibrio con mezzi militari. La cosa promette bene per il "continente nero".  


=== 4 ===

www.resistenze.org - popoli resistenti - libia - 05-11-13 - n. 473

Lo squartamento libico

Tutto sembra indicare che la frammentazione in determinate aree di influenza sia una tendenza difficile da contrastare nella Libia odierna

Nestor Nuñez Dorta | lahaine.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

05/11/2013

L'opera dei "combattenti per la libertà", che misero fine al governo di Tripoli, con l'aiuto degli Stati Uniti, dei loro partener dell'Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord (NATO), della destra araba, del sionismo e islamismo estremista, ha recentemente maturato i suoi primi frutti.

Si tratta della secessione della Cirenaica per conto di una cosiddetta Giunta delle Comunità, che comprende le bande armate coinvolte nella passata "ribellione", i capi di tribù locali e, di certo, i rappresentanti delle grandi imprese monopolistiche legate al petrolio, interessate al bottino di un paese strategico per il dominio delle rotte mediterranee e con grandi riserve energetiche.

Così, secondo Adeb Rabbo Hamid Barasi, nominato primo ministro del nuovo governo autonomo, si da per realizzata l'istaurazione di una repubblica federale autonoma che in seguito si chiamerà con il nome di Barqa, controllata da un consiglio di ventiquattro ministri, ma dove le funzioni di Difesa e degli Esteri rimarranno all' "esecutivo centrale", definizione che alcuni analisti identificano come una sorta di potere quasi intoccabile e molto vicino ai gruppi estremisti islamici fortemente coinvolti nelle azioni che hanno deposto le autorità di Tripoli.

Secondo lo stesso Barasi, l' "indipendenza" ha come obiettivo quello di controllare la più grande zona fornitrice di petrolio libico e stabilire uno stretto controllo sulla "sicurezza interna".

Nel frattempo, i media occidentali indicano che "le tribù e le milizie hanno basato la loro decisione sulla partizione regionale istituita nel 1951 dall'allora re Idriss, che divise il Paese in tre stati: Cirenaica (Barqa), Tripolitania (ovest, dove Tripoli è la capitale) e Fezzan, nel centro-sud.

In Cirenaica si trova anche la città di Bengasi, da dove si diede inizio alla rivolta contro il governo di Muammar Gheddafi, e dove sono accaduti notevoli episodi di violenza dopo la presunta vittoria dei ribelli.

Così, di recente è stato colpito nella propria casa il direttore del traffico aereo della città, il colonnello Abdel al Towahni, portando a quindici il totale degli alti comandanti militari morti nella città in questi ultimi anni per mano dei gruppi jihadisti, autori anche dell'attentato che poco più di un anno fa costò la vita di Christopher Stevens, allora ambasciatore degli Stati Uniti in Libia.

E mentre il Consiglio Nazionale di Transizione, che fa le veci del governo nazionale, dichiara illegale la decisione dei gruppi armati che operano in Cirenaica, tutto sembra indicare che la frammentazione in determinate aree di influenza sia una tendenza difficile da contrastare nella Libia odierna.

Da mesi, le poche informazioni provenienti da quel paese insistono nel caos seminato dalle bande che hanno deposto Gheddafi, le quali non solo conservano tutti i loro equipaggiamenti, ma rifiutano anche di integrarsi in un esercito unico, sotto il comando di un governo nazionale.

Insomma, la violenta ingerenza guidata dall'Occidente, le satrapie arabe, il sionismo e l'islamismo estremista, non ha fatto altro che promuovere le ambizioni dei signori della guerra e dei gruppi con aspirazioni del tutto particolari che minacciano l'unità dello Stato libico e, come logico corollario, la sua stessa esistenza.

Come ha ben rilevato un esperto qualche mese fa, nella Libia del post Gheddafi "sono una sessantina di milizie i veri centri del potere. Incapaci di eliminarli, il Consiglio Nazionale di Transizione utilizza alcuni come forze ausiliarie in casi di emergenza, mentre altri vanno registrandosi tra i vari partiti politici o tentano di dotarsi di uno spazio geografico dove imporre la propria volontà, in una tendenza molto pericolosa".

Di conseguenza, una vera anarchia sanguinosa caratterizza il futuro della Libia, che adesso si aggrava e acquisisce i rischi di una vera "morte nazionale" con il distacco forzato della Cirenaica, che amputa la frontiera orientale del paese, tagliando fuori gran parte del Golfo di Sirte, che le strappa l'importante porto di Bengasi e pregiudica i volumi più significativi della sua ricchezza petrolifera.


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www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 13-11-13 - n. 474

La ricostruzione libica: un affare italiano

Se le aziende straniere fuggono da Tripoli per l'instabilità politica, Roma resta e aumenta il suo volume d'affari. Un maxi-investimento che sa di colonialismo

Francesca La Bella | nena-news.globalist.it

11/11/2013

Legami di lungo corso uniscono Italia e Libia. I vincoli coloniali prima e gli interessi commerciali in seguito, hanno cementato un rapporto di interdipendenza duraturo e molto proficuo, soprattutto per la controparte italiana. In questo contesto l'intervento NATO contro Muhammar Gheddafi e la conseguente instabilità sembravano aver inciso negativamente sul volume di affari italiani nel Paese a causa di due fattori paralleli ed interrelati: la fluttuazione della produzione di idrocarburi (gas e petrolio), primo prodotto esportato verso la penisola italica, e la presenza significativa di competitors commerciali, soprattutto francesi, attivi nel Paese anche grazie alle tutele date dal coinvolgimento militare della propria madre patria al fianco dei ribelli.

La realtà è, però, diversa da quella che poteva apparire all'indomani della morte del Colonnello. Le speranze occidentali di affidabilità dei partner politici e di stabilità economica sono state quasi immediatamente disattese e, ad oggi, la tutela delle attività industriali straniere è nelle mani di compagnie di sicurezza private mercenarie o di milizie di ex-ribelli come la Lybia Shield Force. A prima vista la situazione sembrerebbe, dunque, molto critica per gli investitori italiani, ma così non è.

Anche dopo la caduta di Gheddafi, Roma si è infatti confermata il principale partner economico della Libia. Il mercato italiano è la meta principale dell'export libico e, nonostante le difficoltà, il valore dell'intercambio è cresciuto sia nel 2012 sia nel 2013. Parallelamente, se prima del 2011, operavano in Libia circa 100 aziende italiane, l'anno successivo si poteva stimare un 70% di rientri e la percentuale è ulteriormente cresciuta nell'ultimo periodo. Se i colossi del petrolio come le statunitensi Marathon Oil e ExxonMobil stanno lasciando la Libia a favore di altri Paesi con maggiori garanzie di sicurezza, le aziende italiane hanno scelto di investire sempre di più nel canale libico. Da un lato questo è dovuto alla fuga di buona parte della concorrenza internazionale, spaventata da una situazione che presenta forti criticità, dall'altro, si tratta di una occasione unica per avere un ruolo significativo in ambito mediterraneo.

L'accordo con il Governo Zeidan per il monitoraggio dei confini libici con tecnici italiani e sistemi Selex (Finmeccanica), l'incontro tra Letta ed Obama incentrato sul Mediterraneo in generale e sulla Libia in particolare e la dichiarazione congiunta di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia a favore del "consolidamento della democrazia" sono i passaggi di un nuovo programma di intervento italiano nel Paese nord-africano. In quest'ottica devo essere letti, di conseguenza, anche la costituzione a fine ottobre dell'associazione Progetto Italia Libia (Apil) che dovrebbe favorire l'ingresso nel Paese africano di piccole e medie imprese, principalmente del settore infrastrutture, e la presenza massiva dell'Italia al Libya Rebuild 2014, la fiera internazionale sull'edilizia e le infrastrutture, che si terrà a febbraio 2014 a Tripoli.

Parallelamente si ricordi che ENI ha scelto di mantenere la propria posizione in suolo libico nonostante le difficoltà. Benché sia di pochi giorni fa la notizia dell'occupazione da parte di gruppi berberi del terminal libico del gasdotto che collega Mellitah a Gela, gestito dalla compagnia italiana e dalla consociata libica, le dichiarazioni in merito dell'amministratore delegato dell'azienda Paolo Scaroni non sono state particolarmente allarmate. Si sottolinea la difficoltà di lavorare in un contesto di post-guerra civile, ma si apre comunque alla possibilità di un miglioramento.

La fiducia nel futuro dell'Ad di ENI sembrerebbe fuori luogo se non si tenesse conto del contesto: l'imprenditoria privata è supportata da politiche statali configurando la relazione tra i due Paesi in termini neo-coloniali. La Libia ha, attualmente, un Governo debole, incapace di garantire la propria sicurezza interna e quella dei confini. L'economia, basata quasi totalmente sui proventi degli idrocarburi, continua a registrare fluttuazioni e la mancanza di investimenti esteri impedisce la diversificazione economica. Questa situazione induce il premier Zeidan a cercare partner commerciali capaci di dare nuova linfa all'economia locale, rafforzando, di conseguenza, la posizione dell'esecutivo.

D'altra parte l'Italia trova nella crisi libica un'inesauribile fonte di guadagno, non esclusivamente economico. Il business della ricostruzione potrebbe sopperire alle difficoltà che il settore edilizio e delle infrastrutture soffre in patria, il monitoraggio dei confini potrebbe garantire sia un introito economico per le aziende di tecnologia militare sia un risultato politico in termini di limitazione del fenomeno migratorio (esimendo l'Italia da un dibattito su una nuova nuova legge sull'immigrazione) e l'impegno per la "transizione democratica" riporterebbe l'Italia al centro del dibattito politico internazionale. Siamo sicuri che il ritorno al colonialismo possa essere considerato una soluzione "democratica?".



(italiano / deutsch / english)

Anschluss

1) V. Giacché: ANSCHLUSS. L’ANNESSIONE DELLA DDR E IL FUTURO DELL’EUROPA
2) 2010: La borghesia tedesca in crisi scatena un'altra campagna anticomunista e contro la RDT / Assalto all'Est
3) 2010: The German issue today (Alexei Fenenko)
4) DDR-Betriebe und die Treuhand (Frontal21, 2010)
5) Segnalazione libro: ERICH HONECKER - APPUNTI DAL CARCERE


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“Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa”

9 Ottobre 2013

di Vladimiro Giacché

Anticipazione da

Vladimiro Giacché, Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur editore, 2013, pp. 304, in libreria dal 9 ottobre.

(riproduciamo per gentile concessione dell’editore le pp. 149-157 del testo)

Guai ai vinti: la criminalizzazione della RDT

La liquidazione pratica della RDT procedette in maniera parallela alla sua demonizzazione ideologica. Il documento forse più significativo della criminalizzazione della RDT è rappresentato dal discorso tenuto il primo luglio 1991 dal ministro della giustizia Klaus Kinkel, già presidente dal 1979 dal 1982 del servizio segreto della RFT (il Bundesnachrichtendienst, BND), al primo forum del ministero federale della giustizia. Eccone un passo: “Per quanto riguarda la cosiddetta RDT e il suo governo, non si trattava neppure di uno Stato indipendente. Questa cosiddetta RDT non è mai stata riconosciuta dal punto di vista del diritto internazionale. Esisteva una Germania unica (einheitlich), una parte della quale era occupata da una banda di criminali. Tuttavia non era possibile, per determinate ragioni, procedere penalmente contro questi criminali, ma questo non cambia di una virgola il fatto che c’era un’unica Germania, che ovviamente in essa vigeva un unico diritto e che esso attendeva di poter essere applicato ai criminali”.
La mostruosità storica e giuridica di questo passo meriterebbe un commento approfondito. Basterà, di passaggio, ricordare che la RDT era uno Stato riconosciuto non soltanto dall’ONU e da numerosissimi altri Stati, ma di fatto anche dalla stessa RFT, sin dal Trattato sui principi del 1972. E che il capo della “banda di criminali” di cui parla Kinkel era stato in visita di Stato nella Repubblica Federale non più tardi che nel 1987, quando era stato ricevuto con tutti gli onori da Helmut Kohl. Fu del resto lo stesso Günter Gaus, che ricoprì per anni l’incarico di responsabile della rappresentanza permanente della RFT nella Repubblica Democratica Tedesca, a dichiarare: “è insensato fare come se la RDT fosse una provincia che si era separata dalla Repubblica Federale. C’erano due Stati tedeschi, tra loro indipendenti, riconosciuti da tutto il mondo”. (...)

Questa sconcertante dichiarazione di Kinkel non sfuggì a Honecker, il quale negli appunti stesi in carcere e pubblicati postumi ne evidenziò la logica conseguenza: “la criminalizzazione dello Stato che fu la Repubblica Democratica conduce ad un vero bando sociale della massa dei cittadini della RDT. Chi ha partecipato alla costruzione di questo ‘Stato di non-diritto’ (Unrechtsstaat) sarà ‘legittimamente’ cacciato dal suo posto. Operaio, contadino, insegnante o artista, dovrà prendere atto del fatto che la sua espulsione dall’amministrazione, dall’insegnamento, dal teatro o dal laboratorio è ‘legale’”. Come vedremo, questa previsione a tinte fosche non si rivelerà troppo lontana dal vero.

Ma Kinkel fece un ulteriore grave passo pochi mesi dopo. Nel suo discorso di saluto al 15° congresso dei giudici tedeschi, il 23 settembre dello stesso anno, affermò testualmente: "conto sulla giustizia tedesca. Si deve riuscire a delegittimare il sistema della SED".

In questa esortazione è evidente la clamorosa violazione dell'indipendenza del potere giudiziario da quello esecutivo (ossia uno dei fondamenti dello stato di diritto), e assieme la teorizzazione esplicita di un utilizzo politico della giustizia: in questo modo di fatto Kinkel si rende colpevole proprio di quello di cui accusava la RDT. L’osservazione che Honecker in carcere fa con riferimento al procedimento che lo riguarda può quindi essere in qualche modo generalizzata: “con questo processo viene fatto quello che si rimprovera a noi. Ci si sbarazza dell’avversario politico utilizzando gli strumenti del diritto penale, ma ovviamente secondo i principi dello Stato di diritto”.

La giustizia del vincitore: i processi politici

A questa esortazione di Kinkel, purtroppo, una parte della giustizia federale rispose positivamente, anziché rispedirla al mittente. Nel corso degli anni furono aperti procedimenti penali nei confronti di circa 105 mila cittadini della RDT, in genere finiti nel nulla (ma che spesso ebbero un effetto devastante sulla carriera e sull’esistenza stessa degli interessati). In effetti, finirono sotto processo “soltanto” 1.332 persone (127 delle quali furono coinvolte in più di un processo). Risultarono condannate a pene variabili 759 persone (48 delle quali a pene detentive), si ebbero 293 assoluzioni e 364 processi furono interrotti per morte dell’imputato o per altri motivi.

Questo poté avvenire in forza di una sostanziale violazione del Trattato sull’unificazione e di ulteriori forzature della legge. In realtà fu adoperato surrettiziamente il diritto della RFT per giudicare l’operato di persone che avevano agito in ottemperanza alle leggi della RDT (in particolare guardie di confine, giudici e alti esponenti politici). Furono aperti ex novo procedimenti (mentre in base al Trattato la RFT avrebbe dovuto proseguire e portare a termine soltanto procedimenti già iniziati prima del 3 ottobre 1990). Per poter coinvolgere anche i più alti esponenti politici nei processi si inventò un presunto “ordine di sparare” a chi provasse a violare la frontiera impartito dagli alti comandi (mentre i soldati si limitavano a seguire le procedure – analoghe a quelle in uso nell’esercito della RFT - previste in caso di oltrepassamento illegale del confine o di ingresso non autorizzato in una zona militare, come del resto ammise in una sentenza del 1996 anche la Corte costituzionale federale). (...)

Il parlamento emanò tre successive leggi per prolungare i termini della prescrizione, e alla fine si giunse a considerare i quasi 41 anni della RDT come periodo di sospensione del decorso della prescrizione! Anche se in questo caso l’effetto pratico fu trascurabile (i procedimenti che si poterono effettivamente aprire e portare a termine in questo modo furono pochissimi), l’effetto mediatico e l’obiettivo di porre sul banco degli accusati l’intera storia della RDT fu conseguito.

Si trattò di fatto di processi esemplari, e più precisamente di “processi di rappresentanza”, in cui il procedimento penale era finalizzato a “delegittimare” postumamente, proprio come aveva richiesto Kinkel, la Repubblica Democratica Tedesca. Per quanto numerosi e gravi siano le responsabilità di Honecker nei suoi quasi 20 anni alla guida della RDT (in particolare l’assoluta sordità nei confronti della domanda di democratizzazione che veniva dalla società e l’ostinato rifiuto di cambiare rotta nella politica economica), è difficile non riconoscere delle ragioni nella sua denuncia del carattere politico del processo cui era sottoposto: “ci sono soltanto due possibilità: o i signori politici della RFT hanno consapevolmente, liberamente e addirittura volentieri cercato di avere rapporti con un assassino, o essi adesso consentono che un innocente sia accusato di omicidio. Nessuna di queste due alternative va a loro onore. Ma non ne esiste una terza... Il vero obiettivo politico di questo processo è l’intenzione di screditare la RDT e con essa il socialismo. Evidentemente, la sconfitta della RDT e del socialismo in Germania e in Europa per loro non è sufficiente... La vittoria dell’economia di mercato (come oggi si usa eufemisticamente definire il capitalismo) deve essere totale e totale deve essere la sconfitta del socialismo. Si vuole, come Hitler un tempo ebbe a dire davanti a Stalingrado, ‘che questo nemico non si riprenda mai più’. I capitalisti tedeschi hanno sempre avuto la tendenza alla totalità”.

In effetti in qualche caso questa “tendenza alla totalità”, questa furia liquidatoria nei confronti della RDT è giunta sino al punto di sconfinare nella adesione e giustificazione di quello che in Germania c’era prima della RDT stessa.

Quando Honecker nel 1992 fu estradato dalla Russia di Eltsin (a tal fine i medici russi produssero un certificato falso, che nascondeva la gravità del cancro al fegato di cui Honecker soffriva), venne rinchiuso in Germania nel carcere di Moabit, lo stesso in cui lo avevano rinchiuso i nazisti, per attività sovversiva nel Terzo Reich (durante il nazismo Honecker scontò 10 anni di carcere). E chi predispose l’atto di accusa pensò bene di riprendere letteralmente, senza modificarli in alcun modo, stralci dell’atto di accusa formulato a suo tempo dalla Gestapo. Cosicché nel curriculum vitae di Honecker allegato agli atti del processo si trovano queste frasi: “l’attività svolta [da Honecker] per l’organizzazione giovanile del partito comunista era illegale. Pertanto egli fu arrestato a Berlino il 4 dicembre 1935, per sospetta preparazione di attività di alto tradimento”.

Quando l’ex capo delle forze armate della RDT, Heinz Kessler, fu portato davanti a un tribunale tedesco federale - con l’accusa, anche nel suo caso, di aver dato l’“ordine di sparare” alla frontiera - non mancarono commenti sarcastici sul fatto che questo generale tedesco aveva disertato l’esercito tedesco; e in effetti lo aveva fatto: nel 1941, quando aveva abbandonato l’esercito di Hitler per unirsi all’armata rossa.

Ma il caso più estremo riguarda Erich Mielke, l’ex capo del potentissimo ministero per la sicurezza dello Stato (meglio noto come Stasi) – in definitiva colui che nella RDT ricopriva lo stesso incarico che nella RFT aveva ricoperto Kinkel. Per Mielke non si trovò di meglio che condannarlo per l’omicidio di due poliziotti nel 1931. In questo caso si riprese il fascicolo processuale aperto sotto il nazismo, che aveva portato nel 1935 alla decapitazione in carcere di un altro comunista, Max Matern. A Mielke negli anni Novanta andò meglio: fu condannato a 6 anni, ma fu scarcerato nel 1995 per motivi di salute (aveva 88 anni), dopo aver passato in carcere complessivamente 5 anni.

Gerhard Schürer, l’ex capo della pianificazione della RDT, nelle sue memorie scrive: “è per me incomprensibile che il massacro di 15 donne e bambini italiani [la strage di Caiazzo, N.d.A.] da parte del criminale di guerra Lehnigk-Emden durante la seconda guerra mondiale in base al diritto tedesco sia un reato prescritto, mentre l’atto di un giovane comunista, che – anche nel caso in cui egli l’abbia davvero commesso – deve essere spiegato con la situazione dell’epoca, prossima alla guerra civile, ancora dopo 64 anni viene perseguito e la pena implacabilmente comminata”.


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www.resistenze.org - popoli resistenti - germania - 13-07-10 - n. 327

Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
La borghesia tedesca in crisi scatena un'altra campagna anticomunista e contro la RDT
 
10/07/2010
 
I liberali del FPD [Partito Liberal Democratico] spingono per un'indagine sulle reti del servizio di sicurezza antifascista della RDT-DDR, che seppe far fronte all'aggressivo imperialismo occidentale fino al 1989, dentro il parlamento della Germania borghese RFT dal 1949 al 1990.
 
Con l'economia in crisi, un aumento della disoccupazione, una crisi politica derivante dalla complicità tedesca nella guerra coloniale in Afghanistan, la borghesia cerca di deviare l'attenzione delle masse, coltivare senza ritegno l'anticomunismo e combattere la crescente simpatia popolare verso la RDT socialista e verso il socialismo in generale. Lo stato esige dalla molto socialdemocratizzata Die Linke che continui a rinculare rinunciando completamente alla RDT e ad ogni idea socialista. Bassezza, revanscismo, filo-nazismo e caccia alle streghe sono gli elementi principali della Germania imperialista attuale.
 
Secondo una recente inchiesta pubblicata da Der Spiegel, il 57% dei cittadini dell’Est è disposto a difendere pubblicamente la RDT, il 49% crede che si vivesse bene e l’8% che si viveva meglio nella RDT che sotto il regime borghese. La maggioranza dei giovani crede che la RDT difendesse meglio l'ecosistema rispetto all'Ovest capitalista.
 

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www.resistenze.org - popoli resistenti - germania - 10-10-10 - n. 335

da Avante, organo del PCP- www.avante.pt/pt/1923/opiniao/110735/ 
Traduzione dal portoghese per 
www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Assalto all'Est
 
di Rui Paz
 
ottobre 2010
 
Il capitale monopolista ed i suoi servi hanno celebrato lo scorso 3 ottobre il 20° anniversario della liquidazione del primo Stato socialista tedesco e la restaurazione del capitalismo nella ex DDR. La distruzione della struttura economica socialista e il saccheggio della ricchezza appartenente a tutto il popolo della Repubblica Democratica Tedesca, vengono solitamente presentati, da parte di una oligarchia finanziaria sfruttatrice e parassitaria, in possesso di fortune colossali, proprietaria di banche e grandi imprese e gruppi economici, come una "rivoluzione".
 
Ma le celebrazioni del 2010 sono state turbate dalla rivelazione dei documenti della "Corte dei Conti Federale", inaccessibili fino ad ora, i quali dimostrano che il declino dell'economia tedesco-orientale, a partire dal 1990, non è da imputare al socialismo, come il capitale ha costantemente propagandato per due decenni, ma all'assalto al settore bancario dello Stato da parte delle banche occidentali. Deutsche Bank e Dresdner Bank sono stati le principali beneficiarie di tale atto di rapina.
 
Questi 20 anni di '"unificazione" che i banchieri, i multi-milionari e la classe politica servitrice del capitalismo celebrano, si sono trasformati per una parte importante dei lavoratori e del popolo tedesco in un calvario di disoccupazione e povertà, di liquidazione dei diritti sociali e lavorativi, di regressione antidemocratica e assenza di speranza per una vita migliore. La fine del socialismo nella RDT e la restaurazione capitalista hanno trascinato tutta la Germania in una situazione per cui il potere non eletto e incontrollabile del grande capitale prevale sulla volontà politica generale. Le banche e i monopoli privati, come Siemens, Allianz o Mercedes, senza alcuna legittimazione democratica decidono il destino di milioni di famiglie.
 
Nel 2003, la percentuale della popolazione che viveva al di sotto della soglia di povertà, nella parte occidentale era del 13%, in quella orientale era salita al 17,7%. Mentre nelle fabbriche occidentali solo il 70% dei lavoratori ha ancora un contratto di lavoro a tempo indeterminato (impensabile fino al 1990), ad oriente la situazione è ancora più drammatica con il 45,5% diviso tra lavoro precario e lavoro nero. È giunto il tempo di rivelare che dietro la cosiddetta "unificazione" della Germania si nasconde un attacco reale ai beni e alla ricchezza della ex DDR e un processo di regresso sociale senza precedenti nella storia d'Europa dal 1945.
 

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http://en.rian.ru/valdai_op/20101004/160819255.html

Russian Information Agency Novosti
October 6, 2010

The German issue today

Alexei Fenenko 

This fall marks 20 years since the reunification of Germany. On 12 September 1990 the Moscow Treaty was signed, apparently bringing the curtain down on the German question. On 3 October 1990, on the basis of the Moscow Treaty, the Cold War’s Eastern and Western Germany were reunified. Now, two decades later, it is time to consider whether the Moscow Treaty really did settle the "German question".

After the fall of the Berlin Wall (November 1989) there were two alternative possibilities for the reunification of Eastern and Western Germany. The first was the "2+4" formula. Under it, the FRG and the GDR would independently create a new unified whole, later to be joined by “the victorious powers” (the USSR, the U.S., Great Britain and France). The alternative was a "4+2" formula, according to which the four “victorious powers" were to jointly decide on how Germany was to be unified. Britain and France favored the latter. The U.S. took a neutral position to avoid possible conflict both with Germany and one of its key allies - Britain. The situation changed, however, when the USSR became involved. At a meeting with Chancellor Helmut Kohl in Zheleznovodsk (July 1990) Michael Gorbachev backed the "2+4" formula. The George Bush senior’s administration in turn supported him, and France and Britain fell in line behind the two global superpowers. 

Thus the Moscow Treaty was born of compromise. It was signed by two German states (Eastern and Western Germany) and the four “victorious powers.” The document stipulated the conditions for Germany’s reunification according to the "2+4" formula alongside a guarantee of its future peaceful development. It also repealed "the victorious powers’" rights to German territory. Germany pledged to keep within restrictions on conventional armed forces, not to create weapons of mass destruction (WMD) and to refrain from acts of aggression against other states. Particular emphasis was placed on the new Germany’s final borders and neighboring countries.

Despite all the efforts taken, the Moscow Treaty did not manage to settle the German question. Moreover, for a number of reasons it may yet prove a flashpoint in relations on the continent.

Firstly, the Moscow Treaty is not technically a peace treaty. In law “the victorious powers" as yet have no peace treaty with Germany. The parties’ obligations under the Moscow Treaty are preliminary in character.

Secondly, the Moscow Treaty retained the restrictions on German sovereignty. It restored Germany’s full legal identity and repealed "the victorious powers’" rights to German territory. But the limitations on German sovereignty imposed by the Bonn treaty (1952) remain in force. Germany is still forbidden to hold referendums on military affairs, to demand the withdrawal of Allied troops before signing a peace treaty, to make foreign policy decisions without the approval of the victorious powers, and to pursue a number of developments within their armed forces, in particular, Germany is banned from creating weapons of mass destruction (WMD).

Thirdly, Berlin created a succession of precedents for an expanded interpretation of the Moscow Treaty. For example, during Operation Desert Storm (1991) Germany backed the anti-Iraq coalition. Twenty years later, German soldiers maintained a presence in Bosnia, Kosovo, Macedonia and Afghanistan. 

Fourth, there are some misgivings about German nuclear issues. Germany participates in the NPT as a non-nuclear state. Yet at the same time Berlin has a complete nuclear fuel cycle. Hence, it could produce nuclear weapons. Indeed, such a move would only require a political decision. Two of Germany’s ex-Ministers of Defense - Rupert Scholz and Rudolf Scharping – pointed out that, in certain circumstances, this could in fact be possible. Besides, Germany has ambitions to become a permanent member of the UN Security Council, which will give it legal nuclear status. Thus, the five permanent UN Security Council members will be five legitimate nuclear powers.

Other states are still concerned about Germany’s future. In 1991, despite the positions taken by Britain and France, Berlin recognized the independence of Slovenia and Croatia. Moreover, it even threatened to withdraw from the European Community. Then Paris and London persuaded Bill Clinton’s U.S. administration to maintain an American military presence in Germany at all costs. When entering the Bosnian war (1992 -1995), the U.S. tried to unite its NATO allies (including Germany) in a joint military operation in order to bring a halt to Berlin’s unilateral response to the Balkan issue.

Today the issue of Germany’s military independence is developing in a new direction. In April 2009, the Bundestag recommended that Angela Merkel's Government consider the possibility of the withdrawal of U.S. tactical nuclear weapons from Germany. Although a majority of deputies voted against the immediate withdrawal of American tactical nukes, in February 2010, Berlin cooperated with the Benelux countries and Norway, proposing to raise this issue for consideration within NATO. But since 1957 American tactical nukes have been at the core of U.S. security guarantees to Germany. Thus their potential withdrawal would confirm Berlin’s intention to construct an independent military policy.

Germany’s nuclear discussions have raised concern among some NATO allies. In February 2010 the U.S. Secretary of State Hillary Clinton and her deputy James Steinberg said that such decisions should be considered within the Alliance. At the Tallinn Summit (22 -23 April 2010) NATO foreign ministers decided to maintain a united Alliance policy on the issue of nuclear deterrents. The new draft of NATO’s military doctrine (May 2010) focused on (1) the preservation of a common nuclear policy and (2) the continued presence of American tactical nuclear weapons on NATO members’ territory. So this could be a new potential source of stress in regard to the German question.

Russia also has some food for thought. Berlin is one of Moscow’s leading partners. So Russia is unlikely to oppose any discussion the issue of restoring full German sovereignty. Yet a Germany that is militarily independent is one factor that is sure to alter the balance of power in Europe. Therefore, the twentieth anniversary of the Moscow Treaty an even more apt moment to reflect on how and in what format the impending revision of the document meets Russia's interests.

Alexei Fenenko is Leading Research Fellow, Institute of International Security Studies of RAS, Russian Academy of Sciences


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Abgewickelt und betrogen

DDR-Betriebe und die Treuhand


Rückblick: Im Sommer 1990 bekommen 16 Millionen DDR-Bürger neues Geld: Der Freude über die harte D-Mark folgt schnell Ernüchterung. Denn die
Volkseigenen Betriebe müssen nun ihre Belegschaft in D-Mark bezahlen und sich über Nacht dem Weltmarkt stellen. Privatisieren oder dichtmachen - das
ist die Aufgabe der Treuhandanstalt, der größten Staatsholding der Welt. Der Ausverkauf der DDR-Wirtschaft beginnt. 8000 Betriebe sollen marktfähig
gemacht werden oder untergehen.

Die Mitarbeiter des Wärmeanlagenbaus Berlin (WBB) glauben, dass sie den Sprung in den Markt schaffen können. WBB, größter DDR-Hersteller für
Fernwärmetrassen, besitzt ein Millionenvermögen. Offizieller Substanzwert: 160 Millionen D-Mark. Doch die Treuhand rechnet den Betrieb klein und
verkauft ihn für ganze zwei Millionen D-Mark an den westdeutschen Geschäftsmann Michael Rottmann. Der entlässt die meisten Beschäftigten,
verkauft die WBB-Immobilien für knapp 150 Millionen und transferiert das Betriebsvermögen ins Ausland.2,5 Millionen Arbeitsplätze abgewickelt
1200 Menschen verlieren ihre Arbeit. Rottmann flieht ins Ausland. Erst 14 Jahre nach dem Firmenzusammenbruch wird der Geschäftsmann gefasst und zu
einer mehrjährigen Haftstrafe verurteilt. Fast 200 Millionen Mark Firmengelder bleiben verschwunden. Wie WBB geht es tausenden von Firmen.

Als die Treuhand im Dezember 1994 ihre Arbeit beendet, sind 2,5 Millionen Arbeitsplätze in der ehemaligen DDR vernichtet. Was bleibt, ist ein
Schuldenberg von 250 Milliarden D-Mark. Bis heute belasten die Milliarden, die die Abwicklung der DDR-Wirtschaft gekostet hat, den Bundeshaushalt -
von den sozialen Folgen ganz zu schweigen.Vernichtende Bilanz Werner Schulz, damals grüner Bundestagsabgeordneter, durchleuchtete in
einem Untersuchungsausschuss die Geschäfte der Treuhandanstalt. Seine Bilanz ist vernichtend: "Im Grunde genommen ist es das größte
Betrugskapitel in der Wirtschaftsgeschichte Deutschlands."

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http://frontal21.zdf.deZDFdeprogramm0,6753,PrAutoOp_idPoDispatch:9935358,00.html 

„Beutezug Ost – Die Treuhand und die Abwicklung der DDR“

Verantwortlich: Albrecht Müller 
http://www.nachdenkseiten.de/?p=6735#more-6735

Endlich kommen die Zweifel an der Arbeit der Treuhand und an der Weisheit der Währungsunion breiter zur Sprache. Heute Abend um 21:00 h setzt Frontal 21 seine Aufarbeitung der Vorgänge um die Treuhand und um die Währungsunion mit einer Dokumentation fort. Die Vorschau auf diese Sendung „Beutezug Ost – Die Treuhand und die Abwicklung der DDR“ finden Sie hier und als Anlage 1. In der Vorschau finden Sie auch weitere Links zu Teilen der Sendung. Albrecht Müller

Wenn diese Versuche der Aufarbeitung einer düsteren Geschichte auch spät kommen, es ist besser als gar nicht. Nach meinem Eindruck liegt so viel im Dunkel, dass es dringend geboten wäre, die Vorgänge um die Abwicklung der fast 8000 Betriebe der DDR, um den Verkauf der ostdeutschen Banken an die westdeutschen Banken und um die Währungsunion vom 1.7.1990 neu aufzuarbeiten. Ein neuer Untersuchungsausschuss zur Abwicklung von Betrieben durch die Treuhand wäre dringend geboten.

(Message over 64 KB, truncated)


Falsifikovanje istorije na RTS

1) Beograd 10/11: PROTEST PROTIV EMITOVANЈA SERIJE „RAVNA GORA“
2) SUBNOR: ПРОВОКАЦИЈА  JE  И  САМ  НАЗИВ!


LINKOVI:

Protiv emitovanja serije "Ravna gora"
Dr Branko Latas: DOKUMENTI O SARADNJI ČETNIKA SA OSOVINOM 

THE TRIAL OF DRAGOLJUB-DRAŽE MIHAJLOVIĆA 
Stenographic record - Belgrade 1946

VIDEO: Izdajnici i ratni zlocinci (6/8)

Рехабилитација Драже Михаиловића:
ОТВОРЕНО ПИСМО СУБНОР СРБИЈЕ ДОМАЋОЈ И СВЕТСКОЈ ЈАВНОСТИ
SUBNOR, 19. март 2012.


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PROTEST PROTIV EMITOVANЈA SERIJE „RAVNA GORA“


Pozivamo vas da zajedno podignemo glas protiv emitovanja serije „Ravna gora“, najnovijeg pokušaja falsifikovanja istorije i to na „javnom servisu svih građana“ – RTS-u.


Smešno je očekivati da će serija „Ravna gora“ Radoša Bajića biti pokušaj „objektivnog“ prikazivanja razdoblja Drugog svetskog rata kod nas. Sam Radoš Bajić je od ranije poznat kao simpatizer Ravnogorskog pokreta i suludo je pomisliti da će se u njegovoj seriji Ravnogorski pokret, po kom je serija i nazvana, prikazati objektivno. Jedino moguće objektivno prikazivanje po zlu čuvenog Ravnogorskog pokreta je kao pokreta krvničkih narodnih neprijatelja i slugi okupatora.


„Objektivni“ pokušaj mirenja četnika i partizana, na šta se Bajić poziva, nije nam nikakva nepoznanica. Istu stvar rade i srpske buržoaske vlasti, a to se zove revizija istorije. Ona za konačni cilj ima potpunu rehabilitaciju Ravnogorskog pokreta, a blaćenje slavne Narodnooslobidalačke borbe i naše revolucije, što je proces koji je u Srbiji već prilično odmakao.


U tome leži najveća opasnost serije protiv koje dižemo glas istog dana kada je najavljena njena premijerna epizoda, u nedelju 10. novembra u minut do 12 ispred zgrade RTS-a, Takovska 10.


Zaustavimo emitovanje serije „Ravna gora“!


Zaustavimo rehabilitovanje narodnih neprijatelja!


NKPJ-SKOJ


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НАРОДНИ ПРОТЕСТ ПРОТИВ ЕМИТОВАЊА СЕРИЈЕ „РАВНА ГОРА“
Savez Komunističke Omladine Jugoslavije

Domenica 10 novembre 2013
12.00 - ЗГРАДА РТС-А, ТАКОВСКА 10, БЕОГРАД

ПОЗИВАМО ВАС ДА ЗАЈЕДНО ПОДИГНЕМО ГЛАС ПРОТИВ ЕМИТОВАЊА СЕРИЈЕ „РАВНА ГОРА“, НАЈНОВИЈЕГ ПОКУШАЈА ФАЛСИФИКОВАЊА ИСТОРИЈЕ И ТО НА „ЈАВНОМ СЕРВИСУ СВИХ ГРАЂАНА“ – РТС-У. СМЕШНО ЈЕ ОЧЕКИВАТИ ДА ЋЕ СЕРИЈА „РАВНА ГОРА“ РАДОША БАЈИЋА БИТИ ПОКУШАЈ „ОБЈЕКТИВНОГ“ ПРИКАЗИВАЊА РАЗДОБЉА ДРУГОГ СВЕТСКОГ РАТА КОД НАС. САМ РАДОШ БАЈИЋ ЈЕ ОД РАНИЈЕ ПОЗНАТ КАО СИМПАТИЗЕР РАВНОГОРСКОГ ПОКРЕТА И СУЛУДО ЈЕ ПОМИСЛИТИ ДА ЋЕ СЕ У ЊЕГОВОЈ СЕРИЈИ РАВНОГОРСКИ ПОКРЕТ, ПО КОМ ЈЕ СЕРИЈА И НАЗВАНА, ПРИКАЗАТИ ОБЈЕКТИВНО. ЈЕДИНО МОГУЋЕ ОБЈЕКТИВНО ПРИКАЗИВАЊЕ ПО ЗЛУ ЧУВЕНОГ РАВНОГОРСКОГ ПОКРЕТА ЈЕ КАО ПОКРЕТА КРВНИЧКИХ НАРОДНИХ НЕПРИЈАТЕЉА И СЛУГИ ОКУПАТОРА.
„ОБЈЕКТИВНИ“ ПОКУШАЈ МИРЕЊА ЧЕТНИКА И ПАРТИЗАНА, НА ШТА СЕ БАЈИЋ ПОЗИВА, НИЈЕ НАМ НИКАКВА НЕПОЗНАНИЦА. ИСТУ СТВАР РАДЕ И СРПСКЕ БУРЖОАСКЕ ВЛАСТИ, А ТО СЕ ЗОВЕ РЕВИЗИЈА ИСТОРИЈЕ. ОНА ЗА КОНАЧНИ ЦИЉ ИМА ПОТПУНУ РЕХАБИЛИТАЦИЈУ РАВНОГОРСКОГ ПОКРЕТА, А БЛАЋЕЊЕ СЛАВНЕ НАРОДНООСЛОБИДАЛАЧКЕ БОРБЕ И НАШЕ РЕВОЛУЦИЈЕ, ШТО ЈЕ ПРОЦЕС КОЈИ ЈЕ У СРБИЈИ ВЕЋ ПРИЛИЧНО ОДМАКАО.
У ТОМЕ ЛЕЖИ НАЈВЕЋА ОПАСНОСТ СЕРИЈЕ ПРОТИВ КОЈЕ ДИЖЕМО ГЛАС ИСТОГ ДАНА КАДА ЈЕ НАЈАВЉЕНА ЊЕНА ПРЕМИЈЕРНА ЕПИЗОДА, У НЕДЕЉУ 10. НОВЕМБРА У МИНУТ ДО 12 ИСПРЕД ЗГРАДЕ РТС-А, ТАКОВСКА 10.
ЗАУСТАВИМО ЕМИТОВАЊЕ СЕРИЈЕ „РАВНА ГОРА“!
ЗАУСТАВИМО РЕХАБИЛИТОВАЊЕ НАРОДНИХ НЕПРИЈАТЕЉА!
НКПЈ-СКОЈ

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na istom temu:

MITING U NEDELJU U MINUT DO 12 ISPRED ZGRADE RTS
Komunisti pozivaju na ustanak: Zaustavite emitovanje serije "Ravna Gora"
Simonida Milojković  | 06. 11. 2013. 
http://www.blic.rs/Zabava/Vesti/417998/Komunisti-pozivaju-na-ustanak-Zaustavite-emitovanje-serije-Ravna-Gora

TRAŽE ZABRANU SERIJE
RAT JOŠ TRAJE: Skojevci ustali protiv emitovanja Ravne gore
06.11.2013. Autor: Agencija FoNet
http://www.kurir-info.rs/rat-jos-traje-skojevci-protiv-emitovanja-ravne-gore-clanak-1074151


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Протест

Објављено 5. новембар 2013. | Од СУБНОР

ПРОВОКАЦИЈА  JE  И  САМ  НАЗИВ!

Хвали се задњих година РТС, којег недужни народ издржава обилно харачем званим претплата, да је некакав јавни сервис ”свих грађана Србије”, а ево сада, у громопуцатељној кампањи, својој и медијских сателита, насрће на ту исту нацију провоцирајући чак и називом најављене такозване тв серије.

Не баш доказани глумац, неизвесни сценариста, још мање редитељ, упустио се за дебеле паре, у породичној манифактурној продукцији, да општим народним, добрим делом и државним, новцем крчми историју ове земље и, уз помоћ идеолошке сабраће, најављено изврће истину о, дакако, тешком времену народа који се, у свугде у свету препознатљивој и признатој већини, борио у Другом светском рату за слободу и против нацистичке хитлеровске немачке солдатеске и верних помагача из домаћих редова.

Много је воде протекло нашим рекама, а РТС и онај баја хоће серијом која залази у наше домове да, веле, науче становништво како више да цене прошлост.

Коју прошлост? Са планином што је била синоним за сарадњу са окупаторима и мање-више самозваним ђенералом кога се и његов, у прво време, претпостављени јавно одрекао из Лондона и позвао честите присталице да се придруже партизанским јединицама?

Прошлост коју помињу славодобитно редитељ и поједини маскирани актери су и крвави пирови, слово ”З”, најава кама у разулареним ”црним тројкама”, спаљене и опљачкане куће, фотографисање над жртвама и у братском окружју са фашистима разних фела.

Морбидна је и помисао, још више увреда, кад се такозвана предпремијера организује у Крагујевцу уочи дана ослобођења од тих и таквих о којима серија прича, а црвеним тепихом парадира цвет нашег глумишта који својим ролама хоће народ да учи прошлости и сам не зна, или га није брига, што тај хепенинг одржава уочи монструозног покоља школске деце и родољуба неодмаклог доба -  октобра 1941, покоља у Шумарицама, никад нису нити ће заборавити Шумадија и Србија, злочин је остао у памети правдољубиве и антифашистичке планете.

Иста, увертирна свечаност, кочоперно је одржана и у једом од ретких београдских биоскопа. Пред нарученим камерама задовољно су шеткали протагонсити већ више деценија протежираних ретроградних идеја које потиру антифашизам у Србији и, у исто време, аболирају идеологију и појединце што су белодано, у Другом светском рату, били на страни поражених фашистичких окупационих трупа и против савезничке коалиције, у којој су поносно и уз огроман и признати допринос били само НОП и партизанске дивизије.

Аутор тв серије већ најављује наставак, ”своју истину” о Ужичкој републици и, можда, о даљим догађањима везаним за рат и око њега кроз визуру љотићевско-дражиновске политике.

Отужно је, а нека широка јавност у Србији каже своје, да РТС аболира евидентно фашистичку прошлост и мериторно се хвали њоме у време кад и у Европи са забринутошћу не само указују на арлаукање деснице.

Неки се овде, ипак, нису дозвали памети. Уместо да се хвалимо вредностима по којима смо били познати и признати, сада аутентични и уникатни антифашизам, захваљујући ”јавном сервису” и ”његовим ствараоцима”, изједначују са сарадницима фашиста и помагачима истребљења народа Србије, чија се улога, на перфидан начин и уз помоћ доказљивих фалсификата, продуљава пуном силином и у данашње време.

На жалост и општу срамоту!




NEL 70.MO ANNIVERSARIO DELLA RESISTENZA


07/11/2013 - Fonte: il manifesto - Autore: Carlo Lania

Con i soldi dell’ANPI l’Italia paga le missioni

Tolti 300 mila euro all’associazione dei partigiani

I soldi destinati all’Anpi serviranno a finanziare le missioni militari dell’Italia all’estero. E chissà se i partigiani saranno d’accordo. A deciderlo è stata ieri la commissione Bilancio della Camera durante l’esame del decreto sulle missioni in cui sono impegnati i soldati italiani fuori dai confini. A conti fatti i membri della commissione si sono accorti che mancavano circa 300 mila euro per garantire la copertura del decreto ma soprattutto l’operatività dei militari fino al 31 dicembre, data di scadenza del provvedimento. Nessun problema. Nel testo, infatti, sono inseriti anche i finanziamenti destinati a 17 associazioni combattentistiche, tra le quali l’Anpi per la quale era stato previsto 1 milione di euro. Anziché tagliare i costi riducendo l’impegno militare, la maggioranza delle larghe intese ha pensato bene di attingere a piene mani proprio lì, tra i fondi destinati all’associazione dei partigiani per trovare i soldi necessari a coprire il buco. Detto fatto. Giusto il tempo di di rifare i conti e il contributo destinato all’Anpi è stato ridotto a 634 mila euro, mentre 366 mila euro sono passati dalle casse (virtuali) dell’associazione partigiani a quelle delle missioni, con il consenso di tutti i partiti – Pd in testa – e con l’unico voto contrario del M5S. 
Il provvedimento prevede un finanziamento complessivo di 730 milioni fino alla fine dell’anno, dei quali 260 solo per la missione in Afghanistan. Nonostante le promesse fatte dal ministro degli Esteri Emma Bonino, che aveva garantito un maggior impegno finanziario italiano per i profughi della Siria, alla cooperazione internazionale restano solo le briciole: appena il 2% del totale, pari a soli 23 milioni di euro. 
Una volta messi in ordine i conti, il decreto è dunque arrivato in aula, dove però adesso rischia di rimanere impantanato a lungo. Sel e M5S hanno infatti annunciato di volersi opporre al testo con l’ostruzionismo, cominciato già ieri sera durante la discussione. Il movimento di Grillo ha presentato 12 emendamenti che chiede al governo di fare propri. Tra le richieste più importanti c’è il ritiro di almeno il 10% del personale militare attualmente impegnato in Afghanistan (250 soldati su un totale di 2.900). «Non si tratta di una richiesta assurda», spiega il deputato 5 Stelle Manlio Di Stefano. «Nell’emendamento si chiede di concordare con la Nato una riduzione degli incarichi operativi degli italiani in Afghanistan in modo da permettere il parziale ritiro. Messa in questi termini la proposta è stata giudicata fattibile anche dal relatore, il generale Rossi. Senza contare che , oltre a dare un forte segnale politico, si risparmierebbero anche molti soldi in un momento di crisi». Il M5S chiede anche l’approvazione di un ordine del giorno che metta fine all’impiego di soldati italiani in missioni antipirateria a bordo delle navi mercantili. 
Più radicale la scelta di Sel, che al governo chiede invece di spacchettare il decreto in modo da poter votare contro la sola missione in Afghanistan, decretandone così la fine nel caso il voto passasse, e a parte tutto il resto.«Non accettiamo mediazioni come quella proposta dal M5S di ritirare solo il 10% dei soldati – spiega Giulio Marcon -. Quella missione è sbagliata e va ritirata completamente».







il manifesto 2013.11.05 - 03 ECONOMIA
 
L'ARTE DELLA GUERRA

Non c'è crisi per le missioni

RUBRICA - MANLIO DINUCCI 

Mentre le vie di Roma sono percorse da cortei che chiedono investimenti pubblici per il lavoro, la casa, i servizi sociali, nelle stanze di palazzo Montecitorio si sta varando il decreto-legge che stanzia altro denaro pubblico per le missioni militari internazionali. Denaro che va ad aggiungersi a quello per le forze armate e gli armamenti, ponendo l'Italia (documenta il Sipri) al decimo posto mondiale con una spesa militare reale di 26 miliardi di euro nel 2012, equivalente a 70 milioni al giorno. 
Su cosa si stia decidendo a palazzo Montecitorio c'è assoluto silenzio mediatico. Peccato. Altrimenti i cittadini italiani in crescenti difficoltà economiche avrebbero perlomeno la soddisfazione di sapere che, solo per il trimestre ottobre-dicembre 2013, vengono stanziati 125 milioni di euro per la missione militare in Afghanistan, oltre 40 per quella in Libano, 24 per quelle nei Balcani, 15 per il «contrasto alla pirateria» nell'Oceano Indiano (più la spesa, ancora segreta, per la nuova base militare italiana a Gibuti). Si spendono in soli tre mesi 5 milioni per partecipare alla missione Nato nel Mediterraneo (cui si aggiunge la spesa, ancora da quantificare, per quella Mare Nostrum), altri 5 per mantenere personale militare italiano a Tampa in Florida (sede del Comando centrale Usa), in Bahrain, Qatar ed Emirati arabi uniti. Oltre 5 milioni in tre mesi vengono stanziati per i militari e gli agenti di polizia che in Libia aiutano a «fronteggiare l'immigrazione clandestina» e a mantenere e usare «le unità navali cedute dal governo italiano a quello libico». Altro denaro pubblico viene sborsato per inviare militari in Sudan, Sud Sudan, Mali, Niger, Congo e altri paesi, pagando alte indennità di missione incrementate del 30% se il personale non usufruisce di cibo e alloggio gratuiti. Alle spese per le missioni militari si aggiungono quelle per il «sostegno ai processi di ricostruzione» e il «consolidamento dei processi di pace e stabilizzazione»: 23,6 milioni di euro in tre mesi, ai quali il ministro degli esteri può aggiungere con proprio decreto altre risorse. Già la Bonino ha annunciato che a dicembre saranno disponibili altri 10 milioni per gli «aiuti umanitari». Come lo «sminamento umanitario» in paesi che prima la Nato (Italia compresa) ha attaccato anche con bombe a grappolo che lasciano sul terreno ordigni inesplosi, o in paesi al cui interno la Nato ha fomentato la guerra. Come gli interventi di «stabilizzazione dei paesi in situazione di conflitto o post-conflitto», tipo la Libia che, demolita dalla Nato con la guerra, si trova in una caotica situazione di post-conflitto. Tra gli «aiuti umanitari» figurano anche gli interventi «a tutela degli interessi italiani nei paesi di conflitto e post-conflitto», tipo quelli dell'Eni in Libia. Per coprire tali spese si attinge anche ai «fondi di riserva e speciali» del ministero dell'Economia e delle finanze, che così mancheranno quando si dovranno affrontare situazioni di emergenza sociale in Italia. Il ministro dell'economia è inoltre «autorizzato ad apportare le occorrenti variazioni di bilancio», cioè ad accrescere i fondi per le missioni militari. I primi a sostenere il decreto-legge sono i deputati Pd, seguiti da quelli Pdl. L'opposizione (Sel e M5S) si limita in genere a emendamenti che non intaccano la sostanza e a criticare «il fatto che il contributo italiano alla sicurezza internazionale sia di natura esclusivamente militare». Ignorando che, con il suo «contributo militare», l'Italia non rafforza ma mina la sicurezza internazionale, e che quello «civile» è spesso il grimaldello dell'intervento militare.


Arezzo 7 dicembre 2013

Convegno:

"I FALSI AMICI"
Il fenomeno "rossobruni" / I fascisti del terzo millennio / Nazifascismo e Balcani / Nazifascismo e Medioriente / La Fondazione RSI / Infiltrazione nera nell'estrema sinistra / Nazifascismo e nazionalismi

A 70 anni dalla Resistenza
contro le infiltrazioni neofasciste
nelle iniziative di solidarietà internazionale e nelle lotte sociali

AREZZO, SABATO 7 DICEMBRE 2013, ORE 11-18
presso la Camera del Lavoro, via Monte Cervino 24

organizzano:
ANPI - Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, sezione di Arezzo
CAAT - Coordinamento Antifascista Antirazzista Toscano

promuovono:
Un Ponte per... ONG
Coordinamento nazionale per la Jugoslavia ONLUS
Contropiano rivista


ORE 11:00
Interventi degli organizzatori e dei promotori
ORE 14:30
Relazioni ad invito:
Claudia Cernigoi / Fabio De Leonardis / Davide Conti / Marco Santopadre / Vincenzo Brandi
A SEGUIRE
Interventi programmati di gruppi e associazioni


Ingresso a sottoscrizione / Diffusione di documentazione e stampa antifascista / Pranzo in loco
*** Per intervenire è necessario iscriversi inviando la propria richiesta a: jugocoord @ tiscali.it ***

Nel corso del convegno saranno presentati i Dossier "I FALSI AMICI" e "LA FONDAZIONE RSI"

Per il programma dettagliato ed ogni ulteriore informazione o aggiornamento fare riferimento alla pagina:
https://www.cnj.it/INIZIATIVE/falsiamici.htm


Jasna Tkalec rievoca la Grande Rivoluzione d'Ottobre nel 96.mo anniversario


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VIDEO: Ottobre - di Sergej Mikhajlovič Ejzenštejn, 1927 (1h30m)
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Velika Revolucija ili velika tragedija dvadesetog stoljeća?


Prije devedeset i sest godina u Petrogradu


U gradu na Nevi 25 oktobra 1917 po starom kalendaru ili (7novebra novom – ondnosno Gregorijanskom kalemdaru- koji se koristi u Zapadnoj Evropi)- zbio se događaj koji je obilježio stoljeće i na izravan ili neizravan način utjecao na život i sudbinu cijelog vijeka i svih ljudi, št su u njemu rođeni. Nakon 25 oktobra usljedilo je»Deset dana koji su potresli svijet«1 i više ništa i nikada nije i neće biti isto – ma kavu ocjenu boljevičkog Oktobra iznosili njegovi pristalice i zaljubljenici ili pak ocrnjvači i neprijatelji.

I jednih i drugih billo je na milijune i još uvijek se rađaju, stasaju i svrstavaju - čak i kad toga nisu ni sami svjesni ili kad ga se odriču – prema historijskoj vododjelnici, koju je stvorio Oktobar 1917. »Mnogo je dana, mnogo godina, mnogo je strašnih bilo istina2«, u stoljeću o kojem se još uvijek ljutito prepiruu, da li je bilo kratko ili dugo3 i u kojem se pokazala »banalnost zla4« dotad neviđenih razmjera. Oktobar 1917 značio je prekretnicu u cijeloj dotadašnjoj historiju. Prvi put su oni posljednji, oni u ritama i poderanihh cipela, žitelji podzemnih jazbina, radnici izmoždenih lica, izgladnjele žene iz predgrađa, izmučene porodima i neimaštinom, seljaci prozebli i desetkovani u rovovima Prvog svjetskog rata, iznijeli pobjedu: pobjedunad tiranijom, nad licemjerjem i nadutošću imućnih, nad imperijalističkom laži, nad ratom, koji se otegao u nedogled i izložio narode svijeta pogibijama i ogromnim patnjama. Slično kao kod Valmyja5 u Francuskoj revoluciji, kaoi u Pariškoj komuni, pobijedili su oni najbjedniji. Revolucionarni val proširio se cijelom Rusijom i, a jedva nešto kasnije, cijelom Evropom i cijelim svijetom.

Sve se to dogodilo na mjestu u kojom je, snažnom voljom imperatora Petra, sred močvarnog bespuća, na kostima silom dotjeranih i seljaka i radnika bezhljebnika, prisiljenih na kuluk, na sjeveru ogromne zemlje, na hladnom Baltiku, na ušću Neve, nikao čudesan grad.

»Kao san minula su dva stoljeća..: Petrograd koji stoji na kraju svijeta, u baruštinama i pustarama, sanjao je o bezgraničnoj vlasti i slavi; kao u grozničavim vizijama promicali su dvorski prevaranti, ubijstva imperatora, trijumfi i krvava pogubljenja; nejake žene dobijale su polubožansku vlast6; u toplim zgužvanim posteljama rješavala su se sudbine naroda; dolazili su moćni momci snažnih ruku, crnih od zemlje i smjelo se peli prema tronu, da podijele vlast, ložnicu i bizantinsku raskoš.

S užasom su posmatrali susjedi te divlje prohtjeve ćudi. S tugom i strahom pratili su Rusi buncanje prijestolnice. Zemlja je hranila, ali nikad nije mogla da zasiti svojom krvlju petrogradske aveti.

Petrograd je živio bučno-hladnim, prezasićenim noćnim životom. Ljetnje noći s s blijedom fosfornom svjetlošću, ludačke i sladostrasne noći bez sna zimi, zeleni stolovi i šuštanje novca , muzika, iza prozora parovi koji se vrte u igri, objesne trojke, Cigani, dvoboji u osvitu zore, u zvižduki vjetra i oštrom zavijanju flaute – smotra trupa pred bizantijskim očima imperatora, koje izazivaju užas. – Tako je živio grad.

Još u doba Petra Velikog đak iz Troicke crkve, koja je i sada blizu Troickog mosta, ugledao je u mraku vješticu, mršavu nepočešljanu ženu, neobično se uplašio – i viknuo u krčmi: »Petrograd će opustjeti« - zbog toga je bio uhapšen, mučen u Tajnoj kancelariji i nemilosrdno šiban knutom. Tako se, mora biti od tada, počelo misliti da s Petrogradom nešto nije u redu. - Čas bi očevici gledali kako se ulicama Vasiljevskog Ostrva vozio đavou fijakeru. Čas bi se u ponoć, za vrijeme oluje i poplave, survao s granitnog postolja pa jahao na konju imperator od bakra. Čas bi se tajnom savjetniku, koji je prolazio u karucama,unosio u staklo i dosađivao mrtvac – umrli činovnik. Mnogo takvih priča kružilo je po gradu.7«

A te je ratne i revolucionarne jeseni Petrograd bio grozničaviji, veseo do bezumlja, isprepadan nečuvenim događajima i zebnjom od budućnosti – više nego ikada ranije. Tjeskoba je brojne činovnike, carske oficire i šarenu gomilu dama, profitera, balerina, varalica, poznatih imena javnog i i umjetničkog života, zbog nečuvenih događaja, koji su se odigrali u februaru i strepnji pred nejasnom budućnošću, nagonila i tiskala u zagrijane kafane s treštavom muzikom, vukla ih noću u lokale u kojima se prekomjerno bančilo, a danju u dućane, u kojima grozničavo kupovalo, da serastjera strah od sutrašnjiice.

Februarska revolucija

Jer, februarska se revolucija već bila dogodila i nitko ne bi znao pozdano kazati, tko i kako ju je izveo. Zbog dugogodišnjeg rata, koji je opustišio sela i zbog koga se na hiljadama kilometara razvučenom frontu morala izdržavati milijunska armija, cijene hljeba su porasle, radnice i radničke žene nisu ga mogle kupovati, muževi su ginuli na frontu, a djeca skapavala od gladi i zime. Na dan 8 marta – konce, februara mjesec u Rusiji -krenule su žene iz radničke četvrti Putilovke, da protestiraju i zahtijevaju hljeb i smanjenje cijena. Na putu prema centru grada gomila je kolosalno narasla, a na zapovjed kozacima da pucaju na narod ovi- nečuveno, neviđeno – su odbili da to urade!Tako je počela Februarska revolucija – za koju je ipak proliveno nešto radničke krvi. I dogodilo se ono nezamislivo: cara su, kad je iz Mogiljeva, gdje se nalazio bio glavni štab ruskih armija, krenuo vlakom prema prijestolnici, željezničari odbili voziti, a potom ga uhapsili socijal-revolucionari, koji su odmah počeli stvarati Komitete vojničkih i radničkih deputata (delegata) i birati ih u Sovjet (savjet). Vojnici su odbijali slušati oficire, radnici su zahtijevali da i oni odlučuju o proizvodnji, vojnici – čitavi odredi – otkazivali su poslušnosti i odbijali su da idu na front, a na bojišnici se događala još skandaloznija stvar. Umjesto da se tuku odnosno ubijaju neprijatelja – vojnici iz rovova počeli su da se bratime s vojnicima u njima suprotstavljenim rovovima. Pogibije, krv, glad, blato i vlaga rovova, nakon tri godine rata – dosadili su svima.«Evo je početak proleterske Revolucije« uzviknuo je Lenjin. Vojnici-seljaci željesi su kućama i neki su se tamo samoinicijativno zaputili. Po selima su planula imanja, palače i dvorci veleposjednika8, iplemića, koji su mahom živjeli u gradovima, a koje je vlastitm znojem hranio seljački rad. Februarska revolucija započela je samoinicijativno i spontano.


To nikako ne znači da su je bolješevici gledali skrštenih ruku. Njihove ubitačne agitacije carski oficiri bojali su se više nego »karteči»- diejlova rasprskanih granata. Jer su se pod riječima crvenih agitatora trupe topile i nestajale mnogo brže no pod mitraljskom vatrom neprijatelja9. Crveni agitatori govorili su vojnicima, mahom seljacima, kako ih tjeraju u ubilački rat protiv njihovih vlastitih najprečih interesa. Njihov je neveći interes kruh i mir – a ovako propadaju oni,a propada i zemlja u ratu bez kraja i konca, zbog nezajažljivposti imperatosrke porodice, za interese svih onih, koje su seljaci i radnici svom dušim mrzili- za interese bankara, industrijalaca, veleposjednika. Ukratko, za interese svih onih, koji su im sisali krv i derali kožu i u miru, a sad su ih već tri godine držali u smrdljivim rovovima, gdje ih je uništavala artiljska, mitraljeska paljba i boleštine, dok je kod kuće domaćinstvo propadalo, djeca skapavala, a žene kukale. Cara Nikolaja II - koji se nije,odlikovao ni državničkom mudrošću ni oštroumnošću- već bio, kako su ga ogovarali, papučar vlastite žene, njemačke prinzceze u dalekom rodu sa engleskom dinastijom, nije bio ni cijenjen ni voljen. Prilikom njegovog krunisana Vorobjevim brežuljcima10 dogodila se nesreća-pod težinom brojnih gledalaca srušile su se tribine - i bilo je na hiljade žrtava.To je odmah protumačeno u narodu kao koban predznak. Potom je došla 1905, u krvi ugušena pobuna mornara na Crnom moru i razbijene barikade u Moskvi,pa potom krvava februarska nedjelja 1906, kad je na masu pred carskim dvorcem, predvođenu popom Gaponom, koja je nosila križeve, svete ikone i imperatorove slike, vojnicima bilo naređeno da pucaju, a kozacima na konjima, da je sijeku sabljama. Gomila žrtava, pojačana Stolipinovim11 drstičnim mjerama, samo je rasla, da bi se od tisuća pretvorila u milijune u Prvom svjetskom ratu.

Iako su pod komandom generala Brusilova Rusi imali izvjesnog uspjeh na na galicijskom frontu, u Kapartima i tukli i zarobljavali vojnike ustrougarske monarhije, s Nijemcima nije bila ista priča: ruske armijei trpjele su na sjevernom dijelu fronta velike gubitke. Carska porodica kroz cijelo to vrijeme davala je znakove bešćutnosti i gluposti i i dovodila do zabune i bijesa i samu rusku aristokracij. Nije dovoljna bila, vjerojatno istinita, anegdota, kako se car 1906, na dan pogibije naroda pred Zimskim dvorcem, zabavljao igrom preskakanja, odnosno guranja na divanu – tko će biti izguran i pasti na pod. Carica obdarena kćerima, histerična i nesigurna, strepila je za život carevića Alekseja, bolesnog od hemofilije. Kako liječnici nisu znali efikasan lijek za tu degenerativnu bolest, doveden je iz udaljenog sibirskog sela Raspućin: nepismeni seljak ogromnog –seksualnoig –apetita, koji je na dvoru stekao neobičnu moć. Caricu, zabrinutu za život sina jedinca, držao je u šaci, a dvorske dame i žene iz visokih aristokratskih krugova besramno subludničile s divljim Sibircem, zapanjujuće fizičke snage. Na kraju je skovana dvorska zavjera, jer je skandal premašio sve granice, te je Raspućina ubio knez Jusopov sa još dva oficira i bacio ga u Nevu12.

Stotinu lica revolucije u Rusiji

A imperator seizu Mogiljeva na glas o revoluciji uputio ukući, a na putu mu je trebalo biti uručenocaričino pismo, koje je uhvaćeno i otpečaćeno.. Obračunati se bez milosti s neposlušnim buntovnim ološem. Streljati i vješati bez oklijevnja, poručivala je carica. No Nikolaj to više nije mogao: na kraju je zatvoren u ljetnju rezidnenciju s porodicom, dok se revolucija razbuktavala.

Februarska revolucija iznenadila je i boljševičke vođe. Lenjin, Zinovjev , Kamenjev i drugi emigranti, ne samo iz boljševičkog nego i iz menjševičkog dijela Sveruske socijaldemokratske partije, nalazili su se u izbjeglištvu u Švicarskoj13, Trocki je bio u Americi, a Staljin u Sibiru. Iako je, čini se, Staljin prvi doputovao iz progonstva na delekom sjeveru, koje je loše podnosi, on nikako nije bio , kao uostalom ni Zinovjev ni Kamenjev, a ni pisac Gorki, za pretvarnje buržoaske revolucije u proletersku. Smatralo se općenito da u Rusiji prilike još za to nisu još zrele: seljaštvo je bilo zatucano, radništvo malobrojno, a i među ljevicom postojale su podjele osim na boljševike i menjševike u Socijaldemokratskoj partiji i na socijal-revolucionare14, anarhiste i na i nasuprot tome, umjerenije građanske opcije. Na desnici su najvažniju političku formaciju činili kadeti, od slova »ka« i» de« (KD), skrećenice za »Konstitucionalne demokrate«, od kojih je većina bila p ristalica ustavne monarhije.

Nakon aristokrate Ljvova i ekonomiste Miljukova15 predsjednikom vlade pobunjene Rusije postoa je Kerenski, advokat iz pokrajine, koji nastoji lavirati između desnice i ljevice, bez mnogo uspjeha. Već pri formiranju nove vlade, koja je imala proglasiti Konstituantu – Ustavotvornu skupštinu - digli su se ponovo radnci predgrađa, jer se predstavnici vojničkih i seljačkih deputata i njihovi Sovjeti (savjeti) nisu ni u čemu slagali s vladom i njenim odlukama. Na Kerenskog su stalno vršeni pritisci i od sila Antante, koja je željela da Rusija nastavi rat , što bi oslabilo pritisak Nijemaca na Zapadnom frontu. Kerenski je pokušao u julu novu ofanzivu, koja je tragično završila. Nijemci su uznapredovali , a čitavi bataljoni odbijali su poslušnost oficirima.

Kozački general Kornilov, čovjek definiran i od predstavnika desnice kao ličnost »lavlje hrabrosti, a magarećeg mozda«, krenuo je - kad je bilo iz vojnih krugova naređeno hapšenje boljševičkih vođa,-na Petrograd, ali su mu se pred propagandom boljševičkih agitatora trupe, koje su marširale ispred glavnokomandujućeg, razbiježale i nestale kao snijeg na suncu. Jedini koji nisu dezertirali bili su engleski oficiri u ruskim uniformama, koje je Antant snabdjela i tenkovima, a ni ovi ipak nisu uspjeli umarširati u Petrograd i oboriti vladu. Vlada je ostala u sedlu, zahvaljujući odlučnoj pomoći boljševika, ali ne za dugo.

Aprilske teze: Kruha i mira!

Zemlja seljacima –fabrike radnicima!

Naime u mjesecu aprilu 1917 vratio se u zemlju Lenjin (u blindiranom vlaku, koji je prošao zapečaćen kroz Njemačku; u njemu su zajedno putovali boljševički is menjševičkim emigranti ) i došao sa dotad nečuvenom parlom: pretvoriti imperijalistički rat u građanski rat protiv kapitalista!

Odamah po dolasku Lenjin piše i izgovar čuvene »Aprilske teze«, čiji je osnovni sadržaj : kruh i mir! Smjesta prekid imperijalističkog rata i sklapanje mira s Nijemcima (pod bilo koju cijenu -makar i na štetu Rusije16), vraćanje vojnika kućama (u upropaštena sela), fabrike radnicima, a zemlja seljacima! Eto i cijeli revolucionarni program – sve ono što sui milijunske mase ispaćenog naroda, željele iz dna srca. Lenjinove riječi palile su mase i pobuđivale nadu u ostvarenje njegovih vjekovnih aspiracija. Ne, Oktobarska revolucija nije bila jednostavno boljševički puč,kako to sramno prikazuje revizionistička filozofija, danas na potezu, budući da se osjeća pobjedničkom, nego istinski revolucionarni val, koji je od Lenjinovog dolaska rastao poput plime i dopirao do najzabačenijih sela i dalekih gradova i do najudaljenijih frontovskih rovova. Mir a ne rat, kruh, a ne glad! Zemlja je onih, koji na njoj rade, a fabrike onih, koji u njima rade. Može li biti jednostavnije propgande, a ona je ipak ustalasala milijunske mase.

Lenjin: nazvat ćemo se komunisti

Kako se desno krilo SDP17-a i socijalisti-revolucionari nisu (SR- eseri) nisu slagali sa prekidom rata (jer Rusija tako krši obećanja data savezničkoj Antanti) solidarizirali su se sa kadetima , koji su predstavljali desnicu, što je razdražilo boljševike. Oni više nisu željeli pripadati istoj partiji- socijaldemokratskoj – čije je desno krilo, menjševici, bilo za imperijalistički rat od samog početka i paktiralo sa KD-tima, mahom plemićima, koji uopće nisu bili za definitivno obaranje cara, već za ustavnu monarhiju. Tada se Lenjin sjetio termina iz Komunističkog manifesta - naziva komunisti – te zapitao svoje partijske drugove: »Zar se plašite nazvati se komunistima?«.

Nisu se plašili i dosljedno i hrabro su istupili protiv imperijalističkog rata: na vlastitoj strani imali su milijunsku armiju vojnika, koji su svi do jednog željeli prekid ratnog masakra i povratak kućama, radnike u gradovima, siromšne seljake te dobar dio marksističke inteligencije i omladine. Ipak, dok nisu dobili većunu u Sovjetu Petrograda, a predsjednik petrogradskog Sovjeta bio je Lav Trocki, revolucionarni ustanak nije otpočet. On je u Petrogradu započeo kanonadom s krstarice Aurora na palaču vlade odnosno na Zimski dvorac, koja nije dugo potrajala, tako da gotovo i nije bilo žrtava. Zimski dvorac osvojen je jujrišem baltičkih mornara, gdje se između ostalih, boljševicima predao i Ženski bataljon18. U Moskvi je borba potrajala nekoliko dana i bilo je daleko više žrtva. Boljševička revolucija je pobijedila.

Događajima, koji su »potreslisvijet« zavjesa lažne pristojnosti poretka, koji je doveo do svjetskog imperijalističkog rata, naglo je zderana, a imperijalistički rat pretvoren u građanski. Iako ga optužuju za potom nastlo krvoproliće Lenjin nije želio rat, već mir i to smjesta. Otpor krupne buržoazije, carskih oficira i njima vjernog dijela vojske te umjetno izazvana pobuna čeških zarobljenika na Sibirskoj željeznici iu Vladivostiku, kao i intervencija engleskih i japanskih trupa, učinili su građanski rat krvavijim , dužim i težim, no što bi to bio, da jeobračun prepušten isključivo lokalnom stanovništvu. Kako je to izgledalo u drugim gradovima, kao u Kijevu, opisao je majstor pera, Bulgakov, u čivenoj i zamjeranoj mu knjizi, »Bijela garda«.

Sva vlast sovjetima!

»Snage Sovjeta bile su u Petrogradu nadmoćne. Naoružane straže , već su bile formirane i dobro međusobno povezane. Napad je otpočeo kao odgovor na provokaciju Kerenskg, koji je 23 oktobra naredio zatvaranje i zapečaćivanje redakcije i štamparije lista »Pravda«. Radnici i novinari »Pravde« zatražili su od gradskog Sovjeta pomoć vojnih komiteta ta, razbili vladine pečate i nastvili s izlaženjem. Kerenski na to odgovara inkriminiranjem cijelog cijelog Vojno-revolucionarnog komiteta, te pokušajem hapšenja Trockog i ostalih vođa i intenzivnim traganjem za Lenjinom (koji se nalazio u domu Alilujevih).19 Trockij je naredio krstarici Aurora, koja je bila usidrena na obalama Neve,da puca na Zimski dvorac, gdje je bilo sjedište vlade. Parola, koja je digla ustanike na noge bila je: »Sovjet je u opasnosti...6

Noću, između 24 i 25 Oktobra regularni vojnici i crvena garda, sastavljena od petrogradskih radnika, munjevitom su brzinom u sjajnoj sinhronizaciji okupirali sve neuralgične točke grada: mostove na Nevi, telfonske centrale, električne centrale, nacionalnu banku, poštanske urede, željezničke stanice. Kanonada s Aurore počele je u 9 sati uvečer i trjala samo nekoliko sati.«20

Za to vrijeme na drugom kraju grada, ali još uvijek u centru, nitko nije imao pojma što se događa. John Reed piše kako su trmavaji još uvijek vozili, »izvoščici21» fijakera čekali mušterija na uobičajenim mjestima, kafane i restorani bili krcati i iz njih je treštala muzika,kazališta i zabavišta radila su punom parom. Osim naoružanih mornara na mostovima Neve,već od februara rezgnirani petrograđani, nisu ni opažali, da se nešto iznimno veliko događalo te noći...

Osvajanje Zimskog dvorca bilo je povjereno dugokosom Antonov-Ovsjenku, jednom od vođa Vojno-revolucionarnog komiteta. Bombardiranje s Aurore potrajalo je samo koji sat: vlada se predla, a Kerenski je u automobilu francuskog ambasadora pobjegao iz glavnog grada.

Piše Natalija Sedova, žena Lava Trockog22: 26 oktobra (8 novembra) došla sam u Smoljni. Vidjela sam samo lica izobličena od umora , neobrijana, duboke podočnjake ispod natečenih očiju. Lav Devidovič imao je imao nategnute crte lica, bio je umoran i blijed. Ali velika radost, stroga, ali snažna, nadječavala je sve ostala osjećaje. Sati i dani prolazili su grozničavo«...

Lenjin će reći 265 oktobr,aodnosno (7 novembra): »Drugovi! Radnička i seljačka revolucija, o čijoj su nepohodnosti sve vrijeme govorili boljševici, izvršena je. Kakav značaj ima ta radnička i seljačka revolucija? Prije svega značaj tog prevrata sastoji se uu tome,što ćemo imati sovjetsku vladu, naš vlastiti oorgan vlasti bez ikakvog učešća buržoazije.Ugnjetene mase same će stvoriti vlast. Potpuno će biti razbijen stari državni aparat i bit će stvoren novi aparat uprave u vidu sovjetskih organizacija«23.

Ispred Ssmoljnog crvena garda i crveni mornari s Baltika, omladina, radnci i vojnici spjevali su pjesmu, koja je odzvanjala ulicama Petrograda, Moskve, kasnije cijele Rusije, a njeni odjeci ćut će se u Njemačkoj, Mađarskoj, pa čak i u udaljenoj Boki Kotorskoj24, gdje je zbog revolucionarnog pokušaja streljano nekoliko mornara. A pjesma je glasila:»Mi izdali smo manifest, za glas Sovjeta/ i život ćemo dati u borbi za naša prava ta25

Umjesto zaključka

Ta je borba, usprkog svih prljavih insunuacija revizionističkih nadrihistoričara, nadriprofesora i nadripublicista, obasjala svjetlom slobode proteklo stoljeće. Istina je, na zastavu revolucije nije samo jedanput pljunuto i to od strane onih, koji su je nosili i nije samo jedanput ona završila u blatu i umjesto oslobođenja, donosila narodima, ono što su osjećali kao neslobodu, nametanje i porobljavanje. Marx je odavna napisao kako »...Shvatanje prošlih genracija, kao mora pritiska mozak živih«.

Imperijalističkih težnji nije se odricala, nažalost, ni zemlja u kojoj je revolucija rođena i pobijedila. No bar dio krivice za njenu tragediju snose i razvijene zemlje – u kojima je ona pobačena. Odnosno zemlje u kojima je danas socijaldemokracija toliko izvitoperena i iznakažena, da se ne samo pretvorila u oruđe buržoazije, nego je, vjerojatno zauvjek, kompromitirala vlastiti naziv i vlastitu prošlost. Ona nije više postala samo patuljak na leđima diva – slavne prošlosti revolucionarnog radničkog pokreta – nego i opasan i podao meprijatelj. No pod ovim ili onim nazivom, na svakom kontinentu, u svakoj zemlji i u svako vrijeme drugačije, borba koju he započeo boljševički Oktobar, se nastavlja. Zato ga se ne smije zaboraviti i treba ga se sjetiti s dužnim poštovanjem.

Jasna Tkalec


1 John Reed (Portland 1887 –Moskva 1920), bio je novinar i militantni komunist iz SAD-a. Proslavio se knjjigom o boljševičkom Oktobru :Deset dana, koji su potreslisvijet.


2 Aleksa Šantić(( 1969-1924)


3 Eric Hobsbawm (1914-1991), Kratko stoljeće,naslov je knige, kojom ovaj ljevičarski historičar opisuje stoljeće najvećih znanstvenih i tehničkih dostignuća, svejtskih ratova, sve do sloma SSSR-a te posrnuće ideje socijalizma. I


4 Hanna Arendt (1906-1975) autor je knjige Banalnost zla


5 Kod Valmyja 1792 dobrovoljačka vojska revolucionarne Francuske izvojevala je pobjedu nad regularnom armijom puskih genrala, koji su držali područje od Denquerqua do švicarske granice; biltka se smatra sudbonosnom za Francusku revoluciju.


6 Misli se na caricu Jelisavetu (bila na tronu od 1741-1762) i na Jekaterinu Veliku (carevala od 1741 -1792), poznatu po utjecaju prosvjetitelja, po ratovima i po proširenju granica carstva i velikim ljubavnim apetitima.


7 Aleksej Tolstoj (1883-1945), »Hod po mukama«.Prvi dio knjige »Sestre« A. Tolstoj počeo je pisati još 1919, a djelo je završeno i izdano tek 1929. Drugi tom »Mutno jutro« izdano je tek 1939.


8 Tu su pojavu nazvali »crveni pijetao». Većina plemičkih dvoraca i palača zemljoposjednike bila jezapaljena i opljačkana još za Februarske revolucije, iako se kasnije sve to stavilo na račun boljševika i građanskog rata.


9 Churchil je tokom Građanskog rata odbio ponuđeno sklapanje primirja Kornilovljevih trupa potpomognutih Englezima s boljševicima, koji su ga tražili radi doturanja hrane izgladnjelom civilnom stanovništvu. Churchil je bio mišljenja, da će se pod agitacijom »crvenih« vojska »bijelih« prije razbježati i dezertirati, nego pod njihovom oružanom vatrom.


10 Vorobjove Gori, brežuljci u okolici Moskve. Za vrijeme krunidbenog slavlja, u noći 26 maja 1896, pod težinom gomile popustile su daske stepeništa i provizorna tribina te je bilo zgnječeno i izgubilo život oko 2.000 ljudi.


11 Stolipin, Ministar unutarnjih poslova Nikolaja II.


12 Navodno je nalaz liječničke autopsije utvrdio da se Raspućin utopio: ni cijeli šaržer revolverskih hitaca, ni udarci sabljom, koje je zadobio, nisu bili dovoljni da usmrte sibirskog diva.


13 Lenjin je bio u Zürichu.


14 Partija Esera (socijalista –revolucionara-SR) osnovana je na sjeveru zemlje 1901 od Katarine Breško i Černjeva. Ovaj posljednji bio je ministar u vladi Kerenskog.


15 Pavel Miljukov, znastveni radnik, pripadao je desnici. Pošto je izgubio sina u Prvom svjetskom ratu bio je pristalica vođenja rata »do konačne pobjede«.


16 Rezultat toga bio je Brest-Litovski mir, koji Trocki nije imao snage potpisati, te ga je u ime boljševičke vlasti potpisao drugi izaslaniki. Njemački građanski političari, učesnici pregovora, shvatali su situaciju u Rusiji i bili donekle skloni komopromisima, ali pruski generali pokazali su gvozdenu nepopustljivost. Brest-Litovskim mirom, potpisanim 3 marta 1918 (otada Rusija koristi Gregorijanski kalendar) izgubljna je Istočna Poljska, Ukrajina, Zakavkazje, Litva, Kurlandija Livonija i Estonija. Jedino je Lenjin ostao čvrsto na strani mira, kojeg je odmah nazvao „imperijalistički mir.


17 Ruske socijaldemokratske partije


18 Dugo je kolala šaljiva anegdota da su sve nevolje XX stoljeća, započete Oktobarskom revolucijom, mogle biti izbjegnute, da se „sumnjice damice“ iz Zimskog dvorca nisu tako brzo predale.


19 Alilujevi, revolucionarna porodica iz Bakua, istakla se još u revoluciji 1905. Krili su Lenjina, a Staljin im je zalazio u kuću. Kasnije će Staljin oženiti najmlađu kćer,Nadeždu Alilujevu, koja će završiti život samoubojstvom. Postoji legenda o „tragičnoj sudbini Alelujevih“, jersu potom gotovo svi pohapšeni i pomrli u Sibiru. Zajednički sin Nadežde i Staljina, Vasilij, bio je pilot u DrugomI svjetskom ratu, čije je avion bio pet puta obaran .Pposlije Staljinove smrti poslan je na vojnu službu u provinciju, gdje je poginuo, izgleda, u kafanskoj tuči.


20 Dosie Mondadori,Trotskiy, pro e contro,


21 Kočijaši


22 Dosie Mondadori, zrotsky, pro e contro


23 Lenjin, Referat o zadacima sovjetske vlasti,sjednica petrogradskog sovjeta radničkih i vojničkih deputata,P&s 35,2.


24 Pobuna je izbila 1. februara 1918 na austrougarskim brodovima Sankt Georg i Gea, Vođe pobune, kasnije streljani bili siu Ras, Šizgović, Grabar i Braničević. Po ugušenju pobune, koja je potrajala svega dva dana,jer je iz Puke poslana flota da je savkada, preko dvije stotine mornara s pobunjenih brodova bilo je osuđeno na dugogodišnje kazne robije


25 »Mi vidali manifest, dla vlast Sovjetov, i žizn mi dadim v nprbe pro eto! – ruski tekst pjesme.





(Este artículo en castellano: La complicidad de algunos intelectuales en la guerra imperial contra Siria
Ángeles Diez - Texto correspondiente a la conferencia impartida en el Ateneo de Madrid el 9 de septiembre de 2013
http://lapupilainsomne.wordpress.com/2013/09/19/la-complicidad-de-algunos-intelectuales-en-la-guerra-imperial-contra-siria/

Cet article en français: Les intellectuels au service de la guerre contre la Syrie
par Angeles Diez - 7 octobre 2013
L'affaire de la Syrie est l'une des plus exemplaires mettant clairement en évidence le rôle de légitimation de la guerre joué par des intellectuels réputés de gauche...
http://www.michelcollon.info/Les-intellectuels-au-service-de-la.html )


http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/23054-gli-intellettuali-al-servizio-della-guerra-contro-la-siria.html

Gli intellettuali al servizio della guerra contro la Siria

di Angeles Diez Rodriguez* | da www.michelcollon.info

Traduzione dal francese di Massimo Marcori per Marx21.it

*Angeles Diez Rodriguez è Dottore in Scienze Sociali e Politiche e Professore all’Università Complutense di Madrid (UCM).

Testo della conferenza tenuta all’ateneo di Madrid il 9 settembre 2013, tradotto in francese dal Collettivo Investig'Action

Il caso della Siria è uno dei più esemplari a mettere chiaramente in evidenza il ruolo della legittimazione della guerra svolto dagli intellettuali ritenuti di sinistra. Numerosi di questi hanno scelto di mettersi al servizio della guerra mediatica contro la Siria, investiti dall’aura illustre portatrice dei principi morali occidentali. Dall’alto dei loro scranni nei grandi media come pure dei media alternativi, essi elaborano spiegazioni, giustificazioni e rapporti che presentano come principi etici quando in realtà si tratta di loro personali opinioni politiche. Essi ridicolizzano, manipolano e deformano le posizioni dei militanti antimperialisti. Si permettono anche di dare lezioni ai governi latino-americani che difendono la sovranità e il principio di non ingerenza, e che dunque si oppongono alla guerra contro la Siria.

Nel giugno del 2003 nell’ambito della guerra e occupazione dell’Iraq, non era molto difficile, negli ambienti universitari, in quelli della cultura e dei militanti di sinistra, che si levassero migliaia di voci contro la guerra; siamo stati in grado di riconoscere le trappole medianiche, capaci di scoprire gli interessi dell’impero americano e dei suoi alleati, di svelare le menzogne e soprattutto di stabilire le priorità nella mobilitazione e la denuncia. Non abbiamo potuto fermare la guerra né l’occupazione dell’Irak ma abbiamo posto le fondamenta di un movimento antimperialista che avrebbe potuto costituire il freno a mano della barbarie bellicista e che, in un modo o nell’altro, aveva permesso il rinviò dell’obiettivo di proseguire la neocolonizzazione della zona.

Se nel 2003 fu relativamente facile mobilitarci contro la guerra in Iraq e i piani imperiali americani, cosa che non ha avuto il significato di appoggiare una qualunque dittatura, oggi molti ci pongono la domanda: cos’è successo perché non sorga o non continui il movimento che fece la sua apparizione nel 2003? Sicuramente, diverse sono state le ragioni intrecciate tra loro, ma preferirei distinguerne due che mi sembrano centrali: i mezzi di comunicazione di massa hanno fatto un buon lavoro di dissuasione e una parte degli intellettuali di sinistra che prima erano riferimenti politici contro la guerra, hanno scelto di servire l’altro campo.

Intellettuali di sinistra al servizio della legittimazione bellicista.

Che i media di massa mentano, deformino, occultino, evidenzino, diano una forma e un volto ai nostri nemici è un’evidenza ripetuta molte volte nella storia. Essi fanno questo non perché sono gli strumenti del potere, no, essi lo fanno perché sono parte integrante del potere. Ma la giustificazione delle guerre, la “costruzione del consenso” come direbbe N. Chomsky, non si fa solo attraverso le corporazioni mediatiche. La propaganda è un sistema nel quale si inseriscono le imprese dei media, la classe politica e i suoi discorsi, la cultura occidentale onnipotente e colonialista, i giornalisti, gli artisti, gli intellettuali, gli universitari e i filosofi mediatici. Tutti questi intellettuali si sono trasformati in un “chierico secolarizzato” che “sceglie di giocare un ruolo fondamentale nell’interiorizzazione dell’ideologia della guerra umanitaria come un meccanismo di legittimazione” (Bricmont, 2005). Alcuni coscientemente, altri non del tutto, si sono messi al servizio della propaganda della guerra imperialista.

Ciò che è interessante è che questa schiera di creatori d’opinione pubblica si reclutava prima nei ranghi conservatori, tra i liberali e parte tra i socialdemocratici (ricordiamo la campagna del PSOE con “Ingresso nella Nato? No!” [http://elordenmundial.files.wordpress.com/2013/06/otano.jpg]) ma dalla guerra in Yugoslavia (1999), sono reclutati sempre più numerosi i gruppi di intellettuali che provengono dai rivoluzionari di sinistra, anticapitalisti e antimperialisti. Essi lo giustificano con argomenti morali universali e umanitari: lottare contro le dittature (ovunque esse siano) e difendere la causa dei popoli (a prescindere che essi siano le donne afgane, gli insorti libici, i manifestanti siriani, o la parte del popolo che l’opinione pubblica generale segnala come vittima delle dittature.

Alcuni di questi intellettuali furono figure di spicco del “No alla guerra” contro l’Iraq nel 2003; tuttavia dall’inizio di quelle che sono chiamate “le primavere arabe”, essi suonano nella stessa orchestra dei loro governi sostenendo il rovesciamento del tiranno B. Al-Assad e la Transizione democratica siriana; ve ne sono anche di quelli che chiedono l’intervento militare dell’Occidente come la scrittrice Almudena Grandes: “tutto sommato si tratta di Assad, un dittatore, un tiranno, un assassino che rimarrà l’unico beneficiario del non intervento.”

Si può supporre che per costoro Saddam Hussein fosse meno dittatore di Bashar Al-Assad o forse che si trattasse del fatto che in questa guerra c’erano centinaia di migliaia di cittadini nelle strade che gridavano “No alla guerra!”, cosa che non succede oggi.

Il ruolo che esercita questo “clero secolarizzato” è doppio, da un lato fornisce argomenti che giustificano l’intervento armato, dall’altro divide, indebolisce o blocca, ogni volta con crescente intensità, l’emergenza di una forte opposizione alle guerre imperialiste.

A volte per ignoranza politica, altre per errore, ma più spesso a causa di uno strisciante sentimento di superiorità morale in quanto intellettuali del mondo sviluppato, questa “sinistra” ha interiorizzato gli argomenti della destra. Secondo Bricmont, essa si è evoluta in due atteggiamenti: A) in ciò che viene chiamato imperialismo umanitario, che si appoggia sulla credenza che “i nostri valori universali” (l’idea della libertà, la democrazia) ci obblighino ad intervenire ovunque. Sarebbe una sorta di dovere morale (diritto d’ingerenza). B) il “relativismo culturale” che parte dal principio che non ci sono buoni o cattivi costumi. Avremo il caso in cui un movimento wahhabita o fondamentalista si ribelli ad una forma di repressione e venga applaudito in quanto “i popoli non si sbagliano”o, come mi ha spiegato un filosofo spagnolo, “quando i popoli parlano, la geostrategia tace”.

Strane coincidenze per la libertà e la democrazia

Il dominio imperiale è sempre militare ma necessita di un’ideologia che lo giustifichi per eliminare le resistenze di retroguardia. Oggi, grazie alla complessità del sistema di propaganda sempre più sofisticato e tecnicizzato, gran parte della costruzione di questa ideologia legittimante è nelle mani di una sinistra, al momento ancora rispettabile, che per l’opinione pubblica conta in credibilità critica grazie al suo curriculum come la difesa della causa palestinese. Il nucleo essenziale dei discorsi legittimanti si è spostato dalla “libertà” ancora classica, alla criptica “dignità”, e conserva la “democrazia” e i diritti dell’uomo come parole d’ordine. La democrazia, come sognata dal filosofo Santiago Alba serve da utopia leggera per raccogliere adepti e confondere i desideri con la realtà.

Tuttavia, vi sono circostanze in cui la parola d’ordine di libertà emerge come la fenice quando il pubblico al quale si rivolgono è troppo occidentalizzato per svelare l’enigma della “dignità”. Bricmont afferma che nel momento in cui l’impero abbandona il linguaggio della libertà perché non più credibile, questo clero umanitario lo riprende. Così, all’appello della campagna di solidarietà globale con la rivoluzione siriana firmato tra gli altri da G. Anchar, S. Alba e Tariq Ali, il cui titolo è “solidarietà con la lotta siriana per la libertà e la pace”, in appena due pagine la parola libertà viene utilizzata 14 volte.

Man mano che la guerra mediatica contro la Siria si è rafforzata, sono aumentate le coincidenze tra i rapporti imperialisti ed i discorsi di coloro che intendono appoggiare i “rivoluzionari siriani”. Seguiamo gli esempi più evidenti e compariamo “l’appello di solidarietà globale con la rivoluzione siriana” con la dichiarazione comune sulla Siria firmata da 11 paesi nel quadro della riunione del G20, una proposta degli USA per forzare un fronte di paesi ad appoggiare l’intervento armato.

Nell’appello del clero umanitario si iscrivono i seguenti argomenti:

  1. In Siria vi è una rivoluzione in cammino.
  2. L’unico responsabile delle uccisioni, della militarizzazione del conflitto e della polarizzazione della società è Bashar Al-Assad.
  3. Occorre sostenere i rivoluzionari siriani perché lottano per la libertà a livello regionale e mondiale.
  4. Occorre sostenere una transizione pacifica fino alla democrazia affinché i siriani decidano da loro.
  5. Si invoca una “Siria libera, unificata e indipendente”.
  6. Si chiede l’aiuto per tutti i siriani rifugiati o trasferiti all’interno.

 

Sul web della Campagna si presenta il testo dell’appello specificando che “la rivoluzione del popolo dev’essere appoggiata con tutti i mezzi” – pensiamo che tutti i mezzi significhi tutti i mezzi – e si esige che B. Al-Assad dia le dimissioni, che sia giudicato e che si ponga fine al sostegno militare e finanziario al regime siriano, unicamente al “regime siriano”.

Da parte sua, la dichiarazione comune degli USA e dei suoi alleati [ http://www.whitehouse.gov/the-press-office/2013/09/06/joint-statement-syria ], tra cui curiosamente non si trova alcun paese latino americano e di cui l’unico arabo è l’Arabia Saudita, espone i seguenti luoghi comuni:

 

  1. Condanna esclusivamente il governo siriano che considera il responsabile dell’attacco con le armi chimiche.
  2. La guerra contro la Siria è per difendere il resto del mondo dalle armi chimiche, evitandone la proliferazione.
  3. L’intervento tenterebbe di evitare danni maggiori: “una grande sofferenza del popolo siriano e l’instabilità regionale”.
  4. Si condanna la violazione dei diritti dell’uomo “da tutte le parti”.
  5. Si invoca un’uscita politica, non militare e si dice: “siamo impegnati verso una soluzione politica che si traduca in una Siria unita, unificata e democratica”.
  6. Si fa appello all’assistenza umanitaria, ai donatori e all’aiuto per i bisogni del popolo siriano.

 

Nella comparazione dei due testi, ciò che sorprende è che il primo diffonde un atteggiamento più bellicista, non riconosce che vi sono due fazioni nel conflitto, il conflitto si riduce a Bashar Al-Assad, si giustifica l’appoggio ai “rivoluzionari siriani” perché stanno compiendo la rivoluzione mondiale, non si prospetta alcuna uscita politica ma la disfatta del governo siriano. Si direbbe che questo appello sia stato redatto da una delle fazioni in conflitto che si arroga il diritto di essere il portavoce dell’intero popolo siriano.

Le trappole del linguaggio: “Noi condanniamo l’intervento, né con gli uni né con gli altri, i popoli hanno sempre ragione”

La costruzione dell’ideologia dell’imperialismo umanitario ha avuto molti percorsi. Come dicevamo all’inizio di questo intervento, questa è stata lo stendardo della sinistra benpensante (di cui una parte legata al trotskismo della 4° internazionale) che dalla guerra contro la Jugoslavia (1999) iniziò a dare forma ad un discorso moralista di comodo, che la omologava come “sinistra rispettabile” pur dichiarandosi “anticapitalista”.

Se analizziamo alcuni di questi discorsi sulla Siria, troviamo annotazioni che si ripetono. In primo luogo bisogna sempre capire il punto di partenza antimperialista e negare che si è al fianco “dell’intervento militare straniero” come fa G. Achcar nell’articolo “Contro l’intervento militare straniero, appoggio la rivolta popolare siriana”. O come S. Alba in “Siria, l’intervento sognato” che termina con un “condanno, condanno, condanno l’intervento militare degli USA”.

V. Klemperer diceva nel suo libro, ”la lingua del terzo Reich”, che il linguaggio rivela ciò che una persona intende nascondere deliberatamente, agli altri o a sé stessa, e questo succede inconsciamente. Il clero umanitario non è a favore dell’intervento militare ma si sente in obbligo di ripeterlo costantemente nei propri scritti e conferenze come se il pubblico cui si rivolge non fosse del tutto convinto. Esso conviene anche del parlare di guerra e per questo utilizza costantemente l’eufemismo “intervento militare straniero” o “intervento militare americano”.

Né per gli USA, né per B. Al-Assad. L’equidistanza è senz’altro un rifugio ideale per le buone coscienze e a vantaggio dell’ambiguità che consente di posizionarsi da un lato o dall’altro a seconda dell’evoluzione degli avvenimenti. Si tratta di una falsa simmetria che pone sullo stesso piano l’aggressore e l’aggredito. Se ci dichiariamo neutrali in una situazione in cui uno stato o un gruppo di stati minacciano e dichiarano guerra ad un altro, in realtà, appoggiamo la ragione del più forte. Non è la Siria che ha dichiarato guerra agli USA o all’Europa mentre la potenza e la capacità militare della Siria è incomparabile di fronte all’impero USA ed ai suoi alleati (armi chimiche, nucleari e convenzionali).

La posizione “né-né” non convince il clero umanitario che tenta in ogni modo di far pendere le opinioni al fianco della fazione in cui si trovano i cosiddetti “rivoluzionari siriani”. In questo tentativo, non si risparmiano gli aggettivi contro il governo siriano e il suo presidente, e passano sopra alla realtà e la veridicità dei fatti: abbiamo così S. Alba che dice che è un fatto inconfutabile che “indipendentemente dal fatto che abbia o meno usato le armi chimiche contro il suo popolo, il regime dittatoriale della dinastia Assad è il primo e diretto responsabile della distruzione della Siria, della sofferenza della sua popolazione e di tutte le conseguenze, umane, politiche e regionali che ne derivano”.

Un altro luogo comune tra i classici è quello di porsi al fianco dei popoli. Qui abbiamo uno scoglio difficile da superare poiché, nella questione delle primavere arabe, i governi imperialisti si sono collocati chiaramente a favore dei popoli e sono stati i primi a mostrare il loro appoggio ai “rivoluzionari” siriani. La spiegazione più rocambolesca di tali intellettuali umanitari è la pura coincidenza, il cinismo o le perverse intenzioni dell’impero USA che fornisce l’appoggio ai popoli arabi per appropriarsi in seguito di queste rivoluzioni e imporre i propri interessi. La realtà è, secondo loro, che né gli USA né l’Europa erano interessati ad intervenire militarmente in Siria. Ma quando “i ribelli e i rifugiati siriani”, come in precedenza hanno fatto i ribelli libici, dichiarano di “reclamare l’attacco alla Siria da parte degli USA”, la definizione di “rivoluzionari” e quella di “popolo” si complica, perché qual è quel popolo rivoluzionario o quella parte di popolo che richiede ad altri stati un attacco militare?

Vista la complessità della situazione, ci rifugiamo nei nostri principi.

Noi possiamo denunciare i grandi media, i politici e i pubblicisti che continuano a venderci la guerra con la stessa retorica moralista e con pratiche ciniche, ma il problema è che questo funziona, almeno con le persone con scarsa coscienza. La novità è che oggi costoro dispongono di uno stuolo di filosofi, intellettuali e artisti che si vendono come celebrità mediatiche, anche se in ambienti alternativi, che credono anche a quello che dicono, credono realmente di difendere i diritti dell’uomo e di essere al fianco dei popoli, ma la loro funzione è stata quella di accompagnare i discorsi imperialisti e di bloccare l’emergenza dei movimenti d’opposizione alla guerra impantanandoci in discussioni sterili sulle loro posizioni.