Informazione


Vera e falsa critica del negazionismo

0) Link consigliati
1) "Dall'Olocausto alle Foibe il negazionismo sara' reato"
Tripudio della lobby neo-irredentista per il nuovo progetto di legge che mira a colpire la libertà di ricerca, di insegnamento, di espressione e di pensiero
2) Al negazionismo si risponde con le armi della cultura non con quelle del diritto penale
Durissima, opportuna presa di posizione della Giunta delle Camere Penali contro il nuovo progetto di legge 
3) Martino Cervo su Libero: “Il reato di negazionismo è follia” 
Più lucidi a destra che a sinistra? La battaglia contro l'introduzione del nuovo reato è una battaglia per i diritti elementari
4) FLASHBACKS:  
* CONTRO IL NEGAZIONISMO PER LA LIBERTÀ DI RICERCA (2007)
L'appello degli storici, completamente obliato. Dopo 6 anni, si precipita all'indietro...
* Condanna dell'ebreicidio e condanna delle infamie coloniali del Terzo Reich
di Domenico Losurdo - da l'Ernesto rivista comunista, n. 1-2 2007


=== 0: LINK CONSIGLIATI ===

L'iniziativa parlamentare recentemente rilanciata (dopo l'opportuno "blocco" della Legge Mancino nel 2007), con la quale si vorrebbe introdurre uno specifico reato di "negazionismo", ci trova in totale e completo disaccordo. E' una iniziativa molto pericolosa e suscettibile di prestare il fianco ad ogni abuso nella strumentalizzazione della Storia... Alle menzogne in campo storico si deve ribattere con gli argomenti, cioè con i fatti; la credibilità di chi "fa storia" si valuta con gli stessi strumenti di valutazione usati in altri campi scientifici ("peer review"), altrimenti abbiamo solo una "storiografia ufficiale" o "di regime" ovvero una "storiografia del più forte"... Altri sono i reati che dovrebbero essere considerati, ed in base ai quali si dovrebbe molto più spesso condannare e punire: è curioso invece che in Italia reati come quello di "incitamento all'odio razziale" o l'altro di "ricostituzione del partito fascista" siano applicati rarissimamente... 

La proposta di legge (che è poi un emendamento alla legge Mancino), primo firmatario Felice Casson:
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/703064/index.html

Il problema, come al solito, non è solo italiano ma dipende da imposizioni incombenti a livello europeo. Sono iniziative liberticide che "lor signori" cercano di attuare da anni, con il preciso scopo di tappare la bocca alle interpretazioni non-ortodosse dei fatti attuali, più ancora che sui fatti del passato: una minaccia concretissima è che ad es. siano vietati i libri che abbiamo prodotto su Srebrenica, caso sul quale esistono già "pezze d'appoggio" giuridiche come le sentenze del "Tribunale" dell'Aia o le deliberazioni del Parlamento Europeo...

Il testo dello statuto della Corte penale internazionale di cui si parla nella proposta di legge:
http://files.studiperlapace.it/spp_zfiles/docs/romastat.pdf

EU proposes to send to jail those denying genocide in Africa or Balkans
February 2, 2007

Il problema, come al solito, non è solo italiano! La polemica sta infuriando ad esempio anche in Belgio, ed in Spagna:

La libertad de expresión del fascista
Ana Valero - 17 octubre, 2013

In Italia la questione sembrava essere stata chiusa, ragionevolmente, nel 2007. Da rileggere in proposito:

Negazionismo e Stato. La verità storica non s’impone per legge
Angelo d'Orsi (Storico, docente dell'Università di Torino), 24 gennaio 2007

La ricerca storica è ricerca scientifica
di A. Martocchia - su "La Voce" del Gruppo Atei Materialisti Dialettici di aprile 2007
http://www.resistenze.org/sito/te/cu/sc/cusc7c08-001203.htm

CHI FABBRICA I NAZISTI?
Violenza nera, fascino del male e fallimento della Legge Mancino
di Wu Ming 1 - 3 dicembre 2006
http://www.carmillaonline.com/2006/12/03/chi-fabbrica-i-nazisti/

(a cura di AM per CNJ-onlus)


=== 1 ===

 
DALL'OLOCAUSTO ALLE FOIBE IL NEGAZIONISMO SARA' REATO - 17ott13

Chi negherà il dramma delle Foibe, così come la Shoah, rischierà oltre 7 anni di carcere. Lo prevede la   nuova norma anti negazionismo approvata dalla Commissione Giustizia del Senato, che ora dovrà essere esaminata dall’aula. Chi istiga o fa apologia relativa a «delitti di terrorismo, crimini di genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, la pena è aumentata della metà. La stessa pena si applica a chi nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità».

Poche righe che vengono associate comunemente alla Shoah ma che vanno a coinvolgere anche altre realtà. Foibe comprese. «Il testo della legge parla chiaro» conferma il senatore del Pdl, Carlo Giovanardi che, al pari del socialista Enrico Buemi, si è astenuto dopo che è stata bocciata la sua proposta di limitare la norma all’Olocausto, lasciando fuori altre questioni ancora aperte, tra cui quelle relative al confine orientale.

L’emendamento approvato dalla Commissione Giustizia del Senato va a modificare il codice penale e comporta una pena massima di sette anni e mezzo. La norma, presentata da tutti i gruppi e votata a larghissima maggioranza, va a modifica l’articolo 414 del codice penale, che riguarda l’istigazione a delinquere. Se qualcuno istiga a commettere reato la pena può variare da 1 a 5 anni, con l’articolo approvato in Commissione Giustizia si aggiunge un aggravio del 50% di pena da scontare nel caso l’istigazione riguardi atti terroristici o crimini contro l’umanità e nel caso si negazione di genocidi o crimini di guerra.

Il provvedimento è al centro anche di un caso politico-istituzionale: il presidente del Senato, Pietro Grasso, aveva avanzato la richiesta di approvare in sede deliberante il ddl, facendolo appunto diventare legge direttamente in Commissione senza il passaggio in aula. Ma il Movimento 5 Stelle ha detto no insieme a Buemi; quest’ultimo avrebbe prima minacciato le dimissioni («non si può fare carta straccia delle regole», ha dichiarato) salvo poi cambiare idea a favore della richiesta di Grasso. Troppo tardi, però, perché il provvedimento è tornato alla presidenza che ora dovrà convocare i capigruppo per calendarizzare l’esame del disegno di legge.

I grillini, tramite il senatore Maurizio Buccarella, hanno accusato Grasso di volere attuare un colpo di mano. «Noi vogliamo che decida il parlamento, l’Aula del Senato in un dibattito pubblico su una materia delicatissima e piena di rischi anche alla luce del testo oggi redatto» ha aggiunto l’esponente pentastellato. Grasso ha parlato di «occasione mancata» e ha spiegato che la sua richiesta era soltanto «il tentativo che un’iniziativa parlamentare fosse finalmente accelerata in un momento simbolicamente importante. Non ci siamo riusciti per la democrazia, adesso ne discuteremo in Aula».

Forti le critiche nei confronti del Movimento 5 Stelle, da Anna Finocchiaro (Pd), secondo cui i grillini «dicono no a tutto» a Renato Schifani (Pdl) che si rammarica di come « anche un disegno di legge di così grande civiltà, diventi strumento di un’incomprensibile lotta politica». «Sono convinto che sarà presto completato l’iter parlamentare» sostiene il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, secondo cui siamo di fronte a «una affermazione importante di attaccamento a principi di libertà e tolleranza». Secondo il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, la norma «rappresenta un importante strumento innovativo per tentare di arginare alcuni fenomeni di antisemitismo e di negazione di gravi fatti storici. Esistono infatti episodi del nostro passato storico la cui valutazione negativa è pacifica e non può essere messa in discussione, costituendo la base culturale, l’origine fondante della nostra democrazia. Ai fini dell’individuazione dei crimini, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, dovrà comunque sussistere - spiega Ferri - per la sussistenza del reato, una attività di apologia concretamente idonea a provocare la commissione di delitti da parte di altri».

Renato Schifani, presidente dei senatori del Pdl, l’approvazione del testo di legge in Commissione Giustizia «è un risultato di grande valore per il nostro Paese. Tanto più importante perché arriva alla vigilia di una giornata di enorme significato per le vittime della ferocia nazista. Da oggi in poi sarà impossibile negare l’evidenza di una tragedia che ha segnato drammaticamente il secolo scorso». Giuseppe Lumia, capogruppo del Pd in Commissione, sottolinea come «finalmente si recepisce quanto previsto dalla Convenzione internazionale di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e si contrasta il risorgere di una subcultura dell’intolleranza che ha generato violenza e morte».

La nuova legge che punisce il reato di negazionismo è, secondo il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, «una medicina contro gli spacciatori di odio. L’Italia si allinea ad altri 14 Paesi che hanno già normative simili - ha aggiunto davanti alla sinagoga della Capitale prima della cerimonia per i 70 anni dal rastrellamento nazista del Ghetto -. La nuova legge darà serenità agli ultimi sopravvissuti alla Shoah, che ieri alla notizia dell’approvazione hanno pianto».

Roberto Urizio
www.ilpiccolo.it 17 ottobre 2013


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http://www.camerepenali.it/news/5502/Al-negazionismo-si-risponde-con-le-armi-della-cultura-non-con-quelle-del-diritto-penale.html

16/10/2013

L'Unione critica aspramente l'introduzione in Italia del reato di "negazionismo", ennesimo, pessimo esempio di legislazione reattiva e simbolica.

Al negazionismo si risponde con le armi della cultura non con quelle del diritto penale.

Dopo il femminicidio la Shoah, continua la deriva simbolica del diritto penale che fa del male, prima di tutto, proprio ai simboli che usa.
L'introduzione anche in Italia del reato di "negazionismo" era stata annunciata da più di un Ministro negli ultimi anni ma si era sempre arenata anche a seguito del diffuso dissenso da parte di storici e giuristi.
Ora l'ipotesi viene frettolosamente e pressoché unanimemente riesumata dalla Commissione Giustizia del Senato, con un emendamento che, oltre ad ampliare ed aggravare le ipotesi di apologia di reato, porterebbe ad introdurre nell'art. 414 del codice penale una sanzione per chi "nega crimini di genocidio o contro l'umanità".
Già vivificare una categoria di reati come quelli di apologia, che in una legislazione avanzata dovrebbero essere espunti, è operazione di retroguardia, ma inserire un reato di opinione, come quello che è la risultante della indicata modifica, è ancora più sbagliato.
La tragedia della Shoah è così fortemente scolpita nella storia e nella coscienza collettiva del nostro Paese, da non temere alcuno svilimento se una sparuta minoranza di persone la pone in dubbio o ne ridimensiona la portata. Anzi, proprio il rispetto che si deve al dramma della Shoah, e alle milioni di vittime innocenti che ha travolto, dovrebbe consigliare ai legislatori di evitare di trasformare il codice penale senza tener conto dei principi fondamentali del diritto moderno, abbandonando la via della risposta reattiva rispetto ai fatti di cronaca ed imboccando quella di un diritto penale minimo e costituzionalmente orientato.
Per contro, l'idea di arginare un'opinione - anche la più inaccettabile o infondata - con la sanzione penale è in contrasto con uno dei capisaldi della nostra Carta Costituzionale, la quale all'art. 21 comma 1 non pone limiti di sorta alla libertà di manifestazione del pensiero.
Ed il giudizio su un accadimento storico - per quanto contrastante con ogni generale e documentata evidenza o moralmente inaccettabile - in altro modo non può definirsi se non come un'opinione, che dunque non può mai essere impedita e repressa dalla giustizia penale: spetterà alla comunità scientifica rintuzzarla, ove sia il caso, e alla maturità dell'opinione pubblica democratica lasciare nell'isolamento chi la formula. A coloro che negano la Shoah bisogna rispondere con le armi della cultura, e, se si vuole, con la censura morale, ma non con il codice penale.
Del resto, anche un solo argine - benché eticamente condivisibile - all'esercizio delle libertà politiche (e tale è, prima fra tutte, la libertà di espressione) introduce un vulnus al principio che l'elenco di esse deve restare assolutamente incomprimibile: quell'elenco infatti, come diceva Calamandrei "non si può scorciare senza regredire verso la tirannide".

Roma, 16 ottobre 2013
La Giunta


=== 3 ===

http://www.blitzquotidiano.it/rassegna-stampa/mario-cervo-libero-reato-negazionismo-e-follia-1694610/

Martino Cervo su Libero: “Il reato di negazionismo è follia”

Pubblicato il 17 ottobre 2013 09.52


ROMA – “Il reato di negazionismo è follia” scriveMartino Cervo su Libero.  In questi giorni, al Senato, è stato depositato in Commissione l’emendamento che introduce nel codice penale il reato di negazionismo. “Un pasticcio” secondo Cervo.
Tocca dire grazie anche a Beppe Grillo e ai 5 Stelle, se il disegno di legge numero 54, composto da un solo articolo, che di fatto introdurrebbe il reato di negazionismo, avrà un iter  parlamentare «normale». Ci sono probabilmente rimasti male Giorgio Napolitano e Pietro Grasso, prima e seconda carica dello Stato. Il primo, celebrando il 70esimo del rastrellamento degli ebrei romani sotto il regime nazifascista, ieri mattina aveva lodato l’«esempio» del Parlamento italiano dopo il sì in commissione Giustizia del Senato, auspicando un rapido completamento dell’iter.
Quando 5 senatori (i grillini Maurizio Buccarella, Mario Giarrusso, Paola Taverna, Enrico Cappelletti e il Psi Enrico Buemi) hanno chiesto di far decidere tutta l’Aula, cambiando la natura dei lavori della commissione da deliberante a referente, Grasso ha parlato di «occasione perduta», avendo lui stesso impresso l’accelerazione dei lavori. Forse, invece, è un’occasione guadagnata per riflettere sull’opportunità di introdurre di fretta una cosa che assomiglia molto a un pasticcio. Non per una questione ideologica, ma pratica. La corale testimonianza di memoria celebrata ieri mostra che, grazie a Dio, l’Italia ha forti anticorpi contro il negazionismo, e che non può essere ridotta all’immagine di quattro signori a braccio teso a presidio della bara di un ex nazista.
Le leggi attuali (Mancino su tutte) permettono di perseguire chi «propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio : razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Il punto è: negare il genocidio, la shoah, i crimini contro l’umanità, può diventare reato passibile di arresto? Non c’è il pericolo di istituire una «verità di Stato» che, oltre a complicare il lavoro degli storici, rischia con dei processi di trasformare in martiri sporadici dei cialtroni che diffondono idee impresentabili? Non solo sullo sterminio degli ebrei, ma sui gulag, sugli armeni, il libero dibattito non uscirebbe limitato? L’emendamento approvato in commissione prevede che l’articolo 414 del codice penale (che punisce l’istigazione a delinquere) sia esteso a «chiunque nega l’esistenza di crimini di guerra o di genocidio o contro l’umanità».
La pena prevista al primo comma è la reclusione da uno a cinque anni. La dizione non è casuale: come si legge nel comunicato dei senatori proponenti, i tre tipi di crimini sono «definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale ». Il testo elenca tra i crimini di guerra: «cagionare volontariamente grandi sofferenze o gravi lesioni all’integrità fisica o alla salute; distruzione ed appropriazione di beni, non giustificate da necessità militari e compiute su larga scala illegalmente ed arbitrariamente; privare volontariamente un prigioniero di guerra o altra persona protetta del suo diritto ad un equo e regolare processo; deportazione, trasferimento o detenzione illegale».
Come dovrebbe valutare un pm che si trovasse approvata questa legge l’affermazione secondo cui l’intervento sovietico a Budapest nel 1956 ha contribuito a «salvare la pace nel mondo»? Dovrebbe procedere contro chi dicesse che Solzenicyn ha «finito per assumere un atteggiamento di “sfida” allo Stato sovietico e alle sue leggi », e che in forza di questo «la sua espulsione può essere considerata » un fatto «più o meno “positivo”, che «qualcuno può giudicare la “soluzione migliore”»? Sono due scritti di Giorgio Napolitano, rispettivamente del 1956 e del 1974, poi dolorosamente corrette. Sempre ieri, Piergiorgio Odifreddi, il matematico e firma di Repubblica protagonista di un recente scambio epistolare con Ratzinger, ha avuto un «incidente». Un anno fa il paragone tra l’esercito israeliano e le SS delle Ardeatine gli costò il blog sul sito del quotidiano. Commentando il caso Priebke, ieri ha scritto: «Sulle camere a gas “so”soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda” alleato». Polemiche. In un contesto libero, che gli ha fatto piovere in testa critiche anche pesanti. Ma senza reati, perché dargli del cretino in campo aperto è molto meglio che vederlo dentro.


=== 4: FLASHBACKS ===

[ Pubblicato anche su "l'Unità" del 23 gennaio 2007. Su questo appello si veda anche:
Il dejà-vu del cosiddetto «DDL sul negazionismo»
di Wu Ming
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=14457#more-14457 ]

http://www.sissco.it/index.php?id=28

CONTRO IL NEGAZIONISMO PER LA LIBERTÀ DI RICERCA

Il Ministro della Giustizia Mastella, secondo quanto anticipato dai media, proporrà un disegno di legge che dovrebbe prevedere la condanna, e anche la reclusione, per chi neghi l'esistenza storica della Shoah. Il governo Prodi dovrebbe presentare questo progetto di legge il giorno della memoria. Come storici e come cittadini siamo sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante (il negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto tra i giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione e condanna. Proprio negli ultimi tempi, il negazionismo è stato troppo spesso al centro dell'attenzione dei media, moltiplicandone inevitabilmente e in modo controproducente l’eco. Sostituire a una necessaria battaglia culturale, a una pratica educativa, e alla tensione morale necessarie per fare diventare coscienza comune e consapevolezza etica introiettata la verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia della legge, ci sembra particolarmente pericoloso per diversi ordini di motivi:
1) si offre ai negazionisti, com’è già avvenuto, la possibilità di ergersi a difensori della libertà d'espressione, le cui posizioni ci si rifiuterebbe di contestare e smontare sanzionandole penalmente.
2) si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato. Ogni verità imposta dall'autorità statale (l'”antifascismo” nella DDR, il socialismo nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l'inesistenza di piazza Tiananmen in Cina) non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale.
3) si accentua l'idea, assai discussa anche tra gli storici, della "unicità della Shoah", non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altri evento storico, ponendolo di fatto al di fuori della storia o al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo.
L'Italia, che ha ancora tanti silenzi e tante omissioni sul proprio passato coloniale, dovrebbe impegnarsi a favorire con ogni mezzo che la storia recente e i suoi crimini tornino a far parte della coscienza collettiva, attraverso le più diverse iniziative e campagne educative. 
La strada della verità storica di Stato non ci sembra utile per contrastare fenomeni, molto spesso collegati a dichiarazioni negazioniste (e certamente pericolosi e gravi), di incitazione alla violenza, all'odio razziale, all'apologia di reati ripugnanti e offensivi per l'umanità; per i quali esistono già, nel nostro ordinamento, articoli di legge sufficienti a perseguire i comportamenti criminali che si dovessero manifestare su questo terreno.
E' la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste. Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente.

Marcello Flores, Università di Siena
Simon Levis Sullam, Università di California, Berkeley
Enzo Traverso, Università de Picardie Jules Verne
David Bidussa, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Bruno Bongiovanni, Università di Torino
Simona Colarizi, Università di Roma La Sapienza
Gustavo Corni, Università di Trento
Alberto De Bernardi, Università di Bologna
Tommaso Detti, Università di Siena
Anna Rossi Doria, Università di Roma Tor Vergata
Maria Ferretti, Università della Tuscia
Umberto Gentiloni, Università di Teramo
Paul Ginsborg, Università di Firenze
Carlo Ginzburg, Scuola Normale Superiore, Pisa
Giovanni Gozzini, Università di Siena
Andrea Graziosi, Università di Napoli Federico II
Mario Isnenghi, Università di Venezia
Fabio Levi, Università di Torino
Giovanni Levi, Università di Venezia
Sergio Luzzatto, Università di Torino
Paolo Macry, Università di Napoli Federico II
Giovanni Miccoli, Università di Trieste
Claudio Pavone, storico
Paolo Pezzino, Università di Pisa
Alessandro Portelli, Università di Roma La Sapienza
Gabriele Ranzato, Università di Pisa
Raffaele Romanelli, Università di Roma La Sapienza
Mariuccia Salvati, Università di Bologna
Stuart Woolf, Istituto Universitario Europeo, Firenze

Aderiscono anche:
Cristina Accornero, Università di Torino 
Ersilia Alessandrone Perona 
Franco Andreucci, Università di Pisa 
Franco Angiolini, Università di Pisa 
Barbara Armani, Università di Pisa 
Angiolina Arru, Università di Napoli L'Orientale 
Marino Badiale, Universita' di Torino 
Elena Baldassari, Università di Roma La Sapienza 
Luca Baldissara, Università di Pisa 

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Priebke, preti, suore, frati

1) Quando Priebke si nascose a Bolzano e lì attese i documenti falsi
di Davide Pasquali, su "Alto Adige" del 12 ottobre 2013
"... fu appoggiato in particolare da alcuni preti altoatesini come Johann Corradini di Vipiteno e Franz Pobitzer di Bolzano ma anche dal vicario separazionista Alois Pompanin, che gli concesse il battesimo cattolico..."

2) Nazisti, la chiesa di Francesco faccia luce
di Alessandro Cassinis, su "Il Secolo XIX" del 15 settembre 2013 
"... sacerdoti come il croato Draganovic, il francescano Dömöter e l’ex cappellano militare Petranovic accoglievano a Genova i nazisti in fuga e li spedivano in America con documenti falsi..."

3) Sul libro di Uki Goñi "OPERAZIONE ODESSA":

* Argentina: dopo l'apertura degli archivi sui nazisti. Quei 47 dossier mancanti
di  Alvaro Ranzoni, su "Panorama" del 29/8/2003  
"... A Buenos Aires agivano i cardinali Antonio Caggiano e Santiago Copello... Mai erano emerse tanto chiare le accuse al regime peronista e alla Santa sede (più volte ricorre il nome di Giovanni Battista Montini, poi Papa Paolo VI)..."

* Mi manda il Cupolone
di Giovanni De Luna, su "La Stampa" del 3/11/2003
"... la Chiesa cattolica non fu solo un complice dell'«operazione Odessa» ma la sua protagonista indiscussa: oltre a monsignor Montini i suoi vertici furono i cardinali Eugène Tisserant e Antonio Caggiano..."

* Priebke e l'"Operazione Odessa"
su "Liberazione" del 14-15/3/2004
"... Il Tribunale di Milano ha respinto la richiesta di ritirare dal commercio il volume di Uki Goni "Operazione Odessa" (Garzanti). A chiedere il ritiro del libro era stato Erich Priebke..:"

4) DOSSIER DRAGANOVIC
fonti: GenovaNotizie, Wikipedia
"... tacita complicità, circa la copertura di criminali di guerra, fra i quali, oltre ad Ante Pavelic, figurano Stjepan Hefer, che raccoglie l’eredità di Pavelic alla guida del Movimento per la Liberazione della Croazia, e altri come Ljotic, Nedic, Save Radonic (ministro della Giustizia e uno capi separatisti del Montenegro). A tutti questi personaggi venivano forniti falsi documenti d’identità, denaro e collegamento con la Spagna... Dal collegio di San Girolamo passano Steve Vujovic ministro separatista del Montenegro; Lazar Soskic capo della polizia del Montenegro; Stevan Ivanic direttore dell’Istituto di Igiene di Belgrado; il ministro del commercio Valiljevic; Marisav Petrovic, colonnello delle SS bosniache; i fratelli Vrioni, membri del governo filonazista albanese; Jusuf Kosovac, sicario per conto della polizia politica del governo collaborazionista montenegrino e albanese, già condannato a 20 anni per omicidio prima della guerra; Isa Noljetinac, capo della polizia nel governo collaborazionista albanese e responsabile di oltre 200 omicidi fra la popolazione serba di Pristina; tale dottor Hefer, ministro del governo Pavelic; i generali Vilko Pecnikar e Eugen Kvarternik, e altri ancora compresi nelle liste dei servizi segreti alleati come ricercati per crimini contro l’umanità e complicità con il Terzo Reich... Tutto questo dal proprio ufficio del collegio di San Girolamo, in collegamento con la commissione Pontificia per i Rifugiati diretta da padre Elias Ivica, con sede in via Piave a Roma, organismo ben visto dal movimento Ustascia..."

5) Reputazioni in calo 
di Felice Accame (Radio Popolare, 2008)
"... D’accordo che, Anatole France alla mano, la reputazione dei francescani, già alla fine dell’Ottocento, non era poi un granché... ma da qui a spiegare certe nefandezze ce ne corre..."


--- ALTRI LINK:

Sulle "Ratlines" e sulla organizzazione, frutto della collaborazione tra Vaticano e ustascia, per la fuga dei criminali nazisti, si veda la documentazione raccolta alla nostra pagina:
ed in particolare:
nonché
Le ratlines patrocinate da mons. Alois Hudal e da padre Krunoslav S. Draganovic per l’espatrio clandestino degli ex gerarchi nazisti e ustascia
di Giovanni Preziosi (2011)


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Quando Priebke si nascose a Bolzano e lì attese i documenti falsi


Durante la guerra la moglie e i figli del capitano SS vivevano a Vipiteno. Nella fuga lo aiutarono un parroco e il padre francescano Franz Pobitzer

di Davide Pasquali
12 ottobre 2013

BOLZANO. Erich Priebke ha almeno due legami con Bolzano. Il primo è un nome che si trasformò in tragedia. Il battaglione nazista decimato dai partigiani in via Rasella, in seguito al quale ebbe luogo la rappresaglia che portò all’eccidio delle Fosse Ardeatine, si chiamava proprio così: Bozen. Ma questa è poco più di una coincidenza.
La polpa sta altrove: Priebke per salvarsi alla fine della guerra passò, come tantissimi altri, almeno 150 grandi criminali di guerra, proprio dalla nostra provincia. Venne nascosto per mesi in una casa del centro storico del capoluogo e a Bolzano riuscì a farsi procurare i documenti falsi per poi potersi imbarcare per l’Argentina.
Dopo la sconfitta della Germania, infatti, il capitano fuggì da un campo di prigionia presso Rimini e si rifugiò in Argentina, a San Carlos de Bariloche, ai piedi delle Ande argentine, dopo essere passato per Bolzano grazie all’assistenza dell’organizzazione filonazista Odessa.
Priebke fu appoggiato in particolare da alcuni preti altoatesini come Johann Corradini di Vipiteno e Franz Pobitzer di Bolzano ma anche dal vicario separazionista Alois Pompanin, che gli concesse il battesimo cattolico, e fu aiutato nella sua fuga dalla rete di contatti gestita dal sacerdote croato Krunoslav Draganovic.
Questo era il poco che si sapeva fino a qualche anno fa. Prima che aprissero certi archivi, specie quelli della Croce Rossa. E prima che lo storico nord tirolese Gerald Steinacher andasse a ficcarci il naso come un cane da tartufo. Per sei lunghi anni. «Dal 1943 al 1948 - racconta Steinacher - la base di Priebke fu Vipiteno, dove fu aiutato dal parroco Corradini ma anche da padre Franz Pobitzer di Bolzano. Dal 1943 vissero a Vipiteno la moglie e i due figli di Priebke, che si trovava prigioniero a Rimini; quando nel 1946 fuggì dal carcere, Priebke raggiunse la sua famiglia a Vipiteno. Qui tra le altre cose si battezzò».
Un do ut des, per riuscire ad ottenere, grazie all’aiuto del clero compiacente, i documenti falsi per l’espatrio. Una storia che lascia stupiti, quella che riguarda Erich Priebke. Dopo aver ricevuto un documento di identità - secondo il quale era un direttore di albergo lettone, apolide, di nome Otto Pape - se ne stette bel bello a Bolzano per dei mesi, in attesa che gli venisse spedito il passaporto della Croce rossa internazionale. Il suo indirizzo? Via Leonardo Da Vinci numero 24. Si trattava di un piccolo edificio parte del vecchio ospedale.
Se ne sapeva niente, fino a pochi anni fa. Di lui, come di altri 30-40 mila fra collaborazionisti e personaggi minori del nazismo. Priebke non fu il solo pezzo grosso a transitare da qui, fra i silenzi e le connivenze. Per fare giusto due esempi, se ne scapparono indisturbati, grazie all’aiuto dei sudtirolesi, anche Josef Mengele e Adolf Eichmann. La Svizzera e l’Austria non possedevano porti. La Germania era occupata e controllata dagli Alleati; passare per la Francia non si riusciva; la Jugoslavia di Tito era impenetrabile, la Spagna troppo lontana. L’Italia era la via più semplice. Ma per raggiungere i porti, le vie possibili in pratica erano solo tre: passo Resia, passo del Brennero e gli alti passi pedonali della valle Aurina.


=== 2 ===


Il Secolo XIX, 15 settembre 2013 

Nazisti, la Chiesa di Francesco faccia luce


di Alessandro Cassinis


Genova - Sono passati dieci anni da quando Tarcisio Bertone, allora arcivescovo di Genova, tuonò dal pulpito della cattedrale di San Lorenzo contro l’inchiesta che questo giornale stava pubblicando sulla fuga dei nazisti da Genova in Argentina. A ferire il cardinale erano state le rivelazioni su alcuni sacerdoti che a Genova si erano comportati da angeli custodi di sterminatori come Mengele, Eichmann, Barbie, Priebke e il feroce capo degli ustascia Ante Pavelic. Tutti ospitati a Genova sotto falso nome e imbarcati sulle navi per Buenos Aires fra il 1947 e il 1951 lungo quella “via dei topi” che aveva nell’Argentina di Peron il capolinea dell’impunità.

«La Chiesa genovese acquisirà tutti i documenti necessari per stabilire la verità dopo che il maggiore quotidiano genovese ha riportato notizie che non ci risultano vere», disse allora Bertone. La pietra dello scandalo fu la domanda che l’inchiesta del Secolo XIX aveva reso ineludibile : sapeva l’allora arcivescovo Giuseppe Siri che sacerdoti come il croato Draganovic, il francescano Dömöter e l’ex cappellano militare Petranovic accoglievano a Genova i nazisti in fuga e li spedivano in America con documenti falsi?

Bertone nominò una commissione di saggi e promise un rapporto pubblico in tempi brevi. Dieci anni dopo Andrea Casazza, l’autore di quell’inchiesta, ha sondato alcuni membri della commissione. La verità è che non è stato fatto quasi nulla. Nessuna indagine. Nessun dossier.

Forse qualcuno sperava che il tempo avrebbe fatto calare la polvere su una pagina così oscura e inquietante del nostro passato. Ma la storia non si insabbia. Dieci anni dopo Il Secolo XIX torna a chiedere la verità sulla rotta della vergogna: quale fu il ruolo della curia genovese nella fuga dei gerarchi nazisti? Quali i patti con l’Argentina peronista e i servizi segreti americani? I sacerdoti coinvolti ricevevano ordini dall’alto? E da chi? chi forniva i documenti falsificati, le coperture, il denaro per la permanenza dei fuggiaschi a Genova? Sono domande che troverebbero una risposta soltanto se la curia genovese acconsentisse a rendere davvero pubblici i documenti di quegli anni, a cominciare dalle carte conservate nell’archivio personale di Siri.

Dieci anni dopo c’è un fatto nuovo, che riaccende la speranza di fare finalmente luce. Un papa argentino ha scelto il nome del poverello di Assisi e il suo linguaggio semplice e diretto. Ha ribaltato il vertice Ior e ha rinnovato la gerarchia vaticana mettendo fine, fra l’altro, al lungo regno di Bertone. Ha bollato l’ipocrisia come «il linguaggio della corruzione» e ha invitato i cattolici a essere «trasparenti come bambini». Ha ammesso, nella lettera a Eugenio Scalfari, «tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che [la Chiesa] può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono». Nella sua missione di testimoniare il Vangelo, il Papa può riaprire quel capitolo tragico, che offende un intero popolo perseguitato nei campi di sterminio, getta un’ombra incancellabile sulla sua Argentina, infanga Genova, città martire della guerra e avanguardia della Resistenza, e lascia un sospetto inaccettabile sul suo cardinale più illustre.

Francesco ci ha ricordato che bisogna parlare come insegna il Vangelo: «Sia il tuo dire sì sì, no no». Il resto sarebbe omertà.



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Uki Goñi
Operazione Odessa

Garzanti, 2003
ISBN 88-1169-405-1

in english: 

Uki Goni
The Real Odessa: How Peron Brought the Nazi War Criminals to Argentina

Publisher: Granta Books (23 Jan 2003)
448 pages - ISBN-10: 1862075522 / ISBN-13: 978-1862075528
http://www.amazon.co.uk/Real-Odessa-Brought-criminals-Argentina/dp/1862075522

excerpts online:
The Real Odessa: Smuggling the Nazis to Argentina
http://greyfalcon.us/The%20Real%20Odessa.htm

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Quei 47 dossier mancanti

di  Alvaro Ranzoni
su Panorama, 29/8/2003  

Molte delle carte sui gerarchi di Hitler accolti e protetti da Peron non si trovano più. Lo rivela il centro Wiesenthal, mentre un libro accusa apertamente la Santa sede.

Aspetteranno ancora per un po', poi quelli del centro Simon Wiesenthal, specializzato nella caccia ai criminali nazisti (2.500 nomi rivelati in 17 anni), torneranno alla carica con il presidente argentino Néstor Kirchner. Non è possibile infatti che dai meandri del vecchio Hotel de Inmigrantes, che custodisce gli archivi dell'autorità argentina per l'immigrazione, siano saltati fuori solo due dei 49 fascicoli richiesti, con la storia di soli 17 criminali di guerra sui 68 segnalati. Troppo poco, se si considera che di questi 17 ben 16, tutti ùstascia croati, sono contenuti in un unico faldone, mentre l'altro dossier venuto alla luce è quello di un criminale belga, Jan-Jules Lecomte, il borgomastro-boia di Chimay.

I primi torturarono e uccisero migliaia di serbi ed ebrei, il secondo si divertiva a scovare i bambini ebrei rifugiati nei monasteri per avviarli ai campi di sterminio. Non stelle di prima grandezza nella classifica dell'orrore, insomma. Non sono stati trovati finora i dossier che spiegherebbero come fecero ad arrivare in Argentina e da chi furono aiutati criminali del calibro di Josef Mengele, il medico che sperimentò le sue folli teorie su migliaia di vittime; Adolf Eichmann, il pianificatore dello sterminio degli ebrei, poi giustiziato in Israele; Klaus Barbie, il «boia di Lione»; Erich Priebke, responsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, l'unico ancora vivo (novantenne, sconta l'ergastolo agli arresti domiciliari a Roma).

«Il nuovo presidente argentino ha promesso piena trasparenza» spiega a Panorama Sergio Widder, direttore della sezione di Buenos Aires del Centro Wiesenthal, «e noi non abbiamo motivo di dubitarne. Ma certo non ci accontenteremo di spiegazioni a mezza bocca su dossier smarriti o bruciati non si sa perché e non si sa da chi» aggiunge.
Quello che è emerso è comunque abbastanza sconcertante.

Subito dopo la guerra il dittatore Juan Domingo Peron, che vagheggiava una sorta di «Quarto Reich», aveva creato una rete perfetta per portare in Argentina i criminali nazisti ricercati dalle forze alleate.
Dal 1947 ai primi anni Cinquanta il terminale europeo di questa «rotta dei topi» fu Genova dove c'era uno speciale ufficio retto da un ex capitano delle Ss, Carlos Fuldner, amico di Peron.

Il terminale italiano era gestito in gran parte da religiosi. «A Genova operava, tra gli altri, un monsignore croato, Karlo Petranovic, dipendente dalla locale Curia e protetto dall'arcivescovo Giuseppe Siri (ma la Curia genovese smentisce, ndr).
A Roma un altro prete, Stefan Draganovic, fondatore della Confraternita di San Gerolamo, avviava i criminali nazisti verso il capoluogo ligure con l'attiva collaborazione del vescovo Aloys Hudal, rettore del collegio tedesco di S. Maria dell'Anima, e sotto la protezione del Vaticano.

A Buenos Aires agivano i cardinali Antonio Caggiano e Santiago Copello. Tutto giustificato con la lotta al comunismo» spiega lo scrittore argentino Uki Goñi, autore del libro L'autentica Odessa, frutto di sei anni di ricerche, di cui Garzanti pubblicherà a febbraio l'edizione italiana.
Mai erano emerse tanto chiare le accuse al regime peronista e alla Santa sede (più volte ricorre il nome di Giovanni Battista Montini, poi Papa Paolo VI). È di Goñi la prima bozza dell'elenco che il centro Wiesenthal ha presentato al governo argentino.

Lo scrittore ha trascorso un anno negli archivi dell'Hotel de Inmigrantes, l'edificio che ospitò per i primi giorni molti dei 5 milioni di emigranti in Argentina e che oggi l'Associazione Italia-Argentina vorrebbe restaurare come sede delle aziende italiane a Buenos Aires. Ha rovistato tra centinaia di migliaia di cartoline di sbarco e su quelle dei personaggi più significativi ha trovato i numeri dei relativi dossier. Che però nessuno sa dove siano finiti.
http://www.panorama.it/mondo/americhe/articolo/ix1-A020001020528

Argentina: dopo l'apertura degli archivi sui nazisti



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LA STAMPA, 3/11/2003
Sezione: Cultura Pag. 16

LA FUGA DEI CRIMINALI NAZISTI VERSO L'ARGENTINA DI PERÓN:
UNA METIcOLOSA E DOcUMENTATA RIcOSTRUZIONE DELLO STORIcO UKI GOÑI 

OPERAZIONE ODESSA

Mi manda il Cupolone


Giovanni De Luna

Lo chiamavano il «Mengele danese», Carl Vaernet era un medico delle SS che sosteneva di aver scoperto una «cura» per l'omosessualità; nel 1944 Himmler mise a disposizione delle sue folli ricerche la popolazione del «triangolo rosa», gli omosessuali internati a Buchenwald. I malcapitati furono castrati e gli fu impiantato un «glande sessuale artificiale», un tubo metallico che rilasciava testosterone nell'inguine. Secondo i racconti dei sopravvissuti, i medici delle SS a Buchenwald raccontavano barzellette raccapriccianti su quel tipo di esperimenti. Vaernet era un pazzo sadico; inserito nella lista dei criminali di guerra, alla fine del conflitto riuscì a scappare sano e salvo in Argentina. E come lui migliaia di aguzzini nazisti tedeschi, fascisti italiani, ustascia croati, rexisti belgi, collaborazionisti francesi ecc.; tutti se la cavarono grazie a una rete di complicità mostruosamente efficiente e all'aperta connivenza del governo di Juan Domingo Perón. Un romanzo (Dossier Odessa) di Frederick Forsyth, raccontava di un gruppo di membri delle SS che dopo la sconfitta si erano raccolti in un'organizzazione segreta (Odessa, acronimo di Organisation der Ehemaligen SS-Angehorigen) che aveva il duplice scopo di salvare i commilitoni dalle forche degli Alleati e creare un Quarto Reich che completasse l'opera di Hitler. Per quanto romanzesca fosse la trama «inventata» da Forsyth, il suo racconto si avvicinava in modo inquietante alla realtà. Odessa esisteva davvero. Solo era difficilissimo ricostruirne la storia: i fascicoli del suo archivio erano stati distrutti in gran parte nel 1955, nel marasma degli ultimi giorni del governo di Perón; quelli che rimasero furono definitivamente buttati via nel 1996. Ma le tracce della sua attività erano troppo evidenti per essere cancellate del tutto. così ora, finalmente, grazie alla pazienza e all'abilità dello storico e giornalista argentino Uki Goñi (Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l'Argentina di Perón, Garzanti, pp. 480, e.24) e lunghe ricerche in Belgio, Svizzera, Londra, Stati Uniti, Argentina, disponiamo di una storia completa della più incredibile operazione di salvataggio di migliaia di criminali mai progettata e mai realizzata in tutto il Novecento.
Diciamolo subito. Se l'Argentina di Perón era la «terra promessa», l'asilo già generosamente predisposto ancor prima che la guerra finisse, il cuore e il cervello dell'intera operazione Odessa era a Roma (dove Perón soggiornò dal 1939 al 1941), nel cuore del Vaticano. In quel turbinoso dopoguerra italiano era veramente difficile distinguere tra vincitori e vinti. Nazisti e fascisti avevano perso la guerra; eppure mai ai vinti mancò il soccorso dei vincitori, il sostegno di quelle istituzioni che sarebbero dovute nascere all'insegna dell'antifascismo e della democrazia e che invece erano ricostruite nel segno della più rigorosa continuità con i vecchi apparati del regime fascista. Fu l'anticomunismo, furono le prime avvisaglie della «guerra fredda» a spingere i vincitori a salvare i vinti.
Il Vaticano fu il motore di questa scelta. Ma veramente monsignor Montini fu il protagonista di questo intervento che garantì l'incolumità a criminali come Erich Priebke, Josef Mengele, Adolf Eichmann ecc.? E veramente il Vaticano fu il crocevia di tutta una serie di iniziative che puntavano a rimettere in piedi il movimento ustascia di Ante Pavelic per organizzare una guerriglia anticomunista contro la Jugoslavia di Tito? Sì, veramente. Già nel 1947 i servizi segreti americani avevano stabilito che «una disamina dei registri di Ginevra inerenti tutti i passaporti concessi dalla Croce Rossa internazionale rivelerebbe fatti sorprendenti e incredibili». Oggi la disamina di quei registri è possibile e Goñi l'ha fatta. E le sue conclusioni sono nette: la Chiesa cattolica non fu solo un complice dell'«operazione Odessa» ma la sua protagonista indiscussa: oltre a monsignor Montini i suoi vertici furono i cardinali Eugène Tisserant e Antonio Caggiano (quest'ultimo, argentino, nel 1960 espresse pubblicamente - «bisogna perdonarlo» -, il suo rincrescimento per la cattura di Eichmann da parte degli israeliani), mentre la dimensione operativa fu curata da una pattuglia di alti prelati, il futuro cardinale genovese Siri, il vescovo austriaco Alois Hudal, parroco della chiesa di Santa Maria dell'Anima in via della Pace a Roma e guida spirituale della comunità tedesca in Italia, il sacerdote croato Krunoslav Draganovic, il vescovo argentino Augustín Barrère. 
I documenti citati da Goñi sono molti e molto convincenti, da una lettera del 31 agosto 1946 del vescovo Hudal a Perón che chiedeva di consentire l'ingresso in Argentina a «5 mila combattenti anticomunisti» (la richiesta numericamente più imponente emersa dagli archivi) all'intervento di Montini per esprimere all'ambasciatore argentino presso la Santa Sede l'interesse di Pio XII all'emigrazione «non solo di italiani» (giugno 1946). Non si tratta di iniziative estemporanee e certamente la loro rilevanza storiografica non può esaurirsi in una lettura puramente «spionistica».
Un versante della seconda guerra mondiale trascurato dagli storici è quello che vede gli Stati latini, cattolici e neutrali, europei e sudamericani, protagonisti di vicende diplomatiche segnate però da un particolare contesto culturale e ideologico: nella cattolicissima Argentina (la Vergine Maria fu nominata generale dell'esercito nel 1943, dopo il golpe dei militari) ci si cullò nell'illusione di poter formare insieme con la Spagna e il Vaticano una sorta di «triangolo della pace», per preservare «i valori spirituali della civiltà» fino a quando la guerra in Europa continuava. Un progetto più ambizioso puntava a unire, con la leadership del Vaticano, i paesi dell'Europa cattolica, Ungheria, Romania, Slovenia, Italia, Spagna, Portogallo e Francia di Vichy per integrarli nel «nuovo ordine europeo» voluto dai nazisti; in quel periodo (1942-1943), in Sud America governi filonazisti esistevano già in Argentina, Cile, Bolivia e Paraguay: il disegno era di conquistare a un'alleanza in chiave antiamericana anche il piccolo e democratico Uruguay e il grande e cattolico Brasile. Questi disegni naufragarono tutti sotto il peso delle rovinose sconfitte militari dell'Asse ma furono l'humus ideologica da cui nacque nel dopoguerra la rete di «Odessa».
La centrale italiana operò soprattutto per il salvataggio degli ustascia di Ante Pavelic. Alla fine della guerra ce n'erano migliaia, sparsi nei vari campi a Jesi, Fermo, Eboli, Salerno, Trani, Barletta, Riccione, Rimini ecc. Una poderosa ricerca ora avviata dal giovane storico Costantino Di Sante sta facendo luce su una delle pagine più oscure di quel periodo. Si trattava di criminali macchiatisi di delitti che avevano suscitato orrore perfino nei loro alleati nazisti (che biasimarono «gli istinti animaleschi» dei croati): fucilazioni di massa, bastonature a morte, decapitazioni, per conseguire il risultato di uno Stato (la Croazia) razzialmente puro e cattolico al 100%. Alla fine della guerra circa 700 mila persone erano morte nei campi di sterminio ustascia a Jasenovac e altrove: le vittime appartenevano soprattutto alla popolazione serba ortodossa ma nell'elenco figuravano anche moltissimi ebrei e zingari. Il principale teorico del regime croato, Ivo Gubernina, era un sacerdote cattolico romano che coniugava le nozioni di «purificazione» religiosa e «igiene razziale» con un appello affinché la Croazia «fosse ripulita da elementi estranei».
Gran parte di questi criminali si salvò passando da Roma verso l'Argentina: la via di fuga portava a San Girolamo, un monastero croato sito in via Tomacelli 132. Parlando del loro capo, Ante Pavelic, un rapporto dei servizi segreti americani concludeva: «Oggi, agli occhi del Vaticano, Pavelic è un cattolico militante, un uomo che ha sbagliato, ma che ha sbagliato lottando per il cattolicesimo. È per questo motivo che il Soggetto gode ora della protezione del Vaticano». Alla fine, tra il 1947 e il 1951, secondo i dati raccolti da Di Sante, furono 13 mila gli ustascia che riuscirono a salvarsi usando il canale italoargentino.

copyright © La Stampa

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Priebke e l'"Operazione Odessa"

(fonte: Liberazione, 14-15/3/2004)

Il Tribunale di Milano ha respinto la richiesta di ritirare dal commercio il volume di Uki Goni "Operazione Odessa" (Garzanti). A chiedere il ritiro del libro era stato Erich Priebke, nel quadro di una ampia offensiva giudiziaria che ha visto di recente l'ex ufficiale nazista proporre numerose istanze contro editori di quotidiani, riviste e libri presso diversi tribunali italiani. Nella sua motivazione, il giudice De Sapia ha rivelato che il capitolo del libro dedicato a Priebke «si caratterizza per una prevalente connotazione critica, fondata sulla condanna del predetto in relazione ai fatti delle Fosse Ardeatine. La valutazione certamente negativa che traspare dal testo è sostanzialmente fondata su tale evento, che da solo giustifica le conclusioni adottate nello scritto, con particolare riferimento alla fuga in Argentina per sottrarsi alla giustizia, che rappresenta il motivo di fondo del volume».


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4 dicembre 2010

Il Dossier Draganovic

E’ storia nota dell’ultimo periodo della seconda guerra mondiale in Italia, nonché del periodo immediatamente seguente alla fine delle ostilità: fra i principali organizzatori delle vie di fuga per criminali nazisti, fascisti e appartenenti al tristemente famoso corpo degli Ustascia


E’ storia nota dell’ultimo periodo della seconda guerra mondiale in Italia, nonché del periodo immediatamente seguente alla fine delle ostilità: fra i principali organizzatori delle vie di fuga per criminali nazisti, fascisti e appartenenti al tristemente famoso corpo degli Ustascia di Ante Pavelic (il quale aveva, fra gli altri, il singolare hobby di collezionare occhi umani…!), oltre ad agenti dei servizi segreti nazisti come Walter Rauff, Franz Rostel, Dieter Kersten, vi erano diversi religiosi: monsignor Alois Hudal, guida della comunità dei cattolici tedeschi, che non nasconde le simpatie per il nazionalsocialismo; padre Glavas, fanatico ammiratore di Hitler e confessore dello stesso Pavelic, e Krunoslav Draganovic, sacerdote e fervente fautore dell’unificazione religiosa (e politica) in Bosnia e Croazia.
Krunoslav Stepan Draganovic nasce il 30 ottobre 1903 a Brcko, in Croazia, da Pietro Draganovic e Maria Franci. Frequenta le scuole elementari e medie a Travnik quindi studia teologia a Sarajevo (dove entra nelle grazie del vescovo di Sarajevo Ivan Saric) e Vienna, diventa professore all’università di Zagabria e trascorre diversi periodi a Roma, all’Istituto Pontificio di Studi Orientali. Dopo aver lavorato anche agli archivi vaticani, diventa segretario privato di monsignor Saric, fervente simpatizzante del movimento Ustascia, di idee antisemite, il quale, dopo la dichiarazione di indipendenza della Croazia, ha una parte di primo piano nella campagna di conversione religiosa forzata ed è costretto a lasciare il paese nella primavera del 1945, con lo stesso Pavelic, Andrija Artukovic e altri leader del movimento.
Padre Draganovic, in ragione della profonda amicizia che lo lega ai più importanti capi Ustascia, diventa egli stesso ufficiale del corpo scelto di Pavelic nonostante vestisse l’abito talare, e prende parte a diverse operazioni di pulizia etnica contro i serbi della regione di Kozara. Per l’impegno e lo zelo con cui presta servizio, diventa ufficiale superiore del ministero per la colonizzazione Interna e responsabile di aver ordinato molti omicidi ed espulsioni forzate di profughi serbi, ebrei, rom, per affidare poi i territori liberati alla popolazione croata, oltre a favorire l’espansione del Terzo Reich.
Nel 1943 è inviato a Roma come rappresentante della Croce Rossa croata, in realtà per allacciare contatti in Vaticano da parte dell’arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac nella cerchia di papa Pio XII. Nel 1945 è segretario dell’Istituto croato presso il collegio di San Girolamo degli Illirici, al numero 7 di via Carlo Alberto, sotto la protezione di monsignor Jurai Magjerec, dove organizza i rifugi per i capi Ustascia in fuga, primo fra tutti Ante Pavelic.
Il documento del Dipartimento di Stato americano redatto in base al rapporto del 12 febbraio 1947, a firma dell’agente Robert Clayton Mudd, elenca diversi criminali Ustascia, collaborazionisti albanesi, montenegrini e croati, nascosti in San Girolamo. E’ lo stesso Draganovic ad accogliere Pavelic a Roma e a nasconderlo per circa due anni, fino alla partenza per l’Argentina.
Nell’estate 1947 il sacerdote è avvicinato da agenti del controspionaggio austriaco, i quali gli propongono di mettere la sua esperienza al servizio degli americani, come era successo per il tristemente famoso Klaus Barbie, capo della Gestapo a Lione. Pare che, per “conto terzi”, Draganovic abbia avuto parte di primo piano nell’organizzazione del movimento Krizari (crociati), ideale continuazione degli Ustascia, coinvolti in atti di terrorismo in Jugoslavia nel 1947, e nella sparizione dell’oro accumulato da Pavelic.
La fonte è un comunicato del governo jugoslavo ripreso dalla agenzia Tanjug e quindi dalla Associated Press il 12 luglio 1948, nel quale si parla di cinquanta uomini processati a Zagabria per spionaggio e terrorismo, indicati anche come “agenti del Vaticano”. Durante le udienze viene fatto ripetutamente il nome di Draganovic fra i principali organizzatori della missione Krizari.
Molto attivo il capitano Krilic, corriere segreto per conto di Pavelic e segretario personale di Draganovic a San Girolamo, tramite il quale sono organizzate spedizioni di gruppi di tre persone, detti "trojke", per organizzare sabotaggi in Jugoslavia, via Austria, i cui confini sono tenuti sotto controllo da Urban Drago, altro ex Ustascia, e da un certo dottor Stambuk, stretto collaboratore di Draganovic.
Sarebbero stati oltre novanta gli agenti sabotatori inviati in Jugoslavia, membri di un non identificato “comitato per lo Stato croato”, ma fonti vaticane smentiscono che Draganovic fosse coinvolto in un complotto, tanto meno collegato ad ambienti pontifici.
Costretto a lasciare San Girolamo nell’ottobre del 1958, è nuovamente contattato dalla CIA con una vera e propria offerta di impiego. Secondo documenti ufficiali, Draganovic è regolarmente registrato sul libro paga dell’esercito USA fino al 1962, e pare sia stato impiegato anche dall’Intelligence Service britannico, dal KGB e dal servizio informazioni jugoslavo.
Riappare in pubblico a Belgrado il 15 novembre 1967, in occasione di una conferenza stampa nella quale sorprende tutti e denuncia gli atti criminali degli Ustascia, elogiando senza mezzi termini Tito.
Fonti vicine al movimento Ustascia dicono poi che sia stato rapito, ma lo stesso Draganovic afferma di essere rientrato in Jugoslavia volontariamente. Nei fatti, Krunoslav Draganovic vive tranquillo senza essere perseguito, fino alla morte, avvenuta nel 1983 in un monastero vicino a Sarajevo.
Alcuni quindi sostengono l’esistenza di contatti in Vaticano nella protezione o, se non altro, nella tacita complicità, circa la copertura di criminali di guerra, fra i quali, oltre ad Ante Pavelic, figurano Stjepan Hefer, che raccoglie l’eredità di Pavelic alla guida del Movimento per la Liberazione della Croazia, e altri come Ljotic, Nedic, Save Radonic (ministro della Giustizia e uno capi separatisti del Montenegro). A tutti questi personaggi venivano forniti falsi documenti d’identità, denaro e collegamento con la Spagna. Pare che il fondo monetario a disposizione dell’organizzazione ammontasse a oltre 50 milioni di lire dell’epoca.
Dal collegio di San Girolamo passano Steve Vujovic ministro separatista del Montenegro; Lazar Soskic capo della polizia del Montenegro; Stevan Ivanic direttore dell’Istituto di Igiene di Belgrado; il ministro del commercio Valiljevic; Marisav Petrovic, colonnello delle SS bosniache; i fratelli Vrioni, membri del governo filonazista albanese; Jusuf Kosovac, sicario per conto della polizia politica del governo collaborazionista montenegrino e albanese, già condannato a 20 anni per omicidio prima della guerra; Isa Noljetinac, capo della polizia nel governo collaborazionista albanese e responsabile di oltre 200 omicidi fra la popolazione serba di Pristina; tale dottor Hefer, ministro del governo Pavelic; i generali Vilko Pecnikar e Eugen Kvarternik, e altri ancora compresi nelle liste dei servizi segreti alleati come ricercati per crimini contro l’umanità e complicità con il Terzo Reich.
Oltre che coordinare l’attività di accoglienza dei responsabili Ustascia in Italia, Draganovic prende contatti con diversi rappresentanti d’ambasciata di paesi sudamericani, e anche con la Croce Rossa Internazionale per ottenere falsi passaporti. Tutto questo dal proprio ufficio del collegio di San Girolamo, in collegamento con la commissione Pontificia per i Rifugiati diretta da padre Elias Ivica, con sede in via Piave a Roma, organismo ben visto dal movimento Ustascia.
Stringe contatti anche con circoli politici austriaci, specialmente con il clero cattolico e alcuni stretti collaboratori dell’ex canceliere Schusschnig, nel frattempo rifugiatosi con la famiglia, aiutato dello stesso Draganovic, nel monastero di Borgo Santo Spirito, territorio protetto dalla extraterritorialità. Schusschnig mantiene poi contatti con l’arcivescovo croato Saric grazie all’azione di padre Draganovic e alla protezione di un ex ufficiale Ustascia, tale Ivankovic. E’ in rapporti anche con il vescovo di Salisburgo, Steinbach, e con il delegato britannico Haman, dai quali riceve informazioni, viaggiando fra Austria e Italia come corriere, nonchè direttive per coordinare l’attività e riferire al capo, Ante Pavelic e all’ex ministro Farkovic. 
L’agente dei servizi americani William Gowen, membro dell’Unità 430, è assegnato al caso fra il 1949 e il 1955, e ha condotto una capillare opera di sorveglianza di Ante Pavelic, predisponendone l’arresto a Roma, ma viene poi bloccato per un intervento diretto dei propri superiori, i quali avevano contattato Draganovic in Austria per esaminare la possibilità di organizzare, con il suo aiuto la fuga di Klaus Barbie e dello stesso Pavelic, che dopo un periodo di clandestinità a Roma, viene fatto fuggire a Buenos Aires. Le prove dell’attività di Draganovic esposte dall’agente Gowen, parlano di almeno cinque organizzazioni religiose finanziate dagli Ustascia a Roma, specialmente sull’Aventino, con attività di copertura come negozi di alimentari, posteggi e garages pubblici, appartamenti privati. Le cinque organizzazioni sono: il monastero di Santa Sabina dell’ordine domenicano, la scuola di Sant’Alessio per gli studi romani, la locale sezione romana dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, l’ordine benedettino di Sant’Anselmo, e un convitto di monache. Alcune strutture, vicine le une alle altre, erano collegate da tunnel sotterranei.
Nei documenti, un certo colonnello W.R.Philips fa menzione anche di due operazioni segrete, denominate Rusty e Odeum, compiute fra il 1946 e il ’49 dai servizi americani, più precisamente dall’Unità 7821 dipendente dall’ECIC (European Command Intelligence Center) in collegamento con il DAD (Department of Army Detachment) e con l’EUCOM (European US-Army Command). 
Nel testo si parla della Commissione Superiore per la Germania, ma riguardo a questa e all’EUCOM mancano molti dossier, come alcune determinanti prove per ricostruire lo scopo delle due operazioni. La partecipazione dei servizi segreti tedeschi pare comunque certa, come afferma nelle proprie memorie Kurt Merck, che agisce nel campo del mercato nero in Francia per conto della Gestapo durante la seconda guerra mondiale e che, dopo la resa tedesca, entra in contatto con lo spionaggio americano, svolgendo missioni in Austria e Germania, specialmente intorno all’ottobre 1949. Merck, che muore il 5 settembre 1951, parla di Klaus Barbie come di un “buon amico” grazie al quale sono conclusi molti vantaggiosi affari.
Tornando all’attività di Draganovic in Italia, nel rapporto B-4240 dell’ottobre 1946 redatto dagli agenti speciali del CIC (Counter Intelligence Corp) Anthony Ragonetti e Louis Caniglia, Draganovic è indicato come il personaggio chiave degli affari segreti della chiesa croata a Roma, più influente anche del suo superiore nominale, padre Dominic Mandjc, e che una delle sue guardie del corpo sarebbe stato Ljubo Milos, ex ufficiale del campo di concentramento di Jasenovac, poi arrestato e in seguito diventato uno dei personaggi di primo piano nell’opposizione al maresciallo Tito, ovvero i già citati Crociati (Krizari) fino all’arresto effettuato dalle autorità jugoslave, che lo condannano a morte.
Un altro rapporto del giugno 1948 collegato all’affare Barbie, redatto da Paul Lyon e Charles Crawford, agenti dalla Sezione 430 del controspionaggio americano in Austria, fa riferimento alla “Rat-Line” nella quale sono coinvolti gli stessi servizi d’informazione dell’esercito americano e, naturalmente, padre Draganovic, in una mutua assistenza nel quadro della politica di denazificazione dell’Europa voluta dagli alleati nell’estate 1947. Nel rapporto si parla di come Klaus Barbie sia stato affidato alle attenzioni di Draganovic e favorito nel trasferimento in Sud America.
Sempre l’agente Paul Lyon firma un altro rapporto che prende spunto dalla richiesta del governo francese nel 1950 per ottenere l’estradizione del capo della Gestapo di Lione, il quale pareva fosse nascosto nella zona americana di Berlino e protetto dal 66°Dipartimento di Sicurezza e controspionaggio dell’esercito USA, al quale faceva capo la già citata sezione austriaca 430. Paul Lyon ricostruisce l’allestimento della “Rat-Line”in Italia e Austria dall’estate 1947, quando anche il governo sovietico fa ufficiale richiesta per la restituzione di criminali ricercati in URSS. Parte dei documenti forniti per il transito attraverso l’Austria e altri ancora per l’entrata in paesi sudamericani, erano forniti proprio dall’agente americano Crawford, per avere via libera verso i porti di Napoli e Genova.


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Krunoslav Draganovic

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Padre Krunoslav Stjepan Draganovic (

(english / italiano.

Sulle assoluzioni "politiche" del "tribunale ad hoc", sulla lettera di denuncia del giudice Harhoff e sul suo successivo "impeachment" si vedano anche:

Sul carattere para-legale, fazioso e illegittimo del "tribunale ad hoc" si veda anche la documentazione raccolta alle pagine:



In che direzione sta andando il Tribunale dell’Aja?


Scritto da Sense Agency

 L’Aja 11/07/2013

La Corte per il processo Gotovina


“Presunzione di infallibilità”,questa è la definizione che descrive i giudici in assenza di un’ulteriore istanza di appello alle loro sentenze, ma che non li dovrebbe proteggere dall’opinione pubblica preoccupata e critica nei loro confronti, che protesta contro il “nuovo corso” che stanno intraprendendo negli ultimi mesi presso il Tribunale dell’Aja e ad Arusha negli ultimi mesi.

Ha fatto scalpore la lettera del giudice Harhoff, che però fa passare in secondo piano lo sconcerto e le proteste contro la piega che sta assumendo il Tribunale dell’Aja, che sono state sollevate prima del 13 luglio 2013, data della pubblicazione della lettera, e che han avuto molta eco sui media danesi e poi nel resto del mondo.

Nelle battute di apertura della lettera che ha mandato a 56 fra amici e colleghi il 6 giugno, Harhoff fa riferimento a due recenti articoli, che “mettono a fuoco eventi che han causato molta preoccupazione sia per me che per i miei colleghi del tribunale”. Tenendo presente le date, possiamo presumere che si riferisse all’articolo intitolato “Cosa accade al tribunale dell’Aja” di Eric Gordy, pubblicato sul New York Times il 2 giugno e un post intitolato “Due sentenze sconcertanti all’Aja”, firmato da T.J. e pubblicato il 1° giugno sul sito dell’Economist.

Se avesse aspettato un altro giorno a mandare la lettera, avrebbe potuto citare un’altra fonte, cioè quella scritta dall’ex assistente al Segretario di Stato USA John Shattuck, un provato e fedele amico del Tribunale, che prese parte alla sua creazione. Nel suo articolo “Crimini di guerra insabbiati”, pubblicato il 7 giugno sul Boston Globe, Shattuck afferma che “se la maggioranza dei giudici dell’ ICTY fosse stata al processo di Norimberga, pochi, anzi pochissimi, capi nazisti sarebbero stati incriminati”.

Contrariamente a chi dice che il problema è stato ingigantito dal giudice “talpa”, piuttosto che dal presunto cambiamento di corso che lo stesso poneva all’attenzione, non è stato il giudice Harnoff a introdurre al pubblico dibattito i recenti sviluppi del tribunale. Negli ultimi mesi, centinaia, se non migliaia di articoli e analisi sono stati pubblicati sulla direzione intrapresa dal Tribunale. Sono stati più severi della lettera di Harnoff.  Sono state firmate petizioni, richieste inchieste, chieste dimissioni senza che ciò abbia portato a dei risultati. Nemmeno uno dei pezzi grossi del Tribunale ha prestato attenzione a tutto ciò. “Sarà dimenticato”, hanno detto. Tuttavia non lo è.

Il dibattito su quanto accaduto fu lanciato lo scorso novembre, dopo la prima controversa sentenza che assolse i generali croati Gotovina e Markac grazie ad una maggioranza risicata di voti (3 contro 2). Le prime “salve” del dibattito furono sparate dai giudici Pocar e Angius, che non han tenuto toni moderati nell’esprimere la loro opinione contraria. Hanno definito la ricerca della maggioranza (giudici Meron, Robinson, Guney) come “semplicemente grottesca” e “in contraddizione con ogni senso di giustizia”, hanno poi affermato con schiettezza che la maggioranza è stata guidata da motivi differenti da quelli che concernono la tutela della legalità.

Il dibattito è proseguito ininterrotto, per divenire sempre più acceso dopo l’assoluzione del generale dell’esercito jugoslavo Perisic, fino ad infiammarsi dopo l’assoluzione dei capi dei servizi segreti serbi Stanisic e Simatovic. Si sono visti simili sviluppi al Tribunale del Rwanda che ha in comune le camere d’appello, e che è stato oggetto di polemiche e proteste sul nuovo corso assunto dopo le recenti sentenze.

Sta agli esperti di diritto internazionale, che si stanno occupando del caso dallo scorso novembre, analizzare e capire se il Tribunale sta veramente prendendo un nuovo indirizzo, chi ne trarrà beneficio e che impatto vi sarà per la giurisprudenza. In questa sede vogliamo solamente porre in rilievo alcuni casi lampanti, circa il volta faccia della giurisprudenza del tribunale dell’Aja e di Arusha. I fatti indicano che vi sono cose che non vanno.

Nel giro di un ristretto lasso di tempo pari a tre mesi e mezzo, dalla metà di novembre 2012 alla fine di febbraio del 2013, la camera di appello del Tribunale dell’Aja e di Arusha, guidato dal giudice Meron, ha cassato a colpi di maggioranza tre sentenze di condanna di cinque alti ufficiali militari e civili che erano stati condotti in giudizio per gravi violazioni dei diritto internazionale umanitario della Ex Jugoslavia e in Rwanda.

I tre processi sono durati complessivamente nove anni, con 900 sedute di tribunale. La corte ha dato udienza a 453 testimoni e ha esaminato migliaia di prove. La sentenza che ha stabilito che le responsabilità riportate dall’accusa erano state provate al di la di ogni ragionevole dubbio, così come indicato nelle motivazioni della sentenza lunghe 2608 pagine: 1377 pagine per Gotovina e Markac, 595 pagine per Mugenizi e Muginareza e 636 pagine per Perisic. I cinque accusati sono stati condannati a 24 anni (Gotovina), 18 anni (Markac), 30 anni (Mugenizi), 30 anni (Muginareza) e 27 anni (Perisic): totale 129 anni.

Successivamente, nel procedimento di appello, fu trovato che tutto ciò fu sbagliato e gli accusati sono stati prosciolti da tutte le accuse. Le sentenze di appello hanno rispettivamente 56, 55 e 49 pagine, e sono tra le sentenze più corte della storia. Alcuni giudici le hanno beffardamente commentate come “sentenze da rotocalco”.

Può esser vero che, come per le altre cose della vita, “non è la lunghezza ciò che conta”. Però a tutto c’è un limite. Per esempio, la sentenza d’appello del caso contro Florence Hartmann è lunga quanto quella di Gotovina e Markac. Nel caso di lei il procedimento di appello durò 22 mesi, tre mesi in più del caso contro i generali croati. Forse la camera d’appello ci mise più tempo data la natura peculiare del caso, dove la camera d’appello giocava tre ruoli: quella della presunta parte lesa, di procuratore e di giudicante. Forse è questo il motivo per cui ebbero bisogno di più tempo per scrivere e motivare la sentenza rispetto al caso dei due generali croati accusati di crimini di guerra contro civili Serbi durante l’operazione Storm nell’estate del 1995. Vogliamo semplicemente ricordare che il crimine della Hartmann fu quello di pubblicare il fatto che la Corte d’Appello di un tribunale che è sotto l’egida delle Nazioni Unite classificava come riservati una serie di documenti prodotti dal Consiglio Supremo di Difesa della Repubblica di Jugoslavia, rendendo per quest’ultimi impossibile l’utilizzo dinanzi ad un’altra corte delle Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, nel caso portato avanti dalla Bosnia Erzegovina contro la Serbia.

Torniamo ora alle sentenze cassate dai tribunali dell’Aja e di Arusha. Una domanda sorge spontanea: com’è possibile per nove giudici di tre collegi (per la precisione otto, perché un giudice voleva assolvere Perisic già in primo grado), com’è possibile per otto giudici di rango internazionale, commettere un così grave errore e condannare cinque innocenti per un totale di 129 anni? Come è possibile dopo che han speso ben 900 giorni di udienze ascoltando centinaia di testimoni e studiando migliaia di prove? Com’è possibile dopo che han speso milioni di dollari di tasse di contribuenti di tutto il mondo? Solo per la camera d’appello si può sommariamente concludere che gli sforzi e le conclusioni dei giudici di primo grado non valgono nemmeno la carta su cui sono stati scritti?

E’ possibile che i giudici di primo grado dei tribunali dell’Aja e di Arusha, siano così privi di integrità e professionalità, così da poter scartare così alla leggera le lo ricostruzioni e le loro conclusioni? Chi ha dato loro l’incarico di giudici di livello internazionale, se davvero sono così inetti? Chi ha stabilito che loro avessero i requisiti previsti all’Articolo 13 dello Statuto, che stipula che “i giudici devono essere persone di alto valore morale, imparziali e integerrimi e devono avere i requisiti previsti nei loro paesi per poter esercitare il ruolo di giudice”? Chi di loro può ricoprire alti ruoli nella magistratura del proprio paese se poi le sue sentenze vengono fatte a pezzi in appello? Chi assegnerà loro nuovi casi, nuovi processi a giudici di così bassa reputazione? E per quale motivo? Per vederli umiliati un’altra volta in appello?

E’ possibile che vi sia una così alta differenza in termini di qualità, professionalità, integrità e temperamento tra i giudici di primo grado e di appello? Dopo tutto, fatta eccezione per una sentenza di condanna che fu revisionata dopo la sentenza d’appello, le sentenze della camera d’appello non vengono né revisionate né cassate. Se questo è dovuto all’infallibilità dei giudici d’appello o alla mancanza di un’istanza superiore, questo è ancora da chiarire. In assenza di ulteriore grado, i loro rilievi e le loro conclusioni sono protetti dalla “presunzione di infallibilità”.

Tuttavia, la “presunzione di infallibilità”, non deve essere per loro uno scudo che li metta al riparo da critiche e proteste contro “il nuovo indirizzo” che hanno progettato per il Tribunale dell’Aja e di Arusha.

 

Fonte: Sense Agency

Traduzione di Pacifico S. per Forum Belgrado Italia

 

 
 

THE HAGUE | 11.07.2013.

WHERE IS THE TRIBUNAL HEADING FOR?

Appellate judges at the Gotovina trial

 

“Presumption of infallibility”, enjoyed by the appellate judges in the absence of a higher instance for the review of their judgments, should not shield them against public expressions of concern, criticism and protests against the ‘new course’ that they have plotted for the Tribunals in The Hague and in Arusha over the past few months

In a major upheaval following Judge Harhoff’s letter one tends to overlook the fact that public expressions of concern, criticism and protests against the Tribunal’s‘new course’ had been voiced long before 13 June 2013, when the letter was published, first in the Danish media and then worldwide.

In the opening lines of the letter that he sent to 56 of his friends and colleagues on 6 June, Harhoff refers to two recent articles, which ‘focus on events that cause deep concern both for me and for my colleagues here in the corridors of the the Tribunal'. Bearing in mind the dates, we can assume that he means the article entitled ‘What Happened to the Hague Tribunal’, an op-ed piece by Eric Gordy, published in the New York Times on 2 June and the blog post, ‘Two Puzzling Judgments in The Hague’, signed by T.J. and published on 1 June on the Economist’s website.

Had he waited for just one more day to send his letter, Judge Harhoff could have included another reference, the one to the piece written by former US Assistant Secretary of the State John Shattuck, a tried and tested friend of the Tribunal, who had taken part in its establishment. In his article ‘War Crimes Whitewash’, published on 7 June in the Boston Globe, Shattuck says that ‘if the ICTY majority had been sitting at Nuremberg, few, if any, Nazi leaders would have been convicted’.

Contrary to the claims made by those who believe that the problem lies with the first whistleblower judge rather than the change of the course he points to,it was not Judge Harhoff who launched the public debate about the recent developments at the Tribunal. Over the past few months, hundreds, if not thousands of critical articles and analyses on the Tribunal’s new course have been published. They were much harsher than Harhoff’s letter. Petitions have been signed, investigations called for, resignations demanded… yet to no avail. None of the top brass at the Tribunal has paid any attention to all that. ‘It will blow over’, they were saying. However, it has not.

The debate on what happens with the Tribunal was launched last November, after the first controversial judgment that acquitted Croatian generals Gotovina and Markač by a tight majority of votes (3:2). The initial salvoes in the debate were fired by judges Pocar and Agius, who did not mince their words in their dissenting opinions. They labeled the findings of the majority (judges Meron, Robinson and Güney) ‘simply grotesque’ and ‘contradict[ing] any sense of justice’, bluntly suggesting that the majority could have been guided by motives other than legal.

The debate has continued unabated, only to get more agitated after the acquittal of the former Chief of the VJ General Staff, Perišić, and to reach its boiling point with the acquittal of the former heads of the Serbian Secret Service, Stanišić and Simatović. There have been similar developments at the Rwanda Tribunal that shares both the Appeals Chamber as well as the concern and protests over the new course assumed following recent judgments.

It is up to the international law experts, who have been dealing with the issue since last November, to provide critical analysis in order to see whether the Tribunal indeed took a new course, who will benefit from it and what will be the impact of this new course on the Tribunal’s legal legacy. Here, we will merely highlight some glaring, easy to see facts, about the ‘volte-face’ in the jurisprudence of the Tribunals in The Hague and in Arusha. These facts indicate that there is something wrong with this picture.

In a short span of only three and a half months from mid-November 2012 to late February 2013, the Appeals Chambers of the Tribunals in The Hague and Arusha, led by Judge Meron, quashed by a majority vote three judgments convicting five high military and civilian officials who had been on trial for serious violations of international humanitarian law in the former Yugoslavia and Rwanda.

The three trials lasted for a combined total of nine years, or 900 trial days. The trial chambers heard a total of 453 witnesses and admitted into evidence thousands of exhibits. The trial judgments that found that the guilt of the accused had been proven beyond reasonable doubt, extended to a total of 2608 pages: 1377 pages for Gotovina and Markač, 595 pages for Mugenizi and Muginareza and 636 for pages Perišić. The five accused were convicted and sentenced to 24 years (Gotovina), 18 years (Markač), 30 years (Mugenizi), 30 years (Muginareza) and 27 years (Perišić): a total of 129 years.

And then, in the appellate proceedings, it was found that all this was erroneous and the accused were acquitted of all charges. The appellate judgments have 56, 55, and 49 pages respectively, and are among the thinnest judgments in the history of both tribunals (not only in volume). Some judges sneeringly describe them as ‘magazine judgments’.

It might well be true, just as for some other things in life, that it is not the ‘size that matters’ for appelate judgements. However, there should be a limit. For instance, the appellate judgment in the case against Florence Hartmann is as long as the Gotovina and Markač appellate judgment. In her case, the appellate proceedings took 22 months, three months longer than in the case against the Croatian generals. Perhaps the Appeals Chamber took more time to deal with it because of the peculiar nature of the case, where the Appeals Chamber played the triple role: that of an alleged injured party, the prosecutor and the trier. Perhaps that is why they needed more time to deliberate and produced a longer statement of reasons than in the case of the two generals charged with the war crimes against Serb civilians during and after Operation Storm in the summer of 1995. Let us justremind here that Hartmann’s ‘crime’ was to publish the fact that the Appeals Chamber of a UN court granted confidentiality to a set of documents produced by the Supreme Defense Council of the Federal Republic of Yugoslavia, thus making it impossible for them to be used before another UN court, the ICJ, in the case brought by Bosnia and Herzegovina against Serbia.

Let us go back to the quashed judgments of the Tribunals in The Hague and in Arusha. They beg the question: how is it possible for nine judges in three trial chambers (or, in fact eight, since one of the judges wanted to acquit Perišić at trial), so, how is it possible for eight professional international judges, to make such a grave mistake and put away five innocent generals and ministers for a total of 129 years? How is all of that possible after they had spent a total of 900 trial days hearing hundreds of witnesses and studying thousands of exhibits? How is it possible after they had spent untold millions of dollars of taxpayers’ money from all over the world? Only for the majority in the Appeals Chamber to summarily conclude that the efforts and the conclusions of the trial judges were worthless, not worth the paper they were printed on?

Is it possible that the members of the trial chambers of the two Tribunals, in The Hague and in Arusha, are so lacking in professionalism and integrity, that their findings and conclusions can be set aside so lightly? Who has appointed them as international judges, if they are really so inept? Were they appointed after they had pulled some strings ? Who looked at them and made a decision that they met the criteria set in Article 13 of the Statute, stipulating that ‘[t]he judges shall be persons of high moral character, impartiality and integrity who possess the qualifications required in their respective countries for appointment to the highest judicial offices’? What highest judicial office could be held by the judges whose judgments were so drastically torn to pieces on appeal? Who kept assigning new cases and new trials to the same judges who brought their profession into disrepute? Why? So that they could be humiliated on appeal again?

Is it possible that there is such a world of difference in terms of quality, professionalism, integrity and judicial temperament between the judges in the trial and appeals chambers? After all, with the exception of a single prison sentence that was revised following the appellate judgment, the appellate judgments still stand, unrevised and unquashed. Whether this is due to the infallibility of the appellate judges or to the lack of a higher instance for the review of their findings and conclusions… is an open question. In the absence of this higher instance, their findings and conclusions are protected by the “presumption of infallibility”.

However, the “presumtion of infallibility” should not shield them from public expressions of concern, criticism and protests against the ‘new course’ that they have plotted for the Tribunals in The Hague and Arusha.

 

Da Sense Agency




70 ANNI FA...
La fuga degli antifascisti jugoslavi dalla Rocca di Spoleto (PG) e gli albori della Resistenza in Valnerina


Fonte: I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA
Storie e memorie di una vicenda ignorata
di Andrea Martocchia - con contributi di Susanna Angeleri, Gaetano Colantuono, Ivan Pavičevac
Prefazione di Davide Conti, Introduzione di Giacomo Scotti
Roma, Odradek, 2011 - http://www.partigianijugoslavi.it/

dalle pp. 26, 32-34:


<< In Umbria, a partire dal 1942, tanti jugoslavi – montenegrini, sloveni, croati – furono destinati alle miniere di lignite o alle fornaci di mattoni della Regione; altri furono rinchiusi nelle carceri di Perugia e Spoleto; altri ancora – la maggioranza – furono internati in campi di concentramento, il principale dei quali fu quello di Colfiorito, presso Foligno. [...]  
Il vero nucleo organizzativo-militare della costituenda brigata partigiana della Valnerina fu costituito da quelli scappati dalla Rocca di Spoleto: 

"un folto gruppo di jugoslavi (...) vi erano detenuti per motivi politici. Scarse testimonianze si hanno di questa evasione. Essa comunque avvenne nella notte tra il 13 ed il 14 ottobre 1943." [...]  

Svetozar Laković [nome di battaglia "Toso"], che era nativo di Berane (Montenegro), racconta: 

"Come partigiano della prima ora nel 1941, fui arrestato qui nel Montenegro da fascisti italiani e condannato a vent’anni di carcere. Fui dapprima, assieme ad altri compagni nelle carceri dell’Italia del nord [Volterra] e quindi trasferito a Rocca di Spoleto. Noi jugoslavi eravamo circa 150, c’erano anche una cinquantina di prigionieri politici greci e gli altri erano italiani. Dopo la capitolazione apprendemmo che dai vari campi di concentramento i prigionieri cominciavano a fuggire. Paventando di essere consegnati ai tedeschi (...) effettuammo un attacco in forze contro la guardia del carcere, una trentina di carabinieri; li disarmammo e riuscimmo a fuggire. Ci dividemmo in quattro gruppi ed io mi posi al comando di un gruppo (avevamo con noi qualche fucile)." [...]  

Otello Loreti, un antifascista di Spoleto che già il 13 settembre si era dato alla macchia, ricordò così quella evasione:

"Ero a conoscenza che nella Rocca di Spoleto vi era un forte nucleo di detenuti politici jugoslavi, prevalentemente studenti condannati dai tribunali ustascia ed italiani. Infatti questi detenuti erano inviati a lavorare nei vari laboratori ed aziende della città ed è stato per questo motivo che sono venuto in contatto con alcuni prigionieri. La sera del 13 ottobre, verso le 17, tutti i detenuti erano stati rinchiusi nelle loro celle. Era rimasto fuori Giuseppe [...], uno slavo che esercitava il mestiere di fabbro. Giuseppe aggredì una guardia di servizio, gli tolse l’arma e lo obbligò ad aprire le celle in modo da far uscire gli altri. Accorsero altre guardie che si fecero disarmare facilmente. I detenuti, armi alla mano, obbligarono il Direttore [Guido Melis] ad aprire la porta principale ed anche il magazzino viveri dove si rifornirono di vettovaglie. Gli jugoslavi disarmarono poi altre guardie e quindi dal Ponte delle Torri presero la via dei boschi dopo essersi divisi in tre gruppi per meglio sfuggire alle ricerche."

Loreti ed il suo piccolo gruppo, costituito assieme ad Umbro Giulidori e Mario Leonardi, [...] intercettarono gli jugoslavi in fuga, a Raischio, nella proprietà del marchese della Genga, e per loro approntarono la sistemazione in un fienile.

"I boschi circostanti Spoleto erano loro familiari in quanto vi erano stati condotti in occasione di alcuni bombardamenti aerei, per cui fu abbastanza agevole per essi dileguarsi e raggiungere la montagna dove si incontrarono con noi che già ci eravamo dati alla macchia. Il Direttore del Carcere di Spoleto dottor Melis ritardò a dare l’allarme e questo agevolò, in un certo senso, la fuga degli jugoslavi. Per questo ritardo il Direttore fu arrestato insieme alla famiglia ed a molte guardie di servizio e detenuto nel carcere di Perugia fino alla Liberazione."

Il primo scontro a fuoco con i tedeschi in cerca degli evasi si verifica già il giorno 14 nel paesino di Caso. In questa località i partigiani di Loreti riescono a rifornirsi di alcuni fucili che erano nascosti in un fienile; a dare man forte c’è poi lo stesso Ernesto Melis [il figlio del Direttore del carcere, che si pone alla guida di una sua banda partigiana] con i suoi uomini, dotati di mitragliatrici: presi tra due fuochi, i tedeschi si danno alla fuga. [...]  

La banda Melis, anche in virtù della sua composizione, si prefiggeva obiettivi diversi rispetto a quelli dei partigiani comunisti – tali erano Loreti, gli jugoslavi guidati da “Toso”, e tutti quelli che negli stessi giorni si radunavano attorno ad Alfredo Filipponi presso Terni. Lo stesso Loreti non aderì mai alla “Melis” e preferì unirsi agli jugoslavi; con loro entrò nella brigata “Gramsci” di Filipponi e condivise tutte le vicende della Resistenza in zona. Ci fu comunque un periodo di “interregno” ed incertezza che durò fino alla fine del mese di ottobre. Ai primi di novembre Ernesto Melis d’accordo con lo stato maggiore della sua banda ne decise lo scioglimento “tattico”, per evitare che i propri famigliari – che nel frattempo erano stati tutti arrestati – corressero rischi eccessivi. In seguito, sia i militari di Melis che gli jugoslavi di “Toso” si trasferirono in altre zone ritenute più sicure. Gli jugoslavi in particolare scelsero come base Mucciafora in Alta Valnerina...




TENTACOLI GIULIANO-DALMATI

Eremo di Ronzano, tremila firme
contro lo sfratto dei frati


Oggi si riunisce il consiglio provinciale dei Servi di Maria. L'appello dei laici: "Non vogliamo perdere il luogo della chiesta conciliare a Bologna, fermatevi"


Tremila firme contro lo sfratto dei frati da Ronzano. Cresce la rivolta di laici e religiosi a difesa dell’eremo e della sua storia. L’ordine dei Servi di Maria, a livello provinciale, ha deciso di far scendere i religiosi, rimasti in quattro, dalla collina, per assegnare la gestione del complesso conventuale ad esponenti dell’associazione reduci giuliano-dalmati. Una decisione che ha colto tutti di sorpresa e che trova contrari gli stessi frati e i laici.

In rete è partita già da alcune settimane la protesta, che ora è arrivata a 2.244 sostenitori (quelli che hanno firmato l’appello on line) più le settecento firme raccolte dall’Associazione Amici di Ronzano in banchetti e incontri nelle ultime settimane. Tante anche le lettere private, qualcuno ha scritto al sindaco Virginio Merola. Indignazione e rabbia. L’appello, rivolto al priore provinciale fra Gino Leonardi, chiede di rivedere la decisione, di aprire “un confronto che consenta una soluzione che salvaguardi questa importante realtà ecclesiale, civile e culturale”. Perché con la “cacciata” dei religiosi quel luogo di testimonianza della chiesa conciliare che Ronzano ha rappresentato per decenni a Bologna rischia di disperdersi.

Oggi è previsto un incontro del Consiglio provinciale dell’Ordine dei Servi di Maria. Sul tavolo arriverà la protesta, rilanciata nei giorni scorsi anche dall’agenzia Adista, che è la più importante agenzia di informazione religiosa. All’incontro parteciperà anche frate Pietro, che ha rassegnato le dimissioni da priore conventuale perché contrario al “programma di ristrutturazione” della Provincia dell’ordine religioso.

Sono centinaia di testimonianze on line per quel luogo dell’anima condiviso da decenni da cattolici e non solo. “Importantissimo preservare un luogo di incontro tra laici e credenti in un ambiente splendido”, scrive Paola Calzolari. “Sono sempre più rari i luoghi dove si possa sperimentare la bellezza di Dio. Ronzano è uno di questi luoghi intrisi di Spirito Santo. Non abbandonatelo al mondo”, è la richiesta di Dino Dazzani. Per Giampaolo, Ronzano “è un luogo di crescita e confronto, una perla che il mondo cattolico non può perdere”

Nell’appello si legge: “I sottoscritti chiedono al Priore Provinciale e al Consiglio dei Servi di Maria di rivedere la scelta su Ronzano.
 Che cosa rappresenta l’Eremo per quanti lo frequentano? Un luogo di spiritualità conciliare, ispirato al Vaticano II, un luogo di cultura e ricerca, uno spazio di fraternità, un eremo accogliente e un ambiente ecologico. Pur nel rispetto delle difficoltà dell’Ordine, che sono all’origine dei provvedimenti, si chiede di aprire un confronto che consenta una soluzione che salvaguardi questa importante realtà ecclesiale, civile, culturale”.

(14 ottobre 2013)


Per sottoscrivere l'appello: 



(castillano, italiano)

Dalla Libia a Lampedusa il passo è molto breve

1) 20 ottobre 2011 - 2013: Due anni fa l'assassinio per linciaggio e sevizie di Muammar Gheddafi. Il testamento politico
2) ¿Quién hundió el “Anti-Titanic” en Lampedusa? (N. Armanian)
3) La disintegrazione della Libia (P. Lavrentieva)
4) Libia, Intervista a Angelo Del Boca: «Il paese non c'è più, ormai si è somalizzato»


CITAZIONE:

"La storia sarà con i popoli che lottano per giuste cause, mai con chi sollecita le potenze imperiali straniere a venire ad attaccare il proprio paese. Il destino che attende i criminali del CNT è scritto con inchiostro indelebile, come è rimasta scritta, la storia del martirio di un popolo, delle sua città e della sua famiglia. Avanti con il sacro dovere di lottare fino alla vittoria o alla morte. Con l'esempio eterno del colonnello Gheddafi, leader coraggioso del popolo libico e guida della Jamahiriya Libica Popolare e Socialista".
Fidel Castro

LINKS:

Patto segreto tra Italia e Libia contro i migranti. La denuncia di A.I. (2012)

Sul rifornimento italiano di armi ai tagliagole anti-libici:
Armi sui traghetti, il segreto di Stato fa affondare l’inchiesta
http://lanuovasardegna.gelocal.it/olbia/cronaca/2013/04/06/news/armi-sui-traghetti-il-segreto-di-stato-fa-affondare-l-inchiesta-1.6831787


=== 1 ===


Testamento politico di Muammar Gheddafi, Guida della Rivoluzione della Grande Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista

In nome di Allah, il Clemente, il Misericordioso;
Per 40 anni, o magari di più, non ricordo, ho fatto tutto il possibile per dare alla gente case, ospedali, scuole e quando aveva fame, gli ho dato da mangiare convertendo anche il deserto di Bengasi in terra coltivata.
Ho resistito agli attacchi di quel cowboy di nome Reagan anche quando uccise mia figlia, orfana adottata, mentre in realtà, tolse la vita a quella povera ragazza innocente cercando di uccidere me.
Successivamente aiutai i miei fratelli e le mie sorelle d’Africa soccorrendo economicamente l'Unione africana, ho fatto tutto quello che potevo per aiutare la gente a capire il concetto di vera democrazia in cui i comitati popolari guidavano il nostro paese; ma non era mai abbastanza, qualcuno me lo disse, tra loro persino alcuni che possedevano case con dieci camere, nuovi vestiti e mobili, non erano mai soddisfatti, così egoisti che volevano di più, dicendo agli statunitensi e ad altri visitatori, che avevano bisogno di "democrazia" e "libertà", senza rendersi conto che era un sistema crudele, dove il cane più grande mangia gli altri.

Ma quelle parole piacevano e non si resero mai conto che negli Stati Uniti non c’erano medicine gratuite, né ospedali gratuiti, nessun alloggio gratuito, senza l’istruzione gratuita o pasti gratuiti, tranne quando le persone devono chiedere l'elemosina formando lunghe file per ottenere un zuppa; no, non era importante quello che facevo, per alcuni non era mai abbastanza.

Altri invece, sapevano che ero il figlio di Gamal Abdel Nasser, l'unico vero leader arabo e musulmano che abbiamo avuto dai tempi di Saladino, che rivendicò il Canale di Suez per il suo popolo come io rivendicai la Libia per il mio; sono stati i suoi passi quelli che ho provato a seguire per mantenere il mio popolo libero dalla dominazione coloniale, dai ladri che volevano derubarci.

Adesso la maggiore forza nella storia militare mi attacca; il mio figliuolo africano, Obama, vuole uccidermi, togliere la libertà al nostro paese, prendere le nostre case gratuite, la nostra medicina gratuita, la nostra istruzione gratuita, il nostro cibo gratuito e sostituirli con il saccheggio in stile statunitense, chiamato "capitalismo", ma tutti noi del Terzo Mondo sappiamo cosa significa: significa che le corporazioni governano i paesi, governano il mondo e la gente soffre, quindi non mi rimangono alternative, devo resistere.

E se Allah vuole, morirò seguendo la sua via, la via che ha arricchito il nostro paese con terra coltivabile, cibo e salute e ci ha permesso di aiutare anche i nostri fratelli e sorelle africani ed arabi a lavorare con noi nella Jamahiriya libica.
Non voglio morire, ma se succede, per salvare questo paese, il mio popolo e tutte le migliaia che sono i miei figli, così sia.

Che questo testamento sia la mia voce di fronte al mondo: che ho combattuto contro gli attacchi dei crociati della NATO, che ho combattuto contro la crudeltà, contro il tradimento, che ho combattuto l'Occidente e le sue ambizioni coloniali e che sono rimasto con i miei fratelli africani, i miei veri fratelli arabi e musulmani, come un faro di luce, quando gli altri stavano costruendo castelli.

Ho vissuto in una casa modesta ed in una tenda. Non ho mai dimenticato la mia gioventù a Sirte, non spesi follemente il nostro tesoro nazionale e, come Saladino, il nostro grande leader musulmano che riscattò Gerusalemme all'Islam, presi poco per me ....

In Occidente, alcuni mi hanno chiamato "pazzo", "demente": conoscono la verità, ma continuano a mentire; sanno che il nostro paese è indipendente e libero, che non è in mani coloniali, che la mia visione, il mio percorso è, ed è stato, chiaro per il mio popolo : lotterò fino al mio ultimo respiro per mantenerci liberi, che Allah Onnipotente ci aiuti a rimanere fedeli e liberi.

Colonnello Muammar Gheddafi, 5 aprile 2011


=== 2 ===

en francais: Qui est responsable du naufrage de « l’anti-Titanic » de Lampedusa ? 

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¿Quién hundió el “Anti-Titanic” en Lampedusa?


06 oct  2013
Nazanín Armanian

Si no fuera porque el número de los refugiados fallecidos en la costa italiana ha superado el techo de la “normalidad” que ronda sobre 60-70 personas, la tragedia de los tripulantes de esta patera hubiera pasado desapercibida. Hace dos años 61 refugiados –incluidos varios niños-, naufragaron en este mismo lugar al quedarse sin alimentos y combustible, mientras un portaaviones de la OTAN les miraba sin pestañear.

Sin nombre, ni historias de amor o de intriga, ninguna canción eternizará su viaje a la muerte, ni nadie hará una película de esos hombres y mujeres valientes capaces de arriesgar su vida no solo para cumplir su sueño, sino para ayudar a su familia y empujar de paso el carro de la civilización humana.

“Deshumanizar al otro” es una estrategia política que legitima el trato que se le da; el mismo que han recibido decenas de miles de asesinados bajo los bombardeos en Irak, en Afganistán o en Pakistán: mientras ellos carecen de identidad, nos enseñan en la tele la foto de la boda y de la esposa embarazada de aquel soldado de ocupación muerto a manos de un nativo “bárbaro y despiadado”.

¡Cómo esos cuerpos en el mar han puesto a prueba, una vez más, nuestra capacidad de no sentir vergüenza de votar a individuos que aprueban leyes antinaturales como la de castigar a quien ayuda al prójimo! Aún así, varios pescadores italianos siguiendo su instinto salvaron la vida de decenas de aquellas personas desesperadas, escupiendo a la cara de demonios disfrazados que hemos colocado en los sofás de los palacios.


Vidas no contadas

Entre las historias de vida de miles de personas, campeones olímpicos sin medallas que saltan las vallas de púas más altas con manos ensangrentadas, que se lanzan a los mares indomables huyendo de guerras, hambrunas, persecuciones políticas, étnicas, religiosas, de género, víctimas de políticas de sus gobiernos o del pulso de las grandes potencias mundiales por expolio de sus inmensos recursos naturales, podemos conocer las siguientes:

-Fátima, mujer somalí de 26 años que viajaba junto con su hijo Ahmed de 5 años. Su país, ubicado sobre un lago de petróleo no explotado, ha sido declarado por Occidente  como “Estado fallido” – contraseña del “país poseedor de recursos naturales o ruta de su tránsito, ya apto para ser dominado”-, desfallece de hambre sobre inmensas reservas de uranio, oro, petróleo, gas, bauxita y cobre. El escándalo fabricado sobre los “piratas” de pocamonta en 2009, -si bien estaba al servicio de militarizar el Cuerno de África y el Golfo de Adén, uno de los corredores más estratégicos del planeta que conecta el Golfo Pérsico, el Mar rojo y el Canal de Suez y por donde pasa el 30% del petróleo del mundo-, revelaba además que el pescado y el marisco de sus caladeros –lo poco sustento que les quedaba-, acababan en las mesas de los hoteles españoles y franceses, y que los verdaderos “bandidos del mar” de guantes y tez blancos, de paso vertían toneladas de desechos tóxicos en sus costas.

- Ahmed, niño de ojos grandes de 10 años, otra víctima, era huérfano al igual que varios millones de pequeños somalíes. No quería convertirse en uno de los 500.000 niños que viven en las calles del país, o verse obligado a trabajar jornadas interminables a cambio de un plato de comida, con palizas y abusos sexuales de postre, o convertirse en soldado o esclavo en el “mercado libre” del capitalismo global que ofrece “niño a la carta” a las empresas de todo tipo. Ahmed, que al embarcarse pensó que se había librado de tal destino, se encuentra ahora en el fondo del mar.


De Etiopia y Libia

- Abeba, mujer de la tierra del café, Etiopía, había conseguido junto con otras activistas que la Constitución prohibiera la ablación. Todo un logro. Para la luchadora de las batallas imposibles era más difícil, sin embargo, derrotar el sistema económico, político y social capitalista que bendice una violencia patriarcal estructurada. Su espalda, destrozada por llevar cargas pesadas durante horas de camino, ya no aguantaba. Se echó a esta aventura llevando consigo a su sobrina Hakima, de 7 años, una de los cuatro millones de niños huérfanos etíopes. El sueño de Abeba era salvarle de la desnutrición severa que mata a miles de pequeños en este país, que un día de 1974 se declaró socialista tras derrocar al dictador zombie Haile Selassie, gobernante de una población literalmente moribunda, enferma y analfabeta. El Gobierno militar de Haile Mariam, con el apoyo de la Unión Soviética y Cuba realizó reforma agraria, declaró universal y gratuitas la educación y la sanidad, y miró por los derechos de la mujer y de las minorías étnicas. Sus recursos como el oro, gas natural, tantalio, y mármol, por fin iban a servir al rescate de sus propietarios. Los errores del Gobierno, las terribles sequías de los años 80 que mataron a cientos de miles de personas, junto con las provocaciones de EEUU desde Eritrea que armaba a los rebeldes (quienes destinaban las ayudas internacionales contra el hambre a la compra de armas) ralentizaron este avance hasta ser paralizado con la caída de la URSS. Una situación parecida a la de Afganistán, país del que han huido unas 6 millones de personas en las últimos tres décadas.

Al final el Mar “rojo” no hizo gala de su nombre y Washington consiguió apoderarse del control del país y su privilegiada ubicación. Hoy, a pesar de ser una economía en bancarrota, y con medio millón de niños en riesgo inminente de morir, el Gobierno gasta 100 millones de dólares en la compra de 200 tanques a Ucrania.

- Ebrahim fue un arquitecto libio que dejó a su esposa y los dos hijos, y siguió la ruta del transporte que lleva los recursos de su tierra y se dirigió a Italia. Pensaba hacerse con un sitio allí y luego solicitar la reagrupación familiar. La situación tras el asesinato de Gadafi es caótica y deja en nada la promesa de la OTAN de democratizar el país. Es la misma Alianza militar que descargó toneladas de bombas sobre la población civil, sepultando miles de vidas y destruyendo las infraestructuras, para luego reconstruirlas con el dinero de las propias damnificadas (Libia: un negocio de guerra redondo). Se equivocó Ibrahim si pensó que los gobiernos occidentales beneficiarios de aquella infame agresión, a cambio, atenderían a los ciudadanos libios en Europa. ¡Había 65.000 millones de dólares líquidos libios en los bancos italianos! Por su parte, la Fiscalía de París investiga la posible financiación de la campaña electoral de Sarkozy en 2007 por parte de Gadafi. Los juegos sucios alcanzan puntos insospechados: Sarkozy luego pactó con los rebeldes del Consejo Nacional de Transición el derrocar al Coronel a cambio de que las empresas galas obtuvieran el 35% de las participaciones en el negocio de fuel. Hoy, el desgobierno, una cruenta lucha entre grupos armados por hacerse con el control de lo que es la mayor reserva petrolífera de África (la doble que las de EEUU), y una huelga intermitente de los trabajadores del petróleo han paralizado la economía. El colapso del Estado libio y la baja productividad de su industria petrolífera son parte de los motivos que impiden a los europeos apuntarse a la guerra de EEUU contra Siria.


Política de empobrecimiento

Condenar a los países ricos al subdesarrollo es una estrategia política que se ejecuta con la complicidad de las oligarquías y regímenes locales neopatrimonialistas ligados a negocios de todo tipo. Es la esencia de las recetas cocinadas por las instituciones financieras que obligan a los Estados a realizar reajustes estructurales y privatizar sus recursos naturales (¡como bosques de Tanzania!), con el fin de facilitar inversiones extranjeras. Una parte de la liquidez de los bancos occidentales ( Banco de Crédito y Comercio Internacional, por ejemplo) proviene del contrabando de piedras preciosas, tráfico de drogas y de armas de un África que mueve dinero dentro y fuera pero no deja nada para su desarrollo.

En nuestro cayuco imaginario también estaban gente de Malí, país invadido por la OTAN , tierra de petróleo, oro y uranio, donde la esperanza de vida es sólo de 37 años, o de Nigeria, el séptimo productor mundial del petróleo…

Es la misma historia de los iraquíes: atacados y masacrados por EEUU y sus aliados, unos 5 millones de los habitantes de la antigua babilonia, se han refugiado en los países vecinos, donde empiezan otras guerras (la de Siria) y deben volver a recoger sus bártulos huyendo hacia ninguna parte.

En 2012 se contabilizaron unos 230 millones de inmigrantes.

Ninguna vigilancia aérea y marítima, ni siquiera hundir las pateras en el mar a cañonazos, como proponía el ultraderechista italiano Umberto Bossi , podrá detener a millones de seres humanos a que huyan a de su tierra.

Ya no funciona relacionar la inmigración con la delincuencia: ¡que miren los juzgados en España! Tampoco es tarde que los ciudadanos corrijan su mirada hacia los refugiados e inmigrantes cuando tienen hijos que con dos títulos universitarios, viven en un piso patera en Londres o Berlín, y limpian los WC. Aun así, España desde el 2013 ha deportado a 6.056 inmigrantes, y seguía deteniendo al desgraciado transportista de una patera o de un camión, quizás para desviar la atención a los verdaderos causantes del tráfico de seres humanos o quizás para que nadie ponga en entredicho su idea brillante de pagar a los gobiernos, como al senegalés, para que admitan la repatriación de los refugiados detenidos, pisando las leyes internacionales. No nos dicen que las autoridades corruptas de éste mismo país conceden licencias especiales de pescar a empresas extranjeras, elevan las tasas de estos permisos para los nativos, forzándoles a lanzarse al mar para llegar a España.

De África se están llevando el oro, el coltán, el hidrocarburo y otros recursos, y a cambio se les envía aviones cargados de armas y muchos misioneros para que les invite a paciencia y vivir el sueño de tener una vida mejor en el “otro mundo”.



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La disintegrazione della Libia

di Polina Lavrentieva

Nel 2011, Thierry Meyssan assicurava che non vi era alcuna primavera araba in Libia, che la popolazione non si era rivoltata contro Muammar Gheddafi, ma che gli occidentali usavano il movimento separatista della Cirenaica. Due anni dopo, il gioco è fatto: Tripoli ha perso il controllo di Cirenaica e Fezzan, come hanno osservato gli inviati speciali delle Nazioni Unite. La ricchezza del Paese è ora solo nelle mani delle bande e delle multinazionali statunitensi.

RETE VOLTAIRE | MOSCA (RUSSIA) | 11 OTTOBRE 2013

Non si può fermare il processo di disintegrazione della Libia iniziato dall’assassinio di Muammar Gheddafi. Un nuovo rapporto delle Nazioni Unite dice: sullo sfondo della separazione della province della Libia “liberata dal dittatore”, avvengono esecuzioni affrettate, una massiccia oppressione politica e torture.
Secondo la relazione congiunta della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) [1] e dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, circa 27 persone sono morte in carcere nel Paese solo alla fine del 2011 [2]. 8000 persone sono detenute nelle carceri del Paese. Sono state definite, nel 2011, “partigiani di Gheddafi”. La maggior parte di loro non è stata nemmeno formalmente indagata e nessuno sa per quanto tempo rimarranno in carcere, perché il sistema giudiziario non funziona quasi più.
Il New York Times suggerisce che le persone siano state arrestate per motivi religiosi o etnici, o perché sospettate di non essere fedeli alla “democrazia”. I detenuti con cui gli ispettori delle Nazioni Unite hanno potuto parlare, hanno riferito di essere picchiati e torturati dal fuoco e dalla fame, nelle carceri.
Nell’aprile di quest’anno, è stata approvata una legge in Libia per impedire la tortura e condannare i rapimenti. Ma non viene applicata. Questa è solo una parte del quadro della disintegrazione dello Stato libico. Le regioni si ritirano gradualmente, come ci aspettavamo due anni fa su queste pagine. E questo non accade senza spargimento di sangue.
Il 27 settembre, il Fezzan ha dichiarato l’indipendenza, o almeno la sua piena autonomia, [3] i leader tribali hanno deciso così “per via dello scarso lavoro del Congresso.” A giugno, è stata la regione (ricca di petrolio) della Cirenaica [4] che s’è ripresa la sua libertà. Delle tre regioni storiche della Libia, solo la tripolitania ne fa ancora parte. Per ora, non c’è forza in grado di riunire questi tre Stati storici che formavano la Libia dal 1951.

Fonte 
Odnako (Russia)
Settimanale d’informazione generale. Redattore capo: Mikhail Leont’ev. 


Traduzione di Alessandro Lattanzio (SitoAurora)

[1] Sito della MANUL.

[2] “Tortura e morte nelle carceri della Libia“, relazione Unismil, ottobre 2013.

[3] “La ‘nuova Libia’: la regione del Fezzan dichiara la sua indipendenza“, Irib, 27 settembre 2013

[4] “Ливии официально больше нет. Восток объявил “нефтяное государство” “(la Libia è ufficialmente finita, l’oriente si dichiara petro-Stato) Odnako, 7 marzo 2012.



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LIBIA - MONDO

«Il paese non c'è più, ormai si è somalizzato»

TOMMASO DI FRANCESCO
11.10.2013

Intervista a Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano, sul sequestro del primo ministro: «È uno scontro di potere. Non sono assolutamente sorpreso». «Ali Zeidan, professore universitario magnificato da tutto l'Occidente è un uomo stranamente ricchissimo»

Per capire l'evolversi della crisi libica abbiamo intervistato Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e massimo esperto internazionale della Libia.

Come giudica il sequestro da parte delle milizie armate del primo ministro libico Ali Zeidan, poi liberato?

È uno scontro di potere. Fa parte del caos nel quale la Libia è caduta dopo la guerra della Nato che ha deposto nel sangue Gheddafi. Non sono assolutamente sorpreso del sequestro. L'anno scorso, quando doveva diventare premier Anwar Fekini, figura di spicco dell'opposizione in esilio (e nipote di Mohammed Fekini protagonista della rivolta contro l'occupazioneitaliana) ho cercato di dissuaderlo. Era restio ai miei suggerimenti, ma recentemente mi ha ringraziato dicendomi: «Mi hai salvato la vita».

Che cosa è accaduto in Libia dall'uccisione di Gheddafi, nell'ottobre 2011, a oggi?

È accaduto il fenomeno della proliferazione delle milizie armate. Da stime dell'intelligence statunitense sono più di 500 e temibilissime. La stessa Casa bianca, che fornì l'aviazione a questi insorti, se n'è accorta dolorosamente l'11 settembre 2011 quando i jihadisti hanno attaccato il consolato Usa di Bengasi assassinando l'ambasciatore americano Chris Stevens e tre alti funzionari statunitensi. Tra le milizie è fortissimo il peso dei jihadisti. Così, dopo la cattura nei giorni scorsi da parte di forze speciali americane del presunto esponente di Al Qaeda, Abu Anas-Al Lybi, molto in vista nel sommovimento libico, è scattata la «risposta» delle milizie più islamiste. Che manda a dire - credibilmente - a Washington: avete fatto un arresto arbitrario, contro la nostra sovranità. Il giorno prima Zeidan aveva smentito ogni avallo di Tripoli all'operazione. Ma il segretario di stato Usa John Kerry lo ha clamorosamente smentito poche ore dopo, rivelando che il governo libico era stato consenziente. Mi piace ricordare un elemento che può far capire la commistione tra milizie e governo in Libia. Ali Zeidan, professore universitario magnificato da tutto l'Occidente è un uomo stranamente ricchissimo e solo un mese fa ha regalato un miliardo di dollari alle milizie di Misurata, considerate quelle più forti e radicali.

Si può dire che la crisi in corso in Libia è, in qualche modo, anche una crisi italiana, che cioè chiama in causa le nostre responsabilità poltiche?

Certamente. Mi spiego meglio. In questi giorni ho cercato ripetutamente di mettermi in contatto con il presidente Enrico Letta per consigliarlo. Perché Letta ha commesso in questo periodo un gravissimo errore: ha dato la disponibilità dell'Italia al presidente americano Obama che gli ha chiesto, per la vicinanza e la storia, di coinvolgersi ancora di più nella crisi libica. Come? Rimettendo in piedi esercito e polizia, ricostituendo le istituzioni e, soprattutto, «disarmando le milizie». Ma dire di sì a questa «disarmante» e sconcertante richiesta vorrebbe dire prepararsi di fatto alla terza invasione militare italiana della Libia. Perché, sempre secondo l'intelligence Usa, le più di 500 milizie corrispondono a circa 30mila uomini armati fino ai denti, con cannoni e carri armati. Un vero e proprio esercito agguerrito. Con un incessante e massiccio traffico di armi verso la destabilizzazione di aree decisive come Siria, Sinai (Egitto), nord-Mali, Tunisia e Algeria. Ma, come se non bastasse, ci sono altre due questioni, perfino più gravi, che in queste ore chiamano in causa l'Italia. In primo luogo il fatto che gli Stati uniti, di fronte alla situazione libica, hanno deciso di inviare forze speciali - già subito più di 200 marine - nella base di Sigonella. Perché su questa decisione il governo Letta-Alfano tace? Dovrebbe invece prendere posizione, perché l'intenzione statunitense è l'apertura di fatto di un fronte in Libia di guerra «coperta». Bisogna ringraziare i Paesi della Nato e gli stessi Stati uniti che con la guerra del 2011 hanno trasformato la Libia nella nuova Somalia del 1993-1994, quando venne abbandonata da truppe americane e italiane, dopo l'avventura bellica anche allora venduta come «umanitaria». Insomma, la Libia che abbiamo conosciuto non esiste più, si è «somalizzata», con l'aggravante che è una «Somalia» dall'altra parte delle nostre sponde mediterranee. E invece il presidente Letta vuole tornarci «per disarmare». 

E c'è anche il massacro di Lampedusa...

Sì, perché c'è l'altra drammatica vicenda dei migranti in fuga dalla grande Africa dell'interno, da miseria, fame, da guerre attivate per interessi occidentali su gigantesche ricchezze minerarie e fonti di energia. Proprio due giorni fa, in piena sintonia criminale con il massacro di Lampedusa, e con l'avvallo del governo italiano, lo stato maggiore italiano della Guardia di Finanza e della Guardia costiera nazionale ha firmato «un accordo con le autorità libiche» (quali?) per il pattugliamento congiunto dei porti della Libia. Viene da chiedere: con quali milizie, con quali leader jihadisti abbiamo firmato questo incredibile patto, a chi abbiamo promesso denaro italiano per fermare militarmente i disperati che fuggono con le bagnarole nel Mediterraneo?




(ovaj text na srpskohrvatskom: Од Косова до Сирије
Вишеслав Симић - професор - Ел Текнолохико де Монтереј, Мексико - 26. септембар 2013.


Višeslav Simić (Вишеслав Симић)
2do Seminario Internacional "Análisis e incidencia de las políticas públicas" - EGAP - Tecnológico de Monterrey - 25 y 26 de Septiembre 2013 - México

 

As the so-called Kosovo "war"(1) is being used by the United States of America as a blueprint(2) for how the euphemistically(3) called "international community"(4) should militarily resolve the crisis in Syria without a mandate from the U.N. (in spite of the U.S. persistently insisting that it was a sui generis case), it is becoming increasingly more important not only finally independently to study the "mob or sole assailant"(5) aspect of the contemporary U.S. international approach but, even more, to dedicate particular attention to the post- and extra-combat involvement (or the lack of it) of the "international community" in the management(6) of the territories and the people "liberated"(7) by it.

While the U.S. President announces(8) a possible attack on a sovereign nation of Syria without the authorization by the U.N., citing the precedent of Kosovo as justification for it, the U.S. Secretary of State (accused by some of being le ministre étranger aux affaires) assures U.S. citizens that rich Arab nations would foot the bill(9) (attempting to relieve concerns about the system's impending bankruptcy(10)), and a multitude of the West's "corporate intellectuals"(11) (especially the ones from the so-called La Gauche Caviar) are soothing the moral and psychological worries of its ever-conscientious public, there are legitimate and reliable voices who give us different points of view about this issue, from the warnings to the U.S. leaders that aiding a declared enemy(12) of the U.S. would be treason(13), that Syria's socialist secular economic/political system(14) is the main problem for both the neo-liberal West and the reactionary, fundamentalist Islamist Arab regimes, to those that the so-called opposition in Syria are "a bunch of criminals" and not "revolutionaries."(15)

Just a part of this list of concerns should create a grave apprehensiveness about the "international community's" capacity to act in Syria militarily, but even more about its competence to be the leader of the supposed post-conflict stabilization and reconstruction. Taking into consideration the "international community's" aggressive and criminal March 1999 record in Serbia, November 2001 in Afghanistan, March 2003 in Iraq, and March 2011 in Libya, its involvement, and especially the U.S. leadership role, should be extremely questionable(16).

It is certain that the U.S. global position was dominant in the post-Soviet period, and that the phrase "international community" became synonymous with the U.S.—the main formulator of what were dogmatically(17) believed to be liberal(18) privatization-centered(19) pro-democratization and economic growth policies during the 1990s and the early 21st century. Yet, as these policies' truthfulness and efficacy became increasingly questioned and challenged(20), due to their failures and catastrophic consequences in practice(21), and as the U.S. increasingly turned into a defender against charges of imperialism and aggression(22), and a coercer of unwilling allies(23) into arrogant violations of international law(24) than it remained a leader of any true community of states, great questioning(25), strong confirmations(26), and new understandings and opinions(27) of the term "international community" appeared.

Although there had been a few U.N. missions in the disputed/non-sovereign territories before the Kosovo mission was established, the fact is that all of them were initiated properly in the U.N., and implemented by it, including military forces of various member states, that willingly lent them, working in close cooperation with the world organization.

Kosovo was a crucial turning point and the precedent that nullified the old rules by force, without establishing any clear and agreed upon new ones for the future.

As the Kosovo precedent allowed for the creation of new states, such as Abkhazia and South Ossetia, and for the establishment of new "international communities", who justified and implemented such acts, it became obvious that a trend is being set and that the organization of the United Nations is increasingly either serving the purposes of one of the "international communities", or that it is being ignored by either of the "international communities"(28) or by all of them(29). The multitude of the small states for decades has been pointing out the fact that they are not even considered by the "international community" if they disagree with its policies, or are used to shore up its "moral imperative" when they do, but their plight is not as important in the "realpolitik" world as the latest warnings by one of the greatest powers—China—about the "improper comments in the name of the 'international community'"(30) by some Western politicians.

Although there are some Western intellectuals(31) and popular commentators(32) who point this out, a blindness to these facts, and a dogmatic, quasi-religious faith in the only true "international community" is very noticeable in the so-called West—not only among its political classes but in academia as well, where it should be happening the least, especially taking into consideration the plenitude of analysis of international politics(33).

The pattern has already become a common place: a regime is declared "rogue" for not accepting the "international community's" dictates and not opening its economy for a neo-liberal takeover, and an adequate "endangered" minority is designated a victim within the "rogue" regime's borders, and the minority's criminal sub-population is trained and equipped to be the "legitimate and justified" opposition to the regime and the future "guarantor of democracy and economic development" of the "liberated" nation, and an ally in mutually beneficial money laundering operations(34). Then, cases of "human rights violations" are exaggerated or, if necessary, fabricated, and an insurrection by the "democratic, free-market oriented, and Westernized and moderate" guerrilla is legitimized, and a "red line" is drawn, after which a military intervention by the "morally indignant" "international community" becomes a must in order to save face and show the world its dedication to peace and international cooperation.

The "international community's" interests in the Middle East are obvious: preventing China from obtaining cheap oil for its economic growth and military development; getting closer to Russia's "soft southern belly", and increasing the possibility of destabilizing the E.U. through strong control and manipulation of its Moslem population, making the "allies" long term dependant on the "international community".

With Kosovo, it was not so obviously clear why the "international community" got so deeply and expensively involved in that oil-deprived region(35). Although the territory known as Kosovo is a landlocked, economically undeveloped, and socially backward land of 10,887 sq. km.(36), populated by anywhere between 1.5 to 2 million people(37), it is of a significant geo-political and strategic importance. 
Its position at the ancient surface crossroads—Via Militaris and Via Egnatia(38)—was made very obvious by the placement of the U.S. military base Bondsteel near that crucial intersection of the roads that connect Europe and Asia. Taking into consideration that the planned American-backed "Nabucco"(39) pipeline, as well as the Russian natural gas and oil pipeline, "Southern Stream"(40), were to pass through that area, supplying Europe with Russian and former Soviet Central Asian states' oil and gas, the geostrategic importance of Kosovo becomes more prominent.

The post-intervention international administration of a territory "liberated" by the "international community" brings many advantages both to the allied governments and the private businesses from the "cooperative" nations.

The case of Kosovo is an excellent example: it has been declared an investor's dream and a venture capitalist's heaven(41) by its new rulers.(42) Its labor market offers one of the cheapest labor forces in the world. With official unemployment rates in Kosovo reaching 50%(43), once the means of production are secured(44), and access to global markets are guaranteed, the investors will be attracted to the profit-making opportunities unparalleled in the developed world.

At the same time, the natural resources of Kosovo are legendary–according to the World Bank(45), 13.5 billion Euros are laying there, waiting for investors brave enough to acquire them: the richest lignite reserves in South Eastern Europe, which provide for a powerful electricity production for the whole region, as well as abundant reserves of zinc, cadmium, magnesium, kaolin, quartz, asbestos, chrome, bauxite, and lead(46), along with silver and gold–all of that under the watchful eye of the "international community"(47), eager to help set it to production and profit.
Yet, there are overwhelming problems and obstacles to that. They range from linguistic, through socio-cultural, historical and political, to legal—especially in terms of property law.

Thus, understanding the meaning and history of the names in Kosovo is only the beginning of the difficulties related to such problems.

The official and full name of the territory is Kosovo and Metohija. The land was always (as it still is today) known as Old Serbia(48) as well. Kosovo, just as Metohija did, emerged as a symbol, a reminder, a warning, and was almost accidentally used as a territorial designation only by the end of WWII, by the Communist party of Yugoslavia.

The word Metohija remains as another reminder, a public declaration by the rightful owner that the theft hasn't been forgotten, and as a subtle warning that order and justice shall be restored. That is why all false claimants to the land have insisted on the elimination of the word Metohija from the land's name.

Kosovo, as a word, means something only in the Serbian language(49)—the possessive adjective of the word kos, the American robin, a black bird, turdus merula, that flies in the skies over the famous battlefield of 1389(50).

The meaning of Metohija is clear and recognized easily by the Orthodox Christians. Being of Greek origin (μετόχια), the word is a legal and official term used to demarcate the earthly possessions of the Orthodox Church, in this case of the Serbian Orthodox Church.

It is very common in the West to dismiss all factually supported Serbian historical claims to Kosovo, while the most incredible, evidence-less Albanian claims to the antiquity of their possession and presence in the same territory are accepted as valid. Very often a question is asked by independent and reasonable observers how far back in time should the "international community" go, and what kind of mythical or spectral evidence(51) would be acceptable to lay a claim so that the matter could be settled. The situation is very similar to the one in Palestine at the time of the Jewish resettlement there, when the famous British writer H. G. Wells said: "If it is proper to 'reconstitute' a Jewish state which has not existed for two thousand years, why not go back another thousand years and reconstitute the Canaanite state?"(52)

Yet, Kosovo and Metohija became an official U.N. Protectorate, with NATO as the power that guarantees it remains so for the time being. Although the Albanians declared independence in 2008 and the "international community" recognized its "sovereignty"(53), it is still NATO that has the final authority there(54), along with the U.N. Special Representative of the Secretary General. Simultaneously, the U.N. Security Council Resolution 1244 guarantees the territorial integrity of Serbia, although some of the powers that voted for that resolution, in a paradoxical bipolar opposition to themselves, recognized the self-declared independent Republic of Kosovo. 
A matter of great interest for the scholars of international law and politics, and international management of territories and peoples, should be the evolution of the post-"liberation" fate of the leaders of the territories under "international community's" control, especially the speed and the degree of the degradation of their status and life. 
Slobodan Milošević, the leader of Serbia, was captured and put on a long-term trial by a special "international community's" tribunal(55), which terminated in his highly suspicious death after it became increasingly obvious that the evidence necessary for his conviction was not going to materialize. 
In Afghanistan, the Taliban were simply scattered and replaced by a puppet government, which still fully depends on the U.S. occupying forces in the country. Saddam Hussein, the leader of Iraq, was also chased away from his seat of power, and later captured and put on trial, but not by an international tribunal. The experience with Milošević most certainly taught the "international community" the risks of exposing its own alleged crimes before the increasingly judgmental world. The Iraqi court expressly found him guilty and he was executed by hanging, giving the impression that no appeal was permitted, or a chance for a pardon either. 
Libya's Moammar Gadhafi experienced no official capture or trial. The democratic and freedom-loving "opposition" to his regime was allowed by the "international community" to hunt him down like a wild animal and his slaughtering was filmed and widely distributed on the internet. A U.S. apparatchik to the new friendly and allied regime of Libya was murdered in a very similar manner a few months later. Then, the "international community" expressed an absolute outrage at the shocking and brutal treatment of a human being by the, now-legitimized, subject of international affairs.
The "post-conflict" status of the 'liberated" territories also differs significantly:
Kosovo seems to have been the experiment that set too high the bar for the future, causing extraordinary complications and embarrassing need for legal and moral "creativity". Following its lessons, a degradation and de-internationalization of the status of any new territory whose sovereignty(56) was altered has become noticeable. There has happened a lowering and limiting of the prerogatives of the "governor" in the field, and, with each new case, a gradual elimination of a significant portion of the U.N. membership from the pool of legal international subjects with a right to be involved in the governing and/or supervision of the territory.
In Kosovo, it was still the Secretary General of the U.N. (through his Special Representative) who was the highest civilian authority in the official U.N. protectorate(57), although the NATO military commander on the ground was the highest authority "in the theater", with a right to declare anything or anyone of "military significance" so as to grant himself the power to outrank the civilian authority of the U.N. at any time.
In Afghanistan, "full sovereignty" was gradually "restored" to the local government after the U.S.-lead international invasion and occupation of the land, and after the U.N. Security Council post factum established the International Security Assistance Force. The U.N. Assistance Force's mandate was to oversee the security in the country, but the Afghan "authorities" couldn't move freely even within the capital without full military escort by the mostly NATO troops, while the provinces were the realm of local warlords and, almost exclusively, of U.S. military commanders, who had most of the U.S. troops under their direct and separate command. 
In Iraq, the U.S. attacked that sovereign U.N. member without a declaration of war and invaded its territory under what was later proven to be a false pretext. After a quick military conquest, the country was occupied by U.S. troops. A "sovereign" puppet government was established, but the U.S. military was in charge of the land. The U.N. Security Council then established a mission in Iraq, which recognized "the responsibilities and obligations" of the U.S. occupying force, giving legitimacy to the illegal and criminal invasion of a sovereign member of the U.N. The Mission still supervises the work of the Iraqi government. The U.S. military combat operations and occupation of Iraq were officially declared finished by the end of August 2010, but U.S. troops still remain in Iraq (under separate U.S. command), together with the troops from other nations, which are under U.N. command.
In Libya, there was neither a U.N. mission set up after its destruction by NATO, nor was there an occupation of any kind by the "international community's" military forces. The early 2011 conflict was declared a civil war, in which the "rebels" refused all attempts, both by their government and by the African Union, to stop fighting. The "international community" secured a U.N. Security Council resolution (1973), which was to protect civilians and which allowed the use of force against the government of Libya, but did not allow a foreign occupation of the country. The "international community", led by the U.S. Secretary of State, Hillary Clinton, secured the supply of arms to the rebels. The Resolution stated that in order to "protect civilians" "all necessary measures" were allowed, thus, the supply of arms was unilaterally declared permitted in spite of the arms embargo imposed on "everyone" in Libya (Paragraph 9). The French Air Force bombarded the government troops, as did the U.S. and U.K. submarines. Soon, 17 countries participated in the military operations against the government of Libya, with NATO taking over the command of the operations. The "international community" thus became the air force of the rebels, providing them with some ground troops as well, violating its own U.N. resolution and not allowing for a negotiated settlement of the conflict. After the rebels took over the capital city of Tripoli, the U.N. recognized them as the legitimate government of Libya. An ad hoc local government, the National Transitional Council, was set up and recognized by the "international community" and left in power to run the country as it saw fit, as long as the oil exploitation was opened to the corporations from the "international community's" realm—the Chinese and Russian companies were not allowed in the competition in the "free market" and "globalized economy" (just as they were kept out and away by the U.S. occupying authorities from the once open-to-international-competition oil fields of Iraq).
The U.N. Protectorate of Kosovo has proven itself to be the "international community's" experiment that set the standard for the amount of sovereignty which were to be accorded the inhabitants under the "international community's" domination—none!
Thus, the sovereignty over the territory of Kosovo was altered and the whole international system thrown into a disarray. The overlapping and cancelling-out of sovereignties is blatant: the United Nations Resolution 1244 (which is still in effect and is recognized even by the powers(58) that officially recognized Serbia's Albanian minority's self-declaration of independence) recognizes the sovereignty of the Republic of Serbia over the territory of Kosovo(59). So does, of course, the Constitution of the Republic of Serbia(60). At the same time, Serbia's Albanian Moslem minority in the Province of Kosovo and Metohija had declared the province's independence from Serbia and claimed sovereignty over the territory, calling it the Republic of Kosova. It has been officially recognized by the U.S. and many of the individual great powers, which are members of the European Union, although the international organization called the European Union itself has not recognized the self-declared independent Republic of Kosovo, and works closely with the U.N. on administering the Serbian province as a U.N. protectorate(61). Simultaneously to all this, the Constitution of the self-proclaimed Republic of Kosovo, by its articles 147 and 153, clearly renounces its own sovereignty and states that the final authorities in Kosovo are the U.N. civilian administrator and NATO military force commander, making those who command NATO the ultimate sovereigns over Kosovo(62).

The "international community" did the same thing, which it did in the previously legally established U.N. protectorates, and in the many historical instances before the current supposed internationalization of protectorates—the "international community" ensured its own fiat(63) to be the legal basis and norm for any activity.
The first U.N. protectorate, an innovative and an ad hoc approach to resolving international problems insolvable by the then-current international law, was the U.N. Temporary Executive Authority (UNTEA)/U.N. Security Force in West New Guinea (UNSF), established in October 1962(64) in order to administer the Dutch colony of West New Guinea until it was transformed into a province of Indonesia on May 1, 1963. 
The following one was established in February 1992 for Cambodia, as the U.N. Transitional Authority in Cambodia (UNTAC), in order to implement the Paris Accords, which ended the civil war in that country. The U.N. was not to have direct control of the country but was supposed, during the 18 months of its mandate, to foster "a neutral political environment conducive to free and fair general elections"(65). It was the most extensive and costliest U.N. operation up to that time.
On December 21, 1995(66), the U.N. International Police Task Force (IPTF) and a U.N. civilian office in Bosnia and Herzegovina (BH) were established, known as the U.N. Mission in Bosnia and Herzegovina (UNMIBH). It was terminated on Dec. 31, 2002. It invented a new supra-sovereign office—The High Representative for Bosnia and Herzegovina (on December 14, 1995)—by the Peace Implementation Council(67). It was not a U.N. mission. SFOR, a NATO-led multinational peacekeeping force in BH, was established by the U.N. S.C. Res. 1088, on Dec. 12, 1996, and it lasted until Dec. 2, 2004. It was replaced by the E.U. EUFOR Althea mission, which is still in BH, as is the High Representative of Bosnia and Herzegovina, who still possesses his supra-sovereign powers and is the final authority in that supposedly sovereign nation.
The U.N. S.C. Resolution 1037 (Jan. 15, 1996) established the U.N. Transitional Administration for Eastern Slavonia, Baranja and Western Sirmium (UNTAES) to monitor the demilitarization of these regions and to ensure the peaceful reintegration of these territories of the Republic of Serbian Krajina into Croatia. It ended on Jan. 15, 1998, after allowing the new country of Croatia to take over these, formerly Serb-majority but then Croat- and NATO-ethnically cleansed, lands. Eventually, the newly sovereign Croatia was fully integrated into NATO (2009) and E.U. (2013), thus firmly and unquestionably putting these territories under the "international community's" control. 
In 1999, the "international community" established its most ambitious and authoritative grasp on a territory—the U.N. Protectorate of Kosovo. 
The U.N. administration took upon itself the public policy mission, traditionally reserved for a sovereign state alone, to make local laws and to enforce them, to appoint and supervise local officials, to collect and manage local revenue, to run local educational, health and other social services, to supervise the economy and finances, and even to decide in the disputes related to the very basis of any society—property matters.
The most illustrative example of the “international community’s” incompetence and, if the criteria used for ordinary people were applied to it, all out criminality, is exactly this area of public policy¬—privatization. Contrary to its U.N. S.C. mandate, the U.N. Administration of the Serbian province designed and partially implemented a public policy of privatization of the socially owned property there. It was very clear that such a policy could not be implemented(68) as the “international community” wished it, due to its basic illegality(69). The province’s chief U.N. administrator, Soren Jessen-Petersen, on April 22, 2005 (UNMIK Regulation No. 2005/18), simply decreed a fundamental change in UNMIK rules(70) and property law(71) (undocumented in human history, except during conquests and pillages of ages past), providing for the privatization agency to make “clear and final ownership determination after a sale of assets” and not before it, as has been the practice throughout human history. Although Mr. Jessen-Petersen gladly announced that “now with this change… we no longer have to establish ownership before the sale of the socially owned enterprise”(72), the process of privatization in Kosovo has been disastrous. Not even the local criminals wanted to participate in it since it didn’t provide them with a clear and legal title to the property. There are many accusations that through the process of privatization they laundered the illegally earned funds. Knowing that such practice would create legal problems(73) for the U.N. staff in both the field and in the New York City headquarters, the U.N. ensured its employees’ immunity(74) from legal prosecution but the local Albanians were left to the mercies of “the market”-causing a number of highly suspicious deaths(75) of both high level officials in Kosovo and key witnesses in Western countries over the last couple of years, all of which were ruled suicides(76) by EULEX and Western medical examiners.
This extent of legislative, executive and judicial authority, exercised with basically no scrutiny by anyone, with no supervision by independent monitors, and with no accountability to any single or collective sovereignty (especially that of the local population(77)) is substantially higher than that which the colonial governors had in the past, and which were the main reasons why the colonized peoples fought wars of liberation. It was expected, even by analysts from the "international community", that even the most "benign" protectorate of this kind would eventually turn itself into an "oppressor-ate" that would be hated by the population it was established to protect in the first place. 
Yet, there are no open anti-U.N. movements in Kosovo. It seems that while the ethnic cleansing of its Serbian citizens is yet unfinished, and while the lucrative and unmolested businesses of human trafficking, drugs and arms smuggling, and "privatization" of the Serbian state, social, Church and private property are still underway, there is no rush to end the unnatural and contradictory parallel existence (but a long-term partnership and symbiosis) of "local sovereignty" and "international community's" protectorate there.
Yet, this unnatural symbiosis only seems to be lucrative to those with a short-term vision and with a superficial understanding of economy and politics. 
An interesting testimony of the development falsehood was, most likely unintentionally, offered by a German KFOR Colonel, Günter Bonn, published by Politika, and reported by an ethnic Slovenian military analyst, Miroslav Lazanski, in a report on his visit to the U.S. (KFOR) base Bondsteel in Kosovo. It says: "There is no industry here, no production. Only gas stations are being opened, shopping centers and night clubs."(78) The Colonel is reported to have openly wondered from where all the wealth in Kosovo was coming, comparing the apparent high-life style of the Kosovo Albanians to his modest life in the highly industrialized (and yet only second tier international community's member) Germany, especially considering his socio-economic status as a high level military officer of the military forces of the only stable and growing E.U. economy. Aware that he drives a small car there (in Germany), and doesn't own a house there, the new, big homes, daily built in Kosovo, and new, expensive cars driven on the same roads he patrols in a military jeep, make him wonder how surreal is his task of making sure that there wouldn't be any more suffering in the U.N. Protectorate of Kosovo.(79)
In addition to that, it is the "international community" that very quickly realized the true pitfalls of such an arrangement, and the long-term dangers to its control and welfare. The U.N. Protectorate of Kosovo, being under the formal legal authority of the U.N. Security Council, could not be controlled, modified, or terminated without Russia and/or China. Both powers were unable to prevent its establishment in 1999, but, since then they have grown and strengthened their international positions, creating a parallel and highly visible alternative "international community", and have created unforeseen problems for the U.S. and its allies in Kosovo (and in other parts of the world), especially regarding the public policy of privatization designed and attempted to be implemented there by the "international community".
The Protectorate of Kosovo was most likely designed as the ultimate triumph of the West, but it quickly turned into its most problematic product. With Russia and China sitting on the U.N. Security Council, with their veto powers, it proved impractical to set Kosovo as a blueprint for future invasions, takeovers and management of lands, peoples and resources, and, thus, all evidence suggests, it was forgone as a model. 
Ever since, we have witnessed the abandonment of the U.N. or truly international models of behavior by the "international community", observing the increased acting either unilaterally (the U.S. in Iraq) or as a group of military allies (NATO in Libya), with very limited and vague authorization by the U.N., or with none at all. 
It is worth remembering that already in 1996, in Buenos Aires, Michel Camdessus, Managing Director of the International Monetary Fund, officially announced that a "silent revolution" was taking place, and that "as regards the role of the state, it is now nearly universally accepted that the most effective economic strategies are private sector-led and outward-oriented"(80), and that "governments must demonstrate that they have no tolerance for corruption". Yet, it seems that the "international community" in the end, after its post-Kosovo experience, decided that it is much easier and more profitable to avoid the (semi-)state and its many layers of corrupt officials all together, and to let the West's private sector(81) (backed up by NATO) deal directly with the warlords(82) in the resources rich territories, whose sovereignty was altered, allowing certain allies in(83), and securely eliminating Russian and Chinese competition(84).
Although the 1989 informal Washington Consensus by the West's economic thinkers has been replaced by the 2010 G20 formally endorsed Seoul Consensus for "shared growth"(85), it seems that the "international community" has decided to undermine the Consensus' main goal of greater state intervention in economy and finances by simply eliminating the state from the equation and continuing with the old mantra of "stabilize, privatize, and liberalize"(86)—having already initiated that policy in Kosovo, and persisted with it in Afghanistan, Iraq, and Libya, attempting to press on with it in Syria today.
For the end, another reminder: The New York Observer warned, in 2007, "The smart money these days is in catastrophe: Hurricanes, tsunamis, political upheavals and wars have become the new profit points in the age of 'disaster capitalism,' which sees cataclysms 'as exciting market opportunities.'”(87)

Višeslav Simić (Вишеслав Симић)
2do Seminario Internacional "Análisis e incidencia de las políticas públicas" - EGAP - Tecnológico de Monterrey - 25 y 26 de Septiembre 2013 - México


Footnotes:


1. Strictly legally speaking, no war was declared by the aggressors (the U.S. called it "hostilities" and "military operations in Kosovo"). The government of the attacked sovereign founding member of the U.N. didn't denounce the aggression as war (only after the November 2012 Strasbourg Court ruling that "war veterans" must be paid for the time served in the "war of 1999" did Serbia implicitly recognize NATO aggression as a war). The U.N. itself kept silent about the grossest violation of its Charter since its founding (the silence forced upon the U.N. by the U.S. blocking any move in the U.N. Security Council to condemn the attacks or to order their cessation).

2. Air War in Kosovo Seen as Precedent in Possible Response to Syria Chemical Attack; Landler, Mark and Gordon, Michael; The New York Times; August 23, 2013- http://www.nytimes.com/2013/08/24/world/air-war-in-kosovo-seen-as-precedent-in-possible-response-to-syria-chemical-attack.html?pagewanted=all&_r=2&

3. If asked what the priority in today's world would be, Confucius would most likely repeat what he said about 2500 years ago: "'What is necessary is to rectify names.' […] 'If names be not correct, language is not in accordance with the truth of things. If language be not in accordance with the truth of things, affairs cannot be carried on to success.' […] 'Therefore a superior man considers it necessary that the names he uses may be spoken appropriately, and also that what he speaks may be carried out appropriately. What the superior man requires is just that in his words there may be nothing incorrect.'"-The Analects of Confucius; The Chinese Classics; Translated by James Legge; Book XIII, Chap. III, 2-7; Kindle location 625-626.

4. "To the extent that there is such a thing as an international community, it owes much to NATO." - Norris, John; Collision Course: NATO, Russia, and Kosovo; Greenwood Publishing Group, Preager, NY; 2005; Forward by Strobe Talbott; page ix.

5. ”The Democrats prefer allied lynch mobs, whereas the Republicans are more willing to intervene without outside help. The difference is basically the same. At the end of the day, both Democrats and Republicans remain committed to the same "values" of forcing political change on foreign regimes.” - Deliso, Christopher; Kosovo, 1999: An Insider’s View; June 17, 2005 - http://antiwar.com/deliso/?articleid=6338

6. "...To put it in a terminology that harkens back to the more brutal age of ancient empires, the three grand imperatives of imperial (American-ed.) geostrategy are to prevent collusion and maintain security dependence among the vassals, to keep tributaries pliant and protected, and to keep the barbarians from coming together." - Brzezinski, Zbigniew; The Grand Chessboard: American Primacy And Its Geostrategic Imperatives; Basic Books; New York; 1997; p. 40.

7. See: The Iraq Liberation Act of 1998 [http://thomas.loc.gov/cgi-bin/query/z?c105:H.R.4655.ENR:], or George, Amir; Liberating Iraq: The Untold Story of the Assyrian Christians; Cardinal Publishing Group; 2013, or Crucified Kosovo [http://crucified-kosovo.webs.com/], or Redmond, Helen; Their empty talk of liberating Afghan women; SocialistWorker.org; March 23, 2011- http://socialistworker.org/2011/03/23/empty-talk-about-liberation

8. Air War in Kosovo Seen as Precedent in Possible Response to Syria Chemical Attack; The New York Times; Aug. 23, 2013 - http://www.nytimes.com/2013/08/24/world/air-war-in-kosovo-seen-as-precedent-in-possible-response-to-syria-chemical-attack.html?pagewanted=all&_r=0

9. Arab nations ready to pay for Syria strike: Kerry - The News; Sept. 6, 2013 - http://www.thenews.com.pk/Todays-News-13-25265-Arab-nations-ready-to-pay-for-Syria-strike-Kerry

10. Just as Standard & Poor's and Moody's maintained the illusion of Lehman Brothers' solidity up to six and one day respectively, before its collapse in 2008, it seems that it is being done for the whole West's financial system these days. See also: US borrowing authority to be exhausted by Oct. 17; AP - http://news.yahoo.com/us-borrowing-authority-exhausted-oct-17-151054701--finance.html

11. Such as the ever-ready Frenchman Bernanrd-Henri Lévy, calling the other international community—the governments who actually respect the international law and the U.N. rules—"gangster states, led by their godfather, Russia". See: ¿Qué quiere Rusia?; El Pais, Sept. 2, 2013 - http://elpais.com/elpais/2013/08/29/opinion/1377787206_916631.html

12. Syria: nearly half rebel fighters are jihadists or hardline Islamists, says IHS Jane's report [by analyst Charles Lister]; by Ben Farmer, defence Correspondent, and Ruth Sherlock, in Beirut; The Telegraph; Sept. 15, 2013 - http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/middleeast/syria/10311007/Syria-nearly-half-rebel-fighters-are-jihadists-or-hardline-Islamists-says-IHS-Janes-report.html
13. "Whoever, owing allegiance to the United States, levies war against them or adheres to their enemies, giving them aid and comfort within the United States or elsewhere, is guilty of treason and shall suffer death, or shall be imprisoned not less than five years and fined under this title but not less than $10,000; and shall be incapable of holding any office under the United States."-18 USC § 2381 - Treason - http://www.law.cornell.edu/uscode/text/18/2381

14. "We trouble the West and the extremists because we are a socialist country." - Syrian ambassador to Serbia, H.E. Suleiman Abu-Dijab to V. Radojević; in an interview for the Communist Party of Serbia on Sept. 3, 2013, in Belgrade, Serbia - http://www.kps.rs/index.php?option=com_content&view=article&id=1136:intervju-ambasadora-sirije-u-beogradu-gospodin-sulejmana-abu-dijab&catid=65&Itemid=574

15. "[The West calls it] a revolution, but in fact it has nothing to do with revolutions. A revolution needs thinkers. A revolution is built on thought. Where are their thinkers? A revolution needs leaders. Who is its leader? Revolutions are built on science and thought not on ignorance, on pushing the country ahead not taking it centuries back, on spreading light not cutting power lines. A revolution is usually done by the people not by importing foreigners to rebel against the people. A revolution is in the interest of people not against the interests of people. Is this a revolution? Are those revolutionaries? They are a bunch of criminals." - Syria's President Bashar al-Assad; Damascus; June 1, 2013.

16. Although these words were written with a different context in mind, they seem prophetic: “Every friend of freedom must be as revolted as I am by the prospect of turning the United States into an armed camp, by the vision of jails filled […] and of an army […] empowered to invade the liberty of citizens on slight evidence.” - Milton Friedman; An Open Letter to Bill Bennett; The Wall Street Journal; September 7, 1989 - http://fff.org/explore-freedom/article/open-letter-bill-bennett/

17. "Today we see how utterly mistaken was the Milton Friedman notion that a market system can regulate itself. We see how silly the Ronald Reagan slogan was that government is the problem, not the solution. This prevailing ideology of the last few decades has now been reversed." - Samuelson, Paul (Nobel Prize in Economics, 1970); Don't Expect Recovery Before 2012 - With 8% Inflation; Global Economic Viewpoint; January 16, 2009 - http://www.digitalnpq.org/articles/economic/331/01-16-2009/paul_samuelson

18. ”Milton Friedman is the Establishment’s Court Libertarian.” - Rothbard, Murray N.; Milton Friedman Unraveled; Journal of Libertarian Studies; Vol. 16, no. 4 (Fall 2002); pp. 37-54 - http://mises.org/journals/jls/16_4/16_4_3.pdf

19. "It turns out that the rule of law is probably more basic than privatization. Privatization is meaningless if you don’t have the rule of law. What does it mean to privatize if you do not have security of property, if you can’t use your property as you want to?" - Milton Friedman. See: Gwarney, James and Lawson, Robert; Economic Freedom of the World: 2002 Annual Report; Preface: Economic Freedom behind the Scenes, by Milton Friedman; The Fraser Institute; Vancouver, B.C.; 2002; page xviii.

20. Boas, Taylor C & Gans-Morse Jordan; Neoliberalism: From New Liberal Philosophy to Anti-Liberal Slogan [http://people.bu.edu/tboas/neoliberalism.pdf]; Harvey, David; Neoliberalism as Creative Destruction; The Annals of the American Academy of Political and Social Science [http://ann.sagepub.com/content/610/1/21.abstract]; Weyland, Kurt Gerhard; Assessing Latin American Neoliberalism: Introduction to a Debate; Latin American Research Review; Vol. 39, Number 3, 2004; pp. 143-149.

21. See: The Neoliberal Deluge-Hurricane Katrina, Late Capitalism, and the Remaking of New Orleans; Cedric Johnson, editor; 2011; University of Minnesota Press; Minneapolis; or, Klein, Naomi; The Shock Doctrine-The Rise of Disaster Capitalism; Henry Holt & Co.; New York; 2008; or, Saltman, Kenneth J.; Schooling in Disaster Capitalism; Teacher Educational Quarterly; Spring 2007; pp. 131-156.

22. Watts, Carl P; Is globalization another name for US imperialism?; Politics Review Online; Vol. 20, No. 3 (Feb. 2011).

23. Outrage at 'old Europe' remarks; BBC News; January 23, 2003- http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe/2687403.stm

24. Pritchard, Claire; Who Cares if We Violate the Geneva Convention?; Chicago Policy Review; May 31, 2013- http://chicagopolicyreview.org/2013/05/31/who-cares-if-we-violate-the-geneva-convention/

25. Golub, Philip S; Conflict in the Balkans: An International Community?; Le Monde Diplomatique; June 1999- http://mondediplo.com/1999/06/06golub

26. "The international community does exist. It has an address. It has achievements to its credit. And it is the only way forward."-U.N. Secretary-General Kofi Annan; The Address to the 52nd DPI/NGO Conference in New York City; September 15, 1999- http://www.un.org/News/Press/docs/1999/19990915.sgsm7133.doc.html

27. Ralph, Jason; Tony Blair's 'new doctrine of international community' and the UK decision to invade Iraq; POLIS Working Paper No. 20; School of Politics & International Studies; August 2005- http://www.polis.leeds.ac.uk/assets/files/research/working-papers/wp20ralph.pdf

28. Created ad hoc after the declarations of independence by Abkhazia and South Ossetia and their subsequent international recognition by Russia, Nicaragua, Venezuela, Nauru, Vanuatu, Tuvalu (although Vanuatu, in a horribly embarrassing manner, later withdrew it).

29. As in the case of Russia and the other states recognizing Abkhazia and South Ossetia, and in the case of the NATO states' attack on and destruction of Libya, which went far beyond the U.N. mandate of ensuring a no-fly zone over the territory of that member of the U.N.

30. "Since the Industrial Revolution in Britain, the self-centered way of thinking that long formed in Western powers has been swelling with the constantly consolidated powers. One of the performances is that some Western politicians often make improper comments in the name of 'international community' when they talk about the international affairs or in the Western media reports. In their eyes, they are the 'international community'" - How the world opinion is kidnapped by West's "international community" rhetoric; People's Daily Online; September 1, 2013- http://english.peopledaily.com.cn/90777/7932499.html

31. See: Letter by Adolfo Pérez Esquivel to Barack Obama (accessed on Sept. 8, 2013)- http://www.democraticunderground.com/10023621013

32. "When you next hear the term, what is being referred to is not the international community at all - understood as all the nation-states that make up the world - but just a small sliver of it, our bit. The great majority of the world, indeed - the west constitutes less than one-fifth of the world's population - is, in fact, being tacitly ignored: unless, of course, it happens to agree with the west, in which case it is implicitly tagged on the end as a good old western fellow-traveler."-Jacques, Martin; What the hell is the international community?; The Guardian; Aug. 24, 2006 -http://www.theguardian.com/commentisfree/2006/aug/24/whatthehellistheinternati

33. Modelski, George (Jerzy), Long Cycles in World Politics, University of Washington Press, 1987; Bull, Hedley, The Anarchical Society: A Study of Order in World Politics, Columbia University Press, 2002; Georg Schwarzenberger, International Law, Stevens, 1949; Juraj Andrassy, International Law, Školska knjiga, Zagreb, 2010.

34. Documented widely, from The Contras, Cocaine, and Covert Operations [http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB2/nsaebb2.htm], through Albanian Mobsters: Albanian Mafia, Rudaj Organization, Princ Dobroshi, Ismail Lika [http://www.barnesandnoble.com/w/albanian-mobsters-books-llc/1103425185?ean=9781158328673], to Syrian Rebels Funded by Afghan Drug Sales [http://en.rian.ru/russia/20130411/180581557.html]

35. "It was Yugoslavia's resistance of the broader trends of political and economic reform--not the plight of the Kosovar Albanians--that best explains NATO's war." - Norris, John; Collision Course: NATO, Russia, and Kosovo; Greenwood Publishing Group, Preager, NY; 2005; p. xxiii.

36. Smaller than the Sea of Marmara (11,350 sq. km.), between the Bosphorus and the Dardanelles straights in Turkey, the U.S. state of Connecticut (14,357 sq. km.), or the U.K. county of Yorkshire (11,903 sq. km.), about half the size of the State of Mexico and a bit smaller than the State of Queretaro.

37. Reliable and complete census data haven't been available for Kosovo and Metohija for at least three decades.

38. See: Külzer, Andreas; The Byzantine road system in Eastern Thrace; 4th International Symposium on Thracian Studies, April 2007; Verlag Adolf M. Hakkert; Amsterdam; 2011., or: Tafel, Gottlieb L. F.; Via Militaris & Egnatia; 1841; Columbia University Libraries, Preservation Department; Master negative #: 91-80058-10; - http:// ia600804.us.archive.org/6/items/viamilitarisroma00tafe/viamilitarisroma00tafe.pdf

39. The "Nabucco" pipeline project was aborted in the summer of 2013. - https://www.wsws.org/en/articles/2013/07/13/nabu-j13.html

40. http://www.south-stream.info/en/pipeline/route/

41. Untrue, as the still non-existent economy shows, just as in Libya today, in spite of the positive propaganda about its "anticipated boom in natural resources". - See: Cockburn, Patrick; Special report: We all thought Libya had moved on - it has, but into lawlessness and ruin; The Independent; September 3, 2013 - (accessed on Sept. 8, 2013) http://www.independent.co.uk/news/world/africa/special-report-we-all-thought-libya-had-moved-on--it-has-but-into-lawlessness-and-ruin-8797041.html

42. "Invest in Kosovo. Ignite your success!" - Publication by the Investment Promotion Agency of Kosovo; Ministry of Trade and Industry; March 22, 2013 - http://www.bitkom.org/files/documents/IPAK__PPT_General_22_03_13.pdf

43. http://www.indexmundi.com/kosovo/unemployment_rate.html

44. And the U.N.'s Mission in Kosovo Privatization Policy made it easier than anywhere else in the world–means of production and real estate may be bought disregarding their deeds.

45. “Kosova [Kosovo] mine [mineral] resources are worthy of 13.5 billion Euros, according to a joint survey conducted by the Directorate for Mines and Minerals and the World Bank.” - http://kosovareport.blogspot.com/2005/01/world-bank-survey-puts-kosovos-mineral.html

46. Vickers, Miranda; Between Serb and Albanian-A History of Kosovo; Columbia University Press; 1988; page XV.

47. George Soros, a billionaire financier/amateur politician, eager to acquire the Trepča mines [http://emperors-clothes.com/articles/Johnstone/howitis.htm], vying for it with H.R.H. Prince Michael of Kent, according to the Kosovo Privatization Agency Director Shkelzen Luka [as reported by www.economy.rs/vesti/18697/Kosovo--Vojvodina-izgradila--Princ-od-Kenta-dobija-na-poklon.html]. Madeleine Albright, U.S. Secretary of State at the time of NATO war on Yugoslavia, is contending for mobile phones and internet opportunities in Kosovo [http://www.nytimes.com/2013/01/11/world/europe/ex-us-official-pulls-bid-for-kosovo-telecom-stake.html?_r=0], while Wesley Clark, the Supreme Commander of NATO during the "Madeleine's War" in 1999, is "seeking a license to explore Kosovo's underground coal deposits to use to make synthetic fuel for cars and planes." [Marketplace; Oct. 26, 2012- http://www.marketplace.org/topics/world/wesley-clark-puts-name-behind-kosovo-coal-project]

48. "[It] also included the Serbian province of Sandzak and the northwestern part of today's Macedonia." - See: Joksimovich, Vojin Ph.D.; Kosovo is Serbia; gmbooks.com - http://www.gmbooks.com/product/Kosovo-GM.html

49. "Proof of the Serbian origin of the name and the loanword status of the immigrant Albanian term is that the word "kosovo" has a clear etymology to anyone who knows a Slavic language, while Albanian "Kosova" is an opaque, meaningless place name in the Albanian language." - Maher, J. P.; Professor of Linguistics, Emeritus; Northeastern Illinois University; "Kosova" or "Kosovo"? - What's in a Name?; http://emperor.vwh.net/articles/JP%20maher/InAname.html

50. Although many scholars in the West publish linguistically baseless claims that the word is of "Turkish-Albanian origin", in spite of the fact that it doesn't have any meaning at all in either of them. See: Vickers, Miranda; Between Serb and Albanian-A History of Kosovo; Columbia University Press; 1988; page XIV.

51. “Spectral evidence refers to a witness testimony that the accused person’s spirit or spectral shape appeared to [the] witness in a dream at the time the accused person’s physical body was at another location. It was accepted in the courts during the Salem Witch Trials.” [June-September 1692] - http://definitions.uslegal.com/s/spectral-evidence/ - It reappeared in the U.S. in 2013: “Jurors at the Jacko trial heard testimony from a surprise witness yesterday — the ghost of Michael Jackson! [...] In the supernatural tête-á-tête, Jacko’s ghost allegedly absolved Dr. Conrad Murray of any guilt in his death and admitted he “accidentally killed himself.” - “Ghost” of Jacko stars at LA trial; New York Post; June 12, 2013. - http://www.nypost.com/p/news/national/ghost_of_jacko_stars_at_la_trial_Flr5EJeWiSLJQsCT9djE9L

52. Sakran, Frank C.; Palestine Dilemma: Arab Rights versus Zionist Aspirations; Public Affairs Press; Washington; 1948; p. 204.

53. See at least the1932 U.S. Stimson Doctrine (on non-recognition of international territorial changes executed by force), and Articles 3 and 11 of the 1933 Montevideo Convention, on the rights and duties of states (prohibition of creation and recognition of puppet states) and the prohibition of the use of force in order to obtain sovereignty. The "international community" claimed they were obsolete until the cases of Abkhazia and South Ossetia.

54. As late as July 28, 2013, the KFOR Commander, German General Walker Halbauer, stated that "As far as military matters are concerned, [I] decide who may enter Kosovo. […] I want to emphasize that in Kosovo, both the U.N. Resolution 1244 and the Kumanovo Agreement, are in force." ("Када је војска у питању ја одлучујем ко може да уђе на Косово. […] Хоћу да нагласим да је на Косову и даље на снази и Резолуција УН 1244 и Кумановски споразум.") - See: Lazanski, Miroslav; I understand the Serbs from the Ibar River area; Politika; July 28, 2013. -


(english / italiano)

La Serbia che piace ai poteri italiani

1) Frattini sarà consigliere del governo serbo / Dassù (Esteri), forte appoggio per ingresso Belgrado in UE (ANSA)
2) Serbian Government reveals "measures for reform of economy" [il governo in Serbia annuncia tagli salariali generalizzati]


=== 1 ===

Frattini sarà consigliere del governo serbo

www.ansa.it - 7 ottobre 2013 - L’ex ministro degli esteri Franco Frattini sarà uno dei consiglieri stranieri del governo serbo. Lo ha detto il vicepremier Aleksandar Vucic. Nei giorni scorsi Belgrado aveva annunciato l’assunzione, in qualità di consiglieri, dell’ex direttore generale dell’Fmi Dominique Strauss-Kahn e dell’ex cancelliere austriaco Alfred Gusenbauer. “Sono pronto a far tesoro dell’esperienza di Franco Frattini, Alfred Gusenbauer e Dominique Strauss-Kahn”, ha detto Vucic al canale televisivo privato Prva.
Frattini, che è presidente della Società italiana per l’organizzazione internazionale (SIOI), è il candidato del governo italiano alla carica di segretario generale della Nato.
Vucic ha detto che lui personalmente condurrà la consulenza con Frattini, che non percepirà alcun compenso. “Frattini aiuterà il governo serbo nel processo di integrazione europea, in modo particolare per quanto riguarda i capitoli 23 e 24 dei negoziati di adesione - ha precisato Vucic - Il governo serbo è convinto che Frattini, con le sue proposte e le sue attività, offrirà al meglio assistenza e appoggio alla Serbia nel processo di adesione all’Unione europea. Frattini - conclude la dichiarazione - ha accettato l’invito del governo, e presterà la sua consulenza senza alcun compenso e attraverso contatti personali con il primo vicepremier Aleksandar Vucic”.

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Dassù (Esteri), forte appoggio per ingresso Belgrado in UE 

www.ansa.it - 9 ottobre 2013 - L’Italia appoggia con forza l’ingresso della Serbia nell’Unione europea, e al vertice bilaterale in programma il 15 ottobre ad Ancona offrirà a Belgrado anche un supporto tecnico per affrontare alcuni dei capitoli negoziali. Lo ha detto il viceministro degli esteri, Marta Dassù, in visita oggi nella capitale serba.
Parlando con i giornalisti in una pausa dei colloqui, Dassù ha fatto riferimento alla consulenza che l’ex ministro degli esteri Franco Frattini ha accettato di offrire al vicepremier serbo Aleksandar Vucic sulla tematica europea, in modo particolare sui capitoli negoziali 23 e 24. Una consulenza, ha osservato, “gratuita e basata sulla stima personale di Vucic per l’ex commissario europeo. Naturalmente in questo Franco Frattini ha l’appoggio del governo italiano”, ha detto Dassù, che ha incontrato il premier serbo Ivica Dacic, il vicepremier Aleksandar Vucic e il ministro degli esteri Ivan Mrkic.
Uno dei temi in agenda al vertice intergovernativo di Ancona, ha precisato Dassù, è quello della Macroregione Adriatico-Ionica. Per questo alla vigilia del summit, il 14 ottobre, si riunirà ad Ancona il tavolo tecnico che l’Italia presiede con la Serbia su infrastrutture e trasporti, uno dei grandi capitoli di questa cooperazione regionale. Dei risultati di tale riunione tecnica verrà riferito al vertice.
“Stiamo mettendo a punto il piano d’azione che dovrà essere approvato dal Consiglio europeo nel dicembre 2014, a conclusione del semestre di presidenza italiana”. È importante, ha rilevato Dassù, che della Macroregione Adriatico-Ionica facciano parte Paesi che appartengono alla Ue e altri che sono invece fuori: “Ciò facilita una armonizzazione degli standard”.
Il viceministro degli Esteri ha indicato due ragioni che hanno reso di particolare interesse la sua visita odierna a Belgrado: l’accordo raggiunto a Bruxelles fra i premier Ivica Dacic e Hashim Thaci, che “ha consentito di risolvere alcuni problemi aperti prima delle elezioni locali del 3 novembre in Kosovo” (“progressi sono ancora necessari per completare l’attuazione dell’accordo di aprile, ma l’Italia è fiduciosa”), e l’approvazione da parte del governo serbo di un pacchetto di misure economiche, importanti anche per migliorare in prospettiva il clima economico generale.
Cosa questa che interessa all’Italia che ha 500 imprese italiane che operano in Serbia. Marta Dassù ha detto al tempo stesso di aver spiegato ai suoi interlocutori serbi “che l’Italia ha rafforzato la sua solidità politica interna, fattore importante in vista della presidenza di turno della Ue che il nostro Paese avrà nella seconda metà del 2014!”.


=== 2 ===


POLITICS | OCTOBER 8, 2013 | 13:17

Govt. reveals "measures for reform of economy"


SOURCE: B92, TANJUG

BELGRADE -- The government has announced it will reduce the salary mass, raise the lower VAT rate to 10%, cut subsidies, make savings on goods, and use "cheaper loans."


In addition, the government measures presented on Tuesday by Finance Minister Lazar Krstić envisage "changing the business environment."

Krstić unveiled the measures during an open session of the government, held in Belgrade. 

Starting in 2014, public sector salaries now over RSD 60,000 (EUR 525) will be reduced by cutting 20 percent of the amount over 60,000, and those exceeding RSD 100,000 (EUR 870) by 25 percent, according to the same calculation. 

Krstić explained that this means that a person now earning 70,000 net - will be receiving 68,000 net after the measures have been introduced. 

Referring to the latest data from the register of public sector employees, the minister said that there was "still no accurate and definitive data" on the number of employees in the sector, and that it was "between 660,000 and 700,000 people." 

He announced a significant reduction of state subsidies, which will bring the biggest savings in the budget and the completion of privatization of 179 enterprises and restructuring of large public systems. He said that subsidies provided by the state were twice as high as "in other countries." 

Krstić then noted that Serbia was "going to the EU" and that it cannot provide state assistance to any other sector except agriculture and railways. 

Krstić said that the proposed measures were primarily related to the economy, however, the open government session was not attended by Minister of Economy Saša Radulović. 

Radulović was instead attending a meeting in the Serbian Chamber of Commerce on ways to "professionalize" the work of public enterprises. 

Krstić announced that the lowest VAT rate would be raised from eight to ten percent for "non-existential products." 

The increase will hike the consumer basket to RSD 65,450 from the current 65,000. 

"It should provide around EUR 200 million annually, while another EUR 150 million would go into the budget by reducing the gray economy, smuggling and illegal tobacco trafficking," he noted. 

Besides the activities against the gray economy, Krstić also announced the introduction of standardized electronic forms, online control of fiscal receipts, more control on the ground and a thorough reorganization of the Tax Administration. 

Another of the announced measures mentioned is the use of cheaper foreign loans, which the minister said would be obtained "primarily via bilateral contacts and diplomatic relations." 

"In this way, we admit that we are sick and start the recovery using the measures and political unity behind the proposed moves," said Krstić. 

He also told the government session that Serbia's economic and fiscal policies over the past ten years "had been irresponsible and lacked transparency," and added: 

"The problem was not that Serbia's debt was growing, as all countries increase their debt in times of crisis, but the fact that the funds were used to cover current expenses, while there were not enough brave moves necessary for economic recovery." 

Krstić announced structural reforms to would be further discussed in 2014, while the effects of the measures are expected in 2015. The Serbian government will invest efforts to improve the business environment considerably, which is why amendments to legal regulations, primarily the Labor Law, will have to be adopted, Krstić stated on Tuesday. 

He said that changes in certain laws, especially the Labor Law, were necessary so as to ensure "more flexible" hiring and sacking of workers. 

He noted that Serbia will have to change the model of infrastructural investments, which means that the government will not longer be able to act as the financier. 

“One of the models will cover partnerships between the public and private sectors, and we will try to make sure that local companies do the biggest share of the work,” Krstić said. 

He noted that the procedures for issuing construction permits would be simplified and that the Finance Ministry will have to significantly change the regulations concerning fees and make the entire process more transparent. He said that this will help Serbia improve its business environment, which is very important for attracting foreign investments. 

Announcing the necessary increase in the social protection spending when it comes to the most vulnerable population, the minister said it would be by 50 percent and amount to EUR 60 million, and that "the reform of the public administration would follow." 

The pension system reform would also continue, "along with a further indexing of pensions in 2015 and 2016 of 0.5 percent, twice a year." 

Krstić said the government planned to, by 2020, move the retirement age for men and women closer, so that women would retire at 63, and men when they are 65 years old. 

The budget deficit is now 4.7 percent, while IMF estimates range up to eight percent, he revealed. At the same time the public debt ranges from 58 to 60 percent, Krstić warned. 

"Without these measures, we would go bankrupt in the next two years," said Krstić. 

The minister also announced another revision of the state budget for 2013, "because revenues will be reduced by 20 billion" compared to the planned figure.




Sulla figura storica di Gavrilo Princip e sul tema di "Sarajevo 2014" si veda anche la ulteriore documentazione e le poesie, raccolte alla nostra pagina https://www.cnj.it/documentazione/gavrilo.htm :

• Note sulla iniziativa "Sarajevo 2014" e su Gavrilo Princip
• Гаврило Принцип: Сарајево, 1914 / Gavrilo Princip: Sarajevo, 1914 / Gavrilo Princip: Sarajevo, 1914
• Kusturica: Lo storico Clark paragona "Mlada Bosna" ad Al-Qaeda / Kusturica: Istoričar Klark "Mladu Bosnu" uporedio sa Al Kaidom
• San / A Dream


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Peace Event Sarajevo 2014: perché non aderire

Gianmarco Pisa

L’idea di un Evento di Pace a Sarajevo in occasione del centenario della prima guerra mondiale e del lungo ventennale della guerra di Bosnia è stata dettata da alcune circostanze e da una ispirazione di fondo. La circostanza è indubbiamente legata alla ricorrenza: a cento anni di distanza dalla Grande Guerra (1914-2014) essa può costituire l’occasione di una riflessione su un secolo breve a lungo attraversato da guerre e conflitti ed a venti anni da uno dei lunghi anni della Guerra di Bosnia (1992-1995) può alimentare la memoria e la riflessione e indurre spunti e sollecitazioni preziose per un secolo nuovo all’insegna della pace e della giustizia, della solidarietà e dell’amicizia tra i popoli. 

È proprio su questo terreno che, sin dalla sua indizione, il “Sarajevo Peace Event 2014” non ha mancato di suscitare dubbi e perplessità, di alimentare resistenze e divisioni anziché solidarietà e amicizia, di finire per accendere polemiche e lacerazioni, in una direzione paradossalmente eguale e contraria a quella mostrata nei suoi intendimenti dichiarati. Il tutto, sin dall’ispirazione di fondo: quella di fare in terra di Bosnia qualcosa di analogo a quanto realizzato in occasione dei Saloni per la Pace di Parigi nell’ambito delle celebrazioni e delle iniziative inquadrate nel programma della Decade delle Nazioni Unite per una Cultura di Pace e Non-violenza (2001-2010); col rischio di fare dell’evento di Sarajevo più una vetrina dei grandi “donatori inter-nazionali” che una occasione utile al “lavoro di pace”. 

Sin dalla dichiarazione programmatica, infatti, l’Evento di Pace di Sarajevo attesta come l'anno 2014 segna il 100 ° anniversario dell'inizio della prima guerra mondiale, che è stata innescata dall'assassinio dell'erede al trono austriaco a Sarajevo il 28 giugno 1914. Questa può essere vista come una data simbolica per un secolo di "cultura della guerra e della violenza", con due guerre mondiali e innumerevoli guerre regionali - tra cui quella nei paesi dell'ex Jugoslavia negli anni Novanta, quando Sarajevo ha sofferto l'assedio della città nella "ultima guerra in Europa" - così come per il dominio globale della violenza strutturale e culturale

Una dichiarazione nella quale l’uccisione di Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico (della potenza allora occupante, in Bosnia) è considerata alla stregua di un mero assassinio e, di conseguenza, l’azione di Gavrilo Princip (irredentista serbo-bosniaco, patriota e rivoluzionario) ridotta ad una mera azione terroristica (secondo la vulgata bosniacca e austriaca che ha fatto di un movimento di liberazione, Mlada Bosna, la “Giovane Bosnia”, né più né meno di un movimento violento, estremista e terrorista). 

Ciò è bastato ad alienare all’organizzazione del “Sarajevo Peace Event 2014” il favore della gran parte della opinione pubblica serba, con non pochi intellettuali che si sono assai negativamente espressi contro l’operazione di falsificazione e di manipolazione che sovrintende all’evento del 2014, e con lo stesso vertice politico e istituzionale della Repubblica Serba di Bosnia (una delle due entità delle quali si compone la Bosnia Erzegovina all’indomani degli Accordi e della Costituzione di Dayton, 1995) che ha prima stigmatizzato la separazione e il non coinvolgimento dei serbi di Bosnia e quindi formalmente invitato i serbi di Bosnia a non aderire e a non partecipare ad un evento di tale natura. 

Preoccupazioni analoghe sono state ribadite, al più alto livello, anche dal premier serbo, il socialista Ivica Dacic, che è tornato in particolare sulla questione della revisione e della mistificazione della storia, e sulla campagna di denigrazione ed emarginazione dei serbi, che vorrebbe metterli, in un modo o nell’altro, ancora una volta, sul banco degli imputati, bollandoli come nazionalisti e guerrafondai ed attribuendo loro il grosso delle colpe e delle responsabilità per la destabilizzazione che ha portato alla prima guerra mondiale. 

Il 99° anniversario della famosa battaglia di Cer, celebrato lo scorso 19 Agosto con i più alti onori militari e statali a Tekeris, vicino Loznica, nella Serbia occidentale, come la battaglia in cui l’esercito serbo ha segnato la prima vittoria per le forze alleate contro l'esercito austro-ungarico durante la stessa prima guerra mondiale, ha costituito l’occasione e la cornice, per le massime autorità statali serbe e in primo luogo per il premier Dacic, per tornare sulla questione e puntualizzare la posizione.

Rivolgendosi ai cittadini riuniti nell’occasione, Dacic ha detto che la Serbia deve lottare per la verità sulla Grande Guerra, cento anni dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, e deve contrastare il tentativo in corso di “revisione” della storia. Ha inoltre espresso la preoccupazione che, nella celebrazione del 100° anniversario della prima guerra mondiale a Sarajevo, i serbi siano ancora una volta “messi ai margini” ed accusati di incitamento del più grande conflitto armato della storia moderna.

Tali tentativi sono stati rinnovati con maggiore insistenza anche nel corso degli ultimi mesi, in modo da incolpare i serbi per l’assassinio di Sarajevo, in cui i membri della organizzazione irredentista, Mlada Bosna, hanno colpito il principe austro-ungarico Francesco Ferdinando e la moglie il 28 giugno 1914. Il fatto di collocare in tale evento l’inizio reale del conflitto mondiale dimostra il tentativo di falsificazione in atto e la strumentalizzazione dell’evento stesso. Un fatto che viene ignorato in questo contesto è che l’assassinio di Sarajevo è stato utilizzato come scusa e pretesto per le tendenze imperialiste e per i piani di aggressione da parte dell’Austria-Ungheria e della Germania, come è stato ricordato da Dacic.
 
Tale processo di autentico, negativo, “revisionismo storico”, passa sia per la lettura strumentale della storia, sia per le iniziative che intendono muoversi sul terreno del ricordo, della memoria e del simbolico. Dacic ha ricordato che vi sono annunci che indicano l’intenzione, da parte delle autorità cittadine, di erigere un monumento in onore di Francesco Ferdinando a Sarajevo, aggiungendo che questo potrebbe rappresentare una “sanzione” della revisione della storia in atto e che deve essere evitato. Ha infine ricordato che Gavrilo Princip e gli altri partecipanti ai fatti di Sarajevo non erano solo serbi, ma membri del movimento jugoslavo, per l’unità degli Slavi del Sud, che ha raccolto molti croati e molti musulmani.

Questo è il motivo per cui è importante, per preservare una memoria corretta e limpida degli eventi che hanno avuto luogo cento anni fa, ricordare e illustrare i contenuti degli eventi e il reale svolgimento dei fatti e trasferirli correttamente presso le più giovani generazioni. Non va dimenticato che i serbi sono stati tra le maggiori vittime nella prima guerra mondiale e hanno dovuto affrontare, in quella circostanza, il peggior ultimatum che un Paese abbia potuto, sino a quel momento, imporre a un altro Stato. 

Le maggiori potenze dell’epoca hanno preso parte all'aggressione alla Serbia, e la Serbia avrebbe continuato a subire aggressioni a sfondo imperialistico anche negli anni a seguire, come dimostrano l’invasione e il bombardamento di Belgrado ad opera dei Nazisti nel 1941, nel corso della seconda guerra mondiale, e l’ultimatum di Rambouillet e l’aggressione della NATO contro l’intera Serbia nel 1999, guerra per la quale si stimano danni complessivi per oltre cento miliardi di dollari. Per intendersi, l’intero Prodotto Lordo della Serbia, nel 2013, è di poco superiore ai quaranta miliardi di dollari complessivi. 

Tutto questo ovviamente non intende mettere in discussione la “buona fede” di chi, animato sinceramente dalla volontà di offrire un contributo fattivo alla promozione di un percorso internazionale di pace e giustizia, ha inteso confermare la propria adesione all’evento, tra cui, anche alcune associazioni italiane impegnate sul tema della pace e della nonviolenza. È semmai il “combinato disposto” dei detti, inaccettabili, presupposti e del susseguente, preoccupante, panorama di supporter, a dare ragione a quanti, giudicando inammissibile che attori poco limpidi o apertamente compromessi con le politiche dominanti di guerra e di aggressione, possano farla da protagonisti, ne hanno preso le distanze.  

USAID è il sostenitore e lo sponsor principale delle organizzazioni bosniache che coordinano il processo; l’Open Society di Georg Soros è tra i principali supporter e finanziatori di una ampia platea di organizzazioni e fondazioni che sono sin dall’inizio nella rete dei promotori dell’evento; alcuni tra i protagonisti hanno tra i propri sponsor e supporter, sia a livello di organizzazioni sia a livello di progetti, ambasciate straniere non esattamente indifferenti al passato (storico e recente) e al presente della complessa vicenda di guerra dei Balcani, tra cui l’Austria e in particolare la Francia e laGermania

Quest’ultima, come è stata il principale sponsor delle secessioni unilaterali che, tra il 1991 e il 1992, hanno inaugurato la stagione lunga e sanguinosa della disgregazione della Jugoslavia, è oggi il principale finanziatore della “cabina di regia” istituzionale che sovra-intende al complesso delle celebrazioni del centenario e uno dei motori della ridda di eventi che sono in cartellone al 2014. Se tale è l’inaugurazione di un nuovo secolo all’insegna di “pace e nonviolenza”, c’è davvero poco di cui nutrire speranza.


(una versione abbreviata di questo articolo è stata pubblicata anche ai siti:
http://firstlinepress.org/sarajevo-2014-commemorazioni-di-pace-commemorazioni-di-guerra/ 
nonché sul quotidiano online Liberazione, accessibile pero' solo agli abbonati) 




Via Facebook riceviamo da Mark Bernardini, e volentieri diffondiamo:

"Vi scrivo perché ormai è ufficiale: il 31 dicembre verrà chiusa la radio italiana “La Voce della Russia”. Perdiamo uno dei pochissimi canali di informazione, che ha sempre illustrato non solo le attività bilaterali, ma anche quelle degli italiani in Russia. La sensazione è che l’Italia venga declassata a Paese secondario, nelle relazioni internazionali della Russia. Solo che non è una decisione dello Stato, o del governo, o dei ministeri competenti, bensì solo ed esclusivamente del presidente della radio (non di quella italiana), che afferma addirittura che gli ascoltatori si contino sulle dita di una mano. Vorrei che leggeste la lettera del nostro capo redattore, che vi allego, per poi, se lo riterrete opportuno e possibile, aggiungere anche la vostra voce alle tante che già manifestano il loro rammarico (ambasciata, consoli onorari, banche, imprenditori, singoli ascoltatori). Grazie in ogni caso."

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От: Александр Прохоров <prokhorov59 @ mail.ru>

Отправлено: суббота, 7 сентября 2013 г. 20:01

Тема: Fwd: La redazione radiofonica italiana de “La Voce della Russia”

Важность: Высокая

Gentile Sig.

Volevamo informarla che il 31 dicembre 2013 cesseranno le trasmissioni in italiano de “La Voce della Russia”.

Ci sembra che si tratti di una decisione profondamente errata, in quanto questa radio è profondamente radicata nel territorio e rappresenta praticamente l’unica fonte di informazione obiettiva sulla Russia.

Una decisione inoltre che va contro la tendenza generale che vede la radiofonia in costante sviluppo. Oltre a decine di migliaia di stazioni radio che operano in Italia da ogni centro abitato, potenziano la loro presenza, aumentando le ore di trasmissione in italiano, le emittenti straniere fra cui citiamo soltanto Radio Capodistria e Radio Pechino che trasmettono 24 ore su 24.

La fine delle trasmissioni in italiano de La Voce della Russia sarebbe profondamente negativa sul piano politico specialmente alla luce dei prossimi avvenimenti come:

o  L’Anno incrociato del turismo Italia – Russia
o  Le Olimpiadi di Soci
o  Il forum euroasiatico sull’innovazione e l’internazionalizzazione del 17-18 ottobre a Verona
o  Il vertice bilaterale italo – russo del 26 novembre a Trieste
o  L’anno 2014 dedicato alla cultura in Russia
o  Il semestre di presidenza italiana in seno all’UE nella seconda metà del 2014
o  Senza dimenticare della politica italiana relativa al Medioriente.
La tendenza principale nell’azienda è quella di passare dal formato “radio” a quello semplicemente elettronico, che limiterà la fruizione degli utenti ad articoli sprovvisti del formato vocale. Come ci hanno scritto in precedenza molti ascoltatori de “La Voce della Russia” dall’estero, l’eliminazione delle onde corte è vista come un passo verso la chiusura definitiva ed uccide la nostra radio, negando la possibilità di far arrivare informazione nuova, alternativa e fresca nei diversi Paesi esteri. L’idea che notiziari on line di varia natura possano sostituire la viva voce della radio è profondamente velleitaria e rappresenta in realtà la chiusura definitiva di una importante e unica forma di informazione.

La nostra redazione ha bisogno del vostro aiuto per impedire questo imperdonabile epilogo.

Noi siamo convinti della vostra solidarietà che potete dimostrare rendendo noto il problema ai massimi vertici del nostro Paese al fine di poter ottenere un valido aiuto.

Come? Basta scrivere una lettera elettronica, in russo, italiano o inglese, ai siti del Presidente (http://www.kremlin.ru, andando nella sezione “mandare una lettera”) e al Ministro degli Esteri Lavrov (sul sito http://www.mid.ru, andare nell’angolo in alto a sx “question e-mail”).

Essendo questa un’informazione confidenziale, la preghiamo di non rispondere sulla posta interna della radio ma all’indirizzo mail da cui ha ricevuto la presente lettera.

Cordialmente

La redazione radiofonica italiana de “La Voce della Russia”

Alexander Prokhorov



(srpskohrvatski / italiano)

5 ottobre 2000-2013: Golpe atlantista in Serbia

1) Milena Arežina - Istina o petom oktobru 2000
2) Gregory Elich: Guerra segreta. L’intervento USA e UE in Jugoslavia (2002, estratti)
3) Belgrado, 2 ottobre 2000. Il Presidente Milosevic si rivolge alla Nazione


13 anni fa - il 5 ottobre 2000 - in Jugoslavia un colpo di Stato sobillato dagli Stati Uniti d'America (che finanziarono lautamente i teppisti di OTPOR) e dalla Unione Europea (che vezzeggiò la nuova classe dirigente iper-liberista e corrotta legata al FMI) abbatté il governo delle sinistre ed avviò il paese all'ulteriore smembramento. 

Gli effetti del colpo di Stato si vedranno presto: nel 2003 anche il nome della "Jugoslavia" viene cancellato dalle mappe europee; nel 2006 il Montenegro, con un referendum truccato ma "coperto" dalla UE, secede; nel 2008 USA e buona parte dei paesi UE riconoscono il Kosovo come *settimo* "Stato indipendente" frutto dello squartamento della Jugoslavia. Il governo del Kosovo, dove dal dal 1999 vige l'apartheid nei confronti delle nazionalità non albanesi, è affidato alla cricca di mafiosi e tagliagole reduci dell'UCK...


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Pitanja i odgovori - Milena Arežina - Istina o petom oktobru 2000 - 05.10.2013


Di Milena Arežina raccomandiamo il libro

Noć prevare – dan izdaje
(La notte dell'inganno - il giorno del tradimento)

Scanner Studio, Beograd 2004

Di professione magistrato, Milena Arezina (autrice ed editrice) narra nei minimi dettagli gli avvenimenti legati alle elezioni anticipate ed al famigerato 5 ottobre 2000.
La figura di Milosevic qui appare ingenua, addirittura vittima ignara di un complotto e di un tradimento ben orchestrato. Un uomo sostanzialmente isolato, o almeno manipolato da consiglieri senza scrupoli vendutisi al miglior offerente.
Milena Arezina come magistrato è nota per la sua coraggiosa lotta contro i mostruosi brogli delle privatizzazioni in Serbia. Il piu noto è il caso della Galenika. Per questo rischiò di essere uccisa il 9 ottobre dalla mafia del "democratico" Djindjic, e fu licenziata dopo che tutta la documentazione dei processi da lei condotti fu fatta sparire dal suo ufficio.
Un libro da non perdere, una testimonianza autentica - utile
sopratutto per quelli che seguono professionalmente le cose jugoslave.

DOWNLOAD: http://www.sarovic.com/pdf/noc_prevare_dan_izdaje.pdf

http://www.nedeljnitelegraf.co.yu/novi/arezina.html
http://www.svedok.co.yu/index.asp?show=39410
http://groups.yahoo.com/group/srpski_svet/message/2413?viscount=100
http://komunist.free.fr/arhiva/jun2004/nkpj_01.html
http://www.srpskapolitika.com/drugi_pisu/2005/270.html


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The original text in english can be found at:     
http://www3.sympatico.ca/sr.gowans/elich1.html


What's Left, 8 Novembre 2002

Guerra segreta: l’intervento USA e UE in Jugoslavia

di Gregory Elich

[ESTRATTI]

[...] Ciò che gli USA volevano per davvero, comunque, era la Jugoslavia intera, non solo un altro pezzo. Il Segretario di Stato Madeleine Albright si aspettava e chiedeva dimostrazioni di piazza per abbattere il governo se le elezioni non l’avessero soddisfatta. Al meeting di Banja Luka nella primavera del 2000, Albright espresse disappunto per il fallimento degli sforzi passati di rovesciare il legalmente eletto governo jugoslavo. Albright disse che sperava che le sanzioni spingessero il popolo ad “accusare Milosevic per le loro sofferenze." Una esasperata Albright si chiedeva: "che cosa ferma la gente dallo scendere nelle strade?" Indicando che gli USA aspettavano il pretesto per intervenire, aggiunse: "Ora bisogna che accada in Serbia qualcosa che l’occidente possa appoggiare." (30)
Ogni contingenza era pianificata nell'ambito della campagna  differenziata di destabilizzazione da parte USA. Alla fine fu lo scenario preferito di George Tenet che venne scelto. Un processo elettorale distorto dall’intervento occidentale, assieme a moti di piazza, alla fine  buttarono giù il governo della Jugoslavia.


Gli USA pomparono 35 milioni di dollari nelle tasche dell’opposizione di destra nell’anno precedente le elezioni del 24 Settembre 2000. Tale impegno includeva trasmissioni per le radio dell’opposizione, e computers, telefoni e fax per molte organizzazioni. I media di destra ricevettero altri 6 milioni dollari dall’Unione Europea durante questo periodo. Due organizzazioni sotto l’ombrello del National Endowment for Democracy, il National Democratic Institute e l’International Republican Institute, diedero 4 milioni di dollari per una campagna porta a porta e  programmi elettorali. (31) Funzionari USA assicuravano ai media dell’ opposizione che "non avevano nulla da preoccuparsi riguardo alle spese di oggi" poiché molto di più era in arrivo. (32) Subito dopo le elezioni, Il parlamento degli USA decretò una legge che autorizzava il versamento di altri 105 milioni di dollari per i partiti di destra e i loro media in Jugoslavia. (33) Organizzazioni come l'International Republican Institute e l’Agency for International Development misero molti milioni di dollari nelle tasche di Otpor, rendendo il piccolo gruppo di studenti dell’opposizione una grande forza. Nel momento in cui la data delle elezioni veniva annunciata  in Jugoslavia, Otpor aveva stampato già 60 tonnellate di materiale elettorale. (34)

La settimana prima delle elezioni, l’Unione Europea inviò un "Messaggio al popolo serbo" in cui si annunciava che una vittoria per il candidato dell’opposizione Vojislav Kostunica avrebbe portato all’eliminazione delle sanzioni. "Perfino se Milosevic fosse rieletto democraticamente", affermava un funzionario dell’UE, le sanzioni sarebbero rimaste.  Questa era una potente pressione verso un popolo impoverito e  devastato da anni di sanzioni occidentali. (35)
Il funzionario del Dipartimento di Stato USA William Montgomery  notava: "Raramente si è impiegato tanto fuoco, energia,  entusiasmo, denaro – ogni cosa - quanto ne è stato impiegato in Serbia nei mesi prima della caduta di Milosevic." (36) 
Ancor prima delle elezioni, funzionari occidentali accusavano  il governo jugoslavo di frode elettorale, piantando i semi della distruzione.

Nei giorni delle elezioni ed in seguito, la coalizione detta Opposizione Democratica della Serbia (DOS) proclamò  la vittoria del proprio candidato. Funzionari USA incoraggiavano l’opposizione ad indire delle dimostrazioni di massa, perfino prima che fossero annunciati i risultati ufficiali. In pratica ogni giorno la DOS dichiarava differenti percentuali per il proprio candidato. A un certo punto parlarono del 57 per cento. Due giorni dopo le elezioni, il 26 settembre, la DOS dichiarava che Kostunica aveva avuto il 54.66 percento dei voti, sulla base del 97.5 per cento dei voti scrutinati, ma che 130.000 voti "e i voti dal Kosovo e Montenegro" non erano stati considerati dalla DOS. Il giorno dopo, la DOS annunciò che Kostunica aveva il 52.54 percento dei voti. Il dato era basato, dissero, sul 98.72 per cento degli scrutini. Stavolta, il portavoce dello Staff Elettorale della DOS, Cedomir Jovanovic, cambiò di tono, dichiarando che gli scrutini da fare erano quelli dei militari e quelli postali. Secondo Jovanovic, il 26 settembre, 5.093.038 voti su un totale di 5.223.629 voti erano stati scrutinati, per un totale del 97.5%. Sulla base del totale fornito da Jovanovic, ciò avrebbe significato che meno di 64.000 schede sarebbero state scrutinate il giorno seguente, quando fu dichiarato un conteggio pari al 98.72 percento. Assumendo che Kostunica abbia perso tutti questi voti, la sua percentuale sarebbe dovuta scendere a 52.75, comunque più alta dell’annunciato 52.54%.
Il DOS si avvantaggiò della confusione proveniente da tali significative  differenze sui totali. Il 26 settembre, Jovanovic annunciò che Kostunica aveva avuto 2.783.870 voti, ed il giorno seguente dichiarò che, quando tutti i voti sarebbero stati contati, "Kostunica avrebbe avuto 2.649.000 voti." Quattro giorni dopo, Jovanovic dichiarò 2.424.187 voti per Kostunica, e poi il 2 ottobre il portavoce dell’opposizione Zoran Sami abbassò ulteriormente il totale a 2.414.876, con una percentuale del 51.34%. In seguito, Sami disse che il risultato finale mostrava 2.377.440 voti e una percentuale del 50.35% per Kostunica. Esclusi da tali conteggi erano i voti dal Kosovo e dei rifugiati dal Kosovo.
I media occidentali accettarono acriticamente le dichiarazioni della DOS, proclamandole precise e risultanti da meticolosi scrutini, e grida di frode si alzarono invece contro il Governo jugoslavo.  Chiaramente c’erano state delle frodi. I dati forniti dalla stessa DOS indicano chi stesse commettendo la frode. (37)

Nonostante le dichiarazioni in senso contrario dei media occidentali, il conteggio ufficiale dei voti fu ampiamente pubblicizzato in Jugoslavia. Vojislav Kostunica ottenne il 48.96 percento dei voti, mancando di poco il 50% richiesto per la vittoria al primo turno. Il Presidente Milosevic ottenne il 38.62 percento. Un secondo turno elettorale per i due maggiori candidati venne indetto l’8 ottobre. (38) Appoggiati dai funzionari occidentali, Kostunica e la DOS si rifiutarono di partecipare al secondo turno, dichiarando che avevano già vinto. La DOS presentò proteste prima alla Commissione Elettorale  Federale, e poi alla Corte Costituzionale. Chiedevano, tra l’altro, l’annullamento dei voti dei rifugiati dal Kosovo, e quelli dal Kosovo stesso, dove il Presidente Milosevic aveva ottenuto un vantaggio ampio. La Corte Costituzionale sostenne la proposta di Milovan Zivkovic, membro della Commissione Elettorale Federale,  per riesaminare il voto di tutti i distretti per eliminare i dubbi. (39) Fu la minaccia del riconteggio dei voti a motivare la riduzione quotidiana dei voti e delle percentuali dichiarate dalla DOS per i suoi candidati. La percentuale finale che la DOS annunciò era vicina a quella dei risultati ufficiali. Tuttavia, la DOS  si rifiutò di includere i voti dal Kosovo e quelli dei molti rifugiati dal Kosovo, con il pretesto che il voto in Kosovo chiudeva alle 16:00 invece che alle 20:00. Secondo la DOS, la chiusura anticipata dei seggi avrebbe invalidato tutte le schede di questi votanti.  Solo eliminando i voti dei residenti e rifugiati del Kosovo la  DOS potè proclamare una vittoria attorno al 50 per cento per Kostunica.

Più di 200 osservatori internazionali di 54 paesi monitoravano le elezioni. Gli osservatori seguirono ogni stadio delle elezioni, incluso il conteggio del voto e la correlazione dei risultati. Uno degli osservatori, il Ministro degli esteri greco Carolos Papoulias, concluse: "Tutti quelli che hanno annunciato ampie frodi, come [il commissario agli esteri dell’UE] Javier Solana, hanno sbagliato" e il voto si è svolto in “modo impeccabile."
Atila Volnay, un osservatore ungherese, disse che la sua delegazione aveva visitato molte sezioni elettorali e  confermava la presenza dei rappresentanti dell’opposizione nelle commissioni elettorali, e che "non ci potevano essere anomalie."  Una delegazione di tre persone del Socialist  Labour Party del Regno Unito dichiarò che la Commissione Elettorale Federale "ha fatto di tutto per assicurare che la gente potesse votare senza intimidazioni ed in modo normale," ma che delle irregolarità erano state rilevate in Montenegro. "Abbiamo ricevuto molti rapporti di prima mano da persone che dichiarano di essere state minacciate [dai sostenitori di Djukanovic] che avrebbero  perso il lavoro se fossero andate a votare." La delegazione notò anche che "molti rifugiati dal Kosovo sono stati deliberatamente esclusi dalle liste elettorali del Montenegro" e che la delegazione "può solo concludere che tali tattiche di intimidazione e condizionamento erano destinate ad avvantaggiare la cosiddetta Opposizione Democratica." Il capo della delegazione russa, Konstantin Kosachev, disse che "erano soddisfatti perchè non era stata possibile in pratica  alcuna  falsificazione su larga scala delle elezioni in Jugoslavia." 
Una dichiarazione finale degli osservatori afferma che "Il voto  si è svolto in modo ordinato e tranquillo" e che, "nell’opinione di molti era eguale o superiore a quelli dei loro paesi." (40)

Dato il vantaggio elettorale al primo turno, una vittoria di Kostunica era certa per l’8 ottobre. Quindi, perché Kostunica rifiutò di partecipare al secondo turno? Come risultato delle elezioni del 24 settembre, la coalizione di sinistra aveva ottenuto 74 dei 137 seggi nella Camera dei cittadini e 26 dei 40 seggi nella Camera delle Repubbliche. La coalizione di sinistra aveva già la maggioranza nel Parlamento serbo, la cui  rielezione era prevista l’anno dopo. Sarebbe stato dunque impossibile per la DOS attuare il proprio programma, visto che i poteri del Presidente soro piuttosto limitati. Solo un golpe avrebbe permesso alla DOS di superare i limiti legali e di giungere al governo per regnare senza opposizioni. Il direttore elettorale di Kostunica, Zoran Djindjic, chiamò allo sciopero generale. "Noi dovremo paralizzare ogni istituto, scuola, teatro, cinema, ufficio" e "far scendere in piazza tutti." (41) I sostenitori della DOS ovunque nel paese seguirono la sua chiamata, fermando alcuni settori dell’economia, mentre dimostrazioni di massa si avevano in tutta la Serbia. Lo scenario di Madeleine Albright divenne realtà, nel momento in cui i dimostranti si misero a chiedere la rimozione del governo.

Secondo l’opposizione, almeno 10.000 sostenitori armati della DOS si unirono alla manifestazione finale a Belgrado. L’assalto al Parlamento Federale e alla Radio-Televisione  della Serbia fu guidato da gruppi e da squadre speciali di ex-soldati. Velimir Ilic, sindaco dell’opposizione di Cacak, guidò gli assalti. "La nostra azione era stata pianificata in precedenza" spiegò in seguito. "I nostri scopi erano assai chiari; prendere il controllo delle istituzioni chiave del regime, incluso il parlamento e la televisione." Ilic stabilì anche precedenti contatti con poliziotti rinnegati che assistettero i miliziani di Ilic. (42) E’ probabile che la CIA fosse coinvolta nella pianificazione dei ben coordinati attacchi. Dopo che forze speciali armate ebbero aperto la strada verso il Parlamento Federale, ad esse fecero seguito una massa di ubriachi, supporter della DOS, che irruppero nell’edificio, distruggendo suppellettili e computer e devastando il Parlamento. I poliziotti vennero attaccati e  bande di ubriachi, spesso armati di pistole, sciamarono nelle strade. 
Le ambulanze, che portavano i poliziotti feriti negli ospedali, venivano fermate dagli attivisti della DOS, che chiedevano di consegnargli i poliziotti feriti. Dopo che la Radio Televisione della Serbia a Belgrado venne occupata, essa pure fu incendiata. In tutta la Serbia, gli uffici del Partito Socialista di Serbia (SPS) e della Sinistra Unita Jugoslava (JUL) vennero demoliti. I socialisti vennero minacciati e picchiati, molti furono minacciati per telefono. A Kragujevac, dieci socialisti vennero legati e picchiati per ore. Gli sgherri  della DOS si spinsero fino a casa di Zivojin Stefanovic,  il presidente del Partito Socialista di Leskovac. Dopo aver saccheggiato e distrutto le proprietà di Stefanovic, diedero fuoco alla sua casa. (43)

Mentre la teppaglia capovolgeva e bruciava le auto della polizia, vandalizzando  case e picchiando la gente, Kostunica annunciava: "La Democrazia è arrivata in Serbia. Il Comunismo è caduto. Era proprio ora." (44)
Stabilendo le loro credenziali democratiche, gli attivisti della DOS occupavano sistematicamente i media di sinistra della Jugoslavia. I giornali di sinistra, stazioni radio e televisioni vennero riconvertite in strumenti della destra. Una cultura dei media già ricca  e diversificata, rappresentante l’intero spettro politico, venne sottoposta alla cappa dell’uniformità e della propaganda per la DOS. Bande di sgherri della DOS rimossero con la forza il management delle imprese statali, delle università, di banche ed ospedali delle città di tutta la Serbia. I  ministri del governo vennero spinti alle dimissioni, e la DOS creò un comitato di crisi per svolgere le funzioni del governo, scavalcando il Parlamento Federale e i ministeri governativi. Gli agenti della DOS minacciarono apertamente di aumentare le violenza di strada come mezzo per spingere il Parlamento Serbo ad accordare nuove elezioni, un anno in anticipo rispetto alla scadenza.

I funzionari occidentali non potevano nascondere la loro soddisfazione. Imprese statunitensi ed europee aspettavano il momento per impadronirsi delle imprese di Stato. Il programma economico della DOS era tracciato da una organizzazione denominata Gruppo 17+.
Il loro piano, Progetto per la Serbia, chiedeva una rapida transizione a una piena economia di mercato.
Immediatamente dopo il golpe, la European Bank for Reconstruction and Development subito annunciò piani per aprire un  ufficio a Belgrado. "E’ importante che siamo sul posto subito" spiegava il portavoce della banca Jeff Hiday. "Sospettiamo che ci saranno parecchie privatizzazioni e ristrutturazioni." (45)

Giorni prima del golpe, il Presidente Milosevic aveva avvertito che la DOS era uno strumento della campagna della NATO per imporre un controllo neocoloniale sulla Jugoslavia. Milosevic indicava che i paesi vicini, che erano già vittime dei diktat dell’Occidente, "si sono rapidamente impoveriti in modo tale da distruggere ogni speranza di una società più giusta ed umana" e che l’Europa Orientale vede “una grande divisione tra una maggioranza povera e una ricca minoranza." Inevitabilmente, disse, "tale quadro includerebbe anche noi." (46)

Sola e isolata, la Jugoslavia aveva resistito alla dominazione imperiale, opponendosi alle secessioni, alle sanzioni, alle guerre, ed alle operazioni coperte [cioè: attuate dai servizi segreti, ndt] volute dall'Occidente. Viceversa, essa rimase indipendente e mantenne una economia a carattere prevalentemente sociale. Le più potenti forze del pianeta si schierarono contro di essa, e per un decennio la Jugoslavia resistette. Il golpe della NATO ha spazzato via tutto. In uno dei suoi primi atti da presidente, Kostunica si è unito al Patto di Stabilità dei Balcani. Il suo ministro delle privatizzazioni, Aleksandar Vlahovic, ha annunciato un piano per la privatizzazione di 7.000 aziende... "Mi aspetto che in quattro anni da oggi, le proprietà sociali saranno totalmente eliminate", spiegava Vlahovic, chiarendo che la privatizzazione delle aziende maggiori era appena iniziata. (47) I milioni di dollari con cui l’Occidente  aveva riempito le tasche degli agenti della DOS avrebbero fruttato elevati dividendi.


30) Borislav Komad, "At Albright's Signal," Vecernje Novosti (Belgrade), May 18, 2000.

31) George Jahn, "U.S. Funding Yugoslavian Reformers," Associated Press, September 29, 2000.
Jane Perlez, "U.S. Anti-Milosevic Plan Faces Major Test at Polls," New York Times, September 23, 2000.
"U.S., EU Generous to Foes of Milosevic," Associated Press, October 1, 2000.

32) Steven Erlanger, "Milosevic, Trailing in Polls, Rails Against NATO," New York Times, September 20, 2000.

33) "U.S. House Votes to Fund Yugoslavia's Opposition Movement," CNN, September 25, 2000.

34) Roger Cohen, "Who Really Brought Down Milosevic?" New York Times Magazine, November 26, 2000.

35) Geoff Meade, "Cook Backs EU Over Oust Milosevic Message," London Press Association, September 18, 2000.

36) Roger Cohen, "Who Really Brought Down Milosevic?" New York Times Magazine, November 26, 2000.

37) "DOS Claims Kostunica Leading Milosevic with 54.66 to 35.01 Percent of Vote," BETA (Belgrade), September 26, 2000.
"DOS Announces Kostunica Clear Winner with 98.72 Percent Data Processed," BETA (Belgrade), September 27, 2000.
"Federal Electoral Commission - DOS Election Staff Misinformed Public," Tanjug (Belgrade), October 3, 2000.
"Who Lies Kostunica?" statement by the Socialist Party of Serbia, October 11, 2000.

38) Federal Republic of Yugoslavia web site, www.gov.yu "Total Election Results," and "The Federal Elections Commission Statement." Both statements were removed following the coup.
"Final Results of FRY Presidential Election," Tanjug (Belgrade), September 28, 2000.

39) "Yugoslav Constitutional Court Holds Public Debate on DOS Appeal," Tanjug (Belgrade), October 4, 2000.
"DOS Requests Annulment of 142,000 Kosovo Votes," BETA (Belgrade), September 29, 2000.

40) "Contrary to EU Claims, Yugoslav Elections a Success: Greece," Agence France-Presse, September 26, 2000.
"210 Observers from 53 States Commend FRY Elections," Tanjug (Belgrade), September 27, 2000.
"Foreign Observers Say Elections Democratic and Regular," Tanjug (Belgrade), September 25, 2000.
"Yugoslav Elections - a Lesson in Outside  Interference," Socialist Labour Party statement.
Broadcast, Mayak Radio (Moscow), October 2, 2000.
"'A Fair and Free Election,' International Observers Say," statement by international observers.

41) Misha Savic, "Milosevic Will Take Part in Runoff," Associated Press, October 5, 2000.

42) Richard Boudreaux, "A Mayor's Conspiracy Helped Topple Milosevic," Los Angeles Times, October 10, 2000.
"Cacak Mayor Says He Led Assault on Yugoslav Parliament," Agence France-Presse, October 8, 2000. 
Jonathan Steele, Tim Judah, John Sweeney, Gillian Sandford, Rory Carroll, Peter Beaumont, "An Outrage Too Far," The Observer (London), October 8, 2000.
Gillian Sandford, "Army Units Claim Credit for Uprising," The Guardian (London), October 9, 2000.

43) "Information for the Public," statement by the Socialist Party of Serbia, October 7, 2000.
"Group of Demonstrators Demolished the House of the District Head," BETA (Belgrade), October 6, 2000.

44) "Protesters Storm Yugoslav Parliament," Associated Press, October 5, 2000.
"Good Evening, Liberated Serbia," The Times (London), October 6, 2000.
"Milosevic's Party HQ Ransacked by Protesters," Agence France-Presse, October 5, 2000.

45) Jelena Radulovic, "Yugoslavia's Kostunica Sets Economic Goals for New Government," Bloomberg, October 7, 2000.
"Brains Behind Kostunica Have a Plan," Sydney Morning Herald, October 2, 2000.
Stefan Racin, "Yugoslavia's Opposition Outlines Economic Plans," UPI, September 27, 2000.

46) "Yugoslav President Milosevic Addresses the Nation," Tanjug (Belgrade), October 3, 2000.

47) Beti Bilandzic, "Serbia Eyes New Privatization Law by April," Reuters, January 28, 2001.


Gregory Elich ha pubblicato decine di articoli sui Balcani e l’Asia negli USA, in Canada ed Europa, in pubblicazioni come Covert Action Quarterly, Politika, Junge Welt, Dagbladet Arbejderen, Science&Society, Swans, e altre. Le sue ricerche sugli interventi della CIA in Jugoslavia sono state il soggetto di articoli dei giornali della Germania, Norvegia e Italia, incluso Il Manifesto. È stato coinvolto nelle attività per la pace fin dalla guerra del Vietnam, ed è stato coordinatore del Committee for Peace in Yugoslavia.
È stato membro della delegazione USA in visita in Jugoslavia dopo la guerra della NATO, e membro della delegazione di Margarita Papandreou, la prima occidentale a volare con la compagnia aerea nazionale irachena a Baghdad in sfida alle sanzioni.


(Adattamento del testo a cura del CNJ, sulla base di una traduzione pervenutaci da A. Lattanzio)


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Il Presidente Milosevic si rivolge alla Nazione

Belgrado, 2 ottobre 2000 - (Tanjug) - Il Presidente della R.F.J. Slobodan Milosevic lunedì 2 ottobre 2000 si è rivolto alla nazione attraverso la radiotelevisione serba:

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Cari concittadini,

nell'attesa del secondo turno delle elezioni colgo l'occasione per esporvi la mia opinione sulla situazione politica ed elettorale nel nostro Paese, e in special modo in Serbia.
Come voi sapete, da dieci anni sono in corso manovre per porre tutta la penisola balcanica sotto il controllo di alcune potenze occidentali. Buona parte di questo lavoro è stato compiuto mediante l’insediamento di governi fantoccio in alcuni paesi, trasformati in paesi a sovranità limitata, cioè privati a tutti gli effetti di sovranità.
A causa della resistenza opposta dal nostro Paese a una tale sorte, siamo stati sottoposti a tutte le forme di pressione alle quali un popolo può essere sottoposto nel mondo contemporaneo. Queste pressioni sono andate via via crescendo in quantità ed intensità. 

Tutta l'esperienza accumulata dalle grandi potenze nel 
corso della seconda metà del XX secolo nell'arte di rovesciare governi, provocare disordini, fomentare guerre civili, screditare o liquidare coloro che lottano per la libertà nazionale, ridurre le nazioni e gli stati sull'orlo della miseria - tutto ciò è stato applicato contro il nostro Paese e il nostro popolo. 
Tutto quello che è stato organizzato attorno a queste elezioni fa parte quindi della persecuzione organizzata contro il nostro Paese e il nostro popolo, perchè il nostro Paese e il nostro popolo costituiscono una barriera contro lo stabilirsi di un dominio totale nella penisola balcanica.

Da molto tempo è presente in mezzo a noi un raggruppamento che, con il pretesto di orientare i partiti politici di opposizione, rappresenta gli interessi di quei governi che sono stati protagonisti delle pressioni contro la Jugoslavia e specialmente contro la Serbia. Questa lobby si è presentata a queste elezionisotto il nome di Opposizione Democratica Serba (D.O.S.). Il suo vero capo non è il suo candidato alla presidenza. Da molti anni il suo capo è il presidente del Partito Democratico, collaboratore dell'allenza militare che ha scatenato la guerra contro il nostro Paese. Egli non ha neanche potuto nascondere la sua collaborazione con quelsta alleanza. Nei fatti, tutto il nostro popolo è al corrente del suo appello alla NATO perchè continuasse a bombardare la Serbia per tutto il tempo necessario a spezzarne la resistenza. Il cartello che si è così organizzatoper le elezioni rappresenta gli eserciti e i governi che hanno appena condotto la guerra contro la Jugoslavia. Rappresentando quegli interessi, ha lanciato alla opinione pubblica il messaggio che, con loro al potere, la Jugoslavia sarebbe uscita da ogni pericolo di guerra e di violenza, sarebbe riavviata la prosperitàeconomica, il tenore di vita sarebbe migliorato visibilmente e rapidamente, la Jugoslavia sarebbe reintegrata nelle istituzioni internazionali, e via dicendo.

Cari concittadini, è mio dovere mettervi pubblicamente in guardia e per tempo sulla falsità di queste promesse e sul fatto che la situazione è ben diversa. E’ proprio la nostra politica che garantisce la pace, mentre la loro provoca conflitti incessanti e violenza e vi dirò perchè.
Con l’instaurazione di un governo appoggiato o direttamente insediato dalla comunità dei paesi riuniti nella NATO, la Jugoslavia diventerebbe inevitabilmente un Paese il cui territorio verrebbe rapidamente smembrato.
Queste non sono soltanto le intenzioni della NATO. Queste sono le promesse pre-elettorali della Opposizione Democratica Serba. Noi l'abbiamo ascoltato dalla bocca dei suoi stessi rappresentanti: 

- il Sangiaccato otterrebbe l'autonomia che un membro della coalizione, leader di un'organizzazione separatista musulmana, Suleiman Ugljanin, reclama da dieci anni- e che significherebbe, nei fatti, la separazione definitiva del Sangiaccato dalla Serbia.

- Le loro promesse comprendono anche l'ottenimento da parte della 
Vojvodina di un'autonomia che non soltanto la separerebbe dalla Serbia e dalla Jugoslavia, ma la trasformerebbe nei fatti in parte integrante della vicina Ungheria.

- Nello stesso modo, altre regioni sarebbero separate dalla 
Serbia, e anche alcune zone di frontiera. La loro annessione da parte degli Stati confinanti costituisce da lungo tempo un imperativo per questi paesi, che continuano ad incitare le loro minoranze presenti in Jugoslavia a contribuire all'integrazione di queste parti del nostro Paese negli Stati vicini.

- Nel quadro di questa politica di smembramento della Jugoslavia, 
il Kosovo sarebbe la prima vittima. Il suo status attuale sarebbe dichiarato legale e definitivo. Questa sarebbe la prima parte del suo territorio cui la Serbia dovrebbe dire addio, senza poter neanche sperare che questa parte della sua terra le possa mai essere restituita.

- Il resto del territorio che continuerà a chiamarsi Serbia 
verrebbe occupato da forze militari internazionali, USA o comunque straniere, che tratteranno il nostro territorio come loro zona di esercitazioni militari e loro proprietà, da controllare secondo gli interessi della potenza che disloca il proprio esercito di occupazione. Abbiamo visto casi di controllo simili, e le loro conseguenze, negli scorsi decenni, e specialmente negli ultimi dieci anni in molti paesi nel mondo e ultimamente purtroppo anche in Europa, per esempio nel Kosovo, nella Repubblica Serba di Bosnia, in Macedonia, per restare intorno a noi. Il popolo della Serbia subirebbe la stessa sorte dei Kurdi, con la prospettiva di essere sterminato ben piùrapidamente dei Kurdi, essendo meno numeroso e muovendosi su un territorio assai più ristretto del loro.

- Quanto al Montenegro, il suo destino sarebbe lasciato nelle 
mani della mafia le cui regole del gioco i cittadini dovrebbero conoscere: ogni infrazione alla disciplina e soprattutto ogni opposizione agli interessi mafiosi è punita con la morte, senza alcun diritto di appello.

Vi ho descritto il destino della Jugoslavia in caso di accettazione dell’opzione NATO per il nostro paese, con l'intento di mettervi in guardia che oltre e più della perdita territoriale e all’umiliazione del popolo, noi ci troveremo tutti a vivere in un clima di continue violenze. I nuovi proprietari degli antichi territori dello Stato di Jugoslavia e gli occupanti del restante territorio serbo terrorizzerebbero, come è nella natura delle cose, le popolazioni dei territori che andrebbero ad occupare.
Nello stesso tempo, il popolo serbo stesso si batterebbe continuamente per ristabilire uno Stato serbo nel quale potersi riunire.
Queste potenze non vogliono la pace e la prosperità nei Balcani. Esse vogliono che questa sia una zona di conflitti permanenti e di guerre che servano da alibi a far perdurare la loro presenza. 

Un governo fantoccio è una garanzia certa di violenze, forse 
anche di molti anni di guerra. Di tutto salvo che di pace. Solo il nostro governo indipendente può garantire la pace.
Non solo questo. Tutti i paesi che si sono trovati in condizioni di sovranità limitata e con governi sotto l'influenza di potenze straniere si sono rapidamente impoveriti in misura tale da distruggere ogni speranza di relazioni sociali più giuste e umane. La divisione radicale tra una maggioranza povera e unaminoranza ricca: questo è il quadro che l’Europa orientale ci presenta da diversi anni ormai, come tutti possono constatare. La stessa cosa accadrebbe anche a noi. Anche noi, una volta sottoposti al comando e al controllo di quelli che dominerebbero il paese, avremo in breve un'immensa maggioranza di gente nella più estrema povertà, con una prospettiva di uscirne molto, molto incerta e lontana. La minoranza ricca sarebbe composta da un’elite di profittatori del mercato nero, cui sarà concesso di arricchirsi solo a patto di sottostare ciecamente al potere di chi deciderebbe del destino del nostro Paese.
La proprietà sociale e pubblica sarebbe rapidamente privatizzata, ma i nuovi padroni, come l’esperienza dei paesi vicini dimostra, sarebbero di regola stranieri. Tra le rare eccezioni figureranno 



Apprendiamo dalle agenzie della scomparsa di Vo Nguyen Giap, uno dei protagonisti della storia del novecento e simbolo della lotta di liberazione dei popoli di tutto il mondo. Se ne è andato un grande dirigente del movimento comunista e antimperialista mondiale. Un grande stratega della “Guerra di popolo” che ha saputo sconfiggere due formidabili eserciti imperialisti, dando così un contributo decisivo alla liberazione del Vietnam. 

Pensiamo che il miglior modo di ricordare la vita e l'opera di Giap, sia riproporre l'articolo che il compianto compagno Sergio Ricaldone [ http://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-italia/22559-compagno-ricaldone-non-ti-dimenticheremo-mai.html ] - che con Giap aveva instaurato un rapporto di collaborazione e amicizia durante gli anni della lotta di liberazione contro l'imperialismo statunitense – scrisse in occasione del 100° compleanno della grande figura vietnamita.

Al popolo del Vietnam e al suo Partito Comunista porgo le più sentite condoglianze, a nome dell'intera redazione di Marx21.it

Mauro Gemma
Direttore di Marx21.it

 



GIAP, IL GRANDE STRATEGA DELLA GUERRA DI POPOLO

di Sergio Ricaldone

Si continua a dire che il comunismo è morto. Celebrando il compleanno di Giap e guardando al Vietnam di oggi direi che il comunismo è un soggetto politico e ideale assai difficile da seppellire.

La lunga vita di Van Nguyen Giap coincide con lo spazio temporale della storia contemporanea del Vietnam durante il quale il popolo vietnamita, per riconquistare l’indipendenza nazionale, ha dovuto lottare contro gli eserciti delle quattro maggiori potenze imperialiste del 20° secolo: quello francese, quello giapponese, quello inglese e quello americano. Tutte le generazioni vietnamite del 900’ sono state segnate e coinvolte da questo titanico confronto. Tutte le classi, ogni ceto sociale: gli intellettuali tradizionalisti, poi i modernisti, gli operai, i contadini, i bonzi, i preti cattolici e le diverse etnie. Nessuna forma di lotta è stata esclusa: scioperi, manifestazioni, forme diverse di cultura popolare, rituali religiosi, alfabetizzazione di massa. Ma solo quando si è potuta formare una strategia politica di lunga durata e di largo respiro, patriottica e socialista, e di intense relazioni internazionali, la scelta dell’opzione militare, imposta dalle circostanze storiche, è stata quella che alla fine ha prevalso e deciso le sorti del paese. Ciò è diventato possibile solo dopo la formazione nel 1930 del partito comunista indocinese e dall’emergere di due figure dirigenti di formazione marxista leninista e di eccezionale spessore politico, quali Ho Ci Minh e Giap, che hanno saputo portare a sintesi, rendendole complementari e vincenti, le loro geniali intuizioni politiche e militari.

Fino agli inizi degli anni 50 il Vietnam, nella sua dimensione geografica, storica e politica era scarsamente presente nell’immaginario collettivo della sinistra europea. Era ancora un paese marginale, conosciuto da pochi col suo vecchio nome coloniale, Indocina, collocato ai margini del campo socialista. L’indipendenza del Vietnam proclamata da Ho Ci Minh il 2 settembre 1945 era stata una parentesi di breve durata e pressoché ignorata dai mass media. Il suo popolo di guerriglieri era stato costretto a disperdersi nella giungla nel 1946 dalle cannonate della flotta, dai carri armati e dai bombardieri francesi, Braccato dai tagliagole della Legione straniera (imbottita di ex SS), sembrava non avere scampo. Nessuno sospettava che da quell’improvvisato esercito di “contadini straccioni”, affamati e peggio armati, potesse nascere un movimento di liberazione guidato da un gigante del pensiero strategico, di nome Giap, che nei decenni successivi, dopo 30 anni di guerra, sarebbe riuscito a mettere in crisi politica e militare la più grande potenza imperialista della storia contemporanea.

Il velo di mistero che avvolgeva quella “piccola” porzione di mondo chiamata Indocina fu sollevato dal movimento di lotta iniziato in Francia contro la “sporca guerra” d’Indocina nel nome di Henry Martin, il coraggioso marinaio francese che, nei primi anni 50, con il suo rifiuto di imbarco su una nave da guerra destinata in Vietnam, aveva scatenato la furibonda reazione dello Stato Maggiore di Parigi e della destra colonialista. Fu cosi, soprattutto a livello di movimenti giovanili comunisti, che cominciammo a conoscere quel movimento di liberazione che, pur operando in un paese molto più piccolo della Cina, finì per assumere nei decenni che seguirono un ruolo decisivo e trainante dei movimenti di liberazione e delle rivoluzioni antimperialiste che hanno inciso non poco sui cambiamenti geopolitici del pianeta e sulle lotte del movimento operaio in occidente.

Le corrispondenze di guerra del grande giornalista australiano Wilfred Burchett ci resero poi familiari i nomi di Ho Ci Minh e di Van Nguyen Giap e quello delle città, dei fiumi e delle vallate dove si stava consumando, sconfitta dopo sconfitta, il disperato tentativo della Quarta Repubblica di mantenere in vita uno degli epigoni dell’ormai traballante impero coloniale francese.

7 maggio 1954, Diem Bien Phu. Il nome e la leggenda di Van Nguyen Giap e quello dei suoi cento anni di vita è fortemente legato all’esito di quella battaglia. Difficile, anche per i miei usurati neuroni, dimenticarlo. Nel tardo pomeriggio di quel giorno i guerriglieri di Giap, ormai diventati un esercito, sferrano il loro ultimo attacco contro i francesi assediati da circa sessanta giorni nel loro ormai piccolo perimetro difensivo. Poi, dopo 9 anni di guerriglia e di battaglie campali, un silenzio surreale cala su quel lontano altopiano del Tonchino, al confine con il Laos. Non si spara più. La battaglia di Diem Bien Phu è finita, il generale francese De Castries annuncia la resa delle sue truppe e il governo di Parigi, sostenuto militarmente da Washington, incassa la più umiliante delle sconfitte. La potenza soverchiante dell’Armèe e l’impiego della ghigliottina a “full time” non sono bastati a restaurare il dominio coloniale della 4° Repubblica.

Dopo Diem Bien Phu tutto diventa possibile. L’esempio del Vietnam dilaga: in Algeria, Cuba e altrove altre rivoluzioni incalzano. Le conseguenze di quella sconfitta imperialista peseranno a lungo nei decenni successivi e il Vietnam assumerà una posizione centrale negli sconvolgimenti in atto nel vecchio mondo coloniale e la strategia della “guerra di popolo” in un paese contadino arretrato elaborata da Giap sarà assunta a modello dai movimenti di liberazione del terzo mondo. Il suo significato è sintetizzato dalle parole di Giap pronunciate dopo quella battaglia: “Il nostro popolo e il nostro esercito hanno vinto un nemico molto più potente grazie alla loro ferma determinazione di combattere e vincere per conquistare l’indipendenza nazionale, la terra ai contadini, la pace e il socialismo. La guerra di popolo condotta da un esercito popolare è una conquista decisiva, più importante di qualsiasi arma, per i paesi d’Asia, Africa e America Latina. Il popolo vietnamita è fiero di avere contribuito alla liberazione dei popoli fratelli. (…) Nessun esercito imperialista può vincere un popolo, seppure debole, che sappia ergersi risolutamente e lottare unito sulla base di una giusta linea politica e militare”. 

Queste poche parole confermano la genialità delle sue intuizioni militari, mai fini a sé stesse, ma poste al servizio, con grande intelligenza tattica, di una strategia politica rivoluzionaria e antimperialista di cui Ho Ci Minh è stato il leader comunista più prestigioso.

Lo stesso giorno della resa di Diem Bien Phu si stava svolgendo a Milano, presso il teatro Anteo, una grande assemblea di quadri comunisti della città alla presenza di Palmiro Togliatti, segretario generale del PCI. Mentre stavo svolgendo il mio intervento alla tribuna a nome della FGCI arriva di corsa un giovane compagno dall’Unità e mi consegna un dispaccio della Reuters che annunciava la resa dei francesi. Un boato di applausi accolse quell’annuncio. Tutti i compagni in piedi sfogarono il loro grande entusiasmo per quella vittoria percepita come un passaggio centrale del collasso che già stava disgregando i vecchi imperi coloniali. Incrociando lo sguardo di Togliatti seduto alla presidenza notai una punta di scetticismo per quel po’ po’ di entusiasmo, forse giudicato eccessivo per ragioni sulle quali tornai a riflettere nei giorni successivi. Quella vittoria militare di Giap appariva infatti come una sfida troppo temeraria all’imperialismo (non tanto a quello francese in fase declinante, ma soprattutto a quello americano) rispetto alle scelte di realpolitik compiute da Mosca e dal movimento comunista in tema di rapporti internazionali, basate sulla “coesistenza pacifica tra i due sistemi” e il rispetto delle “zone di influenza” concordate a Yalta. La valutazione dei rapporti di forza da parte del Cremlino, dopo la raggiunta parità atomica con gli USA, escludeva una rottura con il nemico storico e sanciva il mantenimento del precario equilibrio bipolare per una fase non breve su cui si reggeva il rapporto tra Washington e Mosca negli anni della guerra fredda. Intendiamoci, le motivazioni di quelle scelte non erano affatto banali. Il poderoso blocco di paesi socialisti euroasiatici che si era formato dopo la seconda guerra mondiale lungo la rispettabile distanza di 10 fusi orari, dal fiume Elba all’Oceano Pacifico era alle prese con enormi difficoltà. Pur essendo un territorio immenso liberato dal nazifascismo e dal dominio imperialista, soprattutto per merito dell’Unione Sovietica e della Cina Popolare, era impegnato a risollevarsi dalle tremende distruzioni della seconda guerra mondiale e ad evitare che le minacciose dimensioni della nuova guerra di Corea e le continue provocazioni anglo americane a Berlino sfociassero in una guerra nucleare. Il mantenimento della pace era pertanto considerata una priorità assoluta. Una esigenza peraltro sempre condivisa dai comunisti vietnamiti, che però erano altrettanto attenti ad individuare le possibili brecce e i punti deboli nel rigido schema “bipolare” attraverso le quali far passare il diritto dei popoli oppressi dal colonialismo di poter lottare con qualsiasi mezzo (inclusa la lotta armata) per la propria indipendenza nazionale. Una evidente e lungimirante anticipazione che il riconoscimento delle “diversità” era la condizione per mantenere unito il movimento comunista internazionale. Diritto questo che, dieci anni più tardi, verrà apertamente riconosciuto e sancito da Togliatti nel famoso “memoriale di Yalta”.

La “guerra di popolo” teorizzata da Giap arriva al suo vittorioso epilogo nella primavera del 1975. In poco più di trenta giorni l’Armata popolare e i guerriglieri vietcong riusciranno a compiere la marcia di circa mille km., dal 18° parallelo al delta del Mekong, che li separa dalla vittoria. In rapida sequenza vengono liberate le città vietnamite che per parecchi anni hanno occupato le prime pagine di tutto l’apparato mass-mediatico planetario. Huè, Da Nang, Quan Tri, Khe San, Dong Ha, le città rese tristemente celebri da tanti anni di guerra, sono rapidamente liberate, una dopo l’altra, dalla travolgente avanzata dell’Armata Popolare di Giap. 

Poi, finalmente, dopo 4952 giorni, la lunga guerra di liberazione contro gli Stati Uniti d’America ed il loro esercito fantoccio, consuma le sue ultime ore. E’ il 30 aprile 1975, un giorno che il popolo vietnamita continua a ricordare con legittimo orgoglio. Al levar del sole quattro colonne corazzate si mettono in marcia per sferrare da quattro direzioni l’attacco finale a Saigon, la capitale sudvietnamita. E’ l’ultimo giorno di una guerra di liberazione durata trent’anni. I cento blindati della Brigata 203 attestati a Ho Nai hanno ricevuto l’ordine, dal comando mobile di Bien Hoa dell’Armata Popolare, di conquistare il “grande ponte di Saigon”, poi di dividersi in due tronconi e di marciare a tutto gas verso il palazzo presidenziale, ultima roccaforte nemica nel centro della città. E’ da poco passato mezzogiorno quando il carro 843, un T54 di fabbricazione sovietica, ancora coperto da uno strato mimetico di foglie di cocco, comandato dal capocarro Bui Quang Tanh, sfonda il cancello del palazzo presidenziale di Doc Lap e accoglie la resa di quel che resta dell’esercito fantoccio. Lo sfacelo è totale e la resa degli ultimi combattenti sudisti, ormai sconfitti e abbandonati dai generali del Pentagono, assume tratti di involontaria comicità: escono tutti in mutande e a braccia alzate dal portone principale dell’imponente palazzo simbolo di un potere profondamente detestato dal popolo vietnamita.

La disfatta militare è completa, la fuga degli americani molto più caotica e umiliante di quella dei francesi dopo la disfatta di Dien Bien Phu. Memorabili le immagini degli ultimi marines e dei loro collaborazionisti che si aggrappano disperatamente agli elicotteri in fuga dal tetto dell’ambasciata americana. La guerra di liberazione durata trent’anni è finita e Giap, il vincitore, potrà passeggiare tranquillamente, pochi giorni dopo, nel centro di Saigon, insieme a due compagni “bodoi”, entrare nei bar e parlare con la gente senza essere riconosciuto (proviamo ad immaginare un gesto analogo del capo del Pentagono per le vie di Bagdad o quelle di Kabul). Quella passeggiata simboleggia il punto culminante di una vita spesa per il popolo e in mezzo al popolo. Sicuramente uno dei suoi momenti più alti e gratificanti.

Da quel giorno il Vietnam è diventato una nazione unita e indipendente, socialista e moderna e nessuno ha mai più osato sfidare l’Armata popolare costruita da Giap. Persino Mac Namara, l’ex capo del Pentagono che aveva iniziato e guidato la guerra di aggressione contro il Vietnam, ha dovuto riconoscere la grandezza del personaggio. Indimenticabile l’incontro ad Hanoi e la stretta di mano, vent’anni dopo la fine della guerra, tra i due ex nemici: Robert Mc Namara che riconosce la condotta criminale degli USA e chiede scusa a Giap e al popolo vietnamita. Il più ambito riconoscimento ad un popolo che ha insegnato a tutti la rara virtù che libertà e indipendenza non sono mai merci barattabili.