Informazione


I Maggio a Trieste ed altre iniziative con i delegati Zastava

1) Delegati di Kragujevac in Friuli VG (aprile 2011)
2) Rientro da Kragujevac, relazione preliminare e un indirizzo youtube (marzo 2011)


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Da:  Gilberto Vlaic <gilberto.vlaic @ elettra.trieste.it>
Oggetto: [CNJ] Delegati di Kragujevac in Friuli VG
Data: 20 aprile 2011 19.59.02 GMT+02.00

ONLUS Non bombe ma solo caramelle - Trieste

Care amiche, cari amici
e’ con grande piacere che vi informiamo che una folta delegazione di delegati sindacali dei lavoratori della Zastava di Kragujevac sara’ in Friuli Venezia Giulia la settimana prossima, per informarci sulla situazione REALE della fabbrica, della citta’ di Kragujevac e piu’ in generale sulle REALI condizioni della Serbia. In questo modo intendiamo anche rafforzare ed estendere la nostra piu’ che decennale campagna di solidarieta’ con questi lavoratori, le loro famiglie e con tutta la citta’.

Di seguito gli appuntamenti che abbiamo definito e ai quali siete caldamente invitati:

Giovedi’ 28 aprile, ore 18.00 a Udine, in sala Ajace
Incontro con la CGIL e la FIOM friulana; sara’ presente anche Giorgio Airaudo della FIOM di Torino.
Titolo dell’iniziativa:
Dalla fabbrica alla scuola, il modello Fiat, le alternative per uno sviluppo globale sostenibile.
Maggiori dettagli nel documento in attachment [ https://www.cnj.it/INIZIATIVE/volantini/Zastava_1maggio2011.pdf ].

Venerdi’ 29 aprile, ore 11 e 30 nella sede della Regione in Piazza Oberdan [Trieste]
Conferenza Stampa in modo da illustrare LA REALE SITUAZIONE della citta’ e della fabbrica, dopo le menzogne sparse a piene mani dalla stampa italiana sull’intervento della Fiat in Serbia

Venerdi’ 29 aprile, vari incontri a San Giorgio di Nogaro (UD), 
comunita’ che da molti anni e’  fortemente coinvolta nella nostra campagna di affidi a distanza e nello sviluppo di molti progetti nella citta’ di Kragujevac
Ore 17 Incontro con l’amministrazione comunale in sala consiliare
Ore 17.30 incontro con Daniela Corso Presidente della casa di riposo "Chiabà"
Ore 19.00 incontro con il Presidente Lorenzo Mattiussi e con i volontari della Misericordia della Bassa Friulana nella loro sede.

Domenica PRIMO MAGGIO mattina prenderanno parte con le loro bandiere al corteo sindacale a Trieste

Domenica Primo Maggio pomeriggio alle ore 17 
saranno presenti al tradizionale concerto del Coro Partigiano Triestino Pinko Tomazic a Opicina.

Vi ricordiamo ancora di sottoscrivere il 5 per mille per la nostra ONLUS
Il codice fiscale e’ 90019350488

Sperando di incontrarvi numerosi vi inviamo i piu’ cordiali saluti
Continuate a sostenerci!
Gilberto Vlaic
Non bombe ma solo caramelle ONLUS

Trieste, 20 aprile 2011


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Da: Gilberto Vlaic <gilberto.vlaic @ elettra.trieste.it>

Oggetto: [CNJ] Rientro da Kragujevac, relazione preliminare e un indirizzo youtube

Data: 28 marzo 2011 13.58.45 GMT+02.00


Care amiche, cari amici,
siamo rientrati domenica 20 marzo 2011 dal periodico viaggio a Kragujevac.
La relazione completa del viaggio sara’ pronta entro entro il prossimo mese di aprile.

Vogliamo pero’ anticipare alcune cose.

Abbiamo trovato una situazione ancor piu’ precaria e degradata di quella incontrata nei viaggi di  precedenti: la cancellazione della Zastava Automobili, di proprieta’ pubblica, ha dato un duro colpo all’economia della citta’ e reso ancor piu’ difficili le condizioni di vita dei circa 1500 lavoratori che hanno perso non solo il salario ma le speranze di trovare un lavoro.

Questa nuova situazione ha colpito anche pesantemente l’ufficio relazioni internazionali ed adozioni a distanza, con il quale abbiamo condiviso queste esperienze degli affidi a distanza e dei tanti progetti che abbiamo portato avanti da piu’ di dieci anni.
La rete delle associazioni italiane che agiscono a Kragujevac ha deciso unanimemente di mantenere in piedi questo ufficio garantendo un sostegno economico a tre persone (Rajka, Dragan e Delko).

Abbiamo consegnato 153 quote di affido, quasi tutte trimestrali per un totale di 13260 euro.
Inoltre abbiamo consegnato 14 affidi annuali per conto della associazione ALJ di Bologna (4340 euro)

Abbiamo verificato con grande soddisfazione la conclusione dei lavori dei due progetti che erano ancora aperti:
- il restauro della sala del Parlamento degli studenti del Liceo di Kragujevac, che e’ stata chiamata SALA DELLA PACE E DELLA SOLIDARIETA’
- il completamento dei lavori edili della grande sala della Scuola primaria 19 ottobre che sara’ usata come palestra e come centro di aggregazione per tutto il quartiere di Marsic.

Per quanto riguarda nuovi progetti ci e’ stato proposto di partecipare al recupero degli edifici di un ex villaggio turistico utilizzato ormai da molti anni come campo profughi.
Si tratta di un insediamento molto degradato di dieci edifici in legno (piu’ tre edifici in muratura dove sono ubicati i servizi igienici e la cucina), ubicato fuori citta’, nel villaggio di Trmbas, dove abitano 280 profughi dal Kosovo. L’impegno necessario e’ assolutamente al di fuori delle nostre diponibilita’ e verificheremo se riusciremo a trovare altri che possano entrare in collaborazione con noi.

Infine abbiamo partecipato ad una affollatissima assemblea del sindacato Samostalni durante la quale sono stati eletti i nuovi dirigenti.

Durante questa assemblea e’ stato presentato un CD sulle attivita’ che le associazioni italiane hanno realizzato dal 1999 in poi. E’ molto interessante e ben fatto; malgrado sia in serbo ve ne consiglio la visione; lo trovate su youtube all’indirizzo:

http://www.youtube.com/watch?v=3Y0kLfFcP8U&feature=player_embedded

Per il momento e’ tutto.
Il prossimo viaggio si svolgera’ tra il 30 giugno e il 3 luglio prossimi.
Consegneremo una rata di affido trimestrale.

Il successivo sara’ intorno al 21 ottobre e consegneremo due trimestri di affido, in quanto non effettueremo viaggi a dicembre.

UN GRANDE GRAZIE A TUTTE/I VOI PER IL SOSTEGNO CHE DATE A QUESTA CAMPAGNA DI SOLIDARIETA’!!!

Vi ricordiamo ancora il 5 per mille...
codice fiscale della ONLUS 90019350488

Gilberto Vlaic
ONLUS Non bombe ma solo caramelle

Trieste 27 marzo 2011




LE VITTIME INNOCENTI DEL TERRORISMO IN BIELORUSSIA NON MERITANO NEPPURE UN TELEGRAMMA DI CORDOGLIO

su l'Ernesto Online del 21/04/2011

Per i governi occidentali le vittime innocenti del terrorismo in Bielorussia non meritano neppure un telegramma di cordoglio!

“Non capisco come paesi, che si proclamano democratici e civili, non abbiano sentito il dovere di esprimere le loro condoglianze con il popolo della Bielorussia, così gravemente colpito”, ha dichiarato il presidente Aleksander Lukashenko nel commentare la completa assenza di manifestazioni di cordoglio da parte di numerosi paesi occidentali, dopo il terribile attentato alla metropolitana di Minsk, a poca distanza dal palazzo di governo, che ha provocato la morte di 12 civili innocenti.

“Non hanno sentito il dovere di esprimere cordoglio neppure a un popolo, come il bielorusso, che, nella lotta coraggiosa contro il fascismo, ha avuto così tante sofferenze. Un popolo, senza il quale, la bestia del fascismo non sarebbe mai stata sconfitta”.

“Il comportamento di certi governi e ambasciatori di fronte ai tragici avvenimenti di Minsk è la cartina di tornasole dei loro reali sentimenti nei confronti della Bielorussia. Che vergogna!”, ha concluso Lukashenko.

[L'attentato stragista nella capitale bielorussa, a due passi dalla residenza del presidente Lukashenko, si è verificato lo scorso 11 aprile 2011.]


(francais / italiano)

Ah, questi sciocchini nostalgici

1) IL TRAGICO FALLIMENTO DEL POST-COMUNISMO NELL’EUROPA DELL’EST
(R. Vassilev, Global Research 11/4/2011)
2) Ces Allemands nostalgiques du «paradis» perdu de RDA
(P. Saint-Paul, Le Figaro, 30/06/2009)


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The original text in english:
The Tragic Failure of "Post-Communism" in Eastern Europe
by Dr. Rossen Vassilev - Global Research, March 8, 2011
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IL TRAGICO FALLIMENTO DEL POST-COMUNISMO NELL’EUROPA DELL’EST

Postato il Lunedì, 11 aprile @ 17:10:00 CDT di marcoc

DI ROSSEN VASSILEV
Global Research

Poco prima del giorno di natale dello scorso anno, un disperato ingegnere della TV pubblica che protestava per le controverse misure economiche prese dal governo, si è gettato dal balcone del parlamento rumeno durante un discorso del primo ministro. A quanto pare l’uomo, sopravvissuto al tentato suicidio, prima di buttarsi ha urlato: “Avete strappato il pane dalle bocche dei nostri bambini! Avete ucciso il loro futuro!” L’uomo, in seguito identificato come Adrian Sobaru di 41 anni, indossava una maglietta con la scritta: “Avete ucciso il nostro futuro” e il suo giovane figlio, autistico, ha recentemente perso ogni sussidio pubblico a causa dei recenti tagli al bilancio operati dal governo. Il tentativo di suicidio è stato trasmesso in diretta dalla TV pubblica rumena durante il discorso del primo ministro Emil Boc, in seguito a un fallito voto di sfiducia nei confronti del suo governo conservatore. Le misure di austerità fiscale e salariale per le quali il signor Sobaru protestava includevano tagli salariali del 25% nei confronti dei dipendenti pubblici e pesanti tagli ai sussidi pubblici per genitori con figli disabili, che lui aveva ricevuto fino a poco prima. 

Secondo la locale agenzia stampa Agerpres, le urla disperate dell’uomo nel parlamento ricordavano drammaticamente quelle sentite durante la rivoluzione anticomunista che fece crollare il regime autocratico e pro-occidentale di Nicolae Ceausescu.


Il caos economico 

Il tragico gesto del signor Sobaru, in seguito trasmesso su tutte le TV mondiali, ha mosso a compassione tanti rumeni che in esso hanno individuato il simbolo delle feroci ingiustizie e ineguaglianze dell’era post-comunista. La Romania è caduta in una pesante recessione e la sua disastrata economia dovrebbe perdere almeno il 2% nel 2010, dopo essersi ridotta del 7.1% l’anno precendente. Invece di cercare di sostenere i disoccupati e i più svantaggiati, il governo di Bucarest che secondo vari rapporti risulta essere caratterizzato da corruzione, favoritismi e nepotismo, ha tagliato il salario pubblico di un quarto e bloccato del tutto la spesa pubblica, il contributo per il riscaldamento per i poveri così come ogni benefit per disoccupazione, maternità e per i disabili. Allo stesso tempo, la tassa sul commercio è salita dal 19 al 24 per cento nel tentativo di abbassare il deficit pubblico sotto il 6.8%, per venire incontro alle rigide richieste fiscali della UE, di cui la Romania è entrata a far parte dal gennaio 2007.

Queste dure misure di austerità hanno indignato milioni di rumeni che appena riescono a finire il mese, in un paese nel quale lo stipendio mensile medio è di 400 euro. Manifestazioni rabbiose che hanno portato per le strade decine di migliaia di rumeni sono la prova della profonda indignazione per la povertà di massa e l’infinita crisi economica che ha portato la Romania sull’orlo della bancarotta. “Questo non è capitalismo, nei paesi capitalisti avete una classe media”, afferma una dirigente di un minimarket di Bucarest a un reporter della Associated Press. Ma la società rumena – si lamenta lei – è divisa tra una piccola minoranza di gente molto ricca e un diffuso sottoproletariato impoverito.[1]

Sebbene la tragedia umana vista nel parlamento rumeno quel giorno pre-natalizio sia abbastanza sintomatica della dilagante miseria e della fine della speranza per una vita migliore, tuttavia essa avrebbe potuto verificarsi facilmente in qualunque altro paese ex-comunista, dove si soffre lo stesso per la mancanza di impiego, povertà di massa, salari in declino, forti tagli alla spesa pubblica e declino dello standard di vita. Proprio mentre il signor Sobaru cercava di suicidarsi, molti dei 20.000 medici degli ospedali della Repubblica Ceca abbandonavano il loro lavoro per protestare in massa contro la decisione del primo ministro Petr Necas di tagliare tutte le spese pubbliche, inclusa la spesa sanitaria, di almeno il 10% per riuscire a tenere a galla la difficile situazione finanziaria del paese. Queste dimissioni di massa fanno parte della campagna “Grazie ma ce ne andiamo” lanciata dal personale paramedico in tutto il paese che intende fare pressione sulle autorità di Praga per un aumento salariale e per ottenere migliori condizioni lavorative di tutto il personale medico. Davanti alla peggior crisi del settore sanità nella storia del paese ex-comunista, che stava mettendo in pericolo la vita di molti pazienti, il governo ceco ha minacciato lo stato di emergenza che ha costretto i medici a tornare al lavoro per non andare incontro a pesanti conseguenze legali e finanziarie.

Sarebbe necessario ricordare anche le largamente ignorate rivolte contro la fame avvenute nel 2009 in Lettonia, il tanto lodato ‘miracolo baltico’ così caro ai maggiori media occidentali, dove il primo ministro in carica Valdis Dombrovskis è stato rieletto ne 2010 nonostante i suoi pesanti tagli nel settore pubblico e i già miseri standard di vita dei lettoni ( la campagna elettorale si era concentrata sullo scontro tra i nazionalisti lettoni e la numerosa e irrequieta minoranza di lingua russa presente nel paese). Secondo il dottor Michael Hudson, professore di Economia presso la University of Missouri, a causa dei profondi tagli governativi al welfare, all’istruzione, salute, trasporto pubblico e ad altre spese di infrastrutture sociali che minacciano di colpire la sicurezza economica, lo sviluppo sul lungo termine e la stabilità politica di tutti i paesi del blocco ex-sovietico, i giovani stanno emigrando in massa per migliorare le loro vite invece di soffrire per un’economia senza opportunità lavorative. Per esempio, più del 12% della popolazione lettone (e una percentuale molto più ampia della sua forza lavoro) ora vive e lavora all’estero.

Quando la ‘bolla neoliberista’ è scoppiata nel 2008, scrive il professor Hudson, il governo conservatore lettone ha ottenuto ingenti prestiti dalla UE e dal FMI a condizioni così svantaggiose che le durissime misure di austerità che ne sono conseguite hanno ridotto l’economia lettone del 25% (le vicine Estonia e Lituania hanno vissuto un declino economico simile) e la disoccupazione, in questo momento al 22%, continua ad aumentare. Con ben oltre il 10% della propria popolazione che lavora fuori dai confini nazionali, i lettoni all’estero inviano a casa loro qualunque cosa per aiutare a sopravvivere le loro disagiate famiglie. I bambini lettoni (pochi, infatti i matrimoni e la natalità in questo paese baltico sono crollati) in questo modo vengono lasciati ‘come orfani’, e gli esperti in materie sociali si chiedono come potrà questo paese di 2.3 milioni di abitanti a sopravvivere in senso demografico.[2] Questi sono i risultati delle misure di austerità del post-comunismo che hanno tagliato le gambe alla popolazione e salvato i creditori internazionali e le banche locali.

La diffusione del populismo di destra 

La profonda crisi economica e la diffusa disoccupazione lungo il mondo ex-comunista ha portato al potere alcuni partiti radicali e politici che hanno abbracciato il nazionalismo populista di destra. Il Fidesz ungherese (Unione Civica Ungherese), uno spregiudicato partito nazionalista di destra, ha vinto le elezioni parlamentari in aprile del 2010 col 52.73% dei voti. Jobbik (Movimento per un’Ungheria Migliore), partito xenofobo di estrema destra, è arrivato terzo col 16.67% dei voti. In mezzo a una disastrosa depressione economica, la destra nazionalista ha vinto la maggior parte del voto popolare riportando in vita il tradizionale capro espiatorio ungherese delle minoranze etniche e accusando in particolar modo ebrei e zingari per la diffusa mancanza di lavoro e povertà del paese. Un membro eletto al parlamento del Fidesz, Oszkár Molnár, ha proclamato: “Amo l’Ungheria, amo gli ungheresi e preferisco gli interessi ungheresi rispetto a quelli del capitale finanziario globale o del capitale ebraico che vuole divorare il nostro mondo e in particolare l’Ungheria. Nessun suo collega di partito lo ha contestato, nemmeno in pubblico.

Nel dicembre 2010, con una maggioranza parlamentare di due terzi, il Fidesz ha permesso l’approvazione di una misura draconiana sui media, che ha dato al governo la libertà di esercitare un rigido controllo sui media privati. Questa controversa nuova legge ha spinto manifestanti a scendere per le strade di Budapest con cartelloni pubblicitari in bianco per protestare contro la censura proposta dal governo. La legge ha anche attirato le critiche della UE (di cui l’Ungheria è membro dal maggio 2004) che vede la proposta come una ‘minaccia alla libertà di stampa’ e ‘una seria minaccia alla democrazia’ dal momento che prevede pesanti multe e altre penalità per chi pubblica o trasmette attraverso media e internet informazione ‘sbilanciata’ o ‘immorale’, in particolar modo se critica del governo, in un paese dove un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà. I critici lamentano che la legge più restrittiva d’Europa sui media soffocherà il pluralismo e porterà indietro le lancette della democrazia in questo paese dal passato comunista.

La stampa tedesca in particolare ha accusato il primo ministro ungherese Viktor Orbán per aver non solo messo la museruola ai media locali, ma anche perché vuole far comandare il Fidesz in maniera esclusiva, portando l’Ungheria verso un ‘Führerstaat’ totalitario (in modo simile, gli opinionisti ungheresi lamentano la strisciante ‘Orbánizzazione’ del loro paese). Károly Vörös, editore del quotidiano ungherese Népszabadság, protesta perché la nuova legge sui media vuole ‘istillare un sentimento di paura nei giornalisti’ e perché ‘l’intero stato ungherese si sta dissolvendo in modo sistematico’.[3] Ma il populista di tipo berlusconiano Orbán ha percepito il profondo malessere dell’ungherese medio, intrappolato nel vortice della globalizzazione, nei confronti del capitalismo, della UE e degli Stati Uniti e ora ha assunto un atteggiamento di sfida, così come aveva già fatto in passato, avvertendo la UE di non intromettersi negli affari interni dell’Ungheria: “ È la UE che dovrebbe adattarsi all’Ungheria e non viceversa..” (L’Ungheria è dal 1 gennaio scorso presidente di turno della UE, carica che dura 6 mesi). In verità, molti ungheresi sospettano che la nuova legge sui mezzi di comunicazione sia solo un diversivo per distrarre l’attenzione pubblica dai laceranti problemi economici del paese.

Un’altra figura autocratica, Boyko Borisov, un tempo capo della ex-polizia nazionale dall’oscuro passato comunista e, a quanto si dice, con legami con il sottobosco criminale locale, governa la Bulgaria, diventata membro della UE a gennaio del 2007 nonostante fosse lo stato col più alto indice di corruzione e criminalità del blocco di paesi ex-sovietici, a parte il Kosovo, stato guidato dalla mafia (altro candidato membro della UE, forse già per il 2015). Il successo alle elezioni del luglio 2009 dell’uomo forte di stampo mussoliniano Borisov e del suo partito di destra GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria) non deve sosrprendere in un paese la cui difficile situazione è diventata la più emblematica della traiettoria aberrante e dell’ondata di malcontento del post-comunismo. Secondo quasi ogni indicatore macroeconomico, l’attuale condizione della Bulgaria è peggiore rispetto a quella del suo passato comunista.

Le statistiche ufficiali mostrano che sia il PIL che il reddito pro-capite della popolazione sono crollati, la rete di sicurezza sociale è stata disintegrata e anche la sopravvivenza fisica di tanti bulgari impoveriti è a rischio. L’effetto immediato delle ‘riforme’ orientate al mercato è stato la distruzione dell’industria e dell’agricoltura bulgare, disoccupazione, inflazione, drammatica disuguaglianza dei salari, povertà schiacciante e anche malnutrizione. Il crimine organizzato e la corruzione endemica sotto forma di nepotismo e favoritismi, concussione, peculato, corruzione, clientelismo, contrabbando, racket, scommesse illegali, prostituzione e pornografia hanno imposto un severo dazio sugli standard di vita e sui mezzi di sussistenza dell’era post-comunista. Un altro sciagurato effetto consiste nella diffusa trascuratezza dei diritti sociali ed economici dei bulgari medi, per i quali la giornata lavorativa di 8 ore non è altro che un ricordo.

La disastrata condizione economica, in cambio, ha generato un clima politico piuttosto mutevole e imprevedibile. Nessuno dei governi eletti nel tormentato periodo post-comunista è riuscito a sopravvivere per più di un mandato (spesso non sono riusciti a concluderlo). Questa mutevolezza dimostra che la natura instabile della politica in Bulgaria è dovuta alla catastrofe della situazione economica e alla chiara incapacità dei dirigenti dei partiti esistenti di offrire una soluzione credibile. Stanchi del declino economico, del disinteresse del governo, della malversazione estrema, del crimine crescente e della corruzione, i bulgari danno sempre un voto di protesta contro la presa di potere di gruppi di politici incompetenti, autoreferenziali, corrotti e criminali che cercano solo il proprio profitto. Ma la fine di questa miseria sembra essere lontana, specialmente perché il governo di Borisov ha imposto un draconiano bilancio di austerità, tagliando almeno il 20% della spesa pubblica.

Allo stesso tempo, la politica è diventata di gran lunga il business più proficuo e anche meno rischioso di qualunque attività imprenditoriale. Così i partiti politici sono diventati come avide corporazioni e ben organizzate cricche prive di ogni scrupolo in cerca di lucro, che cercano di arrivare al potere per arricchirsi sfruttando la letargia della popolazione addomesticata e saccheggiando le risorse del paese, specialmente ora che il paese conta con notevoli quantità di fondi di aiuto straniero e di investimenti dalle UE. Potenti interessi di origine spesso criminale organizzano e finanziano tutti i maggiori partiti politici, aggiungendo in questo modo elementi fortemente plutocratici a una oligarchia sostanzialmente cleptocratica e di stampo mafioso. Ecco perché la gente comune non vede alcuna differenza tra il loro corrotto governo e i ben organizzati consorzi criminali. Quindi non sorprende sentire i bulgari riferirsi al proprio paese come uno ‘stato mafioso’, ‘repubblica delle banane’, ‘circo’ e ‘Absurd-istan’. Stanno ancora aspettando l’arrivo, a lungo promesso, del capitalismo ‘normale’ e di una democrazia ‘normale’ dove la sicurezza economica personale, stipendi sufficienti e decenti standard di vita sostituiranno la mancanza di lavoro, la povertà estrema, la condizione dei senzatetto e lo scoraggiamento sociale. Circa 1.2 milioni di bulgari (il 16% della popolazione), per lo più giovani, hanno espresso il loro voto andando all’estero in cerca di migliori condizioni (l’emigrazione dei poveri ha contribuito a ridurre la popolazione bulgara dai quasi 9 milioni del 1989 a circa 7 milioni di oggi).

Crollo del sostegno popolare 

Subito dopo il crollo del comunismo, i paesi del passato blocco sovietico e altri stati ex-comunisti della regione sono diventati neoliberisti ( e un discreto numero di essi sono anche stati smembrati a livello territoriale) e, ad eccezione delle piccole élite locali pro-occidentali che si comportano da criminali, le loro popolazioni hanno raggiunto una povertà da terzo mondo. Quasi tutti questi 28 paesi eurasiatici hanno sperimentato un declino economico su lungo termine di dimensioni catastrofiche (solo la Polonia è riuscita a sorpassare il PIL che aveva durante il comunismo). Pesanti ricadute economiche, corruzione radicata, e diffuso senso di frustrazione nella popolazione, insieme alle privazioni e sofferenze dell’apparentemente infinita transizione post-comunista, stanno minando il prestigio delle nuove autorità e anche la fiducia della popolazione nella democrazia occidentale e nel capitalismo basato sul mercato. Una nuova generazione di plutocrati rapaci e insensibili, affamati di ricchezza e potere, ha saccheggiato – attraverso un ingiusto e corrotto processo di privatizzazione – i beni dell’economia di stato dei regimi passati e ha ricreato in casa i peggiori eccessi del capitalismo dickensiano del secolo XIX, come se il progresso del secolo XX non fosse mai esistito. In mezzo alla diffusa mancanza di lavoro, all’indigenza, malnutrizione e anche fame, sono sorte in tutte le città grandi ville private di lusso estremo come sontuosi simboli di guadagni illeciti e di ricchezze impensabili per la gente comune che lotta per trovare un lavoro, pagare le bollette e trovare case a prezzi decenti. Questa ‘nuova classe’ di nouveau riche dagli agganci giusti a livello politico, che vive una lussuosa Dolce Vita, sembra essere pronta a commettere qualunque crimine per ottenere profitti e per arricchirsi facilmente, agisce secondo il principio di Luigi XV ‘Après moi, le déluge’ e distrugge le speranze di chiunque per aumentare il proprio profitto e modernizzare il proprio paese secondo lo stile di una nazione ‘civilizzata’. Gli unici affari fiorenti in molte delle ‘economie emergenti’ sembrano derivare dal crimine organizzato, di solito gestito dai cleptocrati presenti nei circoli di potere.

Mentre questo gruppo parassitario di ‘nuovi ricchi’ si arricchisce – in parte evadendo le tasse grazie al nuovo sistema di leggi retrograde di ‘aliquota unica’ – i cittadini dei paesi ex-comunisti ora devono pagare l’assistenza medica, una volta governativa e gratuita, anche se devono pagare imposte salariali, sui mutui e sulle vendite – cose che non dovevano pagare sotto i regimi comunisti. C'è anche la monetizzazione e/o privatizzazione dell’educazione che prima era gratuita, in particolar modo delle superiori e la novità di collegi, scuole e università privati dove gli studenti devono pagare la formazione, incluse le rette per gli esami di ammissione e altri esami obbligatori richiesti ad ogni livello del percorso educativo. I sussidi del governo per la sanità, l’educazione, il supporto legale per ottenere una casa, l’accesso all’elettricità e il trasporto pubblico stanno scomparendo nella corsa al taglio della spesa sociale e al deficit di bilancio, rendendo molto difficile la lotta per la sopravvivenza a molta gente. La regione è diventata una sorta di banco di prova per verificare fino a che livello si può privare la popolazione dei propri diritti sociali ed economici, come quello al salario minimo, vacanze pagate, accesso libero e gratuito al servizio sanitario, all’educazione e alle spese legali, alla pensione all’età di 60 anni per gli uomini e di 55 per le donne e infine al diritto a unirsi ai sindacati. Ma, nonostante i crescenti livelli di disoccupazione e sottoccupazione, la ferrea disciplina del mercato e la mancanza di social welfare o anche di un benché minimo sostegno sociale, l’antico detto dell’era comunista ‘Loro (i padroni) fanno finta di pagarci, noi (i lavoratori) facciamo finta di lavorare’ sembra essere molto più veritiero oggi di quanto lo sia mai stato durante il comunismo. Perché oggi nessuno vuole lavorare sodo per i nuovi datori di lavoro privati e spesso stranieri che sembrano essere interessati solo a spremere quanto più possibile i lavoratori in cambio del minimo. Allo stesso tempo, l’educazione pubblica e le scienze, così come gli istituti di cultura, vengono colpiti in nome del risparmio dei ‘soldi dei contribuenti’ (per esempio l’Accademia nazionale delle scienze è già stata chiusa o sta per esserlo in un certo numero di questi paesi).

In questi paesi schiacciati dalla crisi dove gli standard di vita si sono deteriorati con l’aumento della disoccupazione, povertà e pauperismo, criminalità, così come l’abuso di alcol e droga, insieme a prezzi inaccessibili di cibo, casa e carburante, il consenso pubblico nei confronti dell’operato dei governi è pressoché minimo ovunque. E i paesi in cui questa discrepanza tra le aspettative della popolazione e l’operato dei governi diventa molto ampia, ovvero in quasi tutti i paesi ex-comunisti, l’adesione ai principi democratici si indebolisce sempre di più. I regimi che non rispettano le promesse fatte, a lungo andare perdono la legittimità, rischiando crisi sistemiche (per esempio il paradigmatico caso della Germania di Weimar). Date le terribili condizioni di vita e lavorative, molti cittadini dei paesi ex-comunisti stanno perdendo la fiducia nel credo del capitalismo e della democrazia liberale. Tanti rigettano l’idea che i loro paesi siano di fatto democratici. La percezione negativa della popolazione non può che colpire l’attitudine democratica (cioè la percezione del valore della democrazia) e quindi il cosiddetto ‘deficit democratico’ è statisticamente piuttosto diffuso lungo l’intera regione. Le élite locali che governano stanno lentamente perdendo la loro legittimità.

Di conseguenza, proteste pubbliche e disordini sociali sono diffusi, inclusa la dozzina di controverse rivoluzioni ‘colorate’, che hanno avuto successo o meno a seconda di quanto l’Occidente ha garantito il proprio appoggio contro governi legittimamente eletti ma diventati estremamente impopolari. Nel gennaio 2011, per esempio, sono stati uccisi molti manifestanti e 150 sono rimasti feriti durante una manifestazione contro il governo a Tirana, capitale dell’Albania. Il primo ministro albanese Sali Berisha ha giurato che non avrebbe permesso l’abbattimento del suo governo, ma l’opposizione ha organizzato altre manifestazioni a Tirana e in altre città albanesi e ha promesso di organizzarne altre in futuro. I sostenitori del partito socialista, all’opposizione, accusano le autorità per la cattiva gestione finanziaria, la criminalità e la corruzione pandemiche, il crollo dell’economia e per la mancanza di servizi di pubblica utilità. Chiedono anche nuove elezioni, sostengono infatti che il governo ha falsato il voto delle elezioni vinte con minimo margine dai democratici di Berisha nel 2009. Le tensioni sono aumentate per l’accusa di Berisha nei confronti dei socialisti di aver tentato ‘una rivolta simile a quella tunisina’, riferendosi alla sanguinosa rivolta in Tunisia dove sono state uccise decine di persone. Simili proteste antigovernative si tengono regolarmente nella Georgia post-sovietica, nonostante i tentativi delle autorità ‘democratiche’di schiacciare il dissenso. L’opposizione contesta a Mikheil Saakashvili, l’uomo forte della Georgia, la disastrosa guerra con la Russia e il collasso del paese. ‘La stragrande maggioranza del paese è sull’orlo della povertà. Niente funziona in Georgia tranne lo stato di polizia’, ha detto Lasha Chkhartishvili del partito conservatore all’opposizione, ai giornalisti stranieri nel mese di febbraio durante le manifestazioni contro Saakashvili tenute intorno al palazzo del parlamento nella capitale georgiana, Tbilisi. “Il regime dittatoriale di Saakashvili presto cadrà perché la pazienza della popolazione ha un limite’[4]

Al momento, l’attenzione di tutti è diretta al mondo musulmano e al tentativo delle nazioni arabe a favore della democrazia di trasformare la politica lungo il Grande Medioriente. Ma il germe di queste sorprendenti rivolte esiste quasi dappertutto, specialmente nelle aree del post-comunismo. Provocare disordini per contestare la povertà, la mancanza di lavoro e il ladrocinio endemico da parte delle autorità dopo oltre 20 anni di dominio post-comunista incompetente, corrotto e disonesto – in combinazione con il disastroso esperimento di laissez faire dell’intero blocco ex sovietico –, ha prodotto una profonda instabilità regionale per cui la sopravvivenza di alcuni regimi sostenuti dall’Occidente sembra essere a rischio. Questo dato è confermato da una speculazione senza precedenti che ricorda fortemente il periodo subito anteriore alla caduta del comunismo – come i commenti di molti lettori sui forum dei media locali – sull’instabilità e reversibilità del nuovo ordine post- comunista e la sua possibile sostituzione con la ‘democrazia rivoluzionaria’ di certi paesi latinoamericani. Questo senso di insicurezza e di fragilità è stato rafforzato dall’ondata di nostalgia per il comunismo che attraversa i paesi ex-comunisti.

La nostalgia del comunismo 

C'è una grande delusione per le mancate promesse dalle rivoluzioni del 1989, che hanno portato a un rapido declino degli standard di vita dei cittadini una volta comunisti. La diffusa esasperazione per l’impoverimento, la corruzione, la piccola criminalità e per il generale caos sociale che hanno caratterizzato la transizione al capitalismo e alla democrazia di stampo occidentale, ha prodotto una crescente nostalgia per il passato comunista tra la gente comune (quella che non fa parte dell’ élite cittadina e pro-occidentale di questi paesi), che guarda con simpatia ai ‘bei vecchi tempi’ del comunismo, una inquietante tendenza diffusa nella regione e conosciuta come ‘Soviet chic’.

Secondo l’Indagine Strategica e di Valutazione della Romania, recentemente pubblicata, il 45% dei rumeni ritiene che sarebbe stato meglio se non ci fosse stata la rivoluzione anti-comunista. Il 61% degli intervistati ha dichiarato di vivere in condizioni molto peggiori rispetto al periodo di Ceausescu, solo il 24% dichiara di vivere meglio ora. Se i risultati di questa inchiesta sono credibili (è stata condotta verso la fine del 2010 su un campione di 1476 adulti e può avere un margine di errore del più o meno 2.7%), allora Ceausescu ha assunto il valore di martire presso i rumeni. Almeno l’84% crede che è stato sbagliato giustiziarlo senza un processo equo e il 60% si dispiace della sua morte.[5] Secondo un’altra indagine recente, il 59% dei rumeni considera il comunismo una buona idea. Circa il 44% degli intervistati pensa che è stata una buona idea ma applicata male, mentre solo il 15% ritiene che sia stato ben realizzato. Appena il 29% dei rumeni vede il comunismo come una cattiva idea. Non ci sono differenze significative tra uomini e donne su questa domanda, ma le opinioni sul comunismo cambiano a seconda di età e luogo di residenza. La maggioranza di chi ha più di 40 anni vede nel comunismo una buona idea ( il 74% di questi ha più di 60 anni e il 64% è di età compresa tra i 40 e i 59 anni). Ma solo una minoranza delle nuove generazioni, che non hanno conosciuto il regime di Ceausescu, la pensa allo stesso modo (il 49% in età compresa tra 20 e 39 anni e solo il 31% di chi ha meno di 20 anni). Gli interpellati che vivono in zone rurali hanno una visione più positiva – solo il 21% di loro considera il comunismo una cattiva idea, rispetto al 34% di chi abita in zone urbane.[6] E molti rumeni ricordano con nostalgia i giorni felici di quando la maggioranza di loro avevano un lavoro stabile, case date dallo stato a prezzi popolari, salute pubblica, e vacanze pagate dal governo sul Mar nero. “Rimpiango la fine del comunismo – non per me, ma lo penso quando vedo i miei figli e nipoti lottare così tanto” racconta un meccanico in pensione di 68 anni. “Avevamo lavori sicuri e salari decenti sotto il comunismo. Avevamo abbastanza da mangiare e andavamo in vacanza con i bambini.”[7]

Il ‘Soviet chic’ è particolarmente popolare tra gli abitanti della ex Germania dell’est dove si parla di ‘Ostalgia’.[8] Secondo Der Spiegel, una rivista tedesca di orientamento conservatore, “a due decenni dal crollo del muro di Berlino, la glorificazione della Repubblica Democratica Tedesca è in crescita. I giovani e i benestanti sono tra coloro che legittimano la Repubblica Democratica Tedesca (RDT). “La RDT aveva più aspetti positivi che negativi. C’erano problemi ma si viveva bene”, sostiene il 49% degli intervistati. L’otto per cento dei tedeschi dell’est non ammette critiche nei confronti della loro ex patria o è d’accordo con l’affermazione secondo cui “la RDT aveva aspetti per lo più positivi. SI viveva più felici e meglio che nella Germania riunificata..” I risultati di questa inchiesta sono stati pubblicati per il ventesimo anniversario dalla caduta del muro di Berlino e rivelano la profonda nostalgia della ex Repubblica Democratica da parte di molti tedeschi dell’est. E non da parte di persone anziane. “È nata una nuova forma di Ostalgia” ha affermato lo storico Stefan Wolle. “Il desiderio di vivere in una dittatura idealizzata va oltre l’idealizzazione dei dirigenti governativi” si lamente Wolle. “Anche i giovani che non hanno vissuto durante la RDT la idealizzano”.

“Meno della metà dei giovani nella Germania est descrive la RDT come una dittatura, e la maggior parte sostiene che la Stasi era un normale servizio di intelligence.” Questa è la conclusione sui giovani della Germania est cui è arrivato il politologo Klaus Schroeder, direttore di un istituto di ricerca alla Libera Università di Berlino che studia il passato stato comunista. Questi giovani non possono - e di fatto non vogliono – riconoscere i lati oscuri della RDT”. La ricerca di Schroeder fornisce una prospettiva scioccante sui delusi cittadini della ex RDT. “Oggi molti pensano di aver perso il paradiso quando cadde il muro” dice un abitante della Germania est, un altro uomo di 38 anni ringrazia dio per aver vissuto durante la RDT, perché solo dopo la sua fine ha visto gente senza un tetto, mendicanti e poveri che temono per la propria sopravvivenza. Oggi la Germania, così la descrivono in molti, è uno ‘stato schiavo’ e una ‘dittatura capitalista’, alcuni rifiutano del tutto la riunificazione perché la Germania appare essere troppo dittatioriale e capitalista, certamente non democratica. Queste opinioni, secondo Schroeder, sono allarmanti: “Temo che la maggioranza dei tedeschi dell’est non si riconoscano con l’attuale sistema sociopolitico”. Un altro cittadino dell’est sostiene nell’articolo dello Spiegel che “nel passato la gente si divertiva e godeva della propria libertà anche in un campeggio”. Ciò che più gli manca è “quella sensazione di amicizia e solidarietà”. Il suo verdetto sulla RDT è chiaro: “Per quanto mi riguarda, in quei tempi non vivevamo in una dittatura come quella di oggi”. Non solo vuole vedere di nuovo la parità salariale e pensionistica ma si lamenta del fatto che la gente ricorre all’inganno e alle menzogne dappertutto nella Germania riunificata. Le ingiustizie oggi vengono perpetrate in modo più ambiguo rispetto al passato, quando i salari da fame e la microcriminalità erano fenomeni del tutto sconosciuti.[10]

In risposta allo spirito nostalgico del comunismo, ampiamente diffuso nell’intera regione, e al radicale cambio d’opinione secondo cui l’ultimo leader della Polonia comunista, il generale Wojciech Jaruzelski, è molto più popolare del prima riverito ma ora marginalizzato Lech Walesa, ex leader del sindacato Solidarnosc, Nobel per la pace ed ex presidente della Polonia e icona dell’anticomunismo, i ferventi anti- comunisti polacchi hanno rivisto il codice penale e vi hanno incluso la proibizione di qualunque simbolo del comunismo. Sotto questa nuova legge degna dell’Inquisizione cattolica medievale, i polacchi possono essere multati e messi in prigione se trovati a cantare l’Internazionale, o se portano una bandiera rossa, una stella rossa o l’insegna della falce e il martello e altri simboli dell’era comunista, o se indossano una maglietta del Che Guevara. Allo stesso modo, il governo conservatore della Repubblica Ceca sta cercando di mettere fuorilegge il partito comunista delle regioni della Boemia e Moravia (anche se nell’ultima ha ottenuto l’undici per cento alle ultime elezioni tenute in maggio 2010 ed è rappresentato in entrambe le camere del parlamento) apparentemente perché la dirigenza si rifiuta di eliminare la sacrilega parola “Comunista” dal nome del partito. Molti paesi ex-comunisti membri della UE hanno chiesto a Bruxelles di far pressione affinché fosse proibito in tutta la comunità europea negare i crimini dei vecchi regimi comunisti. “Il principio della giustizia dovrebbe garantire un giusto trattamento per le vittime di tutti i regimi totalitari”, hanno scritto in una lettera indirizzata alla Commissione europea di giustizia i ministri degli esteri della Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia, Lituania e Romania, e hanno insistito sul fatto che “ il perdono pubblico, la negazione e la trivializzazione grossolana dei crimini dei regimi totalitari” dovrebbero essere criminalizzati in tutti i paesi membri della UE. Il parlamento europeo, dietro istigazione di deputati anti-comunisti provenienti da paesi post-comunisti, ha già approvato una controversa risoluzione sul “totalitarismo” che equipara il comunismo con il nazismo e fascismo. Ma queste misure punitive non hanno minimamente intaccato l’epidemia della nostalgia per il comunismo: la maglietta più in voga tra i berlinesi dell’est in questo momento riporta la seguente frase: “Ridatemi il mio muro. E questa volta fatelo due metri più alto!”

È il turno dei paesi ex-comunisti? 

Con l’attenzione dei governi occidentali rivolta alle tensioni e ai conflitti del mondo arabo, si tende ad ignorare o dimenticare le crisi che attanagliano le nazioni ex-comuniste. Date le dilaganti diseguaglianze, la miseria, la corruzione dei governi e la criminalità organizzata che hanno caratterizzato l’ordine post-comunista, la situazione in queste terre non è meno incendiaria di quella del Nord Africa e del Medioriente e presto potrebbe diventare più agitata di quel che si può immaginare ora. È possibile tracciare uno scenario futuro simile a quello della Tunisia, Egitto e addirittura della Libia?

Per ora, i pazienti cittadini di questi paesi dopo aver sofferto già tanto, stanno stringendo i denti nella speranza che le prossime elezioni portino al potere un messianico salvatore su un cavallo bianco che – assistito dalla generosa assistenza dell’Occidente dalle tasche apparentemente mai vuote – alla fine possa liberare le loro società, colpite dal collasso economico e dalla povertà, dall’abisso in cui sono precipitate. La gente comune che vive in quei paesi crede che le rivoluzioni democratiche e le grandi aspettative siano state tradite, sequestrate o rubate da varie ‘forze oscure’, dall’élite ex-comunista che ha rimpiazzato il passato potere politico con quello economico, alla corrotta alleanza (agli occhi della popolazione di sinistra) tra gli ambiziosi pseudo democratici locali e gli avidi capitalisti occidentali, e infine, a una insidiosa cospirazione che coinvolge l’FMI, la Banca Mondiale, la Soros Foundation e la ‘finanza ebraica internazionale’ (di solito, secondo gli estremisti della destra nazionalista). Si può dire, insieme a Sir Robert Chiltern della commedia di Wilde Un marito Ideale, che “Quando gli dei vogliono punirci esaudiscono le nostre preghiere”.

Solo il tempo può dire se le preghiere esaudite dei paesi ex-comunisti saranno state una punizione del cielo. D’altro canto, potrebbero sorgere nuove idee su come resistere al potere schiacciante delle banche internazionali e delle corporazioni con l’adozione di riforme di tipo progressista con l’obiettivo di creare un ordine mondiale democratico libero dai signori della globalizzazione e dall’élite compradora locale ad essi asservita.

Note

[1] George Jahn, “In Romania, Turmoil Fuels Nostalgia for Communism,” Washington Post, 11 gennaio, 2011.
[2] Michael Hudson e Jeffrey Sommers, “Latvia Provides No Magic Solution for Indebted Economies,” Guardian.co.uk, 20 dicembre, 2010.
[3] “There’s More at Stake than Just Freedom of the Press,” Der Spiegel International, 19 gennaio, 2011. 
[4] “Saakashvili Has Turned Georgia into A Police State,” Interfax, 11 febbraio, 2011.
[5] “45% of Romanians Say ‘Ceauşescu, Please Forgive Us for Being Drunk in December (1989)’,” Bucharest Herald, 29 dicembre, 2010.
[6] I risultati di questa indagine condotta tra un campione rappresentativo di rumeni tra il 22 ottobre e il 1 novembre 2010 sono stati pubblicati dall’Istituto per lo Studio dei Crimini del Comunismo e per la Memoria degli Esiliati Rumeni, questo il link: http://www.crimelecomunismului.ro/en/about_iiccr
[7] Jahn, “In Romania, Turmoil Fuels Nostalgia for Communism.”
[8] ‘Ostalgia’ deriva dalla parola in tedesco Ost (est) e Nostalgie (nostalgia) e si riferisce al diffuso senso di appartenenza a molti aspetti della vita della RDT.
[9] Julia Bonstein, “Majority of East Germans Feel Life Better under Communism,” Der Spiegel International, 3 luglio, 2009. 
[10] Ibid. In un articolo scritto sul Guardian in occasione del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, un’accademica della ex-Germania dell’est lamenta il crollo della RDT che offriva “eguaglianza sociale e di genere, piena occupazione e la mancanza di paure esistenziali, e sosteneva le rendite”. Secondo lei l’unificazione ha “portato divisione sociali, disoccupazione diffusa, ricatti, un crasso materialismo dove si va avanti sgomitando”. Bruni de la Motte, “East Germans Lost Much in 1989: For Many in the GDR the Fall of the Berlin Wall and Unification Meant the Loss of Jobs, Homes, Security and Equality,” Guardian.co.uk, 8 novembre, 2009.
Titolo originale: "The Tragic Failure of "Post-Communism" in Eastern Europe"

Fonte: http://www.globalresearch.ca
Link
08.03.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di RENATO MONTINI


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Ces Allemands nostalgiques du «paradis» perdu de RDA


Patrick Saint-Paul, correspondant à Berlin
30/06/2009 | Mise à jour : 11:05

Oubliés les privations de libertés, les bas salaires, les pénuries, l'interdiction de voyager : la moitié des Ossies regrettent le régime communiste.

Près de vingt ans après la chute du mur de Berlin, de nombreux Allemands de l'Est continuent à cultiver une nostalgie pour leur pays disparu. Au regard de la crise économique, qui frappe durement l'Allemagne, certains d'entre eux n'hésitent plus à comparer la RDA à une sorte de «paradis social», où régnait la sécurité de l'emploi. Selon un sondage publié lundi, près d'un Allemand sur cinq originaire d'ex-RDA est nostalgique du mur de Berlin et du régime communiste est-allemand.

Selon ce sondage réalisé par un institut de Leipzig et publié dans le magazine culte de l'Est Super Illu, 17 % des Allemands de l'Est approuvent la phrase : «Il aurait mieux valu que le Mur ne tombe pas. Avec le recul, la RDA était avec son socialisme un meilleur État.» Parmi les chômeurs, «l'Ostalgie» - la nostalgie envers l'Est - atteint des proportions records : 44 % des chômeurs souhaiteraient le retour du régime communiste, qui fournissait un travail et un logement à tous.

Plus de la moitié des Ossies (Allemands de l'Est) se considèrent comme des «citoyens de seconde zone», alors que 41 % s'estiment au contraire traités sur un pied d'égalité avec les Allemands de l'Ouest. Depuis la réunification en 1990, l'ex-RDA a bénéficié d'investissements publics massifs mais n'a jamais rattrapé le niveau de vie de l'Ouest. Les salaires et les retraites restent inférieurs à l'Est, où le taux de chômage est en moyenne deux fois plus élevé qu'à l'Ouest.

Selon une autre étude, dont les résultats ont été publiés dans le dernier numéro de l'hebdomadaire Der Spiegel, 57 % des Allemands de l'Est n'hésitent pas à défendre en public l'ancien régime du parti unique (SED). Et 49 % approuvent la phrase : «La RDA avait davantage de bons côtés que de mauvais côtés. Il y avait quelques problèmes, mais on pouvait y vivre bien.» Certains ont totalement oublié les privations de libertés, les bas salaires, les pénuries, l'interdiction de voyager à l'étranger et l'étroite surveillance de la Stasi, la police secrète. Ainsi, ils sont 8 % à juger que «l'on vivait mieux et plus heureux en RDA qu'aujourd'hui».


Le danger de la banalisation


Pour l'historien Stefan Wolle, une nouvelle forme d'Ostalgie a vue le jour. «La nostalgie de la dictature dépasse de loin le cadre des anciens fonctionnaires du régime», explique-t-il. Certains jeunes issus de l'Allemagne de l'Est n'hésiteraient pas à idéaliser la RDA, bien qu'ils ne l'aient pas connue. Ceux-là ont fait de la défense du pays de leurs parents une question de fierté. Une inquiétante étude publiée l'année dernière avait souligné le manque d'information de la jeunesse est-allemande concernant la dictature communiste de RDA et pointé les défaillances du système éducatif sur cette page de l'histoire allemande.

Une majorité de jeunes Allemands de l'Est ignorait qui avait construit le mur de Berlin et pensait que le dictateur Erich Honecker, secrétaire général du SED, avait été élu démocratiquement, ou encore que l'environnement était mieux protégé en RDA qu'à l'Ouest.

Klaus Schroeder, le politologue qui avait mené l'étude, met en garde contre la banalisation de l'ancienne dictature communiste par une jeunesse qui n'a pas connu la RDA et qui tient son savoir de discussions familiales et non de l'enseignement dispensé à l'école. «Les jeunes Allemands de l'Est ne sont même pas une moitié à dépeindre la RDA comme une dictature et une majorité d'entre eux considèrent la Stasi comme un service secret normal», déplore Schroeder. Spécialisé dans les recherches sur la RDA à la Freie Universität de Berlin, Schroeder affirme que «beaucoup d'Allemands de l'Est considèrent la moindre critique de l'ancien système comme une agression personnelle». Cependant, selon l'étude publiée par Super Illu, ils sont aussi une écrasante majorité à ne pas souhaiter de retour en arrière. Près des trois quarts des Ossies (72 %) se disent «heureux de vivre dans l'Allemagne réunifiée avec son économie sociale de marché, malgré tous les problèmes de la reconstruction à l'Est».





Restiamo umani. L' "omicidio mirato" di Vittorio Arrigoni

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Il blog di Vittorio Arrigoni:

Sullo strano rapimento e l' "omicidio mirato" di Vittorio Arrigoni si vedano anche i link:

http://www.infopal.it/leggi.php?id=18080 
http://www.gennarocarotenuto.it/5396-uccidete-vittorio-arrigoni/
http://www.indika.it/?p=481
http://italy2.copyleft.no/node/12443
http://www.radiocittaperta.it/index.php?option=com_content&task=view&id=193&Itemid=9

A proposito della "Freedom Flottilla II" e delle intimidazioni cui l'iniziativa è sottoposta si veda invece:


VERSO LA MANIFESTAZIONE DEL 14 MAGGIO. Con la Freedom Flotilla per la fine dell'assedio di Gaza

Le minacce di Berlusconi

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Da: Yousef Salman <y_salman@...>

Oggetto: Addio caro Vittorio

Data: 15 aprile 2011 08.53.46 GMT+02.00


CARO  VITTORIO,

Di sicuro i tuoi assassini  conoscevano chi eri e cosa rappresentavi. Non è importante chi erano gli assassini e cosa rappresentano, ma alla fine dei conti, hanno commesso un delitto e un brutale odioso assassinio.
Hanno ucciso un uomo libero, un amante della libertà e della giustizia, un amico della pace e del popolo palestinese, che tu ha difeso, hai amato e che hai fatto della sua causa una ragione di esistenza e di vita.
Non so chi sono e cosa rappresentano, ma so che NON sono palestinesi, che sono un pericolo serio e costante per i palestinesi e che sono degli assassini della Palestina, della sua causa, del suo popolo e dei suoi veri e sinceri amici. Sono nemici dell'umanità che Vittorio ha sempre cercato di difendere  e fare vincere in Palestina.
Vittorio potevi rimanere in Italia a fare la bella vita e so che tu appartiene a una grande famiglia, benestante e ricca di grandi valori, hai  lasciato il tuo benessere per venire a vivere fra i più poveri e sfortunati  della terra, nell'inferno di Gaza e hai voluto sposare la giusta causa del popolo più disgraziato e sfortunato al mondo.
La morte drammatica tua, Vittorio non è diversa ed è simile con quella del grande artista palestinese ebreo, Juliano Mer Khamis, ucciso una settimana prima nel Campo profughi di Jenin.
Lo so che il destino dei liberi sognatori, dei veri rivoluzionari, degli onesti idealisti è in contrasto con ed in scontro continuo contro il mondo dell'ignoranza, dell'estremismo, della prepotenza, della pazzia e della repressione e della brutalità
dell'occupazione israelo-sionista alla Palestina. Lo so e lo sappiamo che l'arma dell'ignoranza e dell'estremismo è  la pallottola, la violenza e l'odio ed in pochi attimi può sterminare una vita buona ed innocente  dedicata
a favore e al  servizio della causa palestinese e del suo popolo.
Di sicuro chi ti ha ucciso, sa chi sei e cosa rappresenti, la carica ideale, i valori che porti e che difendi e di sicuro è riuscito a fare e realizzare ciò che non è riuscito a fare e realizzare da tempo  il nemico comune: l'occupante israeliano.
E' l'occupazione israeliana è l'unica parte vantaggiato dalla tua scomparsa,  grande e caro amico Vittorio.
Vittorio ti sei innamorato della Palestina e di Gaza in particolare ma anche i palestinesi e particolarmente quelli di Gaza, si sono innamorati di te, Vittorio e della tua bella Italia.
Vittorio sarai sempre nei nostri cuori e viverai sempre nella nostre lotte, per una Palestina libera, laica e democratica.
ADDIO CARO FRATELLO E RESTIAMO ANCORA UMANI..

Dr. Yousef Salman
Delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia
http:/www.palestinercs.org


(english / italiano)

La situazione sociale in Serbia e dintorni

1) Il 10% dei serbi vive sotto la soglia della povertà
2) Disoccupazione e povertà in Serbia
3) Rising social protests in the Balkans


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fonte: Notiziario Vie dell' Est - http://www.viedellest.eu/

06 aprile 2011 - Serbia

Il 10% dei serbi vive sotto la soglia della povertà

In Serbia 700mila persone, pari a circa il 10% dell’intera popolazione, vivono al di sotto della soglia di povertà. Ciò vuol dire, come ha detto alla tivù B92 il ministro del Lavoro, Rasim Ljajic, che tali famiglie più bisognose (in media di tre persone) hanno un reddito mensile inferiore a 18.500 dinari (circa 181 euro), parecchio al di sotto del paniere minimo di consumi stimato in 23mila dinari (225 euro).
“La Serbia non è Belgrado, dove si vive mediamente bene, e a 30 chilometri a nord e a sud della capitale la situazione è ben diversa”, ha ammesso Ljajic. Secondo il ministro, la popolazione in queste aree “è in una situazione catastrofica, conseguenza delle privatizzazioni sbagliate e dei mancati progressi nel processo di transizione”. La gente, ha concluso, “in queste aree vive ancora negli anni Novanta”.
Sempre in tema di povertà, a Veliki Trnovac, isola interamente albanese nel sud povero della Serbia, la popolazione ha un’unica speranza: quella di ricongiungersi un giorno con il vicino Kosovo. I quasi diecimila abitanti del paesino presso Bujanovac (l’unico della Serbia a non avere un solo abitante di etnia serba), scrive l’agenzia Ansa, vivono in una condizione di arretratezza e miseria estreme che alimentano la voglia di secessione e le critiche al governo centrale di Belgrado.


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Disoccupazione e povertà in Serbia


Mangiano male e sono sovrappeso, fumano e bevono troppo, lo stipendio non basta per coprire i bisogni più essenziali e soprattutto molti non hanno lavoro. Da una serie di indagini rese pubbliche in questi mesi in Serbia emerge una società in forte crisi

Come  dimostra una recente indagine dell’Istituto nazionale per le statistiche, il numero dei disoccupati in Serbia è salito dall’ottobre del 2008 all’ottobre del 2010 da 457.205 a 565.880 unità. L'indagine - commissionata dall’Agenzia internazionale per il lavoro e dall’Agenzia della comunità europea per la statistica, Eurostat - mostra come il tasso di disoccupazione sia aumentato in due anni dal 14% al 20%. Per gli uomini è cresciuto dal 12,1% al 19% mentre per le donne dal 16,5% al 21,2%.


Dati diversi dall’Ufficio nazionale di collocamento

L’Ufficio nazionale di collocamento offre dati che mostrano un’immagine ancora peggiore. Secondo le loro informazioni, in Serbia vi sarebbero circa 730.000 disoccupati. Ma molti media nel Paese affermano che il loro numero si attesterebbe sul milione di persone.
All’Ufficio nazionale di collocamento intanto c’è grande aspettativa per i nuovi programmi statali messi in campo per creare nuovi posti di lavoro, per i quali si è passati da un budget di 36 milioni di euro del 2010 a 54 milioni per il 2011. Dejan Jovanović, direttore dell’Ufficio nazionale di collocamento, si augura che almeno 60.000 persone quest’anno otterranno un nuovo impiego, grazie ai programmi finanziati col budget statale.
È già stato avviato un programma orientato ai giovani, chiamato “La prima occasione”, che dovrebbe garantire loro un primo impiego e molte agevolazioni alle aziende che li assumono. All'inizio del 2011 è stato introdotto anche un nuovo programma chiamato “Pratica professionale” (Stručna praksa) rivolto a 5.000 giovani di età inferiore ai 30 anni nel quale, oltre alle aziende del settore privato, saranno incluse anche quelle statali.
Jovanović sostiene che ci saranno inoltre risorse speciali messe a disposizione dei giovani imprenditori. “Noi vogliamo sostenere la piccola imprenditoria in Serbia e per questo programma spenderemo 300 milioni di dinari (circa 3 milioni di euro) – spiega Jovanović – prevediamo l’apertura di 2.000 negozi da parte di persone iscritte sulla nostra lista di collocamento. Siamo in grado di garantire 160.000 dinari a tutti quelli che avranno voglia di avviare un’impresa ma prima li dobbiamo istruire per farlo. Una delle idee di questa agenzia è anche di aiutare i comuni poco sviluppati dove il datore di lavoro riceverà tra i 300.000 (circa 3.000 euro) e i 400.000 dinari (circa 3800 euro) per ogni nuovo dipendente assunto”.
Al programma ha preso parte un’azienda tedesca a Vranje, Serbia meridionale, presso la quale entro la fine del 2011 400 persone otterranno un nuovo posto di lavoro. “È molto importante che in questa parte del Paese si offrano nuovi posti di lavoro perché è sottosviluppata", ha dichiarato il premier Mirko Cvetković. Ma per il presidente dell’Associazione delle piccole e medie imprese, Milan Knežević, questi programmi sono solo parziali e non rappresentano una vera soluzione ai problemi. La sfida per il Paese a suo avviso è piuttosto quella di creare l’ambiente dove gli investitori esteri ma anche locali possano creare nuovi posti di lavoro. “Le misure a breve termine non potranno mai dare risultati soddisfacenti. Si tratta solo di improvvisazione e spesso questo serve per affermare la forza politica, l’abuso di potere, il guadagno e la promozione personale”, ha aggiunto Knežević.


Un potere d’acquisto quasi inesistente

Dai dati dell'Istituto nazionale di statistica emerge come il potere d’acquisto dei cittadini serbi, nel 2010, è notevolmente diminuito: i prezzi per il cibo sono saliti del 20%, l’abbigliamento aumentato del 6% e il prezzo della benzina del 10%. E le buste paga sono rimaste “magre”.
Saša Đogović, economista dell’Istituto per le indagini di mercato (IZIT), spiega che i cittadini serbi spendono più della metà del proprio per il cibo e la casa. “Circa il 56% dello stipendio se ne va per i bisogni essenziali, solo per il cibo spendono il 41%. In Bulgaria per esempio la cifra è minore, è circa del 34,7% e questo mostra che la Serbia, rispetto agli altri paesi balcanici, si trova in una pessima posizione”,  afferma Đogović.
I dati dell'Istituto per le indagini di mercato dimostrano che per comprare cibo al supermercato all’inizio del 2010 servivano circa 4.500 dinari a settimana (44 euro circa), mentre adesso la cifra è aumentata a 6.000 dinari (circa 58 euro).
Negli ultimi due anni a Belgrado (che ha un livello di vita più alto delle altre città) sono aumentate le cucine popolari dove mangiano 10.185 belgradesi. Il segretario per la protezione sociale della città di Belgrado, Vladan Ðukić, ammette che le cucine popolari sono ormai 46, raddoppiate rispetto all’anno scorso. “Nelle città europee le persone muoiono di fame per la strada, da noi ancora non è successo”, tiene però a precisare.
Non si prevede, tra l'altro, che l'attuale tasso di inflazione, pari al 10,3%, diminuirà nei prossimi 6 mesi. In queste condizioni non sono solo i disoccupati in difficoltà, ma anche chi lavora, per non parlare dei pensionati, non può permettersi che acquistare generi di prima necessità. Il portale B92 ha intervistato alcuni cittadini di Belgrado che hanno detto che non comprano assolutamente nulla. Altri affermano: “Spendo per i figli e basta. Spendo solo per il cibo, se dovessi aver bisogno di qualcos’altro dovrei chiedere il mutuo o un prestito”. Che non rimane davvero niente per il resto lo dimostrano anche i dati statistici forniti dalla stessa emittente: solo lo 0,7% del reddito va per l’educazione e il 4,5% per la salute. E se si pensa che lo stipendio medio in Serbia è di 34.444 (335 euro circa) dinari è fuori di dubbio che resta molto poco per gli extra.


Gli unici non in crisi sono i matrimoni

I cittadini della Serbia, come dimostrano i dati dell’Istituto nazionale di statistica, nel 2010 si sposavano come nel 2009 ma sono calati il numero dei divorzi. Questo non vuol dire che i serbi abbiano imparato ad apprezzare di più la famiglia ma si tratta della sicurezza economica che è più stabile in due. Come afferma il sociologo Ognjen Radonjić della Facoltà di filosofia, è normale che la crisi matrimoniale sia maggiore nei Paesi più ricchi e quindi non è strano che da noi i matrimoni resistano. “La pessima situazione economica influenza le persone che non decidono così facilmente di divorziare”, dice Radonjić. “In generale, la mancanza di soldi influenza tutti gli aspetti della vita. C’è troppa differenza tra i ricchi e i poveri e la povertà spesso è seguita dalla criminalità e dalla mancanza di valori. E non c’è neanche la solidarietà tra le generazioni, perché col passare degli anni siamo sempre più tirchi ed egoisti”.


La salute peggiora, troppa preoccupazione

L’anno scorso lo stress era la diagnosi più diffusa in Serbia e un quarto dei cittadini abusavano di alcool. “La causa del peggioramento della salute è sicuramente l’alcool e il cibo pesante e unto – sostiene il dottor Petar Božović dell’Istituto per la salute pubblica Dr Milan Jovanović Batut - molte più persone soffrono di malattie al fegato ma almeno, con la legge che proibisce il fumo nei luoghi pubblici si spera che diminuirà il numero delle persone che fumano. Sulla tavola si trovano cibi di poca qualità, non c’è frutta e verdura, tutto è troppo grasso e condito. Quindi non sorprende che le persone siano sovrappeso e che le malattie come il diabete siano in aumento.”


Debiti fino al collo e aiuti statali

E se non ci sono soldi, ci si indebita. Da dati dell'Istituto nazionale di statistica emerge come i serbi si stanno indebitando, nel 2011, del 29% in più rispetto all’anno precedente ed ora il debito complessivo con le banche ammonta a oltre 5 miliardi di euro.
Lo Stato aiuta quotidianamente circa 800.000 persone con vari mezzi: denaro, pasti caldi, servizi vari. A gennaio di quest’anno il numero delle famiglie che hanno ricevuto aiuto per i propri figli  è cresciuto del 5% rispetto alla media dell’anno scorso. Ed anche se questi 2.034 dinari (circa 20 euro) al mese, stanziati dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, non sembrano una cifra significativa, ad essi non rinunciano i genitori di 395.000 bambini della Serbia.
“Le cifre stanziate in aiuto di famiglie con figli sono davvero una cosa simbolica ma sono comunque rilevanti per il nostro budget”, ha dichiarato Zoran Martinović, segretario di Stato per il ministero del Lavoro e le Politiche sociali. “Vista la situazione non è immaginabile aumentare questa cifra nei prossimi mesi”, ha concluso.
Emblematica la chiosa di un recente articolo pubblicato da B92: “Neanche quest’anno è successo il miracolo, siamo ancora la nazione più vecchia, non abbiamo avuto un grande numero di nascite dei bambini e le previsioni di sociologi, medici ed economisti non sono rosee. Dicono che quest’anno sarà ugualmente brutto come quello precedente.”

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Rising social protests in the Balkans


By Markus Salzmann 
15 April 2011


Political and social unrest has increased in the Balkan region during the past weeks and months. Young people in particular have protested against the corrupt elite layers in the former Yugoslavian federal republic which, at the behest of the International Monetary Fund and the European Union, have enforced drastic austerity programs with calamitous consequences for the population.

In Croatia, protests continue against the administration of Jadranka Kosor, but currently with significantly less participation. While 10,000 demonstrated last month, the current protests involve just a few hundred.

The main reason for this development is the lack of perspective of the protests, whose only formulated goal is new elections—despite the sobering experiences with all the established political camps since Croatia’s independence.

Particularly those under the age of 30 are affected by unemployment, whose official level is almost 20 per cent. A further ten percent of Croats work but do not receive any wage or receive payment only sporadically. The few remaining social benefits are so low that they do not permit a normal life, with basic prices increasing rapidly. Fuel prices alone have risen by more than 30 percent within two weeks.

Prime Minister Kosor has lost a massive amount of support since last year’s election. In her party, the right-wing conservative HDZ (Croatian Democratic Union), several factions are fighting fiercely. Kosor hardly gives any press conferences and at public appearances she is often seen fighting back tears.

The social democratic opposition is unable to benefit from the government crisis. Its leader, Zoran Milanovic, is visibly cautious in criticizing Kosor and, according to polls, his SDP is hardly winning any support. Like the HDZ, the SDP is torn by political infighting and corruption scandals.

In the absence of a genuine political alternative, right-wing forces have been increasingly able to dominate the protests. Ivan Pernar, a 25-year-old nurse who helped organize the protests in the Croatian capital via Facebook, openly states his right-wing, nationalist views. He has founded the so-called “Alliance for Reforms” and hopes to enter parliament in the event of early new elections.

According to Pernar, the demand for a “new system” especially affects the “monetary sovereignty” of Croatia. In defence of the latter, Pernar not only rails against the European Union bureaucrats sitting in Brussels, but also against all those who strive for a reconciliation with the neighboring state of Serbia. At demonstrations he demands “more capitalism” together with “nationalization of banks”.

Pernar was an activist for the Green Party for some time before becoming an admirer of the Dutch racist and Islamophobe Geert Wilders. With such forces leading protests, it is no surprise that ultra-right groups are trying to use the protests to their advantage.

Alongside right-wing peasant associations and violent hooligans from the Dinamo Zagreb soccer club, known as the “Bad Blue Boys”, the protest movement is dominated by war veterans. These veteran associations are openly fascist organizations and consider themselves the heirs of Ustasha, the fascist movement of the 1920s and 30s.

These right-wing forces are supported by the ruling powers. The initial protests were announced through Facebook but now that participation has shrunk and is dominated by right-wing groups, all of the country’s major newspapers are printing the dates and places of new planned protests.

In Montenegro several thousand people also protested every week against political corruption and social decline. They followed an appeal on the internet network Facebook, calling for a peaceful demonstration “against the mafia” in front of the parliament building in the capital city of Podgorica.

The state situated on the Adriatic Sea is stuck in a massive economic crisis. Serbia has currently halted all exports of wheat and flour in order to combat growing domestic prices and the growing protests by poorer social layers. This means that Montenegro now has to cover 90 per cent of its demand for wheat from other sources—an impossible task for the destitute country, given current market prices. This will further increase social tensions.

The Serbian government itself is confronted with growing popular unrest. In late March more than 10,000 public servants protested in the capital of Belgrade against low wages and miserable working conditions. Doctors, policemen and other public servants joined with protesting teachers who have been struggling to obtain pay raises since January. The teachers’ protests were supported by many of their students.

The teachers are demanding the payment of unpaid wages and a change in education laws which de facto excludes poorer layers of rural youth from higher education. In 2011, the wage increases for the educational sector were set at three per cent, but the teachers’ union is demanding 20 per cent. Education minister Obradovic has bluntly refused the union’s demands, referring to the government’s austerity policy.

In the wake of the financial crisis, the Serbian government of Premier Mirko Cvetkovic reduced public spending and suspended wage increases. The government and the IMF agreed to lower the budget deficit from 4.8 percent to 4 percent.

The wages of employees in the private sector are even lower than those in the public sector. Average incomes in Serbia are around 35,000 Dinar per month (app. € 350). Officially, the country has between 700,000 and one million unemployed.

Ultra-right forces in Belgrade are also seeking to exploit disillusionment and distrust of the government to their own advantage. On 5 February, the Progress Party (SNS), which is the biggest opposition party in the Serbian parliament, organized a mass demonstration attended by approximately 55,000 people.

The protests in Belgrade were directed against Cvetkovic’s government. Under the slogans “Wake up, Serbia” and “Fight for change”, the SNS demanded early new elections and threatened an “ongoing blockade” of Belgrade if their demands were not met. The organisation has announced another demonstration in Belgrade on 16 April.

According to new surveys, the SNS would emerge as the clear winner in a fresh election, with far more votes than Cvetkovic’s EU-oriented government coalition. The SNS and their smaller partners are estimated to have the support of around 42 per cent of the electorate; the Democratic Party, the mainstay of the government coalition, has just 24 percent.

The SNS is a spin-off party from the ultranationalist Radical Party (SRS) led by Vojslav Seselj, who is charged with war crimes by the International Criminal Tribunal for former Yugoslavia. The SNS was founded by Tomislav Nikolic, former vice president of the SRS. Nikolic voted for the association agreement of Serbia with the European Union, while party chairman Seselj rejected it. In response, Nikolic founded a new faction in September 2008, which combined support for entry into the EU with nationalism and hatred towards Croatia.

It comes as no surprise that all of the major parties of Serbia, including the nationalist SNS, are striving for entry into the EU. They represent a small elite which hopes to gain access to the international financial markets and enrichment through the EU while the working class foots the bill.

The powerful EU member states are observing this process with alarm. Last year, Klaus Mangold, chairman of the Eastern Europe Commission of the German Economy, said that Serbia was a mainstay for German companies in this region. By signing numerous other free-trade agreements, including with Russia and Turkey, the country would open new markets of great interest for German companies.

Germany is Serbia’s most important trade partner, and the fourth largest direct investor. In 2009, Serbia’s imports from Germany amounted to more than €1.3 billion. Its exports amounted to almost €600 million. While German direct investments in 2004 were just €278 million, they already amounted to €1.2 billion in 2010. Thus, they have increased fourfold within a few years.

In Serbia, just a small layer benefits from these trading relations, along with European banks and big companies. For broad masses of the population, entry into the EU will only mean price increases and massive social cuts.

After the worldwide financial crisis, in which the Serbian Dinar lost a quarter of its value, Serbia received a credit worth €3 billion from the IMF in 2009, to allow the country to refinance its debts with foreign private banks. To obtain credit from these banks, the government drastically cut spending in all areas.

For this reason the Serbian population is widely hostile to the EU. According to a survey from the start of 2011, more than 60 per cent are opposed to entry to the EU, with less than 30 percent in favour.

The policies of the European elites, which only mean poverty and social misery for the broad mass of the population, must be rejected by the workers and youth of the region, along with the nationalist positions which have driven former Yugoslavia into years of civil war. The only progressive alternative is the turn towards a socialist and international perspective, by establishing a Socialist Balkan Federation in the context of the United Socialist States of Europe.




Torino, 19 aprile 2011

presso il Cine Teatro Baretti
Via Baretti 4
Tel./Fax 011 655187 www.cineteatrobaretti.it - info@...

nell'ambito della rassegna PORTOFRANCO - IL CINEMA INVISIBILE AL BARETTI


martedi 19 aprile - ore 21.00

OCCUPAZIONE IN 26 QUADRI

Regia di Lordan Zafranovic
Jugoslavia • 1978 • 112'
E' prevista la presenza in sala del regista Lordan Zafranovic e dello storico Eric Gobetti

Grande successo della cinematografia est-europea, l'occupazione in 26 quadri è il capolavoro di Lordan Zafranovic, uno degli autori più anticonformisti della Jugoslavia di Tito. Un grande affresco, drammatico e grottesco, l'occupazione italiana a Dubrovnik durante la seconda guerra mondiale. Un film per guardare in faccia un pezzo della nostra storia, per confrontarsi con la memoria che l'Italia fascista ha lasciato oltre Adriatico.


LA SCHEDA DEL FILM: 

IL PROFILO DEL REGISTA E LE PASSATE INIZIATIVE CON E SU LORDAN ZAFRANOVIC:




(Le terribili violazioni dei diritti umani negli USA sono denunciate dal "Quotidiano del Popolo" di Pechino; sulla drammatica situazione dei diritti umani in Italia forse c'è invece ancora troppa indulgenza, anche a Pechino. Italo Slavo)


08:53, April 11, 2011

US has serious human rights abuses: China

The United States, the world's richest state, is beset by rampant gun violence, serious racism, and an increasing portion of its population have become poorer, a report released yesterday by China on U.S. human rights said. 

The U.S., under siege with all its human rights problems, is in no position to criticize other countries' human rights, the report released by the State Council's Information Office said.

Washington has taken human rights as a "political instrument to defame other governments' image and seek its own strategic interests", Beijing said. 

In breakdown, the report lists high incidence of gun-related bloodshed crimes in the U.S. resulting from its outrageous gun ownership policy. It has 12,000 registered gun murder cases a year, and tens of hundreds people are shot to death or get injured in gunfights, the highest in the world. 

In the U.S. the violation of citizens' civil and political rights by the government is severe, the report said. Between October 2008 to June 2010, more than 6,600 travelers were subject to electronic device searches, half of them are American citizens. 

And, abuse of force and violence, and torturing suspects in order to get their confession is serious in the U.S. law enforcement, the report said.

The US regards itself as "the beacon of democracy." However, its democracy is largely based on money, the report writes. According to a report from The Washington Post on October 26, 2010, U.S. House and Senate candidates shattered fundraising records for a midterm election, taking in more than $1.5 billion. The midterm election, held in November, cost $3.98 billion, the most expensive political rally in the US history. Various interest groups have actively spent on the event, the report said.

While advocating Internet freedom, the US in fact imposes strict restriction on cyberspace. On June 24, 2010, the US Senate Committee on Homeland Security and Governmental Affairs approved the Protecting Cyberspace as a National Asset Act, which will give the American federal government "absolute power" to shut down the Internet under a declared national emergency rule.

Economically, unemployment rate in the United States has been stubbornly high. Proportion of Americans living in poverty has risen to a new high. The US Census Bureau reported in September that a total of 44 million Americans found themselves in poverty. The share of residents in poverty climbed to 14.3 percent in 2009, the report said.

Also, Americans living in hunger and starvation increased sharply. A report issued by the U.S. Department of Agriculture in November showed that 14.7 percent of US households were food insecure in 2009. And, the number of families in homeless shelters increased 7 percent to more than 170, 000, it said. 

On the global stage, the U.S. has a "notorious record of international human rights violations", said the report. The U.S.-led wars in Iraq and Afghanistan have already caused huge civilian casualties.

Prior to Beijing's releasing the human rights report, a U.S. State Department report on global human rights released on Friday said that Beijing had stepped up restrictions on activists, lawyers and online bloggers, and tightened controls on civil society to maintain stability.

A Chinese Foreign Ministry spokesman dismissed the U.S. report as meddling in China's internal affairs. Two days later, Beijing released its own report on U.S. human rights problems.

"The United States ignores its own severe human rights problems, ardently promoting its so-called ‘human rights diplomacy', treating human rights as a political tool to vilify other countries and to advance its own strategic interests," Beijing report said. 

"The United States is the world's worst country for violent crimes," it said. "Citizens' lives, property and personal safety do not receive the protection they should."

By People's Daily Online



Con il patrocinio del Comune di Trieste, si è tenuto lunedì 28 marzo scorso un convegno sulla figura di Giorgio Almirante con la proiezione del documentario “Almirante l’arcitaliano”.
Memori dell’opera di Almirante come redattore de “La Difesa della Razza”, del suo ruolo istituzionale nella RSI che lo portò a firmare un bando per la fucilazione di altri Italiani, del suo operato nel corso degli anni della strategia della tensione in Italia, tra cui il finanziamento al terrorista Cicuttini per un’operazione alle corde vocali che rendesse impossibile la perizia fonica dato che lui era stato il telefonista che aveva attirato i carabinieri nella trappola della strage di Peteano
(3 morti), noi antifascisti abbiamo deciso di parlare de
 
L’ALTRA FACCIA
DELL’ALMIRANTE “ARCITALIANO”.
 
VENERDÌ 15 APRILE 2011
ALLE ORE 17
AL CIRCOLO DELLA STAMPA DI TRIESTE.
 
Parleranno:
Alessandra Kersevan, ricercatrice storica
Claudia Cernigoi, giornalista e ricercatrice
 
Organizzano:
casa editrice Kappa Vu Udine
Coordinamento Antifascista di Trieste
 
 
 
Sip via Bertiolo 4 Udine 5/4/11
 
 
 
 
 
Pod pokroviteljstvom Občine Trst je bilo v ponedeljek, preteklega 28. marca,
srečanje o osebnosti Giorgia Almiranteja s projekcijo dokumentarnega filma
“Almirante naditalijan”.
Ob spominu na vlogo Almiranteja kot urednika revije “La Difesa della Razza”, ki je zaradi institucionalnega položaja v RSI podpisal razglas o streljanje drugih Italijanov,
na njegovo delovanje v letih strategie napetosti, kjer gre omeniti financiranje
terorista Cicuttinija za operacijo glasilk, da bi onemogočili prepoznanje
njegovega glasu kot telefonista, ki je priklical karabinjerje v past pokola
pri Petovljah (3 mrtvi), smo mi antifašisti sklenili, da spregovorimo
 
O DRUGEM OBRAZU
ALMIRANTEJA
“NADITALIJANA”
V PETEK, 15. APRILA 2001
OB 17. URI
V ČASNIKARSKEM KROŽKU
V TRSTU.
 
Govorili bosta:
Alessandra Kersevan, zgodovinska raziskovalka
Claudia Cernigoi, časnikarka in raziskovalka
 
Organizirata:
založba Kappa Vu Udine
Antifašistična koordinacija iz Trsta
 
Razmnoženo v lastni režiji, via Bertiolo 4, Udine 5/4/11


(francais / srpskohrvatski / italiano)

Desaparecidos e profughi serbi in Croazia

1) Identifikovani posmrtni ostaci 17 Srba ubijenih u Hrvatskoj / Esumati e identificati i resti di altri 17 serbi in Croazia

2) Les réfugiés serbes de Croatie demandent réparation à Zagreb / Réfugiés serbes de Croatie : l’impossible retour ?


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Zagreb: Identifikovani posmrtni ostaci 17 Srba ubijenih u Hrvatskoj

29. mart 2011. 16:52        ( Izvor: Tanjug )

U Zavodu za sudsku medicinu i kriminalistiku Medicinskog fakulteta u Zagrebu identifikovani su posmrtni ostaci 17-oro Srba ekshumiranih u proteklih 10 godina iz masovnih, zajedničkih i pojedinačnih grobnica na području Hrvatske, saopštio je Dokumentaciono-informativni centar "Veritas".  Reč je o Srbima stradalim za vreme rata 1991/95. na području Like, Dalmacije, Korduna, Banije, Zapadne i Istočne Slavonije. Na spisku "Veritasa" nalazi se još 2.100 Srba, koji su nestali od 1991. do 1995. godine, a među njima je 1.404 civila, među njima 559 žena. Prema podacima te organizacije, na području Hrvatske postoje još 592 registrovana grobna mesta s posmrtnim ostacima ubijenih Srba koja ni 16 godina posle rata nisu ekshumirana zbog opstrukcije vlasti u Zagrebu. 

fonte: http://www.glassrbije.org/

Trad. sintetica:
Esumati e identificati i resti di altri 17 serbi negli ultimi dieci anni all' Istituto di medicina e criminalistica di Zagabria. Si tratta di vittime serbe delle Krajine, morti durante la guerra del 1991-1995. Sulla lista della associazione "Veritas" [http://www.veritas.org.rs/ - in english: http://www.veritas.org.rs/indexen.htm] si trovano ancora 2100 serbi, scomparsi durante la guerra 1991 - 1995, tra cui 1404 civili di cui 559 donne. Secondo questa organizzazione in Croazia si trovano ancora 592 luoghi di sepoltura registrati con serbi uccisi, che ancora oggi, 16 anni dopo la fine della guerra, non sono stati esumati a causa dell'ostruzionismo del governo croato.


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Les réfugiés serbes de Croatie demandent réparation à Zagreb

Traduit par Jacqueline Dérens

B92 - 1er avril 2011

Vendredi, les représentants de plus de cent associations de réfugiés serbes de Croatie ont déposé des lettres à l’ambassade de Croatie à Belgrade. Ils demandent au Président Josipović et à la Première ministre Kosor de soutenir leur demande de résolution reconnaissant la responsabilité de Zagreb dans les souffrances subies par les Serbes de Croatie pendant la guerre.

Une centaine d’associations de réfugiés serbes de Croatie sont venus déposer des lettres à l’ambassade de Croatie à Belgrade à la veille de la réunion à Smederevo (Serbie) des Premiers ministres croate et slovène et du Président serbe.

« Nous implorons le Président Josipović et Madame Kosor de soutenir le projet de résolution envoyé aux députés et responsables des groupes parlementaires leur demandant de respecter les droits des réfugiés serbes de Croatie », a déclaré Miodrag Linta, responsable de l’union des associations de réfugiés, après avoir déposé les pétitions.

Les associations de refugiés serbes de Croatie cherchent à obtenir que le Parlement croate adopte une déclaration reconnaissant la responsabilité de Zagreb dans les souffrances et les pertes subies par les Serbes pendant la guerre.

Pour les associations de réfugiés serbes de Croatie, les mécanismes de régulation des droits de propriété et autres droits des personnes déplacées doivent reposer sur cette déclaration. Des groupes de travail doivent être formés afin de garantir la restauration de la propriété et l’attribution de compensations légales pour chaque personne ou famille spoliée de ses droits.


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Blic 11 décembre 2010

Réfugiés serbes de Croatie : l’impossible retour ?


64.000 réfugiés serbes de Croatie vivent toujours en Serbie. Alors que les relations entre les deux États se sont singulièrement réchauffées ces derniers mois, la question du retour est à nouveau posée. La question de la restitution des biens et du logement n’est pas le seul problème : s’ils reviennent en Croatie, ces réfugiés pourront-ils trouver du travail et refaire leur vie ? Reportage dans le centre collectif de Krnjača, près de Belgrade.

Par Irena Radisavljević

Traduit par Stéphane Surprenant

Si l’on en croit les récentes déclarations des présidents de Serbie et de Croatie, Boris Tadić et Ivo Josipović, Radmila et sa famille devraient bientôt avoir l’opportunité de choisir une nouvelle vie : retourner chez eux en Croatie, dans leur appartement d’avant la guerre, ou bien dans un nouveau logement en Serbie. Même si Radmila ne croit plus qu’une telle chose s’offrira à elle un jour, elle est cependant convaincue qu’il vaut mieux pour elle de demeurer en Serbie – tout comme, d’ailleurs, la majorité des personnes qui vivent actuellement dans ce centre d’hébergement.« Où devrions-nous aller ? Ici je suis une réfugiée, et là-bas une étrangère dans mon propre pays ! Nous n’avons même pas réussi à reprendre possession de l’appartement que l’on nous a volé en Croatie, et je ne m’attends pas à ce que l’on nous en donne un en Serbie... Après sept années passées dans un centre d’hébergement collectif, dans cette pièce de quelques mètres carrés où j’ai élevé mes deux enfants, un être humain apprend à ne plus croire en rien et à ne s’attendre à rien de bon. Si l’on me donnait le choix entre rester ici et retourner chez moi, je choisirais de rester ici. Je n’ai plus rien à espérer là-bas... », raconte Radmila Milanko, qui vit aujourd’hui dans un centre d’hébergement situé à Krnjača, un faubourg éloigné de Belgrade.

« Mes enfants étudient maintenant à la faculté de Belgrade. Ils ont grandi ici, qui pourrait les persuader de retourner vivre en Croatie ? C’est ici chez eux ! Et la majorité des réfugiés qui vivent ici ressentent la même chose. Nous avons vécu ici pendant deux décennies. Même si notre appartement nous était restitué, nous n’aurions pas d’emploi, de quoi pourrions-nous bien vivre ? », demande Radmila.

Savo Strbac, qui tente lui aussi d’obtenir la rétrocession de son appartement en Croatie, pense la même chose. « Nous ne croyons plus du tout en ce genre de promesse... Franchement, je ne leur fais pas confiance. Il n’y aura jamais de véritables retours sans que certains prérequis soient assurés. Vous n’avez pas seulement besoin d’une maison dans la vie, il vous faut aussi un emploi ! », explique-t-il. Quant à la procédure de récupération des appartements elle-même, elle est pour le moins compliquée, ce qui rend les choses encore plus difficiles et en décourage plus d’un.

Selon les évaluations établies par diverses associations de réfugiés, les Serbes de Croatie exigeraient la rétrocession d’un nombre variant de 42.000 à 50.000 logements. Les estimations du Haut Commissariat aux réfugiés des Nations unies, elles, se situent plutôt à la moitié de ce chiffre, soit 29.000 logements, surtout des appartements. À ce jour, 4.500 familles serbes ont déposé une demande de retour en Croatie. Depuis 2004, seules 1.035 familles ont retrouvé leur logement, tandis que 1.600 demandes ont été rejetées. Les autres familles sont toujours en attente d’une réponse.

Slobodan Uzelac, vice-Premier ministre de Croatie, espère que l’idée d’une conférence destinée à recueillir des dons en argent en vue d’acheter des logements en Serbie pour les réfugiés permettra à autant de gens que possible d’obtenir un nouveau logis. Cela dit, il ne s’agit encore que d’un projet. Des donateurs de l’UE et des États-Unis devraient y participer. « Si cette idée veut être couronnée de succès, la Serbie et la Croatie devront collaborer étroitement à tous les niveaux de l’appareil politique, y compris les plus élevés. Il me semble qu’en ce moment, en particulier après la visite récente de Boris Tadić en Croatie, cette idée peut prendre corps », explique Slobodan Uzelac.

D’après certaines estimations officieuses, il serait possible d’aller chercher près de 100 millions d’euros lors d’une conférence semblable. Savo Strbac croit qu’avec ce chiffre, on resterait loin du compte.

« Ce montant suffirait à peine pour acheter environ 2.000 appartements de taille moyenne, alors qu’en Serbie on dénombre approximativement 64.000 réfugiés de Croatie. Et puis, à vrai dire, ce n’est pas la première fois que nous entendons parler d’une conférence destinée à recueillir des dons... », lance-t-il, passablement sceptique.




Reporters senza Vergogna

L'ispirazione colonialista e truffaldina di Reporters sans frontières è stata da noi denunciata in tempi "non sospetti":

Numerosi link e articoli in tema sulla nostra pagina dedicata alle tecniche imperialiste di disinformazione strategica ed eversione
https://www.cnj.it/documentazione/eversione.htm

[JUGOINFO] RSF sul libro paga della NED/CIA (rassegna ed ALTRI LINK)
selezione 21 dicembre 2005
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4668

[JUGOINFO] RSF al servizio della CIA 

[JUGOINFO] La guerre de désinformation de RSF
selezione 6 febbraio 2007

[JUGOINFO] RSF è favorevole alla tortura 
selezione 29 agosto 2007

[JUGOINFO] La propagande de RSF contre Cuba
selezione febbraio 2008

Tra i più recenti articoli in tema segnaliamo anche:

Riecco quelli di RSF... con l’ossessione di Cuba e la memoria corta
AsiCubaUmbria - aprile 2008
http://www.resistenze.org/sito/os/mp/osmp8d30-003032.htm

Les mensonges de Reporters sans frontières sur le Venezuela
par Salim Lamrani - Mondialisation.ca, Le 21 juin 2009

Reporters sans frontières contre la démocratie vénézuélienne
par Salim Lamrani | 2 juillet 2009 
http://www.voltairenet.org/article160852.html

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Robert Ménard e Reporter senza Frontiere, la triste parabola dalla libertà di stampa al fascismo di Le Pen


Colpo definitivo alla credibilità di Reporter senza Frontiere: Robert Ménard, fondatore e padre padrone dell’organizzazione fino al 2008, quando ha scelto di passare ad una ricchissima quanto fantomatica fondazione con sede a Doha, che al momento non ha neanche un sito Internet funzionante, si è schierato con la destra fascista appoggiando la campagna elettorale del Front National francese di Jean-Marie Le Pen e quella presidenziale di sua figlia Marine.

di Gennaro Carotenuto


Per Robert Ménard (Orano, 1953), piede nero (francese d’Algeria) e figlio di un fascista commilitone di Jean-Marie Le Pen nell’OAS, è il traguardo di un percorso che lo riporta alle origini, dalle quali probabilmente non si era mai allontanato se non tatticamente. Spacciatosi per buona parte della sua vita come liberale, libertario e persona di sinistra, Ménard aveva via via rotto gli argini, spostando RSF da una presunta origine liberal-progressista verso un suprematismo occidentalista completamente identificato nella politica di George Bush.

Nel corso di questi anni ha fatto parlare di sé per posizioni sempre più estreme, islamofobe, omofobe, per la pena di morte e a favore della tortura. Oggi, dopo aver abbandonato RSF, il libello “Vive le Pen”, a giorni in libreria a Parigi e firmato con la moglie, Emmanuelle Duverger, vuole essere la risposta di estrema destra a “Indignez-vous!” (Indignatevi!) di Stéphane Hessel. Nel pamphlet Ménard prova ancora a vendersi come paladino della libertà d’espressione ma per denunciare stavolta la discriminazione da parte dei media e della politica francese, in particolare di quelli di sinistra, contro l’estrema destra e la censura contro le “idee” razziste e fasciste propagandate dal Front National. Furbo come una volpe Ménard cita continuamente Voltaire (darebbe la vita per permettere al negazionista della Shoah Robert Faurisson di dire la sua, sic) e non ammette ancora di voler entrare in politica nel Front National ma ci gira intorno e sostiene di considerare giuste le motivazioni degli elettori del FN oltre che il programma di quel partito.

Quella sul coming out fascista di Ménard, che di fronte alle crescenti polemiche in Francia si è già dichiarato vittima di un “processo per eresia” da parte dei benpensanti di sinistra e che sta impostando tutta la propaganda sulla denuncia dell’intolleranza contro di sé e contro il FN, è una notizia di quelle imbarazzanti e di conseguenza i grandi giornali italiani finora la stanno ignorando.

Per anni infatti “Reporter senza frontiere”, che si presentava come una ONG liberal-democratica se non apertamente progressista, ha avuto entusiasta stampa sui grandi media italiani che pendevano e pendono dalle labbra di questa organizzazione e dalle sue denunce tralasciando il fatto che da più parti Ménard e RSF erano accusati di amnesie selettive al momento di scegliere di quali casi occuparsi. Non importava quanto squilibrate fossero le denunce contro violazioni della libertà d’espressione vere o presunte (tanta Cuba e ancor di più Venezuela e niente Messico, Colombia o Honduras per semplificare). Tutto quello che proveniva da RSF era preso e pubblicato come oro colato. Quei pochi studiosi che in questi anni si sono permessi di far rilevare le crescenti incongruenze di tale organizzazione e il fatto che questa fosse tutt’altro che neutra nel difendere la libertà di stampa e d’espressione, sono stati puntualmente diffamati e demonizzati come pericolosi estremisti.

La verità era però sotto gli occhi di chiunque volesse vederla. Mentre RSF contribuiva a creare il caso Yoani Sánchez a Cuba (che per fortuna nessuno ha mai incarcerato, né torturato), si disinteressava completamente a tutti i blogger che in decine di paesi sono incarcerati e in qualche caso uccisi, ma hanno la sfortuna di vedere conculcati i loro diritti da un governo autoritario vicino agli interessi degli Stati Uniti. Mentre in Venezuela RSF schierava quotidianamente l’artiglieria contro il governo di Hugo Chávez, difendendo a spada tratta anche media apertamente golpisti, come RCTV, nulla diceva dei giornalisti ammazzati dalla dittatura hondureña di Roberto Micheletti. Mentre denunciava la mancanza di libertà di espressione in Cina o in Iran teneva uno scrupoloso silenzio su casi come quello dell’Iraq o di altri paesi “amici” del golfo persico e sugli attacchi deliberati ai media commessi dalle truppe alleate che portarono per esempio alla morte del cameramen di Tele5 José Couso.

Tutto ciò rispondeva ad una precisa logica economica e politica. E’ stato ripetutamente denunciato e infine ammesso che Reporter senza Frontiere era finanziata, oltre che direttamente dalla CIA, dalle più importanti fondazioni filo-repubblicane statunitensi, come Freedom House o National Endowment for Democracy, in genere organiche al governo di George Bush. Tali fondi non servivano per fomentare la libertà di espressione ma per orchestrare vere e proprie campagne di disinformazione e diffamazione contro sgoverni sgraditi nelle quali RSF è stata più volte presa con le mani nel sacco. Purtroppo, denunciare come RSF non avesse in maniera terza a cuore la libertà di stampa, ma fosse uno strumento per  la politica di “regime change” bushiano, laddove l’eufemismo del cambio di regime voleva dire cambiare un regime (autoritario o democratico poco importa) con uno amico degli Stati Uniti, in genere autoritario, ha portato finora all’ostracismo di chi, documentatamente, tali denunce presentava.

Ancor più difficile è stato far luce sulla sinistra figura dell’uomo simbolo di RSF, Robert Ménard. Per anni tenutosi al coperto sotto la conveniente bandiera del politicamente corretto, questo si era via via liberato di ogni remora. Nell’agosto 2007 la sua aperta difesa dell’uso della tortura fu oggetto dell’ultima denuncia del grande Franco Carlini prima di morire. Quella sulla tortura non era l’ultima ignominia di Ménard, omofobofavorevole alla pena di morte (salvo che in Cina) e islamofobo (vorrebbe privare i musulmani della cittadinanza francese) come un Borghezio qualsiasi e nonostante citi Voltaire a ogni pié sospinto.

A ben guardare non c’è nulla di strano nell’approdo di Ménard al Front National. Ma quelli che l’hanno difeso ed esaltato in questi anni e hanno disdegnato i dubbi di chi avanzava legittime preoccupazioni sul caso RSF, dovrebbero avere l’onestà intellettuale di non negare questa informazione e, possibilmente, fare autocritica.





(un articolo nel 70.mo anniversario della aggressione nazifascista contro Jugoslavia e Grecia)

http://www.jungewelt.de/2011/04-06/042.php

Tageszeitung junge Welt
06.04.2011 / Thema / Seite 10

»Mit unerbittlicher Härte zerschlagen«

Geschichte. Vor 70 Jahren überfiel die Wehrmacht Jugoslawien und Griechenland

Martin Seckendorf

Am Palmsonntag, dem 6. April 1941, griff die Wehrmacht mit drei Armeen ohne Kriegserklärung Jugoslawien und Griechenland an. In ihrem Schatten folgten ungarische, italienische und bulgarische Verbände. Den modern ausgerüsteten, Siege gewohnten deutschen Truppen hatten die Armeen der beiden überfallenen Länder nicht viel entgegenzusetzen. In Griechenland dauerte der Kampf drei Wochen: Bereits am 30. April war das ganze Festland erobert. Zwischen dem 20. und 30. Mai gelang der Wehrmacht unter großen Verlusten die Besetzung Kretas. Noch schneller wurde Jugoslawien niedergeworfen. Die königliche jugoslawische Armee mußte nach gut einer Woche die Waffen strecken.

Der Aprilkrieg gegen Jugoslawien war die zweite von drei Aggressionen, die im 20. Jahrhundert von deutschen Soldaten gegen das Balkan land geführt wurden (im Ersten Weltkrieg im Bunde mit Österreich, 1999 als Teil der Nato).

Am Ende der Aggression wurde Jugoslawien wie kein anderer von deutschen Truppen im Zweiten Weltkrieg unterworfener Staat territorial zerstückelt. Die Okkupanten gliederten das Land in zehn Teile mit unterschiedlichem Rechtsstatus. Über 35 Prozent der Gesamtfläche wurden von Deutschland, Italien, Ungarn und Bulgarien annektiert. Das übrige Gebiet teilten die Okkupanten und ihre Helfer als Besatzungs- oder Einflußzonen unter sich auf. Die neuen Herren gingen zügig daran, die erlangten Gebiete national und religiös zu »vereinheitlichen«, was zu einem Genozid, vor allem an Serben und Slowenen, führte. Die Karte Jugoslawiens nach der deutschen Aggression im Jahr 1941 ähnelt frappierend der heutigen, die nach der von den Westmächten unterstützten Zerschlagung des Landes in den 1990er Jahren entstanden ist

Während die Aggression gegen Griechenland seit Anfang November 1940 vorbereitet wurde (siehe jW-Thema, 28.10.2010), war der Überfall auf Jugoslawien von der deutschen Führung eigentlich nicht vorgesehen.

Zielgebiet deutscher Expansion

Das Königreich der Serben, Kroaten und Slowenen, wie das multinationale Balkanland bis 1929 hieß, stand nach dem Ersten Weltkrieg zusammen mit Rumänien im Zentrum der deutschen Südosteuropapolitik. Beide Staaten waren Eckpfeiler des von Frankreich nach dem Krieg zur Eindämmung des deutschen »Drangs nach Südost« geschaffenen Bündnissystems, der Kleinen Entente. Das Herausbrechen eines oder beider Staaten aus dem Bund mit Frankreich sollte das gesamte Versailler Nachkriegssystem durchlöchern, eine erneute deutsche Südostexpansion ermöglichen und dem deutschen Imperialismus Zugang zu einer Region mit wichtigen Rohstoffen und Nahrungsmitteln sowie einem entwicklungsfähigen Absatzmarkt für deutsche Industrieprodukte schaffen.

Rumänien war wegen seines Ölreichtums, seiner landwirtschaftlichen Produktion, aber auch wegen der geographischen Nähe zur Sowjetunion von Bedeutung. Jugoslawien konnte bei rüstungssensiblen Rohstoffen wie Kupfer, Chrom, dem Aluminiumausgangsstoff Bauxit, Blei, Zink, Mangan sowie bei landwirtschaftlichen Produkten den deutschen Bedarf in hohem Maße, in einigen Fällen sogar vollständig decken. Von erheblichem Gewicht für die Herrschenden in Deutschland war, daß die begehrten Produkte in einer Region zu finden waren, die von Deutschland aus auf dem Landweg erreicht werden konnte. Damit lagen diese Gebiete abseits der Seeblockademöglichkeiten Großbritanniens, worauf der Exponent der Deutschen Bank und rechtsradikale Politiker Karl Hellferich sehr früh hingewiesen hatte. Im Ersten Weltkrieg war die deutsche Rohstoff- und Lebensmittelversorgung, die zuvor in erheblichem Maße aus Übersee gedeckt wurde, durch die britische Blockade stark beeinträchtigt worden. Die Blockade war für die deutschen Eliten eine traumatische Erfahrung, auch weil auf ihre Auswirkungen die Revolutionierung der deutschen Bevölkerung zurückgeführt wurde. Hellferich befürwortete deshalb nach 1918 bei der Expansionspolitik die »Balkan- und Nahostlinie«. In Erinnerung an die kaiserliche Nahostexpansion schrieb er, ein entscheidender Vorteil der Nahostlinie habe für Deutschland darin bestanden, daß sowohl die Expansionsräume als auch die Verbindungslinien dorthin »abseits des Machtbereichs des seegewaltigen England« lagen, das im Krieg »alle unsere anderen Ausgänge nach der außereuropäischen Welt beherrschte«.

Die Gewinnung eines blockadesicheren Raumes, aus dem in ausreichender Menge Rohstoffe und Lebensmittel beschafft werden konnten, galt als Voraussetzung zur siegreichen Führung des von den deutschen Eliten seit deren Niederlage 1918 ins Auge gefaßten Revanche- und Eroberungskrieges. Der Generalbevollmächtigte für die Kriegswirtschaft hob in einem Schreiben vom 14. September 1938 die »außerordentliche Bedeutung« der Verkehrswege nach Südost europa im »Mob (ilisierungs)-Fall« hervor, »da sich der größte Teil der Ein- und Ausfuhren Deutschlands« über diese Wege vollziehen werde. Am 12. November 1940 schrieb Günther Bergemann, Abteilungsleiter für die Außenwirtschaft im Reichswirtschaftsministerium, es sei das Bestreben der deutschen Politik gewesen, eine Situation wie vor dem Ersten Weltkrieg zu vermeiden, als »43 Prozent der deutschen Einfuhren aus Übersee« kamen und von der Entente leicht unterbunden werden konnten. Deshalb habe sich Deutschland insbesondere seit 1933 »bewußt und planmäßig bemüht, seine überseeischen Einfuhren zu drosseln und seinen Warenverkehr so zu lenken, daß es in der Lage ist, Waren auch im Kriegsfall erreichbar zu haben«.

»Friedliche Durchdringung«

Zur Durchsetzung der deutschen Südosteuropapläne wurden noch in der Weimarer Republik Konzepte zur Unterwanderung der wichtigsten Staaten dieser Region entwickelt. Hauptwaffe der Offensive war die konsequent auf diesen Zweck ausgerichtete Wirtschafts- und Handelspolitik. Sie galt als wichtigstes Instrument in einem Orchester penetrierender Maßnahmen, zu denen auch die auswärtige Kulturpolitik und der politische Einsatz der zahlenmäßig großen deutschen Minderheiten gerechnet wurden.

Die Länder der Region sollten in volkswirtschaftlich relevanten Größenordnungen an den deutschen Markt gebunden werden, sich zunehmend auch politisch von Frankreich weg und nach Deutschland hin orientieren sowie der deutschen Wirtschaft unbeschränkten Zugang zu den begehrten Rohstoffen sichern. Den von der Weltwirtschaftskrise besonders gebeutelten Ländern an der Donau wurde angeboten, ihre Waren zu festen Preisen abzunehmen. Die Verrechnung sollte nicht in Devisen, sondern mit aus Deutschland zu liefernden Industrieprodukten erfolgen. Damit war die kapitalistisch Konkurrenz aus dem Feld geschlagen und man konnte diese Länder zwingen, ihre gesamte Produktion auf den deutschen Bedarf auszurichten.

Mit Jugoslawien gelang am 1. Mai 1934 der Abschluß eines solchen Knebelvertrages. Der Mitteleuropäische Wirtschaftstag, eine Vereinigung einflußreicher Industrie- und Bankkonzerne sowie der Großlandwirtschaft, war entscheidend an dem Zustandekommen dieses Abkommens beteiligt. Nach wenigen Jahren war die totale ökonomische Bindung an Deutschland erreicht.

Sehr bald traten auch die gewünschten politischen Folgen ein. Nur ein Vierteljahr nach Abschluß des Vertrages nahm Jugoslawien aus Österreich geflohene Teilnehmer des Nazi-Putsches vom 25. Juli 1934 auf und gestattete deren Formierung zu militärischen Einheiten. Am 25. August 1937 resümierte das Auswärtige Amt, durch die »planmäßige deutsche Wirtschaftspolitik« sei die »weitgehende Loslösung Jugoslawiens von Frankreich und der Kleinen Entente« erreicht worden. Jugoslawien stehe zu Nazi-Deutschland »in ausgesprochen freundschaftlichen Beziehungen«, heißt es in einer Einschätzung vom 3. Januar 1938. Die politische Annäherung der Herrschenden in Belgrad an das faschistische Deutschland wurde besonders durch die Annexion Österreichs im März 1938 (siehe jW-Thema vom 12.3.2008) gefördert. Die wirtschaftliche Abhängigkeit Jugoslawiens von Deutschland wuchs enorm. Etwa die Hälfte der jugoslawischen Ausfuhr ging nach Deutschland. Deutsches Kapital erreichte bei den ausländischen Kapitalanlagen in Jugoslawien die erste Stelle. Hermann Göring, der »zweite Mann« nach Hitler, forderte am 5. April 1938, »vom Lande Österreich aus (…) die wirtschaftliche Erfassung des Südostraumes« in Angriff zu nehmen.

Tilo von Wilmowsky, Präsident des Mitteleuropäischen Wirtschaftstages, mit besten Verbindungen zu den Großagrariern und zum Hause Krupp, verlangte, die Südostexpansion zu intensivieren. Mit der Annexion Österreichs, die man »Wiedervereinigung« nannte, sei es gelungen, »das Tor nach Südosteuropa (…) weit zu öffnen«.

Politische Unterwerfung

Das Nazi-Reich trat immer fordernder und drohender auf. Eine Untersuchung des Reichsamtes für wehrwirtschaftliche Planung vom August 1938 verlangte, daß im Kriegsfall die Gesamtproduktion Jugoslawiens an Kupfer, Blei, Zink, Chrom, Weizen und Mais Deutschland zur Verfügung stehen müsse. Unter keinen Umständen »dürften die in ihrem Umfang beachtlichen Rohstoffquellen« den »Feindländern zugute kommen«. Den Grad der jugoslawischen Annäherung an das faschistische Deutschland zeigt eine Einschätzung des Oberkommandos des Heeres zwei Jahre später. Generalstabschef Franz Halder vermerkte am 3. September 1940 in seinem Kriegstagebuch, eine Analyse habe folgendes Ergebnis gebracht: »Jugoslawien steht heute (zu) 100 Prozent für unsere Kriegswirtschaft zur Verfügung.« Zögernden Balkanstaaten wurde offen gedroht. Am 23. Januar 1939 sagte der Reichsstatthalter für Österreich, Arthur Seyß-Inquart, in einer Rede vor hohen Offizieren der Wehrmacht, die Annexion Österreichs bedeute »eine gewaltige Stärkung des Potentials des Reiches« und »die breite Öffnung des Tores nach Südosten«. Man könne den Regierungen dort jetzt sagen: »Ihr wißt, daß wir so stark sind, daß jeder, der gegen uns geht, vernichtet wird.«

Die politische Annäherung Belgrads an Berlin wurde durch permanente italienische Aggressionsdrohungen beschleunigt. Das faschistische Italien wollte die jugoslawische Adriaküste annektieren. Die Herrschenden Jugoslawiens glaubten, der beste Schutz gegen die Kriegspläne Roms sei eine Anlehnung an Nazi-Deutschland. Italien werde es nicht wagen, ein mit Deutschland verbündetes Jugoslawien anzugreifen. Außerdem versprach man sich dadurch eine Förderung der eigenen Expansionspläne, die sich gegen Griechenland, insbesondere gegen die nördliche Ägäisküste mit Thessaloniki richteten.

Als die deutsche Führung am 4. November 1940 die Aggression gegen Griechenland beschloß, ging die Wehrmacht davon aus, daß Jugoslawien den Angriff politisch unterstützen und seine Wirtschaftsressourcen der deutschen Rüstung zur Verfügung stellen werde. Hitler meinte am 5. Dezember 1940 vor dem Oberkommando der Wehrmacht (OKW): »Jugoslawien macht mit uns alles.«

Am 25. März 1941 wurde im Wiener Schloß Belvedere in einer pompösen Zeremonie der Beitritt Jugoslawiens zum Dreimächtepakt vollzogen. Der am 27. September 1940 von Deutschland, Italien und Japan gebildete Pakt sollte als politisches und militärisches Bündnis die USA vom Kriegseintritt abschrecken und für den bevorstehenden Krieg gegen die Sowjetunion eine einheitliche Front der faschistischen Hauptmächte und ihrer Satelliten bilden. Mit dem Beitritt Jugoslawiens waren alle südosteuropäischen Länder wirtschaftlich und politisch an das faschistische Deutschland gebunden. Der deutsche Außenminister Joachim von Ribbentrop erklärte mit unverhohlener Freude, daß nun »der gesamte bisher neutrale Balkan sich im Lager der Ordnung befindet«. Die vorgesehene Aggression gegen das widerspenstige Griechenland schien nur noch eine Formsache zu sein. Berlin stand auf dem Gipfelpunkt seiner Südosteuropaexpansion.

Aggression beschlossen

Wegen der antifaschistischen Grundhaltung breiter Teile der Bevölkerung in Jugoslawien wurde Belgrad zugesichert, daß es vorerst von den militärischen Verpflichtungen des Dreimächtepaktes befreit sei. Trotzdem erhob sich in Jugoslawien ein Sturm der Entrüstung gegen die Unterwerfung des größten Balkanlandes unter das faschistische Deutschland. Eine probritische Offiziersgruppe um den Luftwaffenchef Dusan Simovic nutzte die Situation, stürzte am 27. März die Regierung des nazifreundlichen Premiers Dragisa Cvetkovic und erklärte, zur Neutralitätspolitik zurückkehren zu wollen.

Die Belgrader Ereignisse bedeuteten eine schwere Schlappe für die deutsche Südosteuropapolitik. Der soeben unterworfene, politisch wie rüstungswirtschaftlich wichtige Balkan drohte, den Deutschen wieder zu entgleiten.

Noch am Nachmittag des 27. März hatte Hitler die militärische Führung in die Reichskanzlei bestellt. Das Protokoll dieser Besprechung spiegelt den maßlosen Zorn der Nazi-Führer und Militärs über die erlittene außenpolitische Niederlage wider. Man könne von Glück reden, meinte Hitler, daß der Umschwung in Belgrad noch vor Beginn des Griechenlandfeldzuges und »erst recht« vor dem Überfall auf die Sowjetunion erfolgt sei. Jetzt könne man die Sache noch bereinigen. Der latente, in den deutschen Eliten seit dem Ersten Weltkrieg tief verwurzelte Haß auf die südslawischen Völker brach sich Bahn. Hitler meinte, »Serben und Slowenen sind nie deutschfreundlich gewesen« und müßten bestraft werden. »Führer ist entschlossen«, vermerkt das Protokoll, »Jugoslawien militärisch und als Staatengebilde zu zerschlagen«. Die »Balkanisierung«, d.h. die totale Zersplitterung des Landes sei das Ziel. Der Schlag müsse »mit unerbittlicher Härte (…) und in einem Blitzunternehmen« durchgeführt werden. »In diesem Zusammenhang«, so wurde weiter festgelegt, sei »der Beginn des »Barbarossa-Unternehmens«, d.h. der Überfall auf die Sowjetunion (siehe jW-Thema vom 18.12.2010) »bis zu 4 Wochen« zu verschieben. Man entschloß sich, den Überfall auf Griechenland und auf Jugoslawien gleichzeitig durchzuführen und für den »Doppelschlag« auch Verbände aus dem »Barbarossa«-Aufmarsch einzusetzen. Darunter befand sich der damals modernste Panzergroßverband, die Panzergruppe Kleist, die wesentlichen Anteil am schnellen Sieg der Wehrmacht über Frankreich im Sommer 1940 hatte (siehe jW-Thema v. 6.6.2010).

Noch am 27. März wurden in der »Weisung Nr. 25« die operativen Grundlinien der Kriege gegen Griechenland und Jugoslawien festgelegt. Bemerkenswert dabei ist, daß in dieser grundsätzlichen Weisung für die Kriegsführung ein einzelnes Wirtschaftobjekt, die Kupfermine Bor, besondere Erwähnung fand. Gleich zu Beginn der »Weisung Nr. 25« heißt es: »Die baldige Besitznahme der Kupfergruben von Bor« sei »aus wehrwirtschaftlichen Gründen wichtig.« In der Anschlußweisung Nr. 27 vom 13. April 1941 wurde der Befehl bekräftigt. Zu den weiteren militärischen Operationen in Jugoslawien heißt es, das Gebiet »zwischen Morava und Donau mit den wertvollen Kupfergruben ist schnellstens zu sichern«. Die Gruben nahe der Stadt Bor waren die damals ergiebigsten Kupferminen Europas. Eigentümer war die französische Gesellschaft Compagnie Francaise de Mines de Bor. Deren Anteile wurden nach der Besetzung Frankreichs von einem deutschen Konsortium »erworben«. Dabei übten nach einer Mitteilung des Vizepräsidenten der Reichsbank, Emil Puhl, die deutschen Okkupanten Druck auf die französischen Besitzer aus. Nach einem Entscheid des Reichswirtschaftsministeriums wurde Ende 1940 der Mansfeld AG das Vorrecht für die Minen bei Bor eingeräumt. Hauptaktionär der Mansfeld AG war die Deutsche Bank. Generaldirektor bei Mansfeld war Rudolf Stahl, stellvertretender Leiter der Reichsgruppe Industrie. Er gehörte seit 1932 zu den Förderern der NSDAP. Im Rüstungsbereich war Stahl maßgeblich an der Vorbereitung und Durchführung des Krieges beteiligt. Zusammen mit dem späteren zweiten Bundeskanzler, Ludwig Erhard, schmiedet er Pläne für eine imperialistischen Nachkriegsordnung in Deutschland. Drei Tage vor dem Überfall der Wehrmacht teilte Stahl dem Reichswirtschaftsministerium mit, seine Mitarbeiter stünden bereit, die Leitung der Minen im jugoslawischen Bor sofort zu übernehmen.

Fünfte Kolonne

In der Beratung am 27. März wurde auch festgelegt, die Sezessionskräfte in Jugoslawien zu aktivieren, um den Vormarsch der Wehrmacht zu erleichtern. Dabei ging es vor allem um reaktionäre Kräfte in Kroatien und um die etwa 500000 Menschen umfassende deutsche Minderheit.

Den Kroaten sollte, so Hitler auf der Besprechung, wenn sie sich beim deutschen Angriff gegen die jugoslawische Regierung stellen, eine Selbstverwaltung zugesichert werden. SS-Standartenführer Edmund Veesenmayer, der schon maßgeblichen Anteil an der »Wiedervereinigung« Österreichs mit Deutschland 1938 und beste Verbindungen zur Dresdner Bank hatte, wurde vor dem Angriff nach Zagreb entsandt. Nachdem sich bürgerliche Sezessionisten der Zusammenarbeit mit den Nazis verweigert hatten, konzentrierte sich Veesenmayer auf die klerikal faschistische Ustaschabewegung. Diese hatte bis dahin hauptsächlich aus dem Exil in Italien gegen die jugoslawische Einheit agiert. Bevor die deutschen Truppen Zagreb erreichten, rief ein Funktionär der Ustascha unter dem Schutz deutscher Nazis den »Unabhängigen Staat Kroatien« aus und forderte die kroatischen Soldaten in der königlichen jugoslawischen Armee auf, zu desertieren. Die Bildung dieses Satelliten war ein entscheidender Bestandteil und ein wichtiges Instrument der territorialen Zerschlagung Jugoslawiens und für die erhebliche Dezimierung der Serben und Slowenen.

Eine wichtige Rolle bei der Destabilisierung Jugoslawiens nach dem 27. März 1941 spielte die deutsche Minderheit. Ihre Führung stand spätestens seit 1938 vollständig im Dienste des Nazi-Reiches. Als in Berlin die Aggression beschlossen worden war, machte sie auf reichsdeutschen Befehl hin mobil für den verdeckten Krieg. Die Abteilung II (Sabotage und Sonderaufgaben) des Amtes Ausland/Abwehr im Oberkommando der Wehrmacht lieferte über die Spionage- und Sabotageorganisation »Jupiter« große Mengen Waffen an die Deutschen in Jugoslawien. »Volksdeutsche Selbstschutzkommandos« griffen die jugoslawische Armee an, besetzten strategisch wichtige Punkte wie den Flughafen Semlin, vertrieben oder töteten jugoslawische Beamte und terrorisierten die Zivilbevölkerung. Die deutsche Führung hatte die volksdeutschen Soldaten der jugoslawischen Armee zur Fahnenflucht aufgerufen. Schon am 1. April 1941 vermerkt der Generalstabschef des Heeres, Franz Halder, in seinem Kriegstagebuch: »Auflösungserscheinungen des jugoslawischen Staates mehren sich.«

Die bedingungslose Parteinahme der überwiegenden Mehrzahl der Deutschen in Jugoslawien für die faschistischen Aggressoren und ihre massenhafte Mitwirkung an Okkupationsverbrechen trugen entscheidend dazu bei, daß sie nach dem Krieg ihre Heimat fluchtartig verließen bzw. ausgesiedelt wurden.

Die Aggression der Faschisten und die vierjährige Besetzung fügten dem Land unermeßliches Leid zu. Mehr als zehn Prozent der Vorkriegsbevölkerung verloren durch Krieg und Okkupation ihr Leben. Der von den Deutschen entfachte Gewaltfuror und die von ihnen planmäßig gesäte Zwietracht unter den Völkern des Balkanstaates wirken bis heute nach.


Dr. Martin Seckendorf ist Historiker und Mitglied der Berliner Gesellschaft für Faschismus- und Weltkriegsforschung e.V.




NAPOLI - PISA: DUE IMPORTANTI INIZIATIVE NOWAR

Napoli, sabato 16 aprile: manifestazione nazionale contro la guerra (al Comando Operativo USA/NATO di Capodichino)
 
Pisa, sabato 16 aprile: convegno nazionale contro l'hub militare all'aereoporto di Pisa (Auditorium Provincia)

 

SEGUONO I DUE APPELLI:

 

Appello per una manifestazione nazionale il 16 aprile a Napoli
http://www.stopwar.altervista.org/


Alla favola che con le bombe si va a portare la democrazia, la difesa dei diritti, la difesa dei rivoltosi oppure per ragioni umanitarie oramai non ci crede più nessuno. Tutti sanno, anche perché non si fanno nemmeno tanti sforzi per nasconderlo, che in Libia stiamo mandando i nostri aerei per mettere le mani sulle immense ricchezze del sottosuolo di quel paese, per difendere gli affari delle grandi aziende e della grande finanza, che sono anche in feroce concorrenza fra di loro. Eppure non riusciamo ad indignarci sufficientemente, a gridare la nostra rabbia per questi crimini commessi dai governi e dagli eserciti dei nostri paesi, che continuano a definirsi civili e che in nome di tale presunta superiorità si arrogano il diritto di invadere altri paesi, con le scuse più puerili.

Anche chi aveva pensato che le aggressioni alla ex-Jugoslavia, all'Iraq e all'Afghanistan, fossero delle eccezioni dovute alla particolarità di quelle situazioni, deve riconoscere, con la nuova missione militare contro la Libia, che oramai la guerra è entrata nella nostra quotidianità è diventata normale amministrazione.

Ma ciò è possibile solo a condizione che queste guerre siano sempre a senso unico, ovvero delle aggressioni portate dagli eserciti più potenti del mondo e dotati delle più micidiali armi di distruzioni di massa, contro paesi che non hanno la possibilità di difendersi e di ricambiare con la stessa moneta gli invasori. Solo in questo modo la guerra può diventare una fiction, come tanti programmi televisivi che guardiamo distratti mentre comodamente consumiamo i nostri pasti. Perché siamo sicuri che nessun missile intelligente, nessuna bomba "umanitaria" piena di uranio impoverito, che seminerà morte anche per molti anni dopo la sua esplosione, potrà piombarci sulla tavola mentre guardiamo quegli eventi lontani.

Al massimo siamo indotti dalla propaganda razzista di stato ad essere infastiditi e preoccupati dal pensiero del flusso dei tanti migranti che queste invasioni militari e le politiche di rapina che le hanno precedute, provocano verso le nostre coste, come se i due fenomeni non fossero strettamente legati da una relazione di causa ed effetto.

Ma se la campagna mediatica in atto punta a farci vedere questa nuova missione come una difesa dei nostri interessi nazionali, per evitare gli aumenti dei prezzi delle materie prime in primis la benzina, essa ci riguarda per ben altri motivi: alla politica di aggressione verso l'esterno corrisponde puntualmente una ulteriore restrizione dei nostri diritti, della possibilità di difendere le nostre condizioni di vita e di lavoro, in pratica un ulteriore svolta verso l'autoritarismo e la militarizzazione dei territori in nome della competitività italiana e delle missioni militari in corso. Inoltre non si può essere complici di tali crimini, commessi anche in nostro nome, ed essere percepiti da questi popoli come un'unica massa indistinta coalizzata per portare avanti la rapina delle loro risorse, ed imporre un supersfruttamento meritandone il sacrosanto odio contro chi va a seminare morte e distruzione nei loro paesi.

Per tale motivo la denuncia e la lotta contro queste guerre di stampo neocoloniale, deve procedere di pari passo con la mobilitazione per la difesa dei nostri diritti e contro i tentativi di scaricarci addosso i costi di questa interminabile crisi provocata dalla sete di profitti di quegli stessi soggetti che oggi ci invitano a plaudire a questa nuova guerra. Una guerra per cui spendono miliardi di euro che tolgono alla scuola, alla sanità, agli altri servizi sociali, al reddito di tutti noi.

La città di Napoli svolge un ruolo decisivo in questa nuova missione militare, poiché qui si concentrano il comando Nato di Bagnoli che coordina questa aggressione, ed altri importanti insediamenti militari da cui partono le azioni militari, come a Capodichino.

La risposta in questa città deve essere perciò ancora più incisiva, insieme a tutto il movimento contro la guerra, per di affermare che non esistono interessi "nazionali", ma solo gli interessi degli sfruttati e dei dominati di tutto il mondo contro quelli dei dominanti e dei regimi di tutto il mondo.

È giunto il momento di ribadire che i popoli, e lo hanno scritto in questi giorni proprio i tunisini e gli egiziani in rivolta, o si liberano da soli o non si liberano affatto. La nuova missione militare è infatti rivolta anche a bloccare il processo di mobilitazioni che sta attraversando tutto il vicino e medio oriente.

Invitiamo pertanto chi intende opporsi a questa ennesima guerra umanitaria ad unirsi a noi per preparare una grande manifestazione nazionale contro la guerra da tenersi a Napoli il 16 Aprile.
ASSEMBLEA NAPOLETANA CONTRO LA GUERRA
Per info, adesioni e contatti:  assembleanowar.na@...   
 
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Pisa, 16 aprile
NO ALL’HUB MILITARE  - NO ALLA GUERRA 
 
PER LA RICOSTRUZIONE DI UN FRONTE UNITO DELLE LOTTE CONTRO LA GUERRA, 
LE BASI USA/NATO, LA MILITARIZZAZIONE DEI TERRITORI E DELLA CULTURA.

Invito a tutte le realtà che in Italia si battono contro la militarizzazione dei territori e le guerre 
al Convegno nazionale di riflessione e mobilitazione del 16 aprile 2011, 
che si terrà presso l’ Auditorium della Provincia di  Pisa, Via Silvio Pellico, 63


http://nohub.noblogs.org/ 


I territori di Pisa e Livorno sono oggetto di una progressiva militarizzazione. Un’immensa area geografica, che si estende nelle nostre provincie, sta per essere integrata all’interno di un progetto funzionale alle proiezioni belliche della NATO, di cui gli Stati Uniti sono da sempre leader indiscussi. 
La base USA di camp Darby è lo snodo, il “cuore pulsante” di questo progetto, che progressivamente intende integrare - senza soluzione di continuità – attività civili e militari.
Aeroporto civile e militare, nautica da diporto, porto di Livorno, centri di studio militari, distretti industriali e artigianali, vie di trasporto su rotaia e su gomma. Un intero sistema produttivo e di servizi messi in “rete” con una base militare fondamentale per il rifornimento di tutte le guerre svoltesi nell’area euro – asiatica dal dopo guerra a oggi.
Il progetto dell’Hub militare all’aeroporto Dall’Oro di Pisa chiuderà il cerchio di questa militarizzazione, ottimizzando al massimo le “proiezioni di forza” degli eserciti della NATO.
Il coordinamento NO HUB, che raccoglie differenti forze culturali, sociali e civili attive sui temi della Pace, si è costituito per contrastare la creazione di questa mega struttura, al servizio delle future guerre ed aggressioni militari della NATO, ipocritamente chiamate “missioni di pace”.
Tutte le informazioni sull’Hub e sulle attività del nostro Coordinamento le potrete trovare sul nostro blog: http://nohub.noblogs.org/
La peculiarità e l’importanza dell’opera che si intende costruire sui nostri territori (il più grande aeroporto militare italiano) ci spinge oggi a chiedere l’attenzione di tutte le realtà che si sono battute in questi anni contro le guerre e la militarizzazione dei territori.
Tutti noi sappiamo che l’Hub è un tassello, pur importantissimo, di un piano molto più vasto, che vede l’intera penisola (solo per rimanere all’interno dello spazio geografico nazionale), investita da un poderoso processo di militarizzazione.
Assistiamo da anni a un incremento di tutti gli insediamenti e servitù militari. L’elenco è lunghissimo e non necessario ai fini del presente appello rivolto a coloro i quali tutti i giorni si battono contro di essi, da Trieste a Sigonella, da Vicenza a Brindisi, da Cagliari a Novara, Quirra, Napoli, Milano, Aviano e in tante altre città e paesi interessati da progetti di sviluppo militare, basi, industrie militari, poligoni di tiro, centri di comando.
Le poderose lotte degli ultimi anni, contro le aggressioni militari verso l’Iraq, la ex-Jugoslavia, l’Afghanistan e la costruzione della base al Dal Molin di Vicenza, sono progressivamente rifluite per vari motivi, tra i quali annoveriamo il mancato coordinamento tra di esse che avrebbe permesso di dare al movimento contro la guerra una prospettiva ben più ampia delle singole battaglie.
La militarizzazione dei territori e della società, fin anche degli istituti preposti alla trasmissione del sapere, i costanti focolai di conflitto creati ad arte per rapinare territori e risorse, sono oramai una costante del funzionamento degli Stati e delle relazioni tra grandi poli economici internazionali.
La guerra è tornata a essere uno strumento centrale delle politiche “estere”, nel costante tentativo di risolvere le contraddizioni di un modello economico in preda ad una crisi senza precedenti attraverso l’aggressione e la rapina neo–colonialista, come emerge con chiarezza dalla guerra in atto contro la Libia.
Il progressivo spostamento a Sud delle basi militari USA /NATO, al quale abbiamo assistito in questi anni, aveva l’obiettivo, ora in piena fase di realizzazione, di facilitare le manovre militari funzionali a questi scopi.
Di fronte a questo scenario la lotta contro la guerra, le sue basi e i suoi strumenti di propaganda, non può essere esercizio episodico di singoli comitati i quali, meritoriamente, si battono contro specifici epifenomeni locali. 
Il confronto e il coordinamento tra le nostre lotte è indispensabile. Per questo vi chiediamo di partecipare attivamente al Convegno di sabato 16 aprile 2011 a Pisa con vostri interventi, relazioni, proposte e quant’altro riterrete necessario ed utile al rilancio della lotta contro la militarizzazione dei nostri territori e la guerra.

COORDINAMENTO NO HUB MILITARE
 
http://nohub.noblogs.org/ 
oer contatti:  nohub2013@...  3384014989 - 3498494727 3381337573