Informazione


Restiamo umani. L' "omicidio mirato" di Vittorio Arrigoni

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Il blog di Vittorio Arrigoni:

Sullo strano rapimento e l' "omicidio mirato" di Vittorio Arrigoni si vedano anche i link:

http://www.infopal.it/leggi.php?id=18080 
http://www.gennarocarotenuto.it/5396-uccidete-vittorio-arrigoni/
http://www.indika.it/?p=481
http://italy2.copyleft.no/node/12443
http://www.radiocittaperta.it/index.php?option=com_content&task=view&id=193&Itemid=9

A proposito della "Freedom Flottilla II" e delle intimidazioni cui l'iniziativa è sottoposta si veda invece:


VERSO LA MANIFESTAZIONE DEL 14 MAGGIO. Con la Freedom Flotilla per la fine dell'assedio di Gaza

Le minacce di Berlusconi

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Da: Yousef Salman <y_salman@...>

Oggetto: Addio caro Vittorio

Data: 15 aprile 2011 08.53.46 GMT+02.00


CARO  VITTORIO,

Di sicuro i tuoi assassini  conoscevano chi eri e cosa rappresentavi. Non è importante chi erano gli assassini e cosa rappresentano, ma alla fine dei conti, hanno commesso un delitto e un brutale odioso assassinio.
Hanno ucciso un uomo libero, un amante della libertà e della giustizia, un amico della pace e del popolo palestinese, che tu ha difeso, hai amato e che hai fatto della sua causa una ragione di esistenza e di vita.
Non so chi sono e cosa rappresentano, ma so che NON sono palestinesi, che sono un pericolo serio e costante per i palestinesi e che sono degli assassini della Palestina, della sua causa, del suo popolo e dei suoi veri e sinceri amici. Sono nemici dell'umanità che Vittorio ha sempre cercato di difendere  e fare vincere in Palestina.
Vittorio potevi rimanere in Italia a fare la bella vita e so che tu appartiene a una grande famiglia, benestante e ricca di grandi valori, hai  lasciato il tuo benessere per venire a vivere fra i più poveri e sfortunati  della terra, nell'inferno di Gaza e hai voluto sposare la giusta causa del popolo più disgraziato e sfortunato al mondo.
La morte drammatica tua, Vittorio non è diversa ed è simile con quella del grande artista palestinese ebreo, Juliano Mer Khamis, ucciso una settimana prima nel Campo profughi di Jenin.
Lo so che il destino dei liberi sognatori, dei veri rivoluzionari, degli onesti idealisti è in contrasto con ed in scontro continuo contro il mondo dell'ignoranza, dell'estremismo, della prepotenza, della pazzia e della repressione e della brutalità
dell'occupazione israelo-sionista alla Palestina. Lo so e lo sappiamo che l'arma dell'ignoranza e dell'estremismo è  la pallottola, la violenza e l'odio ed in pochi attimi può sterminare una vita buona ed innocente  dedicata
a favore e al  servizio della causa palestinese e del suo popolo.
Di sicuro chi ti ha ucciso, sa chi sei e cosa rappresenti, la carica ideale, i valori che porti e che difendi e di sicuro è riuscito a fare e realizzare ciò che non è riuscito a fare e realizzare da tempo  il nemico comune: l'occupante israeliano.
E' l'occupazione israeliana è l'unica parte vantaggiato dalla tua scomparsa,  grande e caro amico Vittorio.
Vittorio ti sei innamorato della Palestina e di Gaza in particolare ma anche i palestinesi e particolarmente quelli di Gaza, si sono innamorati di te, Vittorio e della tua bella Italia.
Vittorio sarai sempre nei nostri cuori e viverai sempre nella nostre lotte, per una Palestina libera, laica e democratica.
ADDIO CARO FRATELLO E RESTIAMO ANCORA UMANI..

Dr. Yousef Salman
Delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia
http:/www.palestinercs.org


(english / italiano)

La situazione sociale in Serbia e dintorni

1) Il 10% dei serbi vive sotto la soglia della povertà
2) Disoccupazione e povertà in Serbia
3) Rising social protests in the Balkans


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fonte: Notiziario Vie dell' Est - http://www.viedellest.eu/

06 aprile 2011 - Serbia

Il 10% dei serbi vive sotto la soglia della povertà

In Serbia 700mila persone, pari a circa il 10% dell’intera popolazione, vivono al di sotto della soglia di povertà. Ciò vuol dire, come ha detto alla tivù B92 il ministro del Lavoro, Rasim Ljajic, che tali famiglie più bisognose (in media di tre persone) hanno un reddito mensile inferiore a 18.500 dinari (circa 181 euro), parecchio al di sotto del paniere minimo di consumi stimato in 23mila dinari (225 euro).
“La Serbia non è Belgrado, dove si vive mediamente bene, e a 30 chilometri a nord e a sud della capitale la situazione è ben diversa”, ha ammesso Ljajic. Secondo il ministro, la popolazione in queste aree “è in una situazione catastrofica, conseguenza delle privatizzazioni sbagliate e dei mancati progressi nel processo di transizione”. La gente, ha concluso, “in queste aree vive ancora negli anni Novanta”.
Sempre in tema di povertà, a Veliki Trnovac, isola interamente albanese nel sud povero della Serbia, la popolazione ha un’unica speranza: quella di ricongiungersi un giorno con il vicino Kosovo. I quasi diecimila abitanti del paesino presso Bujanovac (l’unico della Serbia a non avere un solo abitante di etnia serba), scrive l’agenzia Ansa, vivono in una condizione di arretratezza e miseria estreme che alimentano la voglia di secessione e le critiche al governo centrale di Belgrado.


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Disoccupazione e povertà in Serbia


Mangiano male e sono sovrappeso, fumano e bevono troppo, lo stipendio non basta per coprire i bisogni più essenziali e soprattutto molti non hanno lavoro. Da una serie di indagini rese pubbliche in questi mesi in Serbia emerge una società in forte crisi

Come  dimostra una recente indagine dell’Istituto nazionale per le statistiche, il numero dei disoccupati in Serbia è salito dall’ottobre del 2008 all’ottobre del 2010 da 457.205 a 565.880 unità. L'indagine - commissionata dall’Agenzia internazionale per il lavoro e dall’Agenzia della comunità europea per la statistica, Eurostat - mostra come il tasso di disoccupazione sia aumentato in due anni dal 14% al 20%. Per gli uomini è cresciuto dal 12,1% al 19% mentre per le donne dal 16,5% al 21,2%.


Dati diversi dall’Ufficio nazionale di collocamento

L’Ufficio nazionale di collocamento offre dati che mostrano un’immagine ancora peggiore. Secondo le loro informazioni, in Serbia vi sarebbero circa 730.000 disoccupati. Ma molti media nel Paese affermano che il loro numero si attesterebbe sul milione di persone.
All’Ufficio nazionale di collocamento intanto c’è grande aspettativa per i nuovi programmi statali messi in campo per creare nuovi posti di lavoro, per i quali si è passati da un budget di 36 milioni di euro del 2010 a 54 milioni per il 2011. Dejan Jovanović, direttore dell’Ufficio nazionale di collocamento, si augura che almeno 60.000 persone quest’anno otterranno un nuovo impiego, grazie ai programmi finanziati col budget statale.
È già stato avviato un programma orientato ai giovani, chiamato “La prima occasione”, che dovrebbe garantire loro un primo impiego e molte agevolazioni alle aziende che li assumono. All'inizio del 2011 è stato introdotto anche un nuovo programma chiamato “Pratica professionale” (Stručna praksa) rivolto a 5.000 giovani di età inferiore ai 30 anni nel quale, oltre alle aziende del settore privato, saranno incluse anche quelle statali.
Jovanović sostiene che ci saranno inoltre risorse speciali messe a disposizione dei giovani imprenditori. “Noi vogliamo sostenere la piccola imprenditoria in Serbia e per questo programma spenderemo 300 milioni di dinari (circa 3 milioni di euro) – spiega Jovanović – prevediamo l’apertura di 2.000 negozi da parte di persone iscritte sulla nostra lista di collocamento. Siamo in grado di garantire 160.000 dinari a tutti quelli che avranno voglia di avviare un’impresa ma prima li dobbiamo istruire per farlo. Una delle idee di questa agenzia è anche di aiutare i comuni poco sviluppati dove il datore di lavoro riceverà tra i 300.000 (circa 3.000 euro) e i 400.000 dinari (circa 3800 euro) per ogni nuovo dipendente assunto”.
Al programma ha preso parte un’azienda tedesca a Vranje, Serbia meridionale, presso la quale entro la fine del 2011 400 persone otterranno un nuovo posto di lavoro. “È molto importante che in questa parte del Paese si offrano nuovi posti di lavoro perché è sottosviluppata", ha dichiarato il premier Mirko Cvetković. Ma per il presidente dell’Associazione delle piccole e medie imprese, Milan Knežević, questi programmi sono solo parziali e non rappresentano una vera soluzione ai problemi. La sfida per il Paese a suo avviso è piuttosto quella di creare l’ambiente dove gli investitori esteri ma anche locali possano creare nuovi posti di lavoro. “Le misure a breve termine non potranno mai dare risultati soddisfacenti. Si tratta solo di improvvisazione e spesso questo serve per affermare la forza politica, l’abuso di potere, il guadagno e la promozione personale”, ha aggiunto Knežević.


Un potere d’acquisto quasi inesistente

Dai dati dell'Istituto nazionale di statistica emerge come il potere d’acquisto dei cittadini serbi, nel 2010, è notevolmente diminuito: i prezzi per il cibo sono saliti del 20%, l’abbigliamento aumentato del 6% e il prezzo della benzina del 10%. E le buste paga sono rimaste “magre”.
Saša Đogović, economista dell’Istituto per le indagini di mercato (IZIT), spiega che i cittadini serbi spendono più della metà del proprio per il cibo e la casa. “Circa il 56% dello stipendio se ne va per i bisogni essenziali, solo per il cibo spendono il 41%. In Bulgaria per esempio la cifra è minore, è circa del 34,7% e questo mostra che la Serbia, rispetto agli altri paesi balcanici, si trova in una pessima posizione”,  afferma Đogović.
I dati dell'Istituto per le indagini di mercato dimostrano che per comprare cibo al supermercato all’inizio del 2010 servivano circa 4.500 dinari a settimana (44 euro circa), mentre adesso la cifra è aumentata a 6.000 dinari (circa 58 euro).
Negli ultimi due anni a Belgrado (che ha un livello di vita più alto delle altre città) sono aumentate le cucine popolari dove mangiano 10.185 belgradesi. Il segretario per la protezione sociale della città di Belgrado, Vladan Ðukić, ammette che le cucine popolari sono ormai 46, raddoppiate rispetto all’anno scorso. “Nelle città europee le persone muoiono di fame per la strada, da noi ancora non è successo”, tiene però a precisare.
Non si prevede, tra l'altro, che l'attuale tasso di inflazione, pari al 10,3%, diminuirà nei prossimi 6 mesi. In queste condizioni non sono solo i disoccupati in difficoltà, ma anche chi lavora, per non parlare dei pensionati, non può permettersi che acquistare generi di prima necessità. Il portale B92 ha intervistato alcuni cittadini di Belgrado che hanno detto che non comprano assolutamente nulla. Altri affermano: “Spendo per i figli e basta. Spendo solo per il cibo, se dovessi aver bisogno di qualcos’altro dovrei chiedere il mutuo o un prestito”. Che non rimane davvero niente per il resto lo dimostrano anche i dati statistici forniti dalla stessa emittente: solo lo 0,7% del reddito va per l’educazione e il 4,5% per la salute. E se si pensa che lo stipendio medio in Serbia è di 34.444 (335 euro circa) dinari è fuori di dubbio che resta molto poco per gli extra.


Gli unici non in crisi sono i matrimoni

I cittadini della Serbia, come dimostrano i dati dell’Istituto nazionale di statistica, nel 2010 si sposavano come nel 2009 ma sono calati il numero dei divorzi. Questo non vuol dire che i serbi abbiano imparato ad apprezzare di più la famiglia ma si tratta della sicurezza economica che è più stabile in due. Come afferma il sociologo Ognjen Radonjić della Facoltà di filosofia, è normale che la crisi matrimoniale sia maggiore nei Paesi più ricchi e quindi non è strano che da noi i matrimoni resistano. “La pessima situazione economica influenza le persone che non decidono così facilmente di divorziare”, dice Radonjić. “In generale, la mancanza di soldi influenza tutti gli aspetti della vita. C’è troppa differenza tra i ricchi e i poveri e la povertà spesso è seguita dalla criminalità e dalla mancanza di valori. E non c’è neanche la solidarietà tra le generazioni, perché col passare degli anni siamo sempre più tirchi ed egoisti”.


La salute peggiora, troppa preoccupazione

L’anno scorso lo stress era la diagnosi più diffusa in Serbia e un quarto dei cittadini abusavano di alcool. “La causa del peggioramento della salute è sicuramente l’alcool e il cibo pesante e unto – sostiene il dottor Petar Božović dell’Istituto per la salute pubblica Dr Milan Jovanović Batut - molte più persone soffrono di malattie al fegato ma almeno, con la legge che proibisce il fumo nei luoghi pubblici si spera che diminuirà il numero delle persone che fumano. Sulla tavola si trovano cibi di poca qualità, non c’è frutta e verdura, tutto è troppo grasso e condito. Quindi non sorprende che le persone siano sovrappeso e che le malattie come il diabete siano in aumento.”


Debiti fino al collo e aiuti statali

E se non ci sono soldi, ci si indebita. Da dati dell'Istituto nazionale di statistica emerge come i serbi si stanno indebitando, nel 2011, del 29% in più rispetto all’anno precedente ed ora il debito complessivo con le banche ammonta a oltre 5 miliardi di euro.
Lo Stato aiuta quotidianamente circa 800.000 persone con vari mezzi: denaro, pasti caldi, servizi vari. A gennaio di quest’anno il numero delle famiglie che hanno ricevuto aiuto per i propri figli  è cresciuto del 5% rispetto alla media dell’anno scorso. Ed anche se questi 2.034 dinari (circa 20 euro) al mese, stanziati dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, non sembrano una cifra significativa, ad essi non rinunciano i genitori di 395.000 bambini della Serbia.
“Le cifre stanziate in aiuto di famiglie con figli sono davvero una cosa simbolica ma sono comunque rilevanti per il nostro budget”, ha dichiarato Zoran Martinović, segretario di Stato per il ministero del Lavoro e le Politiche sociali. “Vista la situazione non è immaginabile aumentare questa cifra nei prossimi mesi”, ha concluso.
Emblematica la chiosa di un recente articolo pubblicato da B92: “Neanche quest’anno è successo il miracolo, siamo ancora la nazione più vecchia, non abbiamo avuto un grande numero di nascite dei bambini e le previsioni di sociologi, medici ed economisti non sono rosee. Dicono che quest’anno sarà ugualmente brutto come quello precedente.”

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Rising social protests in the Balkans


By Markus Salzmann 
15 April 2011


Political and social unrest has increased in the Balkan region during the past weeks and months. Young people in particular have protested against the corrupt elite layers in the former Yugoslavian federal republic which, at the behest of the International Monetary Fund and the European Union, have enforced drastic austerity programs with calamitous consequences for the population.

In Croatia, protests continue against the administration of Jadranka Kosor, but currently with significantly less participation. While 10,000 demonstrated last month, the current protests involve just a few hundred.

The main reason for this development is the lack of perspective of the protests, whose only formulated goal is new elections—despite the sobering experiences with all the established political camps since Croatia’s independence.

Particularly those under the age of 30 are affected by unemployment, whose official level is almost 20 per cent. A further ten percent of Croats work but do not receive any wage or receive payment only sporadically. The few remaining social benefits are so low that they do not permit a normal life, with basic prices increasing rapidly. Fuel prices alone have risen by more than 30 percent within two weeks.

Prime Minister Kosor has lost a massive amount of support since last year’s election. In her party, the right-wing conservative HDZ (Croatian Democratic Union), several factions are fighting fiercely. Kosor hardly gives any press conferences and at public appearances she is often seen fighting back tears.

The social democratic opposition is unable to benefit from the government crisis. Its leader, Zoran Milanovic, is visibly cautious in criticizing Kosor and, according to polls, his SDP is hardly winning any support. Like the HDZ, the SDP is torn by political infighting and corruption scandals.

In the absence of a genuine political alternative, right-wing forces have been increasingly able to dominate the protests. Ivan Pernar, a 25-year-old nurse who helped organize the protests in the Croatian capital via Facebook, openly states his right-wing, nationalist views. He has founded the so-called “Alliance for Reforms” and hopes to enter parliament in the event of early new elections.

According to Pernar, the demand for a “new system” especially affects the “monetary sovereignty” of Croatia. In defence of the latter, Pernar not only rails against the European Union bureaucrats sitting in Brussels, but also against all those who strive for a reconciliation with the neighboring state of Serbia. At demonstrations he demands “more capitalism” together with “nationalization of banks”.

Pernar was an activist for the Green Party for some time before becoming an admirer of the Dutch racist and Islamophobe Geert Wilders. With such forces leading protests, it is no surprise that ultra-right groups are trying to use the protests to their advantage.

Alongside right-wing peasant associations and violent hooligans from the Dinamo Zagreb soccer club, known as the “Bad Blue Boys”, the protest movement is dominated by war veterans. These veteran associations are openly fascist organizations and consider themselves the heirs of Ustasha, the fascist movement of the 1920s and 30s.

These right-wing forces are supported by the ruling powers. The initial protests were announced through Facebook but now that participation has shrunk and is dominated by right-wing groups, all of the country’s major newspapers are printing the dates and places of new planned protests.

In Montenegro several thousand people also protested every week against political corruption and social decline. They followed an appeal on the internet network Facebook, calling for a peaceful demonstration “against the mafia” in front of the parliament building in the capital city of Podgorica.

The state situated on the Adriatic Sea is stuck in a massive economic crisis. Serbia has currently halted all exports of wheat and flour in order to combat growing domestic prices and the growing protests by poorer social layers. This means that Montenegro now has to cover 90 per cent of its demand for wheat from other sources—an impossible task for the destitute country, given current market prices. This will further increase social tensions.

The Serbian government itself is confronted with growing popular unrest. In late March more than 10,000 public servants protested in the capital of Belgrade against low wages and miserable working conditions. Doctors, policemen and other public servants joined with protesting teachers who have been struggling to obtain pay raises since January. The teachers’ protests were supported by many of their students.

The teachers are demanding the payment of unpaid wages and a change in education laws which de facto excludes poorer layers of rural youth from higher education. In 2011, the wage increases for the educational sector were set at three per cent, but the teachers’ union is demanding 20 per cent. Education minister Obradovic has bluntly refused the union’s demands, referring to the government’s austerity policy.

In the wake of the financial crisis, the Serbian government of Premier Mirko Cvetkovic reduced public spending and suspended wage increases. The government and the IMF agreed to lower the budget deficit from 4.8 percent to 4 percent.

The wages of employees in the private sector are even lower than those in the public sector. Average incomes in Serbia are around 35,000 Dinar per month (app. € 350). Officially, the country has between 700,000 and one million unemployed.

Ultra-right forces in Belgrade are also seeking to exploit disillusionment and distrust of the government to their own advantage. On 5 February, the Progress Party (SNS), which is the biggest opposition party in the Serbian parliament, organized a mass demonstration attended by approximately 55,000 people.

The protests in Belgrade were directed against Cvetkovic’s government. Under the slogans “Wake up, Serbia” and “Fight for change”, the SNS demanded early new elections and threatened an “ongoing blockade” of Belgrade if their demands were not met. The organisation has announced another demonstration in Belgrade on 16 April.

According to new surveys, the SNS would emerge as the clear winner in a fresh election, with far more votes than Cvetkovic’s EU-oriented government coalition. The SNS and their smaller partners are estimated to have the support of around 42 per cent of the electorate; the Democratic Party, the mainstay of the government coalition, has just 24 percent.

The SNS is a spin-off party from the ultranationalist Radical Party (SRS) led by Vojslav Seselj, who is charged with war crimes by the International Criminal Tribunal for former Yugoslavia. The SNS was founded by Tomislav Nikolic, former vice president of the SRS. Nikolic voted for the association agreement of Serbia with the European Union, while party chairman Seselj rejected it. In response, Nikolic founded a new faction in September 2008, which combined support for entry into the EU with nationalism and hatred towards Croatia.

It comes as no surprise that all of the major parties of Serbia, including the nationalist SNS, are striving for entry into the EU. They represent a small elite which hopes to gain access to the international financial markets and enrichment through the EU while the working class foots the bill.

The powerful EU member states are observing this process with alarm. Last year, Klaus Mangold, chairman of the Eastern Europe Commission of the German Economy, said that Serbia was a mainstay for German companies in this region. By signing numerous other free-trade agreements, including with Russia and Turkey, the country would open new markets of great interest for German companies.

Germany is Serbia’s most important trade partner, and the fourth largest direct investor. In 2009, Serbia’s imports from Germany amounted to more than €1.3 billion. Its exports amounted to almost €600 million. While German direct investments in 2004 were just €278 million, they already amounted to €1.2 billion in 2010. Thus, they have increased fourfold within a few years.

In Serbia, just a small layer benefits from these trading relations, along with European banks and big companies. For broad masses of the population, entry into the EU will only mean price increases and massive social cuts.

After the worldwide financial crisis, in which the Serbian Dinar lost a quarter of its value, Serbia received a credit worth €3 billion from the IMF in 2009, to allow the country to refinance its debts with foreign private banks. To obtain credit from these banks, the government drastically cut spending in all areas.

For this reason the Serbian population is widely hostile to the EU. According to a survey from the start of 2011, more than 60 per cent are opposed to entry to the EU, with less than 30 percent in favour.

The policies of the European elites, which only mean poverty and social misery for the broad mass of the population, must be rejected by the workers and youth of the region, along with the nationalist positions which have driven former Yugoslavia into years of civil war. The only progressive alternative is the turn towards a socialist and international perspective, by establishing a Socialist Balkan Federation in the context of the United Socialist States of Europe.




Torino, 19 aprile 2011

presso il Cine Teatro Baretti
Via Baretti 4
Tel./Fax 011 655187 www.cineteatrobaretti.it - info@...

nell'ambito della rassegna PORTOFRANCO - IL CINEMA INVISIBILE AL BARETTI


martedi 19 aprile - ore 21.00

OCCUPAZIONE IN 26 QUADRI

Regia di Lordan Zafranovic
Jugoslavia • 1978 • 112'
E' prevista la presenza in sala del regista Lordan Zafranovic e dello storico Eric Gobetti

Grande successo della cinematografia est-europea, l'occupazione in 26 quadri è il capolavoro di Lordan Zafranovic, uno degli autori più anticonformisti della Jugoslavia di Tito. Un grande affresco, drammatico e grottesco, l'occupazione italiana a Dubrovnik durante la seconda guerra mondiale. Un film per guardare in faccia un pezzo della nostra storia, per confrontarsi con la memoria che l'Italia fascista ha lasciato oltre Adriatico.


LA SCHEDA DEL FILM: 

IL PROFILO DEL REGISTA E LE PASSATE INIZIATIVE CON E SU LORDAN ZAFRANOVIC:




(Le terribili violazioni dei diritti umani negli USA sono denunciate dal "Quotidiano del Popolo" di Pechino; sulla drammatica situazione dei diritti umani in Italia forse c'è invece ancora troppa indulgenza, anche a Pechino. Italo Slavo)


08:53, April 11, 2011

US has serious human rights abuses: China

The United States, the world's richest state, is beset by rampant gun violence, serious racism, and an increasing portion of its population have become poorer, a report released yesterday by China on U.S. human rights said. 

The U.S., under siege with all its human rights problems, is in no position to criticize other countries' human rights, the report released by the State Council's Information Office said.

Washington has taken human rights as a "political instrument to defame other governments' image and seek its own strategic interests", Beijing said. 

In breakdown, the report lists high incidence of gun-related bloodshed crimes in the U.S. resulting from its outrageous gun ownership policy. It has 12,000 registered gun murder cases a year, and tens of hundreds people are shot to death or get injured in gunfights, the highest in the world. 

In the U.S. the violation of citizens' civil and political rights by the government is severe, the report said. Between October 2008 to June 2010, more than 6,600 travelers were subject to electronic device searches, half of them are American citizens. 

And, abuse of force and violence, and torturing suspects in order to get their confession is serious in the U.S. law enforcement, the report said.

The US regards itself as "the beacon of democracy." However, its democracy is largely based on money, the report writes. According to a report from The Washington Post on October 26, 2010, U.S. House and Senate candidates shattered fundraising records for a midterm election, taking in more than $1.5 billion. The midterm election, held in November, cost $3.98 billion, the most expensive political rally in the US history. Various interest groups have actively spent on the event, the report said.

While advocating Internet freedom, the US in fact imposes strict restriction on cyberspace. On June 24, 2010, the US Senate Committee on Homeland Security and Governmental Affairs approved the Protecting Cyberspace as a National Asset Act, which will give the American federal government "absolute power" to shut down the Internet under a declared national emergency rule.

Economically, unemployment rate in the United States has been stubbornly high. Proportion of Americans living in poverty has risen to a new high. The US Census Bureau reported in September that a total of 44 million Americans found themselves in poverty. The share of residents in poverty climbed to 14.3 percent in 2009, the report said.

Also, Americans living in hunger and starvation increased sharply. A report issued by the U.S. Department of Agriculture in November showed that 14.7 percent of US households were food insecure in 2009. And, the number of families in homeless shelters increased 7 percent to more than 170, 000, it said. 

On the global stage, the U.S. has a "notorious record of international human rights violations", said the report. The U.S.-led wars in Iraq and Afghanistan have already caused huge civilian casualties.

Prior to Beijing's releasing the human rights report, a U.S. State Department report on global human rights released on Friday said that Beijing had stepped up restrictions on activists, lawyers and online bloggers, and tightened controls on civil society to maintain stability.

A Chinese Foreign Ministry spokesman dismissed the U.S. report as meddling in China's internal affairs. Two days later, Beijing released its own report on U.S. human rights problems.

"The United States ignores its own severe human rights problems, ardently promoting its so-called ‘human rights diplomacy', treating human rights as a political tool to vilify other countries and to advance its own strategic interests," Beijing report said. 

"The United States is the world's worst country for violent crimes," it said. "Citizens' lives, property and personal safety do not receive the protection they should."

By People's Daily Online



Con il patrocinio del Comune di Trieste, si è tenuto lunedì 28 marzo scorso un convegno sulla figura di Giorgio Almirante con la proiezione del documentario “Almirante l’arcitaliano”.
Memori dell’opera di Almirante come redattore de “La Difesa della Razza”, del suo ruolo istituzionale nella RSI che lo portò a firmare un bando per la fucilazione di altri Italiani, del suo operato nel corso degli anni della strategia della tensione in Italia, tra cui il finanziamento al terrorista Cicuttini per un’operazione alle corde vocali che rendesse impossibile la perizia fonica dato che lui era stato il telefonista che aveva attirato i carabinieri nella trappola della strage di Peteano
(3 morti), noi antifascisti abbiamo deciso di parlare de
 
L’ALTRA FACCIA
DELL’ALMIRANTE “ARCITALIANO”.
 
VENERDÌ 15 APRILE 2011
ALLE ORE 17
AL CIRCOLO DELLA STAMPA DI TRIESTE.
 
Parleranno:
Alessandra Kersevan, ricercatrice storica
Claudia Cernigoi, giornalista e ricercatrice
 
Organizzano:
casa editrice Kappa Vu Udine
Coordinamento Antifascista di Trieste
 
 
 
Sip via Bertiolo 4 Udine 5/4/11
 
 
 
 
 
Pod pokroviteljstvom Občine Trst je bilo v ponedeljek, preteklega 28. marca,
srečanje o osebnosti Giorgia Almiranteja s projekcijo dokumentarnega filma
“Almirante naditalijan”.
Ob spominu na vlogo Almiranteja kot urednika revije “La Difesa della Razza”, ki je zaradi institucionalnega položaja v RSI podpisal razglas o streljanje drugih Italijanov,
na njegovo delovanje v letih strategie napetosti, kjer gre omeniti financiranje
terorista Cicuttinija za operacijo glasilk, da bi onemogočili prepoznanje
njegovega glasu kot telefonista, ki je priklical karabinjerje v past pokola
pri Petovljah (3 mrtvi), smo mi antifašisti sklenili, da spregovorimo
 
O DRUGEM OBRAZU
ALMIRANTEJA
“NADITALIJANA”
V PETEK, 15. APRILA 2001
OB 17. URI
V ČASNIKARSKEM KROŽKU
V TRSTU.
 
Govorili bosta:
Alessandra Kersevan, zgodovinska raziskovalka
Claudia Cernigoi, časnikarka in raziskovalka
 
Organizirata:
založba Kappa Vu Udine
Antifašistična koordinacija iz Trsta
 
Razmnoženo v lastni režiji, via Bertiolo 4, Udine 5/4/11


(francais / srpskohrvatski / italiano)

Desaparecidos e profughi serbi in Croazia

1) Identifikovani posmrtni ostaci 17 Srba ubijenih u Hrvatskoj / Esumati e identificati i resti di altri 17 serbi in Croazia

2) Les réfugiés serbes de Croatie demandent réparation à Zagreb / Réfugiés serbes de Croatie : l’impossible retour ?


=== 1 ===

Zagreb: Identifikovani posmrtni ostaci 17 Srba ubijenih u Hrvatskoj

29. mart 2011. 16:52        ( Izvor: Tanjug )

U Zavodu za sudsku medicinu i kriminalistiku Medicinskog fakulteta u Zagrebu identifikovani su posmrtni ostaci 17-oro Srba ekshumiranih u proteklih 10 godina iz masovnih, zajedničkih i pojedinačnih grobnica na području Hrvatske, saopštio je Dokumentaciono-informativni centar "Veritas".  Reč je o Srbima stradalim za vreme rata 1991/95. na području Like, Dalmacije, Korduna, Banije, Zapadne i Istočne Slavonije. Na spisku "Veritasa" nalazi se još 2.100 Srba, koji su nestali od 1991. do 1995. godine, a među njima je 1.404 civila, među njima 559 žena. Prema podacima te organizacije, na području Hrvatske postoje još 592 registrovana grobna mesta s posmrtnim ostacima ubijenih Srba koja ni 16 godina posle rata nisu ekshumirana zbog opstrukcije vlasti u Zagrebu. 

fonte: http://www.glassrbije.org/

Trad. sintetica:
Esumati e identificati i resti di altri 17 serbi negli ultimi dieci anni all' Istituto di medicina e criminalistica di Zagabria. Si tratta di vittime serbe delle Krajine, morti durante la guerra del 1991-1995. Sulla lista della associazione "Veritas" [http://www.veritas.org.rs/ - in english: http://www.veritas.org.rs/indexen.htm] si trovano ancora 2100 serbi, scomparsi durante la guerra 1991 - 1995, tra cui 1404 civili di cui 559 donne. Secondo questa organizzazione in Croazia si trovano ancora 592 luoghi di sepoltura registrati con serbi uccisi, che ancora oggi, 16 anni dopo la fine della guerra, non sono stati esumati a causa dell'ostruzionismo del governo croato.


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Les réfugiés serbes de Croatie demandent réparation à Zagreb

Traduit par Jacqueline Dérens

B92 - 1er avril 2011

Vendredi, les représentants de plus de cent associations de réfugiés serbes de Croatie ont déposé des lettres à l’ambassade de Croatie à Belgrade. Ils demandent au Président Josipović et à la Première ministre Kosor de soutenir leur demande de résolution reconnaissant la responsabilité de Zagreb dans les souffrances subies par les Serbes de Croatie pendant la guerre.

Une centaine d’associations de réfugiés serbes de Croatie sont venus déposer des lettres à l’ambassade de Croatie à Belgrade à la veille de la réunion à Smederevo (Serbie) des Premiers ministres croate et slovène et du Président serbe.

« Nous implorons le Président Josipović et Madame Kosor de soutenir le projet de résolution envoyé aux députés et responsables des groupes parlementaires leur demandant de respecter les droits des réfugiés serbes de Croatie », a déclaré Miodrag Linta, responsable de l’union des associations de réfugiés, après avoir déposé les pétitions.

Les associations de refugiés serbes de Croatie cherchent à obtenir que le Parlement croate adopte une déclaration reconnaissant la responsabilité de Zagreb dans les souffrances et les pertes subies par les Serbes pendant la guerre.

Pour les associations de réfugiés serbes de Croatie, les mécanismes de régulation des droits de propriété et autres droits des personnes déplacées doivent reposer sur cette déclaration. Des groupes de travail doivent être formés afin de garantir la restauration de la propriété et l’attribution de compensations légales pour chaque personne ou famille spoliée de ses droits.


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Blic 11 décembre 2010

Réfugiés serbes de Croatie : l’impossible retour ?


64.000 réfugiés serbes de Croatie vivent toujours en Serbie. Alors que les relations entre les deux États se sont singulièrement réchauffées ces derniers mois, la question du retour est à nouveau posée. La question de la restitution des biens et du logement n’est pas le seul problème : s’ils reviennent en Croatie, ces réfugiés pourront-ils trouver du travail et refaire leur vie ? Reportage dans le centre collectif de Krnjača, près de Belgrade.

Par Irena Radisavljević

Traduit par Stéphane Surprenant

Si l’on en croit les récentes déclarations des présidents de Serbie et de Croatie, Boris Tadić et Ivo Josipović, Radmila et sa famille devraient bientôt avoir l’opportunité de choisir une nouvelle vie : retourner chez eux en Croatie, dans leur appartement d’avant la guerre, ou bien dans un nouveau logement en Serbie. Même si Radmila ne croit plus qu’une telle chose s’offrira à elle un jour, elle est cependant convaincue qu’il vaut mieux pour elle de demeurer en Serbie – tout comme, d’ailleurs, la majorité des personnes qui vivent actuellement dans ce centre d’hébergement.« Où devrions-nous aller ? Ici je suis une réfugiée, et là-bas une étrangère dans mon propre pays ! Nous n’avons même pas réussi à reprendre possession de l’appartement que l’on nous a volé en Croatie, et je ne m’attends pas à ce que l’on nous en donne un en Serbie... Après sept années passées dans un centre d’hébergement collectif, dans cette pièce de quelques mètres carrés où j’ai élevé mes deux enfants, un être humain apprend à ne plus croire en rien et à ne s’attendre à rien de bon. Si l’on me donnait le choix entre rester ici et retourner chez moi, je choisirais de rester ici. Je n’ai plus rien à espérer là-bas... », raconte Radmila Milanko, qui vit aujourd’hui dans un centre d’hébergement situé à Krnjača, un faubourg éloigné de Belgrade.

« Mes enfants étudient maintenant à la faculté de Belgrade. Ils ont grandi ici, qui pourrait les persuader de retourner vivre en Croatie ? C’est ici chez eux ! Et la majorité des réfugiés qui vivent ici ressentent la même chose. Nous avons vécu ici pendant deux décennies. Même si notre appartement nous était restitué, nous n’aurions pas d’emploi, de quoi pourrions-nous bien vivre ? », demande Radmila.

Savo Strbac, qui tente lui aussi d’obtenir la rétrocession de son appartement en Croatie, pense la même chose. « Nous ne croyons plus du tout en ce genre de promesse... Franchement, je ne leur fais pas confiance. Il n’y aura jamais de véritables retours sans que certains prérequis soient assurés. Vous n’avez pas seulement besoin d’une maison dans la vie, il vous faut aussi un emploi ! », explique-t-il. Quant à la procédure de récupération des appartements elle-même, elle est pour le moins compliquée, ce qui rend les choses encore plus difficiles et en décourage plus d’un.

Selon les évaluations établies par diverses associations de réfugiés, les Serbes de Croatie exigeraient la rétrocession d’un nombre variant de 42.000 à 50.000 logements. Les estimations du Haut Commissariat aux réfugiés des Nations unies, elles, se situent plutôt à la moitié de ce chiffre, soit 29.000 logements, surtout des appartements. À ce jour, 4.500 familles serbes ont déposé une demande de retour en Croatie. Depuis 2004, seules 1.035 familles ont retrouvé leur logement, tandis que 1.600 demandes ont été rejetées. Les autres familles sont toujours en attente d’une réponse.

Slobodan Uzelac, vice-Premier ministre de Croatie, espère que l’idée d’une conférence destinée à recueillir des dons en argent en vue d’acheter des logements en Serbie pour les réfugiés permettra à autant de gens que possible d’obtenir un nouveau logis. Cela dit, il ne s’agit encore que d’un projet. Des donateurs de l’UE et des États-Unis devraient y participer. « Si cette idée veut être couronnée de succès, la Serbie et la Croatie devront collaborer étroitement à tous les niveaux de l’appareil politique, y compris les plus élevés. Il me semble qu’en ce moment, en particulier après la visite récente de Boris Tadić en Croatie, cette idée peut prendre corps », explique Slobodan Uzelac.

D’après certaines estimations officieuses, il serait possible d’aller chercher près de 100 millions d’euros lors d’une conférence semblable. Savo Strbac croit qu’avec ce chiffre, on resterait loin du compte.

« Ce montant suffirait à peine pour acheter environ 2.000 appartements de taille moyenne, alors qu’en Serbie on dénombre approximativement 64.000 réfugiés de Croatie. Et puis, à vrai dire, ce n’est pas la première fois que nous entendons parler d’une conférence destinée à recueillir des dons... », lance-t-il, passablement sceptique.




Reporters senza Vergogna

L'ispirazione colonialista e truffaldina di Reporters sans frontières è stata da noi denunciata in tempi "non sospetti":

Numerosi link e articoli in tema sulla nostra pagina dedicata alle tecniche imperialiste di disinformazione strategica ed eversione
https://www.cnj.it/documentazione/eversione.htm

[JUGOINFO] RSF sul libro paga della NED/CIA (rassegna ed ALTRI LINK)
selezione 21 dicembre 2005
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4668

[JUGOINFO] RSF al servizio della CIA 

[JUGOINFO] La guerre de désinformation de RSF
selezione 6 febbraio 2007

[JUGOINFO] RSF è favorevole alla tortura 
selezione 29 agosto 2007

[JUGOINFO] La propagande de RSF contre Cuba
selezione febbraio 2008

Tra i più recenti articoli in tema segnaliamo anche:

Riecco quelli di RSF... con l’ossessione di Cuba e la memoria corta
AsiCubaUmbria - aprile 2008
http://www.resistenze.org/sito/os/mp/osmp8d30-003032.htm

Les mensonges de Reporters sans frontières sur le Venezuela
par Salim Lamrani - Mondialisation.ca, Le 21 juin 2009

Reporters sans frontières contre la démocratie vénézuélienne
par Salim Lamrani | 2 juillet 2009 
http://www.voltairenet.org/article160852.html

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Robert Ménard e Reporter senza Frontiere, la triste parabola dalla libertà di stampa al fascismo di Le Pen


Colpo definitivo alla credibilità di Reporter senza Frontiere: Robert Ménard, fondatore e padre padrone dell’organizzazione fino al 2008, quando ha scelto di passare ad una ricchissima quanto fantomatica fondazione con sede a Doha, che al momento non ha neanche un sito Internet funzionante, si è schierato con la destra fascista appoggiando la campagna elettorale del Front National francese di Jean-Marie Le Pen e quella presidenziale di sua figlia Marine.

di Gennaro Carotenuto


Per Robert Ménard (Orano, 1953), piede nero (francese d’Algeria) e figlio di un fascista commilitone di Jean-Marie Le Pen nell’OAS, è il traguardo di un percorso che lo riporta alle origini, dalle quali probabilmente non si era mai allontanato se non tatticamente. Spacciatosi per buona parte della sua vita come liberale, libertario e persona di sinistra, Ménard aveva via via rotto gli argini, spostando RSF da una presunta origine liberal-progressista verso un suprematismo occidentalista completamente identificato nella politica di George Bush.

Nel corso di questi anni ha fatto parlare di sé per posizioni sempre più estreme, islamofobe, omofobe, per la pena di morte e a favore della tortura. Oggi, dopo aver abbandonato RSF, il libello “Vive le Pen”, a giorni in libreria a Parigi e firmato con la moglie, Emmanuelle Duverger, vuole essere la risposta di estrema destra a “Indignez-vous!” (Indignatevi!) di Stéphane Hessel. Nel pamphlet Ménard prova ancora a vendersi come paladino della libertà d’espressione ma per denunciare stavolta la discriminazione da parte dei media e della politica francese, in particolare di quelli di sinistra, contro l’estrema destra e la censura contro le “idee” razziste e fasciste propagandate dal Front National. Furbo come una volpe Ménard cita continuamente Voltaire (darebbe la vita per permettere al negazionista della Shoah Robert Faurisson di dire la sua, sic) e non ammette ancora di voler entrare in politica nel Front National ma ci gira intorno e sostiene di considerare giuste le motivazioni degli elettori del FN oltre che il programma di quel partito.

Quella sul coming out fascista di Ménard, che di fronte alle crescenti polemiche in Francia si è già dichiarato vittima di un “processo per eresia” da parte dei benpensanti di sinistra e che sta impostando tutta la propaganda sulla denuncia dell’intolleranza contro di sé e contro il FN, è una notizia di quelle imbarazzanti e di conseguenza i grandi giornali italiani finora la stanno ignorando.

Per anni infatti “Reporter senza frontiere”, che si presentava come una ONG liberal-democratica se non apertamente progressista, ha avuto entusiasta stampa sui grandi media italiani che pendevano e pendono dalle labbra di questa organizzazione e dalle sue denunce tralasciando il fatto che da più parti Ménard e RSF erano accusati di amnesie selettive al momento di scegliere di quali casi occuparsi. Non importava quanto squilibrate fossero le denunce contro violazioni della libertà d’espressione vere o presunte (tanta Cuba e ancor di più Venezuela e niente Messico, Colombia o Honduras per semplificare). Tutto quello che proveniva da RSF era preso e pubblicato come oro colato. Quei pochi studiosi che in questi anni si sono permessi di far rilevare le crescenti incongruenze di tale organizzazione e il fatto che questa fosse tutt’altro che neutra nel difendere la libertà di stampa e d’espressione, sono stati puntualmente diffamati e demonizzati come pericolosi estremisti.

La verità era però sotto gli occhi di chiunque volesse vederla. Mentre RSF contribuiva a creare il caso Yoani Sánchez a Cuba (che per fortuna nessuno ha mai incarcerato, né torturato), si disinteressava completamente a tutti i blogger che in decine di paesi sono incarcerati e in qualche caso uccisi, ma hanno la sfortuna di vedere conculcati i loro diritti da un governo autoritario vicino agli interessi degli Stati Uniti. Mentre in Venezuela RSF schierava quotidianamente l’artiglieria contro il governo di Hugo Chávez, difendendo a spada tratta anche media apertamente golpisti, come RCTV, nulla diceva dei giornalisti ammazzati dalla dittatura hondureña di Roberto Micheletti. Mentre denunciava la mancanza di libertà di espressione in Cina o in Iran teneva uno scrupoloso silenzio su casi come quello dell’Iraq o di altri paesi “amici” del golfo persico e sugli attacchi deliberati ai media commessi dalle truppe alleate che portarono per esempio alla morte del cameramen di Tele5 José Couso.

Tutto ciò rispondeva ad una precisa logica economica e politica. E’ stato ripetutamente denunciato e infine ammesso che Reporter senza Frontiere era finanziata, oltre che direttamente dalla CIA, dalle più importanti fondazioni filo-repubblicane statunitensi, come Freedom House o National Endowment for Democracy, in genere organiche al governo di George Bush. Tali fondi non servivano per fomentare la libertà di espressione ma per orchestrare vere e proprie campagne di disinformazione e diffamazione contro sgoverni sgraditi nelle quali RSF è stata più volte presa con le mani nel sacco. Purtroppo, denunciare come RSF non avesse in maniera terza a cuore la libertà di stampa, ma fosse uno strumento per  la politica di “regime change” bushiano, laddove l’eufemismo del cambio di regime voleva dire cambiare un regime (autoritario o democratico poco importa) con uno amico degli Stati Uniti, in genere autoritario, ha portato finora all’ostracismo di chi, documentatamente, tali denunce presentava.

Ancor più difficile è stato far luce sulla sinistra figura dell’uomo simbolo di RSF, Robert Ménard. Per anni tenutosi al coperto sotto la conveniente bandiera del politicamente corretto, questo si era via via liberato di ogni remora. Nell’agosto 2007 la sua aperta difesa dell’uso della tortura fu oggetto dell’ultima denuncia del grande Franco Carlini prima di morire. Quella sulla tortura non era l’ultima ignominia di Ménard, omofobofavorevole alla pena di morte (salvo che in Cina) e islamofobo (vorrebbe privare i musulmani della cittadinanza francese) come un Borghezio qualsiasi e nonostante citi Voltaire a ogni pié sospinto.

A ben guardare non c’è nulla di strano nell’approdo di Ménard al Front National. Ma quelli che l’hanno difeso ed esaltato in questi anni e hanno disdegnato i dubbi di chi avanzava legittime preoccupazioni sul caso RSF, dovrebbero avere l’onestà intellettuale di non negare questa informazione e, possibilmente, fare autocritica.





(un articolo nel 70.mo anniversario della aggressione nazifascista contro Jugoslavia e Grecia)

http://www.jungewelt.de/2011/04-06/042.php

Tageszeitung junge Welt
06.04.2011 / Thema / Seite 10

»Mit unerbittlicher Härte zerschlagen«

Geschichte. Vor 70 Jahren überfiel die Wehrmacht Jugoslawien und Griechenland

Martin Seckendorf

Am Palmsonntag, dem 6. April 1941, griff die Wehrmacht mit drei Armeen ohne Kriegserklärung Jugoslawien und Griechenland an. In ihrem Schatten folgten ungarische, italienische und bulgarische Verbände. Den modern ausgerüsteten, Siege gewohnten deutschen Truppen hatten die Armeen der beiden überfallenen Länder nicht viel entgegenzusetzen. In Griechenland dauerte der Kampf drei Wochen: Bereits am 30. April war das ganze Festland erobert. Zwischen dem 20. und 30. Mai gelang der Wehrmacht unter großen Verlusten die Besetzung Kretas. Noch schneller wurde Jugoslawien niedergeworfen. Die königliche jugoslawische Armee mußte nach gut einer Woche die Waffen strecken.

Der Aprilkrieg gegen Jugoslawien war die zweite von drei Aggressionen, die im 20. Jahrhundert von deutschen Soldaten gegen das Balkan land geführt wurden (im Ersten Weltkrieg im Bunde mit Österreich, 1999 als Teil der Nato).

Am Ende der Aggression wurde Jugoslawien wie kein anderer von deutschen Truppen im Zweiten Weltkrieg unterworfener Staat territorial zerstückelt. Die Okkupanten gliederten das Land in zehn Teile mit unterschiedlichem Rechtsstatus. Über 35 Prozent der Gesamtfläche wurden von Deutschland, Italien, Ungarn und Bulgarien annektiert. Das übrige Gebiet teilten die Okkupanten und ihre Helfer als Besatzungs- oder Einflußzonen unter sich auf. Die neuen Herren gingen zügig daran, die erlangten Gebiete national und religiös zu »vereinheitlichen«, was zu einem Genozid, vor allem an Serben und Slowenen, führte. Die Karte Jugoslawiens nach der deutschen Aggression im Jahr 1941 ähnelt frappierend der heutigen, die nach der von den Westmächten unterstützten Zerschlagung des Landes in den 1990er Jahren entstanden ist

Während die Aggression gegen Griechenland seit Anfang November 1940 vorbereitet wurde (siehe jW-Thema, 28.10.2010), war der Überfall auf Jugoslawien von der deutschen Führung eigentlich nicht vorgesehen.

Zielgebiet deutscher Expansion

Das Königreich der Serben, Kroaten und Slowenen, wie das multinationale Balkanland bis 1929 hieß, stand nach dem Ersten Weltkrieg zusammen mit Rumänien im Zentrum der deutschen Südosteuropapolitik. Beide Staaten waren Eckpfeiler des von Frankreich nach dem Krieg zur Eindämmung des deutschen »Drangs nach Südost« geschaffenen Bündnissystems, der Kleinen Entente. Das Herausbrechen eines oder beider Staaten aus dem Bund mit Frankreich sollte das gesamte Versailler Nachkriegssystem durchlöchern, eine erneute deutsche Südostexpansion ermöglichen und dem deutschen Imperialismus Zugang zu einer Region mit wichtigen Rohstoffen und Nahrungsmitteln sowie einem entwicklungsfähigen Absatzmarkt für deutsche Industrieprodukte schaffen.

Rumänien war wegen seines Ölreichtums, seiner landwirtschaftlichen Produktion, aber auch wegen der geographischen Nähe zur Sowjetunion von Bedeutung. Jugoslawien konnte bei rüstungssensiblen Rohstoffen wie Kupfer, Chrom, dem Aluminiumausgangsstoff Bauxit, Blei, Zink, Mangan sowie bei landwirtschaftlichen Produkten den deutschen Bedarf in hohem Maße, in einigen Fällen sogar vollständig decken. Von erheblichem Gewicht für die Herrschenden in Deutschland war, daß die begehrten Produkte in einer Region zu finden waren, die von Deutschland aus auf dem Landweg erreicht werden konnte. Damit lagen diese Gebiete abseits der Seeblockademöglichkeiten Großbritanniens, worauf der Exponent der Deutschen Bank und rechtsradikale Politiker Karl Hellferich sehr früh hingewiesen hatte. Im Ersten Weltkrieg war die deutsche Rohstoff- und Lebensmittelversorgung, die zuvor in erheblichem Maße aus Übersee gedeckt wurde, durch die britische Blockade stark beeinträchtigt worden. Die Blockade war für die deutschen Eliten eine traumatische Erfahrung, auch weil auf ihre Auswirkungen die Revolutionierung der deutschen Bevölkerung zurückgeführt wurde. Hellferich befürwortete deshalb nach 1918 bei der Expansionspolitik die »Balkan- und Nahostlinie«. In Erinnerung an die kaiserliche Nahostexpansion schrieb er, ein entscheidender Vorteil der Nahostlinie habe für Deutschland darin bestanden, daß sowohl die Expansionsräume als auch die Verbindungslinien dorthin »abseits des Machtbereichs des seegewaltigen England« lagen, das im Krieg »alle unsere anderen Ausgänge nach der außereuropäischen Welt beherrschte«.

Die Gewinnung eines blockadesicheren Raumes, aus dem in ausreichender Menge Rohstoffe und Lebensmittel beschafft werden konnten, galt als Voraussetzung zur siegreichen Führung des von den deutschen Eliten seit deren Niederlage 1918 ins Auge gefaßten Revanche- und Eroberungskrieges. Der Generalbevollmächtigte für die Kriegswirtschaft hob in einem Schreiben vom 14. September 1938 die »außerordentliche Bedeutung« der Verkehrswege nach Südost europa im »Mob (ilisierungs)-Fall« hervor, »da sich der größte Teil der Ein- und Ausfuhren Deutschlands« über diese Wege vollziehen werde. Am 12. November 1940 schrieb Günther Bergemann, Abteilungsleiter für die Außenwirtschaft im Reichswirtschaftsministerium, es sei das Bestreben der deutschen Politik gewesen, eine Situation wie vor dem Ersten Weltkrieg zu vermeiden, als »43 Prozent der deutschen Einfuhren aus Übersee« kamen und von der Entente leicht unterbunden werden konnten. Deshalb habe sich Deutschland insbesondere seit 1933 »bewußt und planmäßig bemüht, seine überseeischen Einfuhren zu drosseln und seinen Warenverkehr so zu lenken, daß es in der Lage ist, Waren auch im Kriegsfall erreichbar zu haben«.

»Friedliche Durchdringung«

Zur Durchsetzung der deutschen Südosteuropapläne wurden noch in der Weimarer Republik Konzepte zur Unterwanderung der wichtigsten Staaten dieser Region entwickelt. Hauptwaffe der Offensive war die konsequent auf diesen Zweck ausgerichtete Wirtschafts- und Handelspolitik. Sie galt als wichtigstes Instrument in einem Orchester penetrierender Maßnahmen, zu denen auch die auswärtige Kulturpolitik und der politische Einsatz der zahlenmäßig großen deutschen Minderheiten gerechnet wurden.

Die Länder der Region sollten in volkswirtschaftlich relevanten Größenordnungen an den deutschen Markt gebunden werden, sich zunehmend auch politisch von Frankreich weg und nach Deutschland hin orientieren sowie der deutschen Wirtschaft unbeschränkten Zugang zu den begehrten Rohstoffen sichern. Den von der Weltwirtschaftskrise besonders gebeutelten Ländern an der Donau wurde angeboten, ihre Waren zu festen Preisen abzunehmen. Die Verrechnung sollte nicht in Devisen, sondern mit aus Deutschland zu liefernden Industrieprodukten erfolgen. Damit war die kapitalistisch Konkurrenz aus dem Feld geschlagen und man konnte diese Länder zwingen, ihre gesamte Produktion auf den deutschen Bedarf auszurichten.

Mit Jugoslawien gelang am 1. Mai 1934 der Abschluß eines solchen Knebelvertrages. Der Mitteleuropäische Wirtschaftstag, eine Vereinigung einflußreicher Industrie- und Bankkonzerne sowie der Großlandwirtschaft, war entscheidend an dem Zustandekommen dieses Abkommens beteiligt. Nach wenigen Jahren war die totale ökonomische Bindung an Deutschland erreicht.

Sehr bald traten auch die gewünschten politischen Folgen ein. Nur ein Vierteljahr nach Abschluß des Vertrages nahm Jugoslawien aus Österreich geflohene Teilnehmer des Nazi-Putsches vom 25. Juli 1934 auf und gestattete deren Formierung zu militärischen Einheiten. Am 25. August 1937 resümierte das Auswärtige Amt, durch die »planmäßige deutsche Wirtschaftspolitik« sei die »weitgehende Loslösung Jugoslawiens von Frankreich und der Kleinen Entente« erreicht worden. Jugoslawien stehe zu Nazi-Deutschland »in ausgesprochen freundschaftlichen Beziehungen«, heißt es in einer Einschätzung vom 3. Januar 1938. Die politische Annäherung der Herrschenden in Belgrad an das faschistische Deutschland wurde besonders durch die Annexion Österreichs im März 1938 (siehe jW-Thema vom 12.3.2008) gefördert. Die wirtschaftliche Abhängigkeit Jugoslawiens von Deutschland wuchs enorm. Etwa die Hälfte der jugoslawischen Ausfuhr ging nach Deutschland. Deutsches Kapital erreichte bei den ausländischen Kapitalanlagen in Jugoslawien die erste Stelle. Hermann Göring, der »zweite Mann« nach Hitler, forderte am 5. April 1938, »vom Lande Österreich aus (…) die wirtschaftliche Erfassung des Südostraumes« in Angriff zu nehmen.

Tilo von Wilmowsky, Präsident des Mitteleuropäischen Wirtschaftstages, mit besten Verbindungen zu den Großagrariern und zum Hause Krupp, verlangte, die Südostexpansion zu intensivieren. Mit der Annexion Österreichs, die man »Wiedervereinigung« nannte, sei es gelungen, »das Tor nach Südosteuropa (…) weit zu öffnen«.

Politische Unterwerfung

Das Nazi-Reich trat immer fordernder und drohender auf. Eine Untersuchung des Reichsamtes für wehrwirtschaftliche Planung vom August 1938 verlangte, daß im Kriegsfall die Gesamtproduktion Jugoslawiens an Kupfer, Blei, Zink, Chrom, Weizen und Mais Deutschland zur Verfügung stehen müsse. Unter keinen Umständen »dürften die in ihrem Umfang beachtlichen Rohstoffquellen« den »Feindländern zugute kommen«. Den Grad der jugoslawischen Annäherung an das faschistische Deutschland zeigt eine Einschätzung des Oberkommandos des Heeres zwei Jahre später. Generalstabschef Franz Halder vermerkte am 3. September 1940 in seinem Kriegstagebuch, eine Analyse habe folgendes Ergebnis gebracht: »Jugoslawien steht heute (zu) 100 Prozent für unsere Kriegswirtschaft zur Verfügung.« Zögernden Balkanstaaten wurde offen gedroht. Am 23. Januar 1939 sagte der Reichsstatthalter für Österreich, Arthur Seyß-Inquart, in einer Rede vor hohen Offizieren der Wehrmacht, die Annexion Österreichs bedeute »eine gewaltige Stärkung des Potentials des Reiches« und »die breite Öffnung des Tores nach Südosten«. Man könne den Regierungen dort jetzt sagen: »Ihr wißt, daß wir so stark sind, daß jeder, der gegen uns geht, vernichtet wird.«

Die politische Annäherung Belgrads an Berlin wurde durch permanente italienische Aggressionsdrohungen beschleunigt. Das faschistische Italien wollte die jugoslawische Adriaküste annektieren. Die Herrschenden Jugoslawiens glaubten, der beste Schutz gegen die Kriegspläne Roms sei eine Anlehnung an Nazi-Deutschland. Italien werde es nicht wagen, ein mit Deutschland verbündetes Jugoslawien anzugreifen. Außerdem versprach man sich dadurch eine Förderung der eigenen Expansionspläne, die sich gegen Griechenland, insbesondere gegen die nördliche Ägäisküste mit Thessaloniki richteten.

Als die deutsche Führung am 4. November 1940 die Aggression gegen Griechenland beschloß, ging die Wehrmacht davon aus, daß Jugoslawien den Angriff politisch unterstützen und seine Wirtschaftsressourcen der deutschen Rüstung zur Verfügung stellen werde. Hitler meinte am 5. Dezember 1940 vor dem Oberkommando der Wehrmacht (OKW): »Jugoslawien macht mit uns alles.«

Am 25. März 1941 wurde im Wiener Schloß Belvedere in einer pompösen Zeremonie der Beitritt Jugoslawiens zum Dreimächtepakt vollzogen. Der am 27. September 1940 von Deutschland, Italien und Japan gebildete Pakt sollte als politisches und militärisches Bündnis die USA vom Kriegseintritt abschrecken und für den bevorstehenden Krieg gegen die Sowjetunion eine einheitliche Front der faschistischen Hauptmächte und ihrer Satelliten bilden. Mit dem Beitritt Jugoslawiens waren alle südosteuropäischen Länder wirtschaftlich und politisch an das faschistische Deutschland gebunden. Der deutsche Außenminister Joachim von Ribbentrop erklärte mit unverhohlener Freude, daß nun »der gesamte bisher neutrale Balkan sich im Lager der Ordnung befindet«. Die vorgesehene Aggression gegen das widerspenstige Griechenland schien nur noch eine Formsache zu sein. Berlin stand auf dem Gipfelpunkt seiner Südosteuropaexpansion.

Aggression beschlossen

Wegen der antifaschistischen Grundhaltung breiter Teile der Bevölkerung in Jugoslawien wurde Belgrad zugesichert, daß es vorerst von den militärischen Verpflichtungen des Dreimächtepaktes befreit sei. Trotzdem erhob sich in Jugoslawien ein Sturm der Entrüstung gegen die Unterwerfung des größten Balkanlandes unter das faschistische Deutschland. Eine probritische Offiziersgruppe um den Luftwaffenchef Dusan Simovic nutzte die Situation, stürzte am 27. März die Regierung des nazifreundlichen Premiers Dragisa Cvetkovic und erklärte, zur Neutralitätspolitik zurückkehren zu wollen.

Die Belgrader Ereignisse bedeuteten eine schwere Schlappe für die deutsche Südosteuropapolitik. Der soeben unterworfene, politisch wie rüstungswirtschaftlich wichtige Balkan drohte, den Deutschen wieder zu entgleiten.

Noch am Nachmittag des 27. März hatte Hitler die militärische Führung in die Reichskanzlei bestellt. Das Protokoll dieser Besprechung spiegelt den maßlosen Zorn der Nazi-Führer und Militärs über die erlittene außenpolitische Niederlage wider. Man könne von Glück reden, meinte Hitler, daß der Umschwung in Belgrad noch vor Beginn des Griechenlandfeldzuges und »erst recht« vor dem Überfall auf die Sowjetunion erfolgt sei. Jetzt könne man die Sache noch bereinigen. Der latente, in den deutschen Eliten seit dem Ersten Weltkrieg tief verwurzelte Haß auf die südslawischen Völker brach sich Bahn. Hitler meinte, »Serben und Slowenen sind nie deutschfreundlich gewesen« und müßten bestraft werden. »Führer ist entschlossen«, vermerkt das Protokoll, »Jugoslawien militärisch und als Staatengebilde zu zerschlagen«. Die »Balkanisierung«, d.h. die totale Zersplitterung des Landes sei das Ziel. Der Schlag müsse »mit unerbittlicher Härte (…) und in einem Blitzunternehmen« durchgeführt werden. »In diesem Zusammenhang«, so wurde weiter festgelegt, sei »der Beginn des »Barbarossa-Unternehmens«, d.h. der Überfall auf die Sowjetunion (siehe jW-Thema vom 18.12.2010) »bis zu 4 Wochen« zu verschieben. Man entschloß sich, den Überfall auf Griechenland und auf Jugoslawien gleichzeitig durchzuführen und für den »Doppelschlag« auch Verbände aus dem »Barbarossa«-Aufmarsch einzusetzen. Darunter befand sich der damals modernste Panzergroßverband, die Panzergruppe Kleist, die wesentlichen Anteil am schnellen Sieg der Wehrmacht über Frankreich im Sommer 1940 hatte (siehe jW-Thema v. 6.6.2010).

Noch am 27. März wurden in der »Weisung Nr. 25« die operativen Grundlinien der Kriege gegen Griechenland und Jugoslawien festgelegt. Bemerkenswert dabei ist, daß in dieser grundsätzlichen Weisung für die Kriegsführung ein einzelnes Wirtschaftobjekt, die Kupfermine Bor, besondere Erwähnung fand. Gleich zu Beginn der »Weisung Nr. 25« heißt es: »Die baldige Besitznahme der Kupfergruben von Bor« sei »aus wehrwirtschaftlichen Gründen wichtig.« In der Anschlußweisung Nr. 27 vom 13. April 1941 wurde der Befehl bekräftigt. Zu den weiteren militärischen Operationen in Jugoslawien heißt es, das Gebiet »zwischen Morava und Donau mit den wertvollen Kupfergruben ist schnellstens zu sichern«. Die Gruben nahe der Stadt Bor waren die damals ergiebigsten Kupferminen Europas. Eigentümer war die französische Gesellschaft Compagnie Francaise de Mines de Bor. Deren Anteile wurden nach der Besetzung Frankreichs von einem deutschen Konsortium »erworben«. Dabei übten nach einer Mitteilung des Vizepräsidenten der Reichsbank, Emil Puhl, die deutschen Okkupanten Druck auf die französischen Besitzer aus. Nach einem Entscheid des Reichswirtschaftsministeriums wurde Ende 1940 der Mansfeld AG das Vorrecht für die Minen bei Bor eingeräumt. Hauptaktionär der Mansfeld AG war die Deutsche Bank. Generaldirektor bei Mansfeld war Rudolf Stahl, stellvertretender Leiter der Reichsgruppe Industrie. Er gehörte seit 1932 zu den Förderern der NSDAP. Im Rüstungsbereich war Stahl maßgeblich an der Vorbereitung und Durchführung des Krieges beteiligt. Zusammen mit dem späteren zweiten Bundeskanzler, Ludwig Erhard, schmiedet er Pläne für eine imperialistischen Nachkriegsordnung in Deutschland. Drei Tage vor dem Überfall der Wehrmacht teilte Stahl dem Reichswirtschaftsministerium mit, seine Mitarbeiter stünden bereit, die Leitung der Minen im jugoslawischen Bor sofort zu übernehmen.

Fünfte Kolonne

In der Beratung am 27. März wurde auch festgelegt, die Sezessionskräfte in Jugoslawien zu aktivieren, um den Vormarsch der Wehrmacht zu erleichtern. Dabei ging es vor allem um reaktionäre Kräfte in Kroatien und um die etwa 500000 Menschen umfassende deutsche Minderheit.

Den Kroaten sollte, so Hitler auf der Besprechung, wenn sie sich beim deutschen Angriff gegen die jugoslawische Regierung stellen, eine Selbstverwaltung zugesichert werden. SS-Standartenführer Edmund Veesenmayer, der schon maßgeblichen Anteil an der »Wiedervereinigung« Österreichs mit Deutschland 1938 und beste Verbindungen zur Dresdner Bank hatte, wurde vor dem Angriff nach Zagreb entsandt. Nachdem sich bürgerliche Sezessionisten der Zusammenarbeit mit den Nazis verweigert hatten, konzentrierte sich Veesenmayer auf die klerikal faschistische Ustaschabewegung. Diese hatte bis dahin hauptsächlich aus dem Exil in Italien gegen die jugoslawische Einheit agiert. Bevor die deutschen Truppen Zagreb erreichten, rief ein Funktionär der Ustascha unter dem Schutz deutscher Nazis den »Unabhängigen Staat Kroatien« aus und forderte die kroatischen Soldaten in der königlichen jugoslawischen Armee auf, zu desertieren. Die Bildung dieses Satelliten war ein entscheidender Bestandteil und ein wichtiges Instrument der territorialen Zerschlagung Jugoslawiens und für die erhebliche Dezimierung der Serben und Slowenen.

Eine wichtige Rolle bei der Destabilisierung Jugoslawiens nach dem 27. März 1941 spielte die deutsche Minderheit. Ihre Führung stand spätestens seit 1938 vollständig im Dienste des Nazi-Reiches. Als in Berlin die Aggression beschlossen worden war, machte sie auf reichsdeutschen Befehl hin mobil für den verdeckten Krieg. Die Abteilung II (Sabotage und Sonderaufgaben) des Amtes Ausland/Abwehr im Oberkommando der Wehrmacht lieferte über die Spionage- und Sabotageorganisation »Jupiter« große Mengen Waffen an die Deutschen in Jugoslawien. »Volksdeutsche Selbstschutzkommandos« griffen die jugoslawische Armee an, besetzten strategisch wichtige Punkte wie den Flughafen Semlin, vertrieben oder töteten jugoslawische Beamte und terrorisierten die Zivilbevölkerung. Die deutsche Führung hatte die volksdeutschen Soldaten der jugoslawischen Armee zur Fahnenflucht aufgerufen. Schon am 1. April 1941 vermerkt der Generalstabschef des Heeres, Franz Halder, in seinem Kriegstagebuch: »Auflösungserscheinungen des jugoslawischen Staates mehren sich.«

Die bedingungslose Parteinahme der überwiegenden Mehrzahl der Deutschen in Jugoslawien für die faschistischen Aggressoren und ihre massenhafte Mitwirkung an Okkupationsverbrechen trugen entscheidend dazu bei, daß sie nach dem Krieg ihre Heimat fluchtartig verließen bzw. ausgesiedelt wurden.

Die Aggression der Faschisten und die vierjährige Besetzung fügten dem Land unermeßliches Leid zu. Mehr als zehn Prozent der Vorkriegsbevölkerung verloren durch Krieg und Okkupation ihr Leben. Der von den Deutschen entfachte Gewaltfuror und die von ihnen planmäßig gesäte Zwietracht unter den Völkern des Balkanstaates wirken bis heute nach.


Dr. Martin Seckendorf ist Historiker und Mitglied der Berliner Gesellschaft für Faschismus- und Weltkriegsforschung e.V.




NAPOLI - PISA: DUE IMPORTANTI INIZIATIVE NOWAR

Napoli, sabato 16 aprile: manifestazione nazionale contro la guerra (al Comando Operativo USA/NATO di Capodichino)
 
Pisa, sabato 16 aprile: convegno nazionale contro l'hub militare all'aereoporto di Pisa (Auditorium Provincia)

 

SEGUONO I DUE APPELLI:

 

Appello per una manifestazione nazionale il 16 aprile a Napoli
http://www.stopwar.altervista.org/


Alla favola che con le bombe si va a portare la democrazia, la difesa dei diritti, la difesa dei rivoltosi oppure per ragioni umanitarie oramai non ci crede più nessuno. Tutti sanno, anche perché non si fanno nemmeno tanti sforzi per nasconderlo, che in Libia stiamo mandando i nostri aerei per mettere le mani sulle immense ricchezze del sottosuolo di quel paese, per difendere gli affari delle grandi aziende e della grande finanza, che sono anche in feroce concorrenza fra di loro. Eppure non riusciamo ad indignarci sufficientemente, a gridare la nostra rabbia per questi crimini commessi dai governi e dagli eserciti dei nostri paesi, che continuano a definirsi civili e che in nome di tale presunta superiorità si arrogano il diritto di invadere altri paesi, con le scuse più puerili.

Anche chi aveva pensato che le aggressioni alla ex-Jugoslavia, all'Iraq e all'Afghanistan, fossero delle eccezioni dovute alla particolarità di quelle situazioni, deve riconoscere, con la nuova missione militare contro la Libia, che oramai la guerra è entrata nella nostra quotidianità è diventata normale amministrazione.

Ma ciò è possibile solo a condizione che queste guerre siano sempre a senso unico, ovvero delle aggressioni portate dagli eserciti più potenti del mondo e dotati delle più micidiali armi di distruzioni di massa, contro paesi che non hanno la possibilità di difendersi e di ricambiare con la stessa moneta gli invasori. Solo in questo modo la guerra può diventare una fiction, come tanti programmi televisivi che guardiamo distratti mentre comodamente consumiamo i nostri pasti. Perché siamo sicuri che nessun missile intelligente, nessuna bomba "umanitaria" piena di uranio impoverito, che seminerà morte anche per molti anni dopo la sua esplosione, potrà piombarci sulla tavola mentre guardiamo quegli eventi lontani.

Al massimo siamo indotti dalla propaganda razzista di stato ad essere infastiditi e preoccupati dal pensiero del flusso dei tanti migranti che queste invasioni militari e le politiche di rapina che le hanno precedute, provocano verso le nostre coste, come se i due fenomeni non fossero strettamente legati da una relazione di causa ed effetto.

Ma se la campagna mediatica in atto punta a farci vedere questa nuova missione come una difesa dei nostri interessi nazionali, per evitare gli aumenti dei prezzi delle materie prime in primis la benzina, essa ci riguarda per ben altri motivi: alla politica di aggressione verso l'esterno corrisponde puntualmente una ulteriore restrizione dei nostri diritti, della possibilità di difendere le nostre condizioni di vita e di lavoro, in pratica un ulteriore svolta verso l'autoritarismo e la militarizzazione dei territori in nome della competitività italiana e delle missioni militari in corso. Inoltre non si può essere complici di tali crimini, commessi anche in nostro nome, ed essere percepiti da questi popoli come un'unica massa indistinta coalizzata per portare avanti la rapina delle loro risorse, ed imporre un supersfruttamento meritandone il sacrosanto odio contro chi va a seminare morte e distruzione nei loro paesi.

Per tale motivo la denuncia e la lotta contro queste guerre di stampo neocoloniale, deve procedere di pari passo con la mobilitazione per la difesa dei nostri diritti e contro i tentativi di scaricarci addosso i costi di questa interminabile crisi provocata dalla sete di profitti di quegli stessi soggetti che oggi ci invitano a plaudire a questa nuova guerra. Una guerra per cui spendono miliardi di euro che tolgono alla scuola, alla sanità, agli altri servizi sociali, al reddito di tutti noi.

La città di Napoli svolge un ruolo decisivo in questa nuova missione militare, poiché qui si concentrano il comando Nato di Bagnoli che coordina questa aggressione, ed altri importanti insediamenti militari da cui partono le azioni militari, come a Capodichino.

La risposta in questa città deve essere perciò ancora più incisiva, insieme a tutto il movimento contro la guerra, per di affermare che non esistono interessi "nazionali", ma solo gli interessi degli sfruttati e dei dominati di tutto il mondo contro quelli dei dominanti e dei regimi di tutto il mondo.

È giunto il momento di ribadire che i popoli, e lo hanno scritto in questi giorni proprio i tunisini e gli egiziani in rivolta, o si liberano da soli o non si liberano affatto. La nuova missione militare è infatti rivolta anche a bloccare il processo di mobilitazioni che sta attraversando tutto il vicino e medio oriente.

Invitiamo pertanto chi intende opporsi a questa ennesima guerra umanitaria ad unirsi a noi per preparare una grande manifestazione nazionale contro la guerra da tenersi a Napoli il 16 Aprile.
ASSEMBLEA NAPOLETANA CONTRO LA GUERRA
Per info, adesioni e contatti:  assembleanowar.na@...   
 
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Pisa, 16 aprile
NO ALL’HUB MILITARE  - NO ALLA GUERRA 
 
PER LA RICOSTRUZIONE DI UN FRONTE UNITO DELLE LOTTE CONTRO LA GUERRA, 
LE BASI USA/NATO, LA MILITARIZZAZIONE DEI TERRITORI E DELLA CULTURA.

Invito a tutte le realtà che in Italia si battono contro la militarizzazione dei territori e le guerre 
al Convegno nazionale di riflessione e mobilitazione del 16 aprile 2011, 
che si terrà presso l’ Auditorium della Provincia di  Pisa, Via Silvio Pellico, 63


http://nohub.noblogs.org/ 


I territori di Pisa e Livorno sono oggetto di una progressiva militarizzazione. Un’immensa area geografica, che si estende nelle nostre provincie, sta per essere integrata all’interno di un progetto funzionale alle proiezioni belliche della NATO, di cui gli Stati Uniti sono da sempre leader indiscussi. 
La base USA di camp Darby è lo snodo, il “cuore pulsante” di questo progetto, che progressivamente intende integrare - senza soluzione di continuità – attività civili e militari.
Aeroporto civile e militare, nautica da diporto, porto di Livorno, centri di studio militari, distretti industriali e artigianali, vie di trasporto su rotaia e su gomma. Un intero sistema produttivo e di servizi messi in “rete” con una base militare fondamentale per il rifornimento di tutte le guerre svoltesi nell’area euro – asiatica dal dopo guerra a oggi.
Il progetto dell’Hub militare all’aeroporto Dall’Oro di Pisa chiuderà il cerchio di questa militarizzazione, ottimizzando al massimo le “proiezioni di forza” degli eserciti della NATO.
Il coordinamento NO HUB, che raccoglie differenti forze culturali, sociali e civili attive sui temi della Pace, si è costituito per contrastare la creazione di questa mega struttura, al servizio delle future guerre ed aggressioni militari della NATO, ipocritamente chiamate “missioni di pace”.
Tutte le informazioni sull’Hub e sulle attività del nostro Coordinamento le potrete trovare sul nostro blog: http://nohub.noblogs.org/
La peculiarità e l’importanza dell’opera che si intende costruire sui nostri territori (il più grande aeroporto militare italiano) ci spinge oggi a chiedere l’attenzione di tutte le realtà che si sono battute in questi anni contro le guerre e la militarizzazione dei territori.
Tutti noi sappiamo che l’Hub è un tassello, pur importantissimo, di un piano molto più vasto, che vede l’intera penisola (solo per rimanere all’interno dello spazio geografico nazionale), investita da un poderoso processo di militarizzazione.
Assistiamo da anni a un incremento di tutti gli insediamenti e servitù militari. L’elenco è lunghissimo e non necessario ai fini del presente appello rivolto a coloro i quali tutti i giorni si battono contro di essi, da Trieste a Sigonella, da Vicenza a Brindisi, da Cagliari a Novara, Quirra, Napoli, Milano, Aviano e in tante altre città e paesi interessati da progetti di sviluppo militare, basi, industrie militari, poligoni di tiro, centri di comando.
Le poderose lotte degli ultimi anni, contro le aggressioni militari verso l’Iraq, la ex-Jugoslavia, l’Afghanistan e la costruzione della base al Dal Molin di Vicenza, sono progressivamente rifluite per vari motivi, tra i quali annoveriamo il mancato coordinamento tra di esse che avrebbe permesso di dare al movimento contro la guerra una prospettiva ben più ampia delle singole battaglie.
La militarizzazione dei territori e della società, fin anche degli istituti preposti alla trasmissione del sapere, i costanti focolai di conflitto creati ad arte per rapinare territori e risorse, sono oramai una costante del funzionamento degli Stati e delle relazioni tra grandi poli economici internazionali.
La guerra è tornata a essere uno strumento centrale delle politiche “estere”, nel costante tentativo di risolvere le contraddizioni di un modello economico in preda ad una crisi senza precedenti attraverso l’aggressione e la rapina neo–colonialista, come emerge con chiarezza dalla guerra in atto contro la Libia.
Il progressivo spostamento a Sud delle basi militari USA /NATO, al quale abbiamo assistito in questi anni, aveva l’obiettivo, ora in piena fase di realizzazione, di facilitare le manovre militari funzionali a questi scopi.
Di fronte a questo scenario la lotta contro la guerra, le sue basi e i suoi strumenti di propaganda, non può essere esercizio episodico di singoli comitati i quali, meritoriamente, si battono contro specifici epifenomeni locali. 
Il confronto e il coordinamento tra le nostre lotte è indispensabile. Per questo vi chiediamo di partecipare attivamente al Convegno di sabato 16 aprile 2011 a Pisa con vostri interventi, relazioni, proposte e quant’altro riterrete necessario ed utile al rilancio della lotta contro la militarizzazione dei nostri territori e la guerra.

COORDINAMENTO NO HUB MILITARE
 
http://nohub.noblogs.org/ 
oer contatti:  nohub2013@...  3384014989 - 3498494727 3381337573



IL 5 PER MILLE A CNJ ONLUS

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Fenomenologia dei cortei pacifisti

di Pietro Ancona,  02.04.2011
 
Sarebbe interessante per un sociologo analizzare i cortei per la pace che si svolgeranno oggi in alcune  città italiane. Oramai è chiaro che il colore prevalente non è più né il rosso né l'arcobaleno. Arcobaleno distrutto da quasi un decennio di polemiche contro i "pacifinti", la diserzione della CGIL, delle organizzazioni cattoliche e del PD. L'ultimo corteo pacifista fu raggiunto a metà percorso da Fassino il quale marciò per un po' di strada e poi si ritirò per non parteciparvi mai più. Era il 2004. Il PD  si porta a casa oggi la condanna di Gheddafi  che costituisce il  suo grande regalo  agli americani. In futuro forse qualcuno del PD  parteciperà  ancora  a cortei di pacifisti, forse alla marcia Assise-Perugia, oramai entrata tra le "feste comandate" della Repubblica, costruita attorno ad un cosiddetto tavolo della pace al quale fanno capo i volontari di Santo Egidio che non  disdegnano tuttavia donazioni, se del caso, anche da fabbricanti di armi.  
Il corteo di oggi sarà disertato da alcuni degli  esponenti più autorevoli del PD che non vogliono destare sospetti all'Ambasciata USA proprio mentre lavorano per  approntare una alternativa di governo al centro-destra italiano. Nel PD si è sollevato un vespaio di polemiche. 
Moltissimi non ci saranno e coloro che andranno al corteo vi daranno una connotazione "gentile", alcune parole non ci saranno più, tra queste: guerrafondai, imperialismo, colonialismo, capitalismo..parole oramai obsolete e veterotutto. 
Per una sorta di follia della politica le parole colonialismo ed imperialismo vengono bandite anche dai comunisti del Manifesto. Dice la Rossanda che la guerra contro Gheddafi non è stata fatta per il petrolio o la posizione geostrategica della Libia, non ha motivazioni imperialiste o neocolonialiste. La guerra è fatta perché Sarkozy non vuole perdere le elezioni in Francia e Cameron vuole stornare l'attenzione dalle sue scelte che suscitano ire sempre più furibonde tra gli studenti, gli statali, i pensionati...  Insomma, la categoria per capire quanto sta accadendo nel quadrante mediterraneo, non è quella dell'analisi "marxiana" dell'economia e della politica!
Ciò non spiega lo straordinario spiegamento di forze statunitensi nel Mediterraneo e l'impiego di centinaia di grandi missili caricati ad uranio impoverito per uccidere subito ed in futuro. Ma pare che questo particolare non interessi. Naturalmente il corteo è pervaso  tutto da profonda antipatia per Gheddafi. Non gli si perdona di essere stato amico di Berlusconi ed a questi di avergli baciato l'anello (o la mano) non ho capito bene! Non gli si perdona di avere tenuto una lezione di islamismo a cinquecento ragazze italiane e di avere portato in Italia un campionario di focosi cavallini arabi. Non gli si perdona ancora l'esibizione degli aerei italiani sul cielo di Tripoli che, tuttavia, patriotticamente tracciarono un tricolore e non il verde della jamahiria come richiesto dal Colonnello. Questo disprezzo per il Colonnello è stato alimentato da settimane di attacchi e di sfottò praticato dalla stampa nazionale e da una casta di oligarchi della politica che si sono divertiti a lungo attorno al Colonnello. Anche la Littizzetto si è lasciata andare a schernire il vestiario di Gheddafi.
Questo sentimento di antipatia è sovrastante su tutto. Non credo che ci sia molta  pietà o alcuna commozione per la piccola nazione di appena sei milioni di persone devastata dal più possente esercito alleato del mondo. Ed è, senza saperlo, un sentimento profondamente autolesionistico e masochista. La guerra contro Gheddafi è guerra contro l'Italia!  Perderemo tutto. La Libia è stata rapinata dei fondi sovrani. Circa cento miliardi di dollari proprietà del popolo che sono stati incassati dalle banche USA ed europee. L'Italia perderà il suo piedistallo economico e sociale che gli dà prosperità da quaranta anni. Si tratta di qualcosa come trenta miliardi di euro di export-import e del pane di migliaia e migliaia di operai, tecnici, ingegneri italiani. Quando gli ultimi fumi delle cannonate saranno svaniti ci troveremo più poveri, più piccoli, senza sapere dove sbattere la testa....
Il corteo vivrà di un sentimento che non promana da se stesso ma dai ricordi della gente che vi partecipa. La gente, ricordando di essere stata pacifista, no global, antinuclearista, per il lavoro, per i diritti crederà di essere sempre dentro la stessa onda emotiva e politica della sua storia. Ma le cose non stanno così. La contraddizione del corteo per la pace ma anche contro Gheddafi che oggi è il punto della lotta antimperialistica da difendere con maggiore forza c'è e resta.  Resta anche odio ed antipatia nei suoi confronti. Odio ed antipatia del tutto immotivati che in parte vengono dal substrato culturale razzista della Italia di Graziani e Magliocco che per trenta anni uccise, squartò, impalò i libici. 
Il corteo dirà no alla guerra ma il risultato sarà eguale a zero perché dirà no anche a Gheddafi cioè alla libertà ed alla indipendenza della Libia. Si sa benissimo che gli insorti sono una specie di UCK di Bengasi e che i tre che si spartiranno le spoglie di uno Stato finora prospero e felice saranno gli USA, la Gran Bretagna e la Francia.
Cortei sempre meno colorati, sempre più educati, gentili, giudiziosi, animati da palloncini e striscioni con colori leggeri in cui vengono scritte paroline gradevoli.




<< 11 feb - Foibe: dossier inedito sulla pulizia etnica
venerdì 11 febbraio 2011
di Roberto Fabbri su www.ilgiornale.it
La fondazione Italia protagonista e l'Associazione Nazionale Dalmata presentano la copia del dossier inedito «Trattamento degli italiani da parte Jugoslava dopo l'8 settembre 1943». Per la prima volta in assoluto, informa un comunicato, si potrà prendere visione del documento ufficiale del governo italiano presentato alla conferenza di pace di Parigi del 1947 per denunciare la pulizia etnica perpetrata dalle truppe comuniste del maresciallo Tito nei confronti degli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia dal '43 al '45. Il dossier sarà presentato lunedì 14 febbraio alle 17.30 presso la Sala della Mercede di palazzo Marini-Camera dei deputati, via della Mercede 55.
Attraverso immagini originali ed inedite si ripercorrerà l'orrore delle violenze ai danni di nostri connazionali.
Parteciperanno Maurizio Gasparri, presidente del Gruppo Pdl al Senato; Aldo Giovanni Ricci, sovrintendente emerito dell'Archivio di Stato-Delegato alla Memoria di Roma Capitale; Marino Micich, studioso dell'Archivio del Museo Storico di Fiume; Guido Cace, presidente dell'Associazione Nazionale Dalmata; Aimone Finestra, già Sindaco di Latina e comandante delle truppe cetniche anticomuniste sui monti della Dalmazia
[SIC]; Fabiana Santini, assessore alla Cultura della Regione Lazio.
Seguirà la proiezione di un breve documentario in memoria di Luigi Papo, storico delle Foibe recentemente scomparso. L'iniziativa editoriale è sostenuta dalla Regione Lazio - Assessorato alla Cultura. L'Associazione Nazionale Dalmata provvederà a distribuire la ristampa gratuitamente nelle scuole, dove terrà conferenze sull'argomento. >>

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Riceviamo e volentieri diffondiamo:
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Spettabili Presidente e Vice Presidente ANPI
Raimondo Ricci
Armando Cossutta
e Spettabile Responsabile Nazionale
Ufficio Stampa e Comunicazione
Andrea Liparoto
 
A norma del nostro Statuto, che tra gli altri scopi, per  la nostra Associazione  individua anche lo scopo di “tutelare l'onore e il nome partigiano contro ogni forma di vilipendio o di speculazione”, invio questa mia richiesta al fine che l’ANPI, nella sua più autorevole rappresentanza a livello nazionale, prenda posizione riguardo ai fatti che di seguito qui elenco.
 
Nell’estate dell’anno  2007 mi  capitò di sfogliare una pubblicazione che un mio conoscente aveva trovato nella bancarella di un mercatino. Tale pubblicazione dal titolo “Trattamento degli italiani da parte jugoslava dopo l’8 settembre  1943 riporta una documentazione, costituita da testimonianze e fotografie, che, in due capitoli, descrivono il “comportamento delle forze jugoslave di occupazione nei riguardi degli italiani nella Venezia Giulia e in Dalmazia” e “il trattamento dei militari italiani internati nei campi di concentramento Jugoslavi
 
La pubblicazione, priva di committente, autore e data di pubblicazione è redatta in lingua italiana e inglese. Quando ebbi modo di consultarla ipotizzai una data di pubblicazione immediatamente successiva alla fine della guerra. Tale ipotesi è poi stata confermata dalle notizie che riporto più avanti nel testo che indicano nell’anno 1947 la data della sua pubblicazione.
 
Sfogliando il fascicolo, così in maniera casuale, notai che, tra le molte testimonianze, era riportata anche quella del sottocapo meccanico Federico Vincenti. Da questa descrizione non mi fu difficile individuare in quel Federico Vincenti il partigiano Federico Vincenti, attuale Presidente del Comitato Provinciale dell’ANPI di Udine e Vice-Presidente Nazionale dell’Associazione.
 
Circa due settimane dopo questi fatti ebbi modo di acquistare il libreria il volume “Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941-1952)” di Costantino Di Sante pubblicato da Ombre Corte (2007). Questo volume riportava, in appendice, l’intero secondo capitolo della pubblicazione che avevo avuto modo di consultare poco tempo prima e che, lo ripeto, risulta priva di committente, autore, data di pubblicazione.
 
Contattai quindi il compagno Vincenti per avere da lui informazioni su quelle dichiarazioni a lui attribuite che mi stupirono (conoscendo la sua vera biografia) e che qui riporto:
 
Altri particolari in proposito si trovano riferiti nella lettera del sottocapo meccanico Vincenti Federico (cfr. doc. n. 12), già internato a Lissa, lettera dalla quale stralciamo il seguente passo: “…Al 23 dicembre 1943 entrano tra Lissa e l’isolotto di Bisevo 4.500 soldati italiani in gran parte ex prigionieri dei tedeschi. Sono adibiti ad ogni specie di lavori: come costruzione di strade, canalizzazioni, panificazione, sbarco ed imbarco merci al porto. Essi sono permanentemente sorvegliati da sentinelle partigiane.
Il vitto è scarsissimo e si compone solamente di acqua calda, pane ed un cucchiaio di marmellata per pasto. L’alloggio in due grandi camerini (ex stalle) sul nudo pavimento e solo due mezze coperte. Quasi tutti sono malati di stomaco (ulcere), di dissenteria (sirca) e di deperimento organico.
Il trattamento è disumano: qualunque manifestazione di risentimento e di italianità è stroncata con  la fucilazione. Dal  10 al 20 dicembre si calcola siano stati fucilati circa 1.800 militari i cui cadaveri vennero buttati in mare. Le esecuzioni di massa avvengono a Bisevo. Soldati, che quasi completamente nudi dimostrano stanchezza, vengono fatti oggetto di rappresaglie da parte delle sentinelle che sparano addosso colpendo alle gambe. Le cure mediche vengono rifiutate. Un medico italiano, per aver operato un soldato di appendicite perforante, fu segregato. All’ammalato furono rifiutati dai commissari politici un giaciglio e le necessarie trasfusioni di plasma, altroché il vitto e l’opportunità di assistenza da parte degli infermieri”.
 
Vincenti mi fece pervenire alcune informazioni riguardo al suo impegno nelle file dell’esercito partigiano e una dichiarazione da lui resa, a fronte di una richiesta del magistrato, ai Carabinieri. Tra le altre cose mi risulta che Vincenti abbia provveduto a inoltrare all’ANPI nazionale copia della sua biografia che, però non trovo presente nel sito web della nostra associazione.
Al Comando Legione Carabinieri di Udine alla presenza del Maresciallo Spinelli a fronte richiesta del Giudice Pititto di Roma in relazione a “Indagini sulle foibe” alla domanda inerente la sua esperienza di internato nei campi di concentramento jugoslavi dopo l’8 settembre 1943, Vincenti dichiarava in data 5 maggio 1997:
 
Non sono un internato nei campi di concentramento e nemmeno un prigioniero di guerra in Jugoslavia. Sono un combattente della guerra 1940-43, imbarcato sulla torpediniera “Sirtori”. Dal 1944 al 1945 sono stato partigiano italiano combattente all’estero (tale la qualifica assegnatami dalla Marina Italiana – Fronte Clandestino della Resistenza -) e combattente nelle file del E.P.L.J. per il periodo che va dal 25 marzo 1944 al 7 maggio 1945.(…) Nell’isola di Lissa (Vis) nella Dalmazia centrale feci parte delle flottiglie di barche addette agli sbarchi, alle incursioni ed agli attacchi sulle isole del Pelago Dalmato; fui anche addetto alla scorta e al trasporto per mare di missioni militari inglesi ed americane. Per un lungo periodo venni incaricato assieme ai partigiani dalmati al salvamento di molti soldati italiani che riuscivano a fuggire dalla prigionia tedesca e che dalla costa del continente occupato dai nazisti venivano di notte portati in salvo nell’isola di Lissa (di ciò ho dato atto in una mia pubblicazione dal titolo “Partigiani friulani e giuliani combattenti all’estero”). Questi chiedevano delle armi per poter combattere contro i tedeschi. Gli ammalati venivano invece inviati nell’Italia del sud già liberata mediante motozattere inglesi. Dal giugno 1944 nell’isola di Lissa si installò il comando supremo del E.P.L.J. con il Maresciallo Tito proveniente dalla Bosnia. Qui presero stanza anche i reparti di commandos inglesi, di piloti inglesi ed americani nel campo di aviazione allestito sulle alture dell’isola, un ospedale partigiano con medici di diverse nazionalità, missioni militari degli alleati, un battaglione partigiani italiano, facente parte della I Brigata dalmata, e(d) molti italiani che facevano parte di diverse formazioni partigiane locali. Da rilevare che chi non era partigiano doveva lavorare alla difesa dell’isola di Lissa, poiché il servizio informativo (degli) alleato prevedeva un attacco da parte dei parà tedeschi. La disciplina era assoluta ed uguale per tutti fino alle estreme conseguenze; il mangiare era limitato ad un piatto di minestra e ad un pezzo di pane al giorno per ogni partigiano o lavoratore che fosse. Anche il dormire era alla partigiana, per terra sulle rocce con una sola coperta, con l’arma al fianco”
 
Le dichiarazioni di Vincenti nonché tutta la sua storia di partigiano (pluridecorato) e il suo impegno speso nell’ambito della nostra Associazione confermano la falsità di quanto riportato nella pubblicazione citata, la ripubblicazione della quale, doveva essere preceduta da un rigoroso studio e confronto delle “Fonti” per evitare la diffusione di notizie distorte su un argomento che resta all’ordine del giorno anche nell’attualità delle vicende politiche del nostro Paese e che certuni, sfruttando magistralmente anche le ambiguità offerte dall’istituzione della “Giornata del Ricordo”, non perdono occasione di cavalcare per attaccare  la nostra Resistenza
 
In data 14 febbraio 2011  la “Fondazione Italia protagonista” e “l'Associazione Nazionale Dalmata” presentano la copia del dossier inedito «Trattamento degli italiani da parte Jugoslava dopo l'8 settembre 1943» a palazzo Marini-Camera dei deputati, via della Mercede  55 in  Roma. Per la prima volta in assoluto, informa il comunicato stampa, si potrà prendere visione del documento ufficiale del governo italiano presentato alla conferenza di pace di Parigi del 1947 per denunciare la pulizia etnica perpetrata dalle truppe comuniste del maresciallo Tito nei confronti degli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia dal '43 al '45.
A tale presentazione partecipano Maurizio Gasparri, presidente del Gruppo Pdl al Senato; Aldo Giovanni Ricci, sovrintendente emerito dell'Archivio di Stato-Delegato alla Memoria di Roma Capitale; Marino Micich, studioso dell'Archivio del Museo Storico di Fiume; Guido Cace, presidente dell'Associazione Nazionale Dalmata; Aimone Finestra, già Sindaco di Latina e comandante delle truppe cetniche anticomuniste sui monti della Dalmazia; Fabiana Santini, assessore alla Cultura della Regione Lazio.
 
LAssessorato alla Cultura della Regione Lazio e L'Associazione Nazionale Dalmata provvederanno, si evince dal comunicato stampa, a distribuire la ristampa gratuitamente nelle scuole, dove si terranno conferenze sull'argomento.
A parte l’amenità di far presentare questo documento a un “comandante delle truppe cetniche anticomuniste”, che a me risulta essere stato ufficiale del battaglione “Venezia Giulia” della divisione “Etna” della Guardia Nazionale Repubblicana condannato e quindi in seguito amnistiato dal Tribunale di Novara – Senatore nelle file dell’MSI nell’VIII e IX Legislatura, a ulteriore specifica Vi informo che ho provveduto anche a scrivere al prof. Costantino Di Sante (che mi risulta essere socio dell’ANPI di Teramo e studioso del locale ISML) relativamente alla questione ma di non aver ricevuto ad oggi alcun riscontro alla mia segnalazione.
 
Ritengo che la pubblicazione e distribuzione nelle scuole di tale testo sia di pregiudizio alla nostra Associazione, ai valori della Resistenza, oltre ad essere lesivo nei confronti del compagno Vincenti e dei tanti militari italiani che dopo l’8 settembre 1943 combatterono nelle file dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo (circa 40.000 combattenti e 20.000 caduti!).
 
Chiedo quindi che l’ANPI prenda una posizione ufficiale sulla vicenda anche per ottemperare a quanto previsto dal nostro Statuto.
 
Vi ringrazio per la cortese attenzione e confermo, per quanto superfluo, la mia disponibilità per ogni chiarimento si rendesse necessario.
 
Marcolini Provenza Luciano
Segretario ANPI di Cividale del Friuli

Cividale del Friuli li 2 Marzo 2011

[per contatti: Luciano Marcolini Provenza <lucianomarcoliniprovenza@...>]

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Sul "dossier inedito" «Trattamento degli italiani da parte Jugoslava dopo l'8 settembre 1943» si vedano anche le puntuali contestazioni contenute in:

LE FOIBE ISTRIANE
testo di Giacomo Scotti, consegnato ai margini del convegno PARTIGIANI! (Roma 7-8 maggio 2005)
https://www.cnj.it/PARTIGIANI/foibeistriane.htm

IL CASO DI CIRO RANER 
da La Nuova Alabarda (settembre 2005)