Par Branko Soban
Informazione
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Agence France-Presse - March 6, 2011
Echo of Balkans in US policy debate on Libya
WASHINGTON: As US President Barack Obama weighs possible military action in Libya, there are echoes of another policy debate that raged in the 1990s over the wars in the Balkans.
The parallels include senators demanding bold action from the air to protect civilian life, a growing humanitarian crisis and a cautious US military warning about the risks of intervention.
The Pentagon and White House at times have sent mixed signals about the likelihood of a possible no-fly zone in Libya, but US officials insist there is no military-civilian rift like the one that marked Bill Clinton's presidency over former Yugoslavia.
Defence Secretary Robert Gates and the US military's top officer, Admiral Mike Mullen, showed little enthusiasm for a no-fly zone over Libya this week, with Gates castigating "loose talk" about military action.
Their remarks came only days after Secretary of State Hillary Clinton said a no-fly zone was under consideration, but officials played down any possibility of discord and said there was no bid by the Pentagon to box in the White House.
"They were just being honest about what it involves," a defence official, who spoke on condition of anonymity, told AFP.
At a Senate hearing earlier this week, Clinton compared the policy dilemmas on Libya to the conflict in the Balkans when her husband was commander-in-chief.
The most serious policy battles over the Balkans focused on whether to escalate beyond a no-fly zone and take military action, including bombing raids, against Serb forces in Bosnia, and later in Kosovo.
The United States and its NATO allies eventually opted for air strikes after years of debate, but military commanders initially were deeply reluctant, including top officer General Colin Powell.
Frustrated with Powell's stance, the then UN ambassador Madeleine Albright once famously asked him, "What's the point of having this superb military you're always talking about if we can't use it?"
Robert Hunter, who served as NATO ambassador under President Clinton, believes the no-fly zone over Bosnia was largely a failure....
NATO air strikes, however, proved decisive, he said.
....
[T]he United States and its partners need to look for ways to push Kadhafi from power by possibly arming opposition forces, jamming communications or reaching out to members of the regime along with other Arab states.
Citing the danger posed to civilians, Senator John McCain has led calls in Congress for swift action in Libya, urging a no-fly zone and possible covert operations.
"If you want Kadhafi to go, then one of the steps among many would be to establish a no-fly zone...," McCain said Friday.
Taking action in Libya raises similar diplomatic headaches that bedeviled world powers over the Balkan conflict, as securing a UN mandate for a no-fly zone could prove elusive, said Richard Fontaine, senior fellow at the Center for a New American Security.
"It's likely Russia and China would oppose a US or NATO-led no-fly zone. So the US would have to decide whether to go ahead without a UN mandate," Fontaine said.
The no-fly zones set up in Bosnia and in Iraq in the 1990s succeeded in shutting down air power but the operations had to be sustained with numerous aircraft for years and in both cases ground forces moved with impunity.
The open-ended nature of a no-fly zone also carries the potential of gradually drawing the countries enforcing them into more direct military action, as was the case in both Bosnia and Iraq.
Unlike the Balkans, intervention in Libya carries higher strategic stakes, with unrest sweeping the oil-rich region.
Launching military action could backfire and sow anti-US sentiment in the Arab world..., Fontaine said.
"So it's a hard balance to walk on the one hand we don't want to take any counterproductive actions. But on the other we have an interest in this uprising succeeding not just because of Libya but because of the ripple effects it will have elsewhere, one way or the other," he said.
Agenzia di Informazioni russa Novosti - 4 marzo, 2011
L'opzione jugoslava per la Libia
Il presidente Barack Obama si è finalmente rivelato, dichiarando che
tutte le opzioni per la Libia sono sul tavolo, compresa l'opzione
militare.
Ora che la speranza di un rovesciamento veloce e relativamente
incruento di Muammar Gaddafi è sbiadita, la pressione sia interna
sia esterna è mirata per portare agli estremi l'azione per farlo
fuori. Si è provato con la diplomazia. Le sanzioni sono state
imposte. Non resta che l'opzione della forza militare.
"Intervento liberale"
Il vecchio termine che descriveva tali azioni, "la diplomazia delle
cannoniere", non è più politicamente corretto. Oggi si preferisce
chiamarlo "intervento liberale". Ma mentre il nome può cambiare, i
metodi no. La Libia pare seguire lo stesso percorso che è culminato
nel bombardamento NATO sulla Jugoslavija, cominciato il 24 marzo,
1999, dopo l'imposizione di una 'no fly zone'.
Gaddafi non è certamente persona piacente. Si può pure disprezzare
l'uomo. Ma i suoi avversari della comunità internazionale vanno
oltre, utilizzando un arsenale molto familiare di inganno e
d'astuzia.
Il procuratore del Tribunale Penale Internazionale Luis Moreno-
Ocampo ha detto il 3 marzo che l'ICC (TPI n.d.t.)investigherà il
dirigente libico Muammar Gaddafi e la sua cerchia, compresi alcuni
dei suoi figli, per possibili crimini contro l'umanità nella
repressione violenta sui contestatori antigovernativi.
Opportunamente, il Consiglio di sicurezza ONU aveva approvato
l'investigazione il 26 febbraio, presupposto necessario, poiché la
Libia non è firmataria dello Statuto di Roma del Tribunale Penale
Internazionale.
L'aspetto più interessante di questo è comunque che la risoluzione è
stata approvata da 15 su 15 dei membri del Consiglio di sicurezza,
anche se gli Stati Uniti e la Russia non hanno ratificato il
trattato del ICC, non riconoscono la sua giurisdizione e non sono
quindi firmatari legali, mentre la Cina non riconosce del tutto il
tribunale.
Gli Stati Uniti hanno insistito anche che la risoluzione sia
emendata per includere una clausola che esenta i suoi cittadini
dalla giurisdizione del tribunale. E' una prudente ma ipocrita
mossa, per fornire copertura agli Stati Uniti qualora decidano di
schierare truppe in libia in caso di partecipazione ad un
'intervento umanitario'.
Opzioni
Gli Stati Uniti e la NATO hanno cominciato a riunire una forza
d'attacco vicino a Libia all'inizio di febbraio. Le navi d'assalto
anfibie USS Kearsarge e USS Ponce e il sommergibile nucleare
Scranton sono passati attraverso il Canale di Suez e hanno raggiunto
il Golfo libico di Sidra entro marzo 4. Fanno parte del gruppo
comandato dalla portaerei USS Enterprise, che si ritiene imbarchi 42
elicotteri. La Libia è dentro il suo raggio d'azione.
Fino ad ora, solo la Russia e Cina si sono dichiarate contrarie ad
un intervento militare. Gli altri membri permanenti del Consiglio di
sicurezza insistono che tutte le opzioni sono sul tavolo, pur
riconoscendo che qualunque intervento deve essere approvato dalle
NU.
L'inchiesta per l'approvazione delle NU è un rituale essenzialmente
insignificante ma tuttavia politicamente indispensabile, che sempre
precede le violazioni del diritto internazionale. La stessa cosa è
successa prima dell'Operazione Forze Alleate NATO (l'Incudine
Nobile) in Jugoslavia.
Nella primavera 1999, Russia e Cina hanno bloccato l'approvazione di
un'operazione militare in Jugoslavia, ma la NATO (Organizzazione del
Trattato del Nord Atlantico - North Atlantic Threate Organization
n.d.t.) ha comunque bombardato il paese sotto l'autorità
assegnatagli dal suo specifico Trattato. Ad ogni modo,
un'interpretazione larga del Trattato consente quasi qualunque tipo
di intervento in qualunque paese.
La Jugoslavia non ha attaccato uno stato di membro NATO e non ha
minacciato quindi l'alleanza. La decisione di bombardare la
Jugoslavia è stata fatta dal Presidente Democratico Bill Clinton.
Alcuni ritengono che Clinton intendesse soltanto 'scrollare il
cane', usando l'intervento in Jugoslavia per distrarre gli
statunitensi dallo scandalo Lewinsky ed evitare il rischio di
incriminazione che affrontava per aver mentito al Congresso sulla
faccenda.
Barack Obama non è coinvolto in alcuno scandalo ed è impegnato già
in due guerre - in Afganistan ed Iraq. Necessita fortemente di
aggiungerne una terza. Ma aiutare i ribelli libici ad estromettere
Gaddafi non necessariamente costringe ad una guerra...
D'altra parte, Obama affronta un problema che potrebbe colpire gli
interessi americani più direttamente che in Jugoslavia: la rapida
crescita del prezzo del petrolio minaccia di ridurre la ripresa
economica USA, e con essa le sue probabilità di rielezione per
l'anno prossimo.
Un po' più di sangue potrebbe aggiustare il trucco
L'invio delle navi da guerra in Libia è solo una dimostrazione di
forza per fare pressione su Gaddafi. Gli Stati Uniti e la NATO per
intervenire militarmente hanno bisogno di una convincente ragione (o
pretesto).
L'invasione dell'Afganistan è stata giustificata dagli attacchi
dell'11 settembre. Il Presidente Bush è stato visto come non avere
altra scelta. Ma non c'era invece alcuna ragione convincente per
invadere l'Iraq, c'era soltanto il pretesto prefabbricato che Saddam
Hussein perseguisse l'acquisizione di armi di distruzione di massa.
Fino ad ora, non ci sono validi motivi legali per giustificare
un'invasione della Libia.
Comunque, Gaddafi potrebbe fornire la giustificazione. Nessuno
nell'Ovest ha detto che un intervento militare sia stato
pianificato, ma nessuno l'ha nemmeno negato. I politici battono il
tamburo per la guerra, dicendo che un'invasione non può essere
esclusa se lo spargimento di sangue in Libia continua.
I recenti reports dallal Libia mostrano che le forze leali a Gaddafi
attaccano le città controllate dalle forze ribelli, e che il numero
di vittime è nell'ordine delle centinaia. Se l'Ovest continua a fare
pressione su Gaddafi, cosa che i repubblicani negli Stati Uniti
richiedono apertamente, verrà sparso sangue innocente a sufficienza
per giustificare un'invasione.
Le preparazioni militari in corso nel Mediterraneo vanno oltre un
mero ridispiegamento di navi da guerra americane "nel caso che...".
Queste preparazioni hanno sempre una massa critica - un limite oltre
il quale la guerra diventa inevitabile.
Ci sono sufficienti incentivi materiali e finanziari per
attraversare questa linea, e dopotutto, le navi da guerra
posizionate davanti alla costa libica non sono giochi di bambini.
L'unità militare USS Kearsarge è uno dei vascelli da assalto più
grandi del mondo della sua classe. Imbarca dozzine di elicotteri,
missili, mezzi da sbarco supportati da 2.000 marines. La nave è
stata usata nell'operazione jugoslava nel 1999 per il dispiegamento
di marines, truppe da ricognizione e forze speciali.
Anche l'USS Ponce ed il sommergibile nucleare Scranton furono
utilizzati in Jugoslavia. I sommergibili di tale classe sono armati
di missili da crociera e sono progettati per sbarcare segretamente
truppe e per condurre operazioni sovversive (nell'originale:
subversive, cioè sovversive, illegali - ndt).
Gli aerei che hanno bombardato la Jugoslavia avevano come basi la
portaerei USS Theodore Roosevelt, le basi terrestri italiane e
francesi e le portaerei schierate da Italia, Francia e Gran
Bretagna. Un dispositivo militare navale ed aereo simile è stato
dispiegato di fronte alla Libia, più vicino di quanto fu fatto in
Jugoslavia.
Nel frattempo, Londra ha annunciato di aver spedito nel sud-est
della Libia un'unità SAS per il recupero/evacuazione di circa 20
operai petroliferi (il SAS è una forza d'elite paragonabile ai
reparti statunitensi U.S. Navy SEALs o alle Unità antiterrorismo
Alpha delle forze speciali russe).
Questo potrebbe essere appena l'inizio.
Perché dico no all’intervento in Libia
Un intervento militare americano, inglese, Nato o comunque straniero in Libia non sarebbe in alcun modo accettabile. Per motivi di principio e per ragioni molto concrete. Per il principio dell’autodeterminazione dei popoli sancito solennemente a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti gli Stati del mondo. Per il principio di diritto internazionale di “non ingerenza negli affari interni degli altri Paesi”. E infine perché gli stessi rivoltosi libici, pur essendo in inferiorità militare rispetto ai mezzi di cui dispone Gheddafi, hanno dichiarato che non lo vogliono. “È una questione che deve essere risolta solo fra noi libici”. Capiscono benissimo che un intervento americano sarebbe un modo per mettere il cappello sulla loro rivolta e non vogliono aver versato e versare il loro sangue per vedersi imporre, alla fine, una “pax americana”.
Non tocca agli americani stabilire chi ha torto e chi ha ragione in Libia. Sarà il verdetto del campo, il sacrosanto verdetto del campo di battaglia, a deciderlo. Così come non toccava agli americani nel conflitto kosovaro-serbo, dove si confrontavano due ragioni: quella dell’indipendentismo albanese e quella dello Stato serbo a mantenere l’integrità dei propri confini e la sovranità su una regione, il Kosovo, che nella storia di quel Paese è considerata, come da noi il Piemonte, “la culla della Patria serba”. Gli americani decisero invece che le ragioni stavano solo dalla parte degli indipendentisti albanesi e, ponendo un precedente pericolosissimo, bombardarono per 72 giorni una grande capitale europea come Belgrado (naturalmente oggi in Kosovo c’è la più grande base militare americana del mondo ed è stata perpetrata la più colossale “pulizia etnica” dei Balcani: dei 360 mila serbi che vi risiedevano ne sono rimasti solo 60 mila).
Quando sento parlare di “diritti umani” io metto, idealmente, mano alla pistola. Perché vuol dire che si sta per aggredire qualcuno. Come è avvenuto in Afghanistan, dove per imporre alle donne di liberarsi del burqa, esportare la democrazia e cacciare i talebani che avevano almeno assicurato a quel Paese sei anni di pace in tanti di guerra, l’occupazione Usa-Nato ha provocato, direttamente con i bombardamenti aerei a tappeto e indirettamente per le reazioni della guerriglia, 60 mila vittime civili mentre il 40% dei ricoverati in ospedale sono bambini al di sotto dei 14 anni. Un perfetto“intervento umanitario”.
L’altro ieri, in un agguato talebano, è morto un alpino. I nostri comandi militari la devono smettere di dirci menzogne. Hanno affermato che i tredici mezzi corazzati, su cui viaggiava anche il tenente Massimo Ranzani, erano di ritorno dal villaggio di Adraskan dove avevano “prestato assistenza medica ad alcuni ammalati”. Ora, per “prestare assistenza medica ad alcuni ammalati” non ci si muove con tredici blindati. Oppure la situazione in Afghanistan è talmente compromessa che anche per un’operazione così semplice ci vuole una protezione militare imponente non solo nei confronti dei talebani, ma delle reazioni della popolazione. “E quando tu devi temere la popolazione qualche domanda dovresti pur portela” mi ha detto Cecilia Strada che, con Emergency, in Afghanistan è di casa.
Gli italiani si meravigliano di essere colpiti mentre svolgono “azioni umanitarie”. Nel dicembre 2007, quando un militare italiano fu ucciso e altri tre feriti mentre stavano riassestando un ponte nella valle di Laghman, il principale portavoce del Mullah Omar, Oari Yusaf Ahmadi, descritto come“giovane, gentile, cortese”, al giornalista del Corriere Andrea Nicastro che gli obiettava che gli italiani volevano solo fare un’opera di bene, rispose seccamente: “Colpiremo ancora gli italiani. Non ci interessa se distribuiscono elemosine o sparano. Sono alleati degli americani e quindi invasori. Se ne devono andare. Prima lo capiscono e meglio sarà per loro”.
In un recentissimo reportage, La terra dei Taliban (settembre 2010), il giornalista inglese Jonathan Steele, del Guardian, riferisce che dopo dieci anni di occupazione tutti gli afghani, talebani e non, pashtun, tragiki, hazara, gente delle campagne e persone colte delle città, uomini e donne, persino le professioniste che sono state le più sacrificate dalla rigida interpretazione talebana della sharia, vogliono una cosa sola: che gli stranieri se ne vadano e poter risolvere da soli, fra loro, fra afghani, le proprie questioni.
Mentre persino il presidente Berlusconi mostra qualche perplessità sulla missione afghana, i ministri La Russa e Frattini continuano a ripetere come un disco rotto che “siamo legati ai nostri impegni internazionali”. È una menzogna. Gli olandesi che, a differenza nostra, si sono battuti bene nella zona forse più pericoloae di tutto l’Afghanistan, nell’Urozgan, patria del Mullah Omar, in Helmand, se ne sono andati nell’agosto 2010 dopo aver perso 26 uomini, fra cui il figlio del loro comandante Van Hum, quasi tre volte più degli italiani in proporzione al loro contingente di mille effettivi. Entro il 2011 se ne andranno i canadesi, che hanno combattuto anch’essi in Helmand perdendo, al luglio 2010, 151 uomini su 2800. Nel 2012 sarà la volta dei polacchi. Solo noi dobbiamo rimanere a fare i cani fedeli degli americani?
Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2011
Non ho commenti. (Ma bisogna far qualcosa)
http://www.youtube.com/verify_age?next_url=http%3A//www.youtube.com/watch%3Fv%3Dzn9nbAQa_vg
http://www.balcanicaucaso.org/content/download/58488/548452/file/kosovo_yellow%20house_2003.pdf
http://balkans.courriers.info/article16834.html
http://balkans.courriers.info/article16928.html
Delo
Trafic d’organes au Kosovo : « à l’Ouest, on savait très bien ce qui se passait »
Traduit par Oga Fej
lundi 21 février 2011
Pas de langue de bois pour Dick Marty, le rapporteur du Conseil de l’Europe à l’origine du rapport explosif sur le présumé trafic d’organes de l’UÇK. Pouvoir kosovar clairement lié au crime organisé, absence totale de protection des témoins, dysfonctionnements multiples des missions internationales : il pointe sans faux-semblants tout ce qui empêche, selon lui, de faire éclater la vérité au grand jour. Interview vérité.
Les révélations de Dick Marty sur le trafic d’organes au Kosovo ont fait grand bruit en Europe. Certains y voient un scandale sans précédent et d’autres des sous-entendus politiques clairs.
Pourtant, c’est Dick Marty lui-même qui a été le plus choqué par les réactions de l’opinion publique. Et le Suisse, connu pour ne pas avoir la langue dans sa poche, d’expliquer : « Au cours des dernières années, plusieurs dizaines de témoins ont été tués au Kosovo après avoir fait des révélations sur les crimes commis or, personne ne s’est indigné en Europe de ces assassinats. Tout le monde s’est tu. Voilà le vrai scandale ! Dans mon rapport ne sont évoqués que des faits connus de nombreuses personnes et cela, depuis fort longtemps. ».
La guerre du Kosovo a fait de nombreuses victimes et de nombreux disparus n’ont pas encore été retrouvés. D’après les données de la Comité international de la Croix Rouge (CICR), leur nombre s’élèverait à 2.000 ; il s’agirait pour la plupart d’Albanais du Kosovo. Quelques 470 personnes ont disparu après le 12 juin 1999, date de déploiement de la KFOR ; parmi elles, 95 Albanais du Kosovo et 375 Serbes. C’est sur le sort de ces victimes que s’est penché le rapporteur du Conseil d’Europe, Dick Marty.
Sa double expérience de procureur et d’homme politique lui a permis de frapper habilement et de dégoter des données que de nombreux officiels américains et européens dissimulaient consciencieusement depuis des années. Il a ainsi attaqué l’Armée de Libération du Kosovo (UÇK) et l’actuel Premier ministre, Hashim Thaçi. Ce dernier, en tant qu’ancien chef du groupe dit de Drenica est soupçonné au même titre que plusieurs de ses proches collaborateurs, de crime organisé, d’exécutions de prisonniers et de trafic d’organes. Les organes étaient prélevées en Albanie, sur les prisonniers exécutés, et revendus ensuite au marché noir.
Delo (D.) : Dans votre rapport, vous citez des noms, une démarche qui ne vous était pas coutumière jusqu’à présent. Pourquoi cette décision ?
Dick Marty (D. M.) : J’avais conscience du tollé que cette démarche soulèverait. Et pourtant, j’ai décidé de le faire car tous ces noms, y compris celui du Premier ministre Hashim Thaci, sont cités depuis des années dans les télégrammes diplomatiques, les rapports de police et ceux des services secrets aussi bien américains, qu’anglais, italiens, allemands, grecs…Bref, on savait très bien à l’Ouest dès le départ, ce qui se passait au Kosovo et pourtant, personne n’a réagi. Ca ressemble trait pour trait à ce qui se passe actuellement en Tunisie et en Égypte. Tout le monde savait que Ben Ali n’était qu’un gangster qui a volé avec sa famille tout ce qui pouvait être volé. Tout le monde savait également qu’Hosni Moubarak n’était qu’un dictateur qui bafouait depuis des décennies les droits de l’homme. Et pourtant, la sphère politique occidentale s’est tue toutes ces années. Ce n’est que maintenant qu’elle s’est mise à parler d’un gangster tunisien et d’un dictateur égyptien.
D. : Est-ce qu’on s’est comporté de même avec Hashim Thaçi ?
D. M. : Tous savaient ce qu’il avait fait mais tous préféreraient encore se taire. Prenez par exemple Bernard Kouchner, premier chef de la Minuk et ancien ministre des Affaires étrangères : lorsqu’un journaliste lui a demandé s’il était au courant pour le trafic d’organes au Kosovo, il a d’abord éclaté de rire avant de parler d’allégations absurdes. Un tel comportement révèle bien une personnalité. C’est étonnant que jusqu’à présent, personne ne se soit penché sur la question. La méthode est pourtant simple. Tous ceux qui sont au pouvoir, bien que très riches, ne cessent de se plaindre de leurs salaires ministériels de misère. Et d’où leur vient donc leur argent ? La police italienne a commencé sa lutte anti-mafia en se posant cette question simple et c’est ainsi qu’elle a pu d’ailleurs procéder à de nombreuses arrestations. Al Capone lui-même s’est retrouvé à purger une peine de 11 ans de prison non parce qu’il avait tué mais parce qu’il n’avait pas payé ses impôts. Et encore, il avait failli échapper à la condamnation si le juge n’avait pas décidé de convoquer un nouveau jury la veille du verdict, après avoir découvert que les hommes de main du prévenu avaient corrompu le premier.
D. : Pourquoi-a-on le sentiment que les instances internationales ont essayé d’éviter de soulever ce problème de corruption au Kosovo ? Est-ce que cela n’a pas été une mauvaise approche ?
D. M. : Beaucoup de raisons expliquent ce comportement. Lorsque les forces de l’Otan ont bombardé la Serbie, elles ne disposaient pas de troupes propres sur le terrain et leur meilleur allié était l’Armée de Libération du Kosovo, avec laquelle elles avaient tissé en conséquence des liens étroits. À l’époque l’attention médiatique était focalisée sur les crimes de Milošević et de l’armée serbe. Le schéma était simple : d’un côté on avait des assassins serbes et de l’autre, des victimes innocentes albanaises. Mais la réalité n’était pas aussi manichéenne et le véritable tableau des événements est bien plus complexe. Après le 12 juin 1999, une fois que les bombardements ont cessé, l’Otan a commencé à prendre en main la surveillance du territoire du Kosovo. L’UÇK était alors le seul maître de la région. Il ne faut pas perdre de vue que ce n’était pas une armée ordinaire, structurée, dotée de généraux et d’une hiérarchie stricte. C’était un ensemble de groupuscules ravagés par de permanentes luttes internes. C’était une période terrible pour les Serbes, mais aussi pour les Albanais. Bon nombre de ces derniers ont tenté par tous les moyens de modifier la date de décès de leurs proches car seuls ceux tombés avant le 12 juin pouvaient prétendre à une aide financière ainsi qu’à une retraite. Ceux qui ont été tués après le 12 juin n’avaient droit à rien. Attention, le changement de la date de décès était aussi une question d’honneur car les morts d’avant la date fatidique étaient considérés comme des héros et ceux d’après, comme des traîtres.
D. : Les interlocuteurs kosovars vous ont-ils aidé au cours de l’enquête ?
D. M. : Non. Cependant, j’ai été très bien accueilli à Pristina. Bien que les instances officielles ne m’aient fourni aucune information, elles se sont occupées de ma sécurité. C’était pareil en Albanie. Le point de vue de Tirana était très clair : l’Albanie n’a jamais fait partie de la Yougoslavie ni n’a pris part au conflit, par conséquent, elle n’avait ni l’intention ni la motivation de participer à l’enquête. Bien entendu, les faits disent le contraire. On sait très bien aujourd’hui que l’UÇK menait également des opérations en territoire albanais et qu’elle y avait ses bases arrières et ses prisons. Des détenus ont été exécutés de l’autre côté de la frontière. Des cimetières ont été découverts.
D. :Vous vous êtes rendus en Albanie. Avez-vous pu visiter la tristement célèbre « maison jaune » dans le village de Rripe, où auraient-été « opérés » les prisonniers exécutés ?
D. M. : Il n’y avait pas besoin d’y aller car il ne reste plus aucune preuve là-bas. De plus, cette malheureuse « maison jaune » n’est qu’un petit morceau d’une mosaïque bien plus complexe. Certains de mes témoins s’y sont toutefois rendus.
D. : Une équipe d’enquêteurs du tribunal pénal international pour l’ancienne Yougoslavie a détruit toutes les preuves qu’elle a trouvé dans cette « maison jaune ». Etait-ce un acte délibéré ?
D. M : Des rumeurs sur le trafic kosovar d’organes ont commencé à filtrer dès 2003. Des représentants de la Minuk et du tribunal pénal international pour l’ancienne Yougoslavie ont été mandatés en 2004 afin de procéder à une inspection approfondie de la « maison jaune ». Ils ont été accompagnés de journalistes. Les enquêteurs ont retrouvés dans les parages de la maison, des traces de sang, des médicaments, des seringues et du matériel médical. Les membres de la famille K. qui habitait cette maison, ont été très contradictoires dans leurs propos. Les hommes ont affirmé que les locaux servaient d’abattoirs alors que les femmes disaient y avoir accouché.
D. : Ces propos contradictoires n’avaient donc choqué personne à l’époque ?
D. M : Il semblerait que non. Les enquêteurs ont recueilli les indices matériels et les ont remis au bureau de la procureure générale. Je me suis entretenu avec Carla Del Ponte en 2009. Elle m’a parlé de la « maison jaune » et m’a également fourni beaucoup d’autres informations. Elle m’a notamment parlé des camps de l’UÇK et de ses entretiens avec les personnes en charge des prisonniers. Elle a aussi mentionné les preuves trouvées en Albanie. Pourtant, alors que j’étais venu à la Haye pour voir de mes yeux les indices ramassés dans la « maison jaune », on m’a dit que n’étant pas considérés comme importants, ces derniers avaient été détruits. C’était une décision étonnante. En fait, les indices avaient été détruits pendant le mandat de Carla Del Ponte mais la procureure n’en avait jamais été informée. On m’a même expliqué que c’était une procédure normale.
D. : Et a-t-on réussi à vous en convaincre ?
D. M. : Absolument pas ! Les preuves ne peuvent pas être détruites aussi arbitrairement. Cela ne se fait nulle part.
D. : Et pourquoi ?
D. M. : Simplement parce qu’il aurait été possible au cours des deux, trois années suivantes, de rassembler de nouvelles preuves et de nouveaux témoins qui auraient pu parler de ce qui s’était passé en Albanie et dans cette maison. C’est pour cela qu’en général, ce genre de preuves n’est détruit qu’au bout de vingt, voire trente ans. À La Haye, on m’a même avoué que cette démarche avait été une erreur. Une erreur involontaire. On aurait détruit ces preuves à cause de la puanteur qui s’en dégageait. Pour moi, c’est une excuse incroyable et inacceptable.
D. : Est-ce que Carla Del Ponte vous a aidé de manière plus concrète ?
D. M : Non, elle m’a simplement confirmé certaines choses que j’avais déjà mises à jour.
D. : Et qu’en est-il de la Serbie ? Vous-a-t-elle aidé ?
D. M. : Le procureur serbe en charge des crimes de guerre, Vladimir Vukčević, prétend maintenant nous avoir beaucoup aidés et s’être livré à une véritable quête de la vérité. Évidemment, ce n’est pas vrai. Je n’ai eu aucun soutien de Belgrade. Les sources que j’ai utilisées pour rédiger le rapport ne proviennent ni de Serbie ni de Russie comme l’ont laissé entendre certains. Bien sûr, j’ai espéré bénéficier de l’aide des services secrets russes mais cela n’a pas été le cas.
D. : Vous pensez que Moscou en sait beaucoup plus sur les événements du Kosovo ?
D. M. : Je crois que les Russes savent beaucoup de choses, mais encore une fois, je n’ai pas eu d’informations de leur part. Ils n’ont même pas cherché à me contacter. Toutes les informations fournies dans le rapport proviennent du Kosovo et de l’Albanie.
D. : Et qu’en est-il de l’Europe ? Quels ont été les rapports des représentants de l’Eulex à votre égard ?
D. M. : C’est assez compliqué. Ils y a des personnes très compétentes au sein de l’Eulex et désireuses de bien remplir leurs fonctions. Seulement, les conditions dans lesquelles elles travaillent sont détestables et inacceptables. Il n’y a aucune confiance. Tous les traducteurs sont des locaux et de manière générale, il y a beaucoup de personnel local. Du coup, il y a régulièrement des fuites d’informations, même les plus confidentielles. Par exemple, les représentants de l’Eulex ont accès aux bases de données de la police kosovare et donc aux informations relatives aux propriétaires des véhicules mais cet accès ne leur sert à rien parce que la police sait immédiatement qui a cherché quoi dans la base. L’autre problème est le turnover du personnel.
D. :Les membres de la mission Eulex changent souvent ?
D. M. : Quelqu’un qui vient de Belgique ou d’Irlande a besoin de plusieurs mois pour se familiariser avec l’environnement, le poste et les collègues or, à peine cette phase de familiarisation est-elle terminée, que cette personne doit déjà repartir. C’est pour cela que les résultats sont aussi mauvais. Aucune mission internationale n’a investi autant d’argent dans ses employés qu’Eulex. Et pourtant, il n’y a aucun résultat. En fait l’Eulex crée ses propres contradictions au Kosovo. Un chauffeur albanais qui travaille pour la mission touche mille euros alors qu’un policier kosovar en touche trois cents et, un juge quatre cents. C’est ce que touche une femme de ménage dans les organisations internationales.
D. : Donc l’Eulex est mal placée pour enquêter sur les crimes que vous évoquez dans votre rapport ?
D. M. : Si j’étais avocat, je conseillerais à aux témoins de ne jamais témoigner devant l’Eulex. Non pas parce que je ne fais pas confiance aux membres de la mission, mais parce que ces derniers travaillent dans un environnement qui ne peut assurer leur protection. Selon la procédure du tribunal pénal international de la Haye pour l’ancienne Yougoslavie, l’identité des témoins doit être dévoilée 30 jours avant le début de la procédure. C’est délicat dans le cas du Kosovo car aucune mesure légale de protection des témoins n’y existe et que donc, pendant ces 30 jours, beaucoup d’« accidents » peuvent se produire. On a recensé des cas d’intimidation de témoins qui ont abouti à des rétractations. Dans le procès de Dautu et de Ramush Haradinaj, la défense avait cité 40 témoins ; 10 d’entre eux ont été assassinés (Lire notre article : Kosovo : comment la LDK fait taire les témoins « protégés » du procès Haradinaj). C’est un vrai problème pour les instances judiciaires nationales et internationales. C’est l’assassinat de témoins qui est un scandale, pas mon rapport !
D. : Pourtant, chose étrange, personne n’en parle ?
D. M. : Parce que les gens ont peur. Le Kosovo est un petit État. Tout le monde se connaît, du coup, on est dans un environnement « incestueux ». J’ai été littéralement abasourdi de voir que certains anciens membres de l’UÇK occupaient maintenant des postes payés par le gouvernement kosovar. Bien sûr, ce n’est pas illégal, mais une telle situation ne peut refléter une politique indépendante et intègre. L’ancien n°2 de l’UÇK est aujourd’hui sur la liste des employés d’Haradinaj et un ancien membre de la Minuk est conseiller de Thaçi. Est-il vraiment possible d’avoir une procédure judiciaire honnête dans un environnement semblable ?
D. : Le Premier ministre Hashim Thaçi a menacé de rendre public le nom de tous les témoins qui vous ont parlé.
D. M. : Ce sont des menaces, des pressions que nous avons déjà évoquées. C’est inadmissible.
D. : Il a également dit qu’il vous poursuivrait en justice. Avez-vous déjà reçu une convocation au tribunal ?
D. M. : Non, pas encore. Mais j’ai l’habitude de ces démarche, ce n’est pas une nouveauté pour moi. Les Polonais m’avaient également menacé de poursuites lorsque j’ai rendu mon rapport sur les opérations secrètes de la CIA mais, quand la vérité a commencé à émerger, ils ont, semble-t-il, changé d’avis.
D. : D’où viennent vos témoins ? Du Kosovo ?
D. M. : Du Kosovo et d’Albanie. Je ne peux pas en dire plus. Ils ne sont en sécurité nulle part.
D. : Comment vous vous sentez, vous dans ce tourbillon ? Avez-vous toujours reçu le soutien du Conseil de l’Europe ?
D. M. : La préparation du rapport sur la CIA a été bien plus facile. J’ai pu collecter les informations grâce à l’aide des personnes travaillant pour la CIA ou en étroite collaboration avec cette dernière. La CIA n’est pas aussi dangereuse qu’elle le semble de prime abord. Elle n’avait pas l’intention de tuer mes témoins. Ni moi-même d’ailleurs. Le Kosovo est une toute autre affaire. La structure sociale y est totalement différente. Le pouvoir y est étroitement lié aux organisations criminelles et se présente sous forme clanique. La vendetta est encore en vigueur, comme autrefois en Sicile.
D. : Le Premier ministre albanais, Sali Berisha, a aussi été très critique vis-à-vis de votre rapport ?
D. M. : Il a habilement utilisé mon rapport à des fins de politique intérieure. Il l’a présenté comme une menace venant de l’extérieur. C’est un vieux refrain politique. Les hommes politiques sont toujours en quête d’ennemis extérieurs et intérieurs, qui leur permettraient de mieux dominer la scène politique nationale. Sali Berisha est actuellement confronté à une situation politique difficile ; c’est pour cela que mon rapport lui est bienvenu.
D. : Vous dites vous-même ne pas faire confiance à l’Eulex. Quel serait le rôle des Américains alors ?
D. M. : Je fais davantage confiance aux Américains qu’aux Européens. Pourquoi ? Parce que leur cote de popularité est plus grande dans les Balkans. Je crois qu’une solution à la question du Kosovo, venue des Etats-Unis, serait bien plus facilement acceptée qu’une décision de l’UE. En fait, Bruxelles ne compte pas vraiment ici. L’Eulex non plus d’ailleurs. Ici, on est prêt à écouter que les Américains. Et le Département d’État planche vraiment sur la question. La déclaration de Thomas Countryman, conseiller de Hilary Clinton, et bon connaisseur des Balkans est significative ; ce dernier a déclaré que le Département d’Etat prenait très au sérieux mon rapport et était prêt à collaborer. C’est une donnée importante. Thaçi a été porté au pouvoir par le parti démocrate représenté par Richard Holbrooke et Madeleine Albright. L’opposition dit que le sauvetage de Thaçi est absurde car il n’est plus possible de coopérer avec un homme politique qui depuis quinze ans ne crée que des problèmes. Le nom de Thaçi est en effet cité en permanence dans les rapports des services secrets étrangers comme étant lié au crime organisé. Qui va par conséquent remplacer Thaçi ? Même à Washington, on est incapable de répondre à cette question.
D. : Le fait est aussi que le Kosovo est en réalité un projet américain. Washington était le plus fervent défenseur de l’indépendance de la région. L’UE avait-elle véritablement son mot à dire ?
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Una foto di soldati italiani che fucilano civili sloveni, probabilmente per rappresaglia dopo avere subito un attacco, sul manifesto del Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe e dell'esodo? Impossibile. Eppure, sulla locandina della celebrazione del Giorno del ricordo organizzata dal Comune di Bastia Umbra (provincia di Perugia) in collaborazione con l'Unione degli istriani, con la partecipazione di Nino Benvenuti, è stata pubblicata una foto che testimonia esattamente il contrario di quello che si vuole celebrare: non un gesto di violenza partigiana, un civile che viene gettato in foiba o una famiglia costretta a lasciare la propria casa, bensì nientemeno che un plotone d'esecuzione italiano che sta fucilando cinque civili.
Il clamoroso errore - se di errore si è trattato - è stato scoperto e denunciato dall'Iniziativa civica per il Litorale, che ha definito «perverso, offensivo, ingobile e disgustoso questo tentativo di manipolare la storia». L'Iniziativa ha inviato una dura lettera di protesta all'Unione degli istriani e al Comune di Bastia Umbria, chiedendo un intervento deciso anche da parte dello Stato sloveno. «Presentare la fucilazione di ostaggi sloveni come se i fucilati fossero italiani è assolutamente immorale» ha dichiarato Marjan Bevk, uno degli esponenti dell'Iniziativa civica per il Litorale. Sul soggetto della foto, infatti, non sembrano esserci dubbi: lo scatto risale al 31 luglio 1942 e rappresenta la fucilazione di cinque abitanti del villaggio di Dane (oggi nel comune di Loska Dolina, alcune decine di chilometri a Sudest di Lubiana) durante un'offensiva italiana. Lo conferma il Museo di storia contemporanea di Lubiana. Nei libri di storia ci sono anche i nomi di quelle vittime: Franc Znidarsic, Janez Kranjc, Franc Skerbec, Feliks Znidarsic e Edvard Skerbec. «È un tipico esempio di come gli italiani manipolano la storia. In questo sono maestri» ha tuonato Bozo Novak, dell'Iniziativa civile per il Litorale, nell'intervista rilasciata a Tv Slovenia, che ha dato ampio risalto all'episodio.
Che la cosa non doveva assolutamente accadere, è convinto comunque anche il presidente dell'Unione degli istriani Massimiliano Lacota. L'Unione, ha precisato Lacota, non ha scelto la foto, l'ha fatto il Comune di Bastia Umbra e lo sbaglio è stato scoperto quando i manifesti erano già stampati. «C'è un errore che va riconosciuto. È pazzesco - così Lacota ai microfoni della Tv slovena - che nel Giorno del ricordo, per quel tipo di manifestazione, cui ha preso parte anche Nino Benvenuti, campione di boxe di Isola d'Istria, sia stata scelta quella foto, che è un contesto completamente diverso, se non opposto». La frittata, ad ogni modo, è stata fatta.
http://www.nn-media.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=76:iniziativa-per-il-litorale-sloveno-i-deficit-di-memoria-degli-qitalianiq&catid=25:il-progetto&Itemid=53
Il messaggio del presidente Napolitano è dunque palese: il discredito del Trattato di pace e con esso il delineamento dei confini come veniva dettato dal Trattato che ha visto parteciparvi e sottoscrivervi 20 paesi alleati. Il Trattato di pace non alimentava ‘mire di annessione’ degli alleati jugoslavi, bensì rappresentava una conseguenza di ‘bilancio etnico’ accuratamente premeditato e non si trattava di ‘pulizia etnica’, della quale parla il presidente Napolitano. La provocazione è alquanto greve, per cui non possiamo riconoscere che ‘non ha senso occuparsene’.
Il discorso ostile del presidente Napolitano ha provocato delle reazioni da parte di tutte le organizzazioni patriottiche. E’ nostro dovere, per giunta, avvisare i cittadini in merito ad alcuni eventi storici traendo esclusivamente spunto da fonti italiane.
Così fu annunciato a Pola da Benito Mussolini il 22 febbraio del 1920 prima della sua ascensione al potere:
“Di fronte ad una razza inferiore e barbara come quella slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. Non temiamo più le vittime... I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani”.
Già nel settembre dello stesso anno disse durante un suo comizio a Pola:
“Per la creazione del nostro sogno mediterraneo, è necessario che l'Adriatico, che è il nostro golfo, sia in mano nostra; di fronte alla inferiorità della razza barbarica quale è quella slava".
Non trovate che queste parole parlino di ‘barbarie’ e ‘razzismo’? Ma in questo caso di quale?
Il conte Galeazzo Ciano di Cortelazzo, genero di Benito Mussolini, nonché Ministro italiano per gli affari esteri durante la guerra, scrive nel suo diario, in data 5 gennaio del 1942, di aver accolto il segretario del Partito nazionale fascista del Friuli Venezia Giulia Aldo Vidussoni. Egli riporta:
“Mi furono confidate le sue intenzioni cruente contro gli Sloveni. Intende ammazzare tutti. Gli dissi che ce n’erano un milione. ‘Non importa’, rispose risoluto ‘bisogna agire come i nostri predecessori in Eritrea, sopprimendo tutti.”
Il 31 luglio del 1941 Mussolini, ora nelle vesti del Duce, annesse con l’aggressione il sud della Drava banovina. Queste furono le sue parole in occasione dell’incontro con i comandanti militari, tenutosi a Gorizia, riferendosi alla zona occupata in Slovenia:
“Questo paese è degenerato. Si dovrà eliminare il suo frutto velenoso per mezzo del fuoco e della spada... Agiremo come Giulio Cesare con la Gallia ribelle: bruciando i paesi in rivolta, ammazzando tutti gli uomini oppure mandandoli nell’esercito, portando lontano da casa e riducendo alla schiavitù donne, vecchi e bambini ...”.
Chi in questo periodo aveva poi inscenato ‘marcie di odio e ira feroce”? Nel registro di quest’incontro conservato in archivio vi si legge un ulteriore comando del Duce: ‘Non sono contrario all’emigrazione di massa del popolo... Questi popoli si ricorderanno che la legge di Roma è inflessibile. Ordino l’applicazione di questa legge...” Si tratta o no di “pulizia etnica” o “bonifica etnica”come allora veniva denominata?
Il comandante del XI corpo dell’Armata Mario Robotti riferì ai suoi subordinati il seguente comando di Mussolini, risalente al 12 agosto 1942: “Le autorità superiori non sono contrarie alla deportazione dell’intero popolo sloveno insediandovi Italiani..., in altre parole: unificazione dei confini nazionali e politici...”.
Non vi sembra che queste parole parlino palesemente di “espansionismo” ma non di quello sloveno?
Robotti continuò a riportare il comando di Mussolini:
“Totale evacuazione quindi... Ignorate la sofferenza del popolo... Si capisce che la deportazione non esclude l’uccisione di tutti i colpevoli o dei sospettati di attività comunista...”.
“Bisogna ricostruire a qualunque prezzo la supremazia italiana ed il suo prestigio, a costo dell’estinzione di tutti gli Sloveni e della distruzione della Slovenia...”.
Per questo motivo non stupisce il comando del generale Robotti trascritto a mano dal capo di Stato Maggiore Annibale Gallo il 4 agosto 1942: “Si ammazza troppo poco!”
Troppo poco! Una dettagliata ricerca scientifica ha tuttora rilevato che le autorità italiane d’occupazione vi uccisero 1.569 Slovene e Sloveni. I nomi ed i cognomi degli ostaggi uccisi, dei condannati e dei paesani deportati accidentalmente sono archiviati nell’Istituto sloveno di storia contemporanea.
Inoltre la detta ricerca scientifica slovena ha identificato i nomi ed i cognomi degli abitanti dispersi della provincia di Trieste e Gorizia nel periodo del dopoguerra. Il presidente Napolitano ne è sicuramente a conoscenza.
La relazione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena fondata nel 1993 dai ministri Andreatta e Peterle, dopo sette anni di ricerca minuziosa scientifico-ricercativa, rileva che le autorità italiane, incluso il presidente della Repubblica d’Italia, continuano ad ignorare tutto ciò. I fatti storici anteriori al 9 maggio 1945 sono caduti nel dimenticatoio. Il rammarico e le condanne degne di rivendicazione dopo questa data sono state esaltate e drammatizzate come se non fossero legate agli avvenimenti avvenuti 20 anni fa e durante la guerra.
Citiamo solo tre constatazioni tratte dalla relazione sloveno-italiana:
“Il regime d’occupazione era fondato sulla violenza che veniva espressa quotidianamente attraverso divieti, confini, deportazioni e internamenti..., processi davanti a Tribunali militari, sequestri e distruzione di beni patrimoniali, case e paesi. Ci furono migliaia di morti: caduti nella lotta, condannati a morte, ostaggi e civili. Circa 30.000 persone sono state deportate nei campi di concentramento, la maggior parte erano civili, donne e bambini. Molti perirono dalla sofferenza”.
“Nel periodo posteriore all’8 settembre 1943 i seguaci delle forze armate italiane e dell’amministrazione civile italiana hanno potuto tranquillamente abbandonare il territorio sloveno, sostenuti addirittura dall’aiuto della gente locale.”
“...Gli abitanti del Friuli Venezia Giulia che simpatizzavano per l’Italia vissero l’occupazione jugoslava come il momento più cupo della loro storia, anche perché nelle province di Trieste, Gorizia e Capodistria essa veniva accompagnata da un’ondata di violenza che si manifestava in arresti di migliaia di persone, in gran parte Italiani, ma anche Sloveni, i quali si opponevano al piano jugoslavo politico comunista. A poco a poco alcuni arrestati venivano liberati: ci furono centinaia di condanne eseguite frettolosamente le cui vittime furono in gran parte scaraventate nelle cavità carsiche dette foibe, e inoltre un numero ingente di soldati e civili che vi soccombettero oppure vi furono uccisi durante la deportazione... “
Si tratta di tristi atti vendicativi che il nostro paese e tutti noi profondamente deploriamo e condanniamo. Ciononostante allo stesso tempo ci chiediamo chi per primo ha dato inizio all’oppressione e alle calunnie, scatenando la violenza contro gli Sloveni e particolarmente gli abitanti del Litorale sloveno.
L’abbiamo ribadito e annotato più volte e lo ripetiamo continuamente.
Tuttavia dalla parte italiana nessuno fino a oggi vi dimostrò segni di rammarico, condannando gli avvenimenti che furono alla base di quest’atto di vendetta.
Inoltre lo stato italiano sta tuttora tacitamente difendendo “i suoi eroi – i criminali di guerra” della II guerra mondiale. Si ignorano tutti gli avvenimenti notori, raccolti in documenti aggravanti nei quali vengono citati oltre 850 criminali di guerra che operavano sul territorio dell’ex Jugoslavia. In qualità di vicini degli Italiani non ci sembra che la venerazione del fascismo, dell’espansionismo, del razzismo, la sottovalutazione della razza e la superiorità per le azioni commesse rappresentino un modo per conoscere la storia del proprio paese!
Numerose prove storiche testimoniano che i soldati italiani ed i fascisti, soprattutto alti e pubblici ufficiali, erano tutt’altro che brava gente. Anche alcune autorità italiane e mass media hanno cominciato ad interessarsi da poco per mettere in luce questa parte della storia italiana, tuttavia già dall’inizio era palese che la detta questione degli avvenimenti passati non potrà essere risolta a causa dell’influsso politico e l’oppressione di gruppi politici reazionari.
Ciononostante questi avvenimenti non possono essere occultati alla giustizia, ne consegue che la responsabilità degli ufficiali italiani per i crimini commessi sui civili in Slovenia sussiste tuttora!
Quando lottiamo per il riconoscimento della colpa e il rammarico per il male commesso alla nostra gente nel periodo tra gli anni 1920 e 1943 da parte dei cittadini della Repubbblica d’Italia, sosteniamo che non è nostra intenzione citare in giudizio dei criminali anziani o deceduti, ma basterebbe che la Repubblica d’Italia chieda le sue scuse per tutto il male e i crimini commessi dai suoi militari e dai fascisti sul territorio del Litorale sloveno e della Repubblica di Slovenia.
Non vogliamo seguire un modello che è stato applicato dalla giurisprudenza italiana come nel caso della condanna degli ufficiali tedeschi nazisti che sono stati citati a giudizi in venerabile età. Mentre i criminali italiani venivano completamente dimenticati.
Perciò ci appelliamo al governo della Repubblica di Slovenia:
di chiedere espressamente all’Italia il riconoscimento definitivo che i soldati italiani, i sottoufficiali, gli ufficiali e i fascisti erano tutt’altro che brava gente e che nel periodo dal 1920 al 1943 essi commisero atti crudeli non solo nelle zone limitrofe, bensì anche in altri continenti. Chiediamo inoltre il suo pubblico rammarico e pentimento per i crimini commessi sul territorio del Litorale sloveno e della Repubblica di Slovenia.
Sosteniamo che la nuova Europa non può essere costituita sulle recidive del suo passato più cupo, rivangando lo spirito di odio, reiterando condanne unilaterali e l’espansione di qualsiasi odio e la divisione dei popoli.
Con l’evidenziamento di questo problema decennale non si è ancora giunti alla fine della lista del conflitto tra i due popoli confinanti.
Gli avvenimenti più recenti riguardanti la riduzione dei mezzi finanziari da parte del governo italiano, necessari per il funzionamento delle istituzioni dei nostri compatrioti in Italia, dimostra ancora l’inaudita mancanza di rispetto dei trattati internazionali quali il Trattato di Londra e di Osimo e la Legge sulla tutela della minoranza, approvata nel Parlamento italiano. Quindi lo stato non ottempera gli obblighi nei confronti dei suoi cittadini di etnia diversa. In questo caso a essere minacciati sono l’esistenza e il funzionamento delle organizzazioni dei nostri compatrioti nell’ambito della scuola e dei teatri, la stampa indisturbata del quotidiano sloveno Primorski dnevnik, l’uso della lingua madre in determinati campi e le scritte bilingui. In poche parole lo Stato italiano se ne infischia letteralmente a tutto quanto sottoscrisse in passato in presenza di autorità rilevanti. Tale comportamento può risultare deleterio per i nostri compatrioti, perciò non possiamo attendere che le cose capitino da sole. Reputiamo che la Slovenia sia alquanto risoluta nel presentare le sue richieste al fine di internazionalizzare la questione al più presto, non aspettando la reazione dell’Italia alla quale tutto ciò non interessa affatto.
Di questi avvenimenti ne ha già parlato il presidente della Repubblica della Slovenia, Danilo Türk, che ha inoltre avvertito ai fenomeni negativi di tali atti. Sosteniamo che i deputati europei sosterranno sicuramente le nostre richieste legittime per la risoluzione di questo problema.
Forse non è eccessivo puntualizzare l’impatto della decisione della Repubblica d’Italia sui nostri compatrioti.
La pressione della recessione generale e della crisi economica comporterà un taglio ingente delle uscite finanziarie dell’Italia. Il governo ha innanzitutto deciso che provvederà a ridurre i mezzi destinati all’educazione. E’ nota l’approvazione della riforma nel Parlamento italiano, la quale è stata applicata anche ai nostri compatrioti. Tutto ciò significa un taglio significativo dei mezzi finanziari che rappresenta quasi un colpo di grazia per i nostri compatrioti nel FVG. A rischio i posti di lavoro di numerosi maestri, professori, altro personale scolastico e numerose sezioni con il programma con lingua d’insegnamento slovena. Inoltre ci sarà un taglio notevole dei mezzi finanziari ed è prevista addirittura la chiusura di scuole elementari e medie sia slovene che bilingui. Tutto ciò avverrà nelle zone di provincia dove gli abitanti sono prevalentemente di etnia slovena. Non ci rendiamo conto come tutto ciò potrà incidere fatalmente sulla nostra comunità.
Non possiamo abbandonarci alla passività, permettendo che i nostri vicini commettano tali azioni, bensì dobbiamo rientrare in azione offrendo un aiuto ai nostri compatrioti.
Abbiamo il dovere di renderci conto di uno dei valori più nobili di ogni popolo e cioè la reazione istintiva nella lotta per la sopravvivenza della nostra cultura e della lingua madre slovena, sostenendo così i nostri compatrioti in Italia con azioni concrete, appellandoci ad autorità rilevanti slovene. Dobbiamo avvertire tutti i cittadini sloveni ed europei del pericolo minaccioso della riforma Gelmini. In questo caso siamo sostenuti unanimemente da prestigiosi intellettuali ed accademici sloveni che ci hanno sostenuti nella lotta per la tutela delle scuole slovene e dei programmi didattici in lingua slovena.
Tutti insieme ci rendiamo perfettamente conto che se al popolo viene meno l’uso della lingua e con esso la sua cultura, il fatto viene assimilato silenziosamente e ne consegue che esso muore per sempre. In questo modo potrebbero scomparire la lingua e la cultura slovena dalla penisola linguistica occidentale. Non possiamo permetterlo!
Come Iniziativa civile vogliamo stare in guardia di fronte agli avvenimenti in altri paesi confinanti quali l’Austria, l’Ungheria e altri paesi limitrofi dove vi sono insediate comunità slovene. Il nostro aiuto ai nostri compatrioti sarà sicuramente il benvenuto, per questo motivo dobbiamo mostrare e dimostrare che nel pretendere le loro legittime richieste e volontà di giustizia, essi non sono soli.
CIVILNA INICIATIVA ZA PRIMORSKO
INIZIATIVA CIVILE PER IL LITORALE SLOVENO
Presidente della Repubblica
On. Giorgio NAPOLITANO
La Repubblica di Slovenia, ed in particolare la regione del Litorale Sloveno (Primorska), stato libero e democratico, membro dell’Unione Europea sta nuovamente subendo incresciose pressioni e minacce da parte di ambienti neofascisti italiani, che gradualmente si esprimono con continue provocazioni sia verbali che fisiche. Nell’Iniziativa per il Litorale Sloveno (Civilna iniziativa za Primorsko) ci siamo opposti a questa condotta ed attizzamento di controversie tra i popoli della Slovenia ed Italia. Ci siamo opposti alle falsificazioni dei fatti storici in quanto il terrore fascista contro gli Sloveni iniziò già nel 1915 ed in particolare subito dopo il 1. Conflitto mondiale, quando l’Italia occupò con l’ingiusto Trattato di Rapallo tutta la parte occidentale della Slovenia, cioè il Litorale Sloveno (Primorska). Nel 1941 occupò metà della Slovenia, circondando Lubiana con un reticolato, trasformando la città in un lager.
Per questo motivo abbiamo deciso di informarla di questi fatti in qualità di rappresentante di uno stato vincitore nel 2. Conflitto mondiale e con ciò nostro alleato in esso.
Gli ambienti neofascisti della provincia di Trieste si aggregano nell’Unione degli Istriani con sede a Trieste. Trieste è sin dal 1945 un centro di neofascisti e punto nevralgico per l’attizzamento di odio conto gli Sloveni. Per loro, noi siamo “sciavi” (schiavi), quindi un popolo indegno nei confronti degli Italiani. L’Unione degli Istriani ha tutto il sostegno sia morale che finanziario del Comune di Trieste e del Governo della Repubblica d’Italia. Bisogna anche sapere che in Italia ci sono un milione e mezzo di neofascisti organizzati, almeno così viene riferito dalla stampa italiana.
In tempi recenti, questi circoli politici eseguono manifestazioni provocatorie sul territorio sloveno a causa di fascisti giustiziati nel dopoguerra nel maggio e giugno del 1945 a Trieste e dintorni. In Slovenia, dove il conflitto mondiale finì appena il 15 maggio e non il 9 maggio del 1945, con la resa del generale d’armata tedesco Lehr, accaddero numerose esecuzioni di appartenenti alle formazioni militari nemiche (Tedeschi, Italiani, Croati- Ustascia, Serbi-Cetnici, Tartari, Ungheresi ed altri che componevano l’esercito tedesco) e dei loro collaborazionisti, ovvero i traditori del popolo sloveno. Appena recentemente si sta scoprendo in Slovenia le necropoli di queste esecuzioni. La Slovenia desidera adeguatamente segnare queste necropoli e garantire con questo rispettoso atto di pietà nei confronti dei morti, appartenenti alle formazioni militari nemiche, e consentire ad eventuali congiunti la visita di questi cimiteri. Le commissioni non hanno ancora indagato tutte le necropoli mentre i neofascisti, riuniti nell’Unione degli Istriani, vogliono prepotentemente visitare molte voragini carsiche con la scusa che in esse sono sepolti i corpi degli Italiani. Finché le eventuali necropoli non saranno indagate e finché non sarà inequivocabilmente dimostrato che nelle voragini carsiche giacciono i corpi degli Italiani, gli abitanti ed i connazionali, riuniti nell’Iniziativa civile per il Litorale Sloveno (Civilna iniciativa “ZA PRIMORSKO”), non permetteranno ad essi queste visite. Per risolvere la situazione che si è venuta a creare, proponiamo quanto segue:
1. Desideriamo concordare le commemorazioni congiunte presso i monumenti comunemente concordati, che testimoniano gli orrori del fascismo sul territorio della Slovenia e presso i monumenti, che testimoniano gli eventi successi dopo la fine del 2. Conflitto mondiale, dopo la liberazione di Trieste.
2. Diramare pubblicamente il testo della Relazione della Commissione storico-culturale italo - slovena di Stato, che ha concluso la discussione della storia tra i due popoli dal 1880 al 1956 (La Slovenia ha diramato la relazione mentre l’Italia non la vuole).
3. La sistemazione del parco commemorativo ai condannati del 2. Processo di Trieste del tribunale speciale fascista, a Opicina presso Trieste.
Siamo fermamente convinti, che ogni Stato debba riconoscere le ingiustizie provocate sia al proprio popolo che ad altri popoli e fare il possibile per la riparazione di esse. La popolazione in Slovenia, ed in particolare sul Litorale Sloveno (Primorska) è particolarmente sensibile ai torti subiti. Il fascismo ha perpetrato su di essa una politica genocida per 26 lunghi anni, continuando in Abissinia, Libia, Grecia, Albania e in Jugoslavia.
Noi Sloveni non siamo contrari all’espressione del ricordo e della pietà verso i defunti, in particolare ai parenti e congiunti, siamo però contrari alla strumentale politicizzazione degli eventi postbellici e qualsiasi provocazione politica in tal senso.
Egregio Signor Presidente, per questo motivo abbiamo deciso nell’Iniziativa civile, che indipendentemente dalle provocazioni fin qui eseguite dall’Unione degli Istriani, proponiamo un colloquio e un accordo di organizzazione di visite dei parenti e congiunti ai cimiteri dove giacciono gli Italiani. In tal senso stiamo loro inviando una lettera, che qui alleghiamo per una Sua informazione. Desideriamo che Lei venga informato direttamente tramite nostro con il testo originale e non tramite le manchevolezze dei media.
Desideriamo inoltre comunicarle, che di questo abbiamo informato il Presidente della Russia, il Presidente degli Stati Uniti d’America, il Presidente del Governo del Regno Unito, il Presidente della Francia come nostri alleati e vincitori del 2. Conflitto mondiale ed inoltre la Sig.ra Angela Merkel, il cancelliere della Germania, lo Stato che ha chiesto scusa alla Slovenia per gli orrori commessi contro il nostro popolo durante il 2. Conflitto mondiale.
Distinti e cordiali saluti!
Civilna iniciativa »ZA PRIMORSKO«
Ajdovscina 23.03.2009
Dispiace constatare, una volta ancora, che un politico di professione, per di più di sinistra, dimostri una così scarsa conoscenza riguardo a questi due concetti, quando si parla di Cuba.
Il popolo cubano ha conquistato la propria libertà il 1° gennaio 1959, dopo una lotta di trent’anni contro il colonialismo spagnolo, poi di altri sessant’anni contro i governi o i dittatori imposti dagli Stati Uniti.
Il sistema democratico cubano ha il suo fondamento nella Costituzione della Repubblica di Cuba, approvata il 15 febbraio 1976 attraverso un referendum - con voto libero, uguale, diretto e segreto - dal 97.7 % dei voti della popolazione cubana. Lo scrutinio ha riportato questo risultato: su 5.602.973 elettori, 5.473.534 hanno votato “sì” e 54.070 “no”.
Dalla Costituzione deriva la Legge Elettorale che stabilisce che ogni cittadino cubano può essere eletto Delegato a un’Assemblea Municipale o a un’Assemblea Provinciale purché abbia compiuto 16 anni. Per essere eletto Deputato all’Assemblea Nazionale (Parlamento) occorre che abbia compiuto 18 anni.
Il Partito Comunista di Cuba non partecipa alle elezioni e non propone candidati.
La democrazia cubana è un sistema che garantisce ai propri cittadini non solo la possibilità di eleggere e di essere eletti, ma anche un ruolo attivo nella proposizione, nella scelta e nel controllo dell'operato dei propri rappresentanti istituzionali.
Ogni carica istituzionale, a qualsiasi livello, decade al termine di un mandato stabilito da una Costituzione approvata direttamente dal popolo cubano. Attraverso il processo elettorale i cittadini cubani possono decidere di confermare o di sostituire i propri rappresentanti.
L’aspetto economico non incide minimamente sul risultato delle elezioni, in quanto ogni candidato non deve spendere neppure un centesimo per la propria propaganda elettorale. Inoltre, chi viene eletto non ha nessun tornaconto economico dato che continua a percepire lo stesso stipendio, come se si trovasse al suo posto di lavoro.
La presenza di un cospicuo numero di donne elette al Parlamento – il 43 % nelle elezioni di gennaio 2008 – costituisce un indice di emancipazione e di uguaglianza nella società cubana, percentuale che pone Cuba ai primissimi posti nel mondo tra i paesi con maggiore presenza femminile nel Parlamento.
La partecipazione in massa dell’elettorato a tutte le elezioni dal 1976 fino a oggi – una trentina tra Nazionali, Provinciali e Municipali - sempre di gran lunga oltre il 95 % degli aventi diritto al voto pur non essendo obbligatorio andare a votare, dimostra che la trasparenza, la legalità e l’attaccamento del popolo a questo sistema sono inequivocabili.
I risultati delle ultime elezioni del 20 gennaio 2008 comprovano la solidità della Rivoluzione: le schede depositate nelle urne sono state 8.231.365 pari al 96.9 % degli aventi diritto al voto. Di queste, le schede ritenute valide sono state il 95.3 %, quelle bianche il 3.7 % e quelle annullate solamente l'1 %.
Il signor Vendola ha tutto il diritto di non gradire il sistema vigente a Cuba, ma lasci almeno al popolo cubano il diritto di stabilire se la propria sia una società libera e democratica.
Segreteria Nazionale
Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba
3) Слободан Милошевић - Борац за мир и слободу
Am 11. März 2006 ist Slobodan Milošević unter bis heute ungeklärten Umständen in der ‚Obhut‘ des „Internationalen Tribunals für das ehemalige Jugoslawien“ ums Leben gekommen. Wir nehmen diesen Jahrestag zum Anlaß, die umgehende Abschaffung des ‚Tribunals‘ und die Freilassung aller seiner Gefangenen zu fordern!
Das ‚Tribunal‘ ist illegal, weil es unter Verstoß gegen die UN-Charta geschaffen wurde. Es ist keine Institution des Rechts, sondern ein Instrument der NATO-Kriegspartei: zur Legitimation der Zerschlagung Jugoslawiens und des NATO-Bombenkrieges 1999. Zur Legitimation und Absicherung ihres 2001 herbeigeführten ‚Regime Change‘. Zur permanenten politischen Erpressung und Verewigung der Besetzung des Balkan.
Ad-hoc-Tribunale sind als Sondergerichte ein Widerspruch zum Grundsatz der Rechtsgleichheit und dienen der Zerstörung des Völkerrechts. Dies gilt ebenso für das Sondertribunal zu Ruanda und das in jüngerer Zeit geschaffene Sondertribunal zum Libanon, die dem freien Zugang des Westens zu den Rohstoffen im Kongo bzw. dem Schutz der israelischen Apartheid-Politik dienen.
Oggetto: Auf nach Wien - das Völkerrecht verteidigen!
Data: 20 febbraio 2011 21.41.26 GMT+01.00
Oggetto: Auf nach Wien - das Völkerrecht verteidigen!
Data: 01 marzo 2011 22.52.40 GMT+01.00
im Anhang [ https://www.cnj.it/MILOS/ICDSM/AufnachWien.pdf ] findet Ihr den Aufruf für die Veranstaltungen zum Thema "NATO-Aggression und Siegerjustiz: das Völkerrecht verteidigen!" in Wien. Die Protestkundgebung am Freitag, den 11.März 2011 findet ab 16:30 Uhr auf dem Stephansplatz statt. Die Podiumsdiskussion beginnt am Samstag, den 12. März 2011 um 18:00 Uhr im Österreichisch-ArabischenKulturzentrum (OKAZ) in der Gusshausstrasse 14/3 in Wien (erreichbar mit U1,U2, U4 – Station Karlsplatz). Der Aufruf enthält die Rednerliste mit Stand vom 1. März 2011. Da wir weitere Referentenanfragen laufen haben, werden wir sie nochmals aktualisiert senden.
Für alle, die bereits am Vortag ankommen, haben wir einen Treffpunkt am 10. März 2011 eingerichtet. Zwischen 17:00 und 19:00 Uhr treffen wir uns im Lokal der Kommunistischen Initiative (KI): Wien 16. Bezirk, Rankgasse2/5. Der Eingang befindet sich an der Ecke Rankgasse/ Huttengasse (Erreichbar mit der U-Bahn Linie 3, Endstation Ottakring, Hinterer Ausgang, rechts, Richtung S-Bahn/ Autobus 48A.)
Für schnell Entschlossene gibt es noch einige private Unterkünfte.
Wer nicht nach Wien kommen kann, hat die Möglichkeit, an der Mahnwache für Slobodan Milosevic am 7. März 2011 um 18:00 Uhr in Berlin am Alexanderplatz (vor dem Kaufhauseingang) der Mütter gegen den Krieg Berlin-Brandenburg teilzunehmen. Transparente und Plakate sind auch dafür erwünscht.
Mit solidarischen Grüßen
Spenden erbeten an:
Vereinigung für Internationale
Solidarität (VIS) e.V.
Sparkasse KölnBonn
Kto: 1929920104
BLZ: 370 501 98
Kennwort: Aufklärung
Für Spender aus EU-Mitgliedsländern:
BIC(SWIFT): COLSDE33
IBAN: DE743705019819299201 04
Слободан Милошевић - Борац за мир и слободу
26. 02. 2011,
Драгомир Вучићевић:
Поводом пете годишњице срмти Слободана Милошевића у Хашком затвору.
Није реч о „теорији завере“ већ о реалној америчкој политици према Србији!
На дан 11. марта навршава се пет година од када је Слободан Милошевић, бивши председник Србије, Југославије и Социјалистичке партије Србије, силом испоручен Хашком трибуналу. Тим актом је, с једне стране, грубо прекршен Устав СР Југославије, који је изричито забрањивао испоручивање наших грађана и, с друге стране, гаранције које су Слободану Милошевићу дали у, писаној форми, тадашњи највиши државни званичници Југославије и Србије о томе да ће му (како је наведено у документу): ’’... због основане сумње да је починио кривично дело...'', бити суђено у земљи, а не, дакле,пред неким судом у иностранству. Настављајући своју херојску борбу и у тамници Хашког трибунала, у којој је провео непуних пет година, Слободан Милошевић је исписао најчасније и најхрабрије странице историје Србије и српског народа. Одбијајући неосноване оптужбе, ни једног тренутка није бранио себе, већ је бранио и одбранио Србију и српски народ, коме је приписана колективна кривица за сва зла почињена током грађанских ратова у Хрватској и БиХ, као и током терористичко-сепаратистичке побуне на Косову и Метохији. Његови тлачитељи то нису могли опростити. Тактика исцрпљивања тонама материјала које је требало да проучи и ускраћивањем адекватног лечења, лишен је људског права на здравље и живот. Одговорни за његову отмицу док је био под судском надлежношћу у Србији и за смрт у Хашком трибуналу, остаће трајно предмет осуде српског народа и свих слободоумних људи у Европи и свету. Отмица у Београду, предаја и смрт Слободана Милошевића у Хагу, трајно ће сведочити о карактеру, унутрашњем бићу једне власти и једног система међународних односа, који се ките атрибутима демократије и владавине права.
Из богатог државничког опуса Слободана Милошевића подсетићемо, овом приликом, на његово активно и упорно ангажовање за постизање мирољубивог, демократског и праведног решења југословенске кризе. Он се, у почетку, залагао за очување демократске Југославије, као реформисане федерације равноправних република и народа. Када је постало јасно да се не може очувати ранија заједничка држава, Слободан Милошевић је активно настојао да се СФР Југославија раздружи праведно, мирно, без ратова и насиља, инсистирајући на спречавању избијања ратних сукоба. Као припадник профресионалне дипломатске службе, аутор ових редова је имао част и задовољство да тих деведесетих година прошлог века буде сведок, а, повремено, и његов сарадник у многим значајним активностима на том плану.
Као Председник Србије није могао, нити је хтео да српски народ у Хрватској и Босни и Херцеговини, где је, због налета национализма, био најугроженији, препусти прогону и уништавању, већ га је подржавао и помагао да се одупре насиљу и одржи на својим вековним огњиштима. Сматрао је, међутим, да је највећа помоћ том народу, као и свим другим народима тадашње Југославије, управо залагање за окончање ратних сукоба и мирољубиво решавање кризе. У свим контактима са представницима међународне заједнице и у свим јавним иступањима инсистирао је на томе да се сви аспекти југословенске кризе решавају на миран, легалан и демократски начин, уз подједнако уважавање легитимних права и интереса свих конститутивних народа.
Једна од оптужби против Слободана Милошевића односила се на, наводну, његову тежњу за стварање некакве ''Велике Србије''. Радило се о оптужби која је служила као параван да би се лакше спровели планови о разбијању Југославије и прикрила одговорност унутрашњих и спољних актера за то. Ни Слободан Милошевић, нити било који од српских лидера тог времена, није никада, ни било где заговарао стварање ''Велике Србије'', већ се искључиво залагао за заштиту српског народа у Хрватској и Босни и Херцеговини, где је био најугроженији..
Прва мировна иницијатива Европске Заједнице (назив - Европска Унија је ушао у употребу 1. новембра 1993. Године), од 27. августа 1991. године, којом је предложено упућивање међународних посматрача у Хрватску и сазивање мировне конференције о Југославији, добила је одмах пуну подршку Слободана Милошевића и Владе Србије. У његовом разговору са француским председником Франсоа Митераном у Паризу, 29. августа 1991. године, постигнута је пуна сагласност о томе да се југословенска криза решава на миран и демократски начин. Влада Србије је то потврдила званичним саопштењем од 30. августа исте године. Француска Влада, као и Влада Холандије, у својству председвајућег Европске Заједнице, су, у званичној изјави од 31. августа 1991. године, изразиле задовољство и поздравиле такав став Слободана Милошевића и Владе Србије.
Учествујући на отварању Међународне конференције о Југославији у Хагу, 7. септембра 1991. године, Слободан Милошевић је, поред осталог, рекао: ''Југословенска криза је произведена једностраном сецесионистичком политиком Словеније, а затим Хрватске, чиме је нарушен легални уставни поредак Југославије. Србија очекује од Мировне конференције да установи и афирмише принципе на основу којих би се криза у Југославији решавала на миран, демократски и легалан начин''. Дао је пуну подршку Закључцима усвојеним на тој Конференцији. У њима је недвосмислено речено да неће бити признавања независности југословенских република пре успешног завршетка рада Конференције. Међутим, убрзо су ти принципи, преурањеним признавањем Словеније и Хрватске (13. јануара 1992. године), а касније и Босне и Херцеговине (6. априла 1992.), грубо прекршени од стране Европске Заједнице и других западних земаља, што је допринело продубљивању југословенске кризе и, посебно, избијању и распламсавању грађанских ратова у Хрватској и Босни и Херцеговини. Остаће упамћена посебна улога тадашње владе СР Немачке и посебно њеног министра за иностране послове H. D. Геншера, који је на писани апел Генералног секретара УН Савету ЕЗ да се не иде са преурањеним признавањем одцепљења Словеније и Хрватске, јер би то могло имати трагичне последице, осорно одговорио са конференције за штампу – „Немачка је то већ урадила“ (и, заиста, одлуку о признавању Словеније и Хрватске је донела 23. децембра 1991.).
Треба потсетити и на то да је Слободан Милошевић, чврсто опредељен за мирољубиво решавање кризе, такође, дао пуну подршку и мисији Сајруса Венса, специјалног изасланика Генералног секретара Уједињених нација за Југославију и то од самог њеног почетка. То је потврдио и у разговору са Сајрусом Венсом, 31. децембра 1991. године у Београду, када је подржао мировни план УН, којим је предвиђено упућивање ''Плавих шлемова'' у Хрватску и на њене границе са БиХ. Слободан Милошевић је подржао тај план и поред противљења руководства Српске Крајине у Хрватској.
Управо захваљујући залагању Слободана Милошевића, у Сарајеву је 17. и 18. марта 1992. године, одржана седница Конференције о БиХ, која је отворила наду да ће мир победити. Тада су лидери три националне партије – Алија Изетбеговић (СДА), Радован Караџић (СДС) и Мате Бобан (ХДЗ), потписали Изјаву о принципима уставног уређења БиХ, а на основу раније предложеног плана познатог португалског дипломате – Жозеа Кутиљера, посредника Европске Уније, који је снажно подржао и Слободан Милошевић. Тај план је претходно начелно прихваћен од лидера све три зараћене стране у БиХ на првој пленарној седници Конференције о БиХ, одржане у Лисабону 21. и 22. фебруара 1992. године. Према том плану, Босна и Херцеговина би остала у постојећим границама као јединствена и независна држава, али подељена на три конститутивна дела, сходно етничком саставу, док би Сарајево имало екстериторијални карактер.
Кутиљеров план је требало да буде потписан на Конференцији у Лисабону, која је почела са радом 21. маја 1992. године. Међутим, Алија Изетбеговић је избегавао да, и поред претходно дате сагласности, план потпише, тражећи повод да одбије план и напусти Конференцију. Та прилика му се указала када је у Сарајеву, 27. маја, у улици Васе Мишкин, дошло до снажне експлозије, у којој је погинуло 16 особа и 140 рањено, а одговорност за то приписана српској страни, без икаквих доказа. У ствари, Алија Изетбеговић је за такав поступак, поред осталог, имао подршку САД које су од почетка кризе у БиХ подржавале унитарну Босну, под доминацијом Муслимана. О томе говори и познати чланак ''Њујорк Тајмса'', од 23. августа 1992. године, у коме се изричито наводи да се тадашњи амбасадор САД у Београду, Ворен Цимерман, састао у Сарајеву са Алијом Изетбеговићем, одмах после његовог начелног прихватања Кутиљеровог плана. Алија Изетбеговић му је том приликом рекао да је план прихавтио под притиском ЕЗ, Срба и Хрвата. ''Рекао ми је, каже Цимерман (наводи лист), да му се такво решење не допада''. Одговорио сам му: ''Ако Вам се не допада, зашто га прихватате''.
Поступак Алије Изетбеговића наишао је на велико разочарење Слободана Милошевића, Владе Србије и Владе Југославије. Одбијањем Кутиљеровог плана, он се определио за грађански рат који се постајао све интензивнији, са трагичним последицама за сва три народа у БиХ.
Као хуманиста и предани борац за мир, Слободан Милошевић је енергично осуђивао све видове невиног страдања људи у БиХ и Хрватској, а, посебно, етничко чишћење. У разговору са лордом Карингтоном у Стразбуру, 25. јуна 1992. године, снажно се заложио за безусловни прекид ратних сукоба у БиХ и за наставак Конференције, која је била у застоју. Том прилуиком је више пута поновио да ''... снажно осуђује бомбардовање Сарајева, које је изван сваке ниормалне логике''. Касније, на завршетку рада Конференције о Југославији у Лондону, 26.-27. августа 1992. године, у јавној изјави је рекао: „ Етничко чишћење ми у Србији сматрамо криминалним актом. Званично смо ставили до знања и врло јасно нагласили да тако нешто не сме да се дешава. Сви они који тако нешто раде морају да буду кривично одговорни“.
Поред неуспеха са планом Кутиљера, Слободан Милошевић је наставио са својим напорима да Конференција о БиХ настави са радом. Од почетка је подржавао мировне напоре међународних посредника Сајруса Венса и Дејвида Овена и њихов план о успостављању мира у БиХ. Тај план је, на мировним преговорима који су уследили, неколико пута мењан и дорађиван и када је изгледало да ће бити прихватљив за све стране у БиХ, он је био одбациван, пре свега, због оријентације муслиманске стране на наставак рата, у чему је имала и нескривену подршку САД.
У настојању да се обнове мировни напори у БиХ, Слободан Милошевић је подржао инисијативу премијера Грчке Константина Мицотакиса о томе да се преговори наставе у Атини 1. и 2. априла 1993. године. На Конференцији су учествовали лидери све три зараћене стране у БиХ, затим, председник СРЈ Добрица Ћосић, председник Србије Слободан Милошевић, председник Владе СРЈ Момир Булатовић и копредседници Конференције Сајрус Венс и Дејвид Оврен, као и Венсов наследник Торвалд Столтенберг. После дугих и напорних преговора, и великог ангажовања Слободана Милошевића и других чланова југословенске делегације, све три стране у БиХ су прихватиле нешто модификован ранији Венс – Овенов план, уз услов да га накнадно прихвати и Скупштина Републике Српске. Нажалост, неколико дана касније, Скупштина Републике Српске је, и поред личног присуства и упорног залагања Слободана Милошевића, одбила да прихвати план. Тај чин је Влада Републике Србије, на иницијативу Слободана Милошевића, оценила као неодговоран акт.
У даљем наставку мировних напора, дошло је и до неуспеха са Планом Контакт групе, од 6. јула 1994. године, који је, и поред снажне подршке Слободана Милошевића и Владе Србије, одбацила Република Српска. У новонасталој ситуацији, а на иницијативу Слободана Милошевића, у Београду је, 29. августа 1995. године, одржан састанак са представницима Републике Српске. На том састанку је постигнута сагласност о стратегији будућих преговора о БиХ, у циљу окончања грађамског рата и постизања мира. Договорено је формирање јединствене делегације на челу са Слободаном Милошевићем, која је овлашћена да у име Републике Српске преговара и потпише мировни план. То је коначно отворило пут за припрему и организовање преговора у Дејтону (САД), од 1. до 20. новембра 1995. године, када је закључен свеобухватан Споразум о миру у Босни и Херцеговоини. Споразум је усаглашен у Дејтону, а свечано потписан у Паризу, 14. децембра 1995. године, од стране: председника СРЈ Слободана Милошевића, БиХ Алије Изетбеговића и Хрватске Фрање Туђмана, затим председника САД Била Клинтона, Француске Жака Ширака, прмијера Велике Британије Џона Мејџера, канцелара Немачке Хелмута Кола и премијера Русије Виктора Черномирдина.
Кључни, ако не и одлучујући допринос постизању Дејтонског споразума и окончању грађанског рата у БиХ, имао је управо председник Србије Слободан Милошевић, који је за то добио и многа јавна признања од угледних светских личности. Да наведемо само оцену копредседника Конференције о Југославији, Толварда Столтенберга, који је, у изјави од 12. децембра 1995. године у Ослу, рекао ''... да је Слободан Милошевић одиграо кључну улогу у мировном процесу у бившој Југославији''. Србија је један од гараната Дејтонског споразума који обезбеђује равноправност три конститутивна народа и два ентитета – Републике Српске и Федерације БиХ. Уставно решење за БиХ, које почива на консенсусу, и стварање Републике Српске не би били могући без улоге и доприноса Слободана Милошевића.
Потписивањем Дејтонско-париског споразума о миру у БиХ и његовом ратификацијом од стране Савета безбедности УН, укинуте су санкције УН према СР Југославији, која је је од 1996. до 1999. (агресија НАТО), имала највишу стопу привредног раста на Балкану (6-8%).
После закључивања Дејтонског споразума, Слободан Милошевић се активно залагао за пуну нормализацију односа са новоствореним државама на простору бивше Југославије, што је био један од приоритета Владе Србије, Савезне Владе СРЈ и југословенске дипломатије. Приступ том изузетно важном питању био је дефинисан још у Уставној Декларацији СР Југославије, од 27. априла 1992. године. У њој је изражена спремност СР Југославије за пуно уважавање права и интереса новонасталих држава на простору некадашње СФР Југославије и подвучено да СР Југославија нема никаквих територијалних претензија ни према коме у свом окружењу.
Први корак на том плану, Влада СРЈ је учинила одлуком о признавању Словеније, 13. августа 1992. године. Словенија се, међутим, некоректно понела према том гесту добре воље, па је на тај корак Владе СРЈ одговорила тек 13. октобра 1995. Када је у питању нормализација односа са Македонијом и Хрватском, лични допринос председника Милошевића био је евидентан. Његов састанак у Београду, 19. фебруара 1996. године, са Благојем Филиповићем, потпредседником македонског Парламента, искоришћен је за усаглашавање неких битних ставова о нормализацији југословенско – македонских односа, тако да је, после успешних разговора на експертскомм нивоу, споразум свечано потписан у Београду, 8. априла 1996. Преговори са Хрватском су, из разумљивих разлога, били сложенији, али се у тренутку одређеног застоја, у тај процес укључио и Слободан Милошевић. Он је прихватио иницијативу грчког премијера Костаса Симитиса за састанак са Фрањом Туђманом у Атини, 7. августа 1996. године. У току тих разговора договорени су основни принципи нормализације југословенско – хрватских односа, што је омогућило да се Споразум убрзо усагласи од стране експерата и свечано потпише у Београду, 26. августа 1996. године.
Када је у питању БиХ, одлучујући корак на том плану је учињен закључивањем Дејтонскогт споразума. Након тога су предузети кораци и на плану формалне нормализације односа, уз лично ангажовање и Слободана Милошевића. Он је, заједно са Алијом Изетбеговићем и уз посредеовање француског председника Жака Ширака, потписао у Паризу, 3. октобра 1996., Заједничку Изјаву о нормализацији односа између СРЈ и БиХ. После потписивања те Изјаве, покренути су експертски преговори, али до споразума о успостављању дипломатских односа није дошло, јер је босанска страна ретерирала у односу на неке значајне одредбе Париске Изјаве. У питању је била одредба о томе да ће се две стране ”... у билатералним и међународним односима уздржавати од политичких и правних аката који не доприносе развијању пријатељских односа и сарадње“. У тој одредби је садржана сагласност и спремност обе стране да се истовремено повуку тужба Муслиманско-Хрватске федерације против СРЈ и противтужба СРЈ, које су раније поднете Међународном суду правде у Хагу. Али и поред одсуства формалног споразума, односи са БиХ су се нормално одвијали на принципима Париске Изјаве, док је са Републиком Српском, на бази Дејтонског споразума, закључен Споразум о паралелним специјалним односима.
Један од приоритета југословенске дипломатије после закључивања Дејтонског споразума био је обнова мултилатералне сарадње на простору Југоисточне Европе, за шта се посебно залагао Слободан Милошевић, у чијем јачању је видео важан фактор за стабилизацију мировног процеса и укупних прилика на простору бивше Југославије. После спроведених припрема почетком 1996. године, установљена је пракса редовног одржавња састанака министара иностраних послова земаља Југоисточне Европе. Након два ткава сатанка (у Софији, јула 1996. и Солуну, јуна 1997.), одржан је самит земаља Југоисточне Европе 3. и 4. новембра 1997. године, на острву Криту (Грчка). Делегацију СР Југославије предводио је Слободан Милошевић, председник СРЈ. Говорећи на том скупу о односима на Балкану, Слободан Милошевић је, поред осталог, рекао: ''Развој регионалне сарадње видим у функцији очувања и заштите мира и превазилажења узрока који изазивају поделе и конфронтације...Перспективе за регионалну сарадњу су данас веома повољне...Угашено је ратно жариште у региону и створени темељи садашњег и будућег мира који представља предуслов не само регионалне, већ и европске стабилности и сарадње. СР Југославија је дала одлучујући допринос на том плану, активно ради на очувању и јачању мировног процеса''.
Посебан значај имао је сусрет разговор Слободана Милошевића и премијера Албаније Фатоса Наноа на Криту. Значај тог сусрета произилази из чињенице да је то био први сусрет на том нивоу после педесет година. Иницијативу за билатерални сусрет дао је Слободан Милошевић, са жељом да се, после много година стагнације и отсуства сарадње између две земље, ти односи деблокирају и нормализују. Главни резултат тих разговора био је да се између две земље успоставе пуни дипломатски односи, приступи размени амбасадора и отворе сви путеви за међусобну сарадњу, посебно економску �
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http://www.radiondadurto.org/2011/01/26/le-vicende-del-confine-orientale-italiano-tra-mito-e-uso-politico-della-storia/
dopo le registrazioni di una interessante conferenza di Sandi Volk,
si accede anche alle registrazioni della iniziativa di presentazione del libro A TE MIA DOLORES tenuta a Brescia il 13 gennaio 2011, con Giacomo Scotti (https://www.cnj.it/INIZIATIVE/iniziative.htm#brescia130111 ):
prima parte: http://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/audio/intervento-scotti-1.mp3
seconda parte e discussione: http://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/audio/intervento-scotti-2.mp3
Bianca Bracci Torsi, della Direzione nazionale del PRC, ci parla del libro "A te, mia Dolores. Nella tempesta della guerra con il fucile e lo stetoscopio" di Saša Božovic (a cura di Giacomo Scotti, ed. ODRADEK): un diario-racconto dall'aprile 1941 all'estate 1945 di una donna che ha avuto il coraggio di diventare una partigiana, combattendo al fianco dei comunisti jugoslavi, dalle piazze di Belgrado alle montagne del Montenegro, della Lika, della Bosnia e dell'Erzegovina.
A TE, MIA DOLORES
Nella tempesta della guerra col fucile e lo stetoscopio
Traduzione, adattamento e note di Giacomo Scotti
Roma: Odradek, 2010
ISBN 978-88-96487-07-5
Common Yugoslav army "reunited" in Afghanistan
BELGRADE: After having torn apart their common former homeland during the bloody wars of secession during the 1990s, the armies of the former republics of Yugoslavia -- at least most of them -- are being united again as part of an international peacekeeping unit, reported Radio Sarajevo on Thursday.
Meeting in the Montenegrin capital of Podgorica, military experts from the U.S.-Adriatic Charter discussed the prospect of soldiers from Croatia, Macedonia, Montenegro, Bosnia and Herzegovina and Slovenia, along with Albania, forming a joint unit of NATO's International Security Assistance Force (ISAF) in Afghanistan. The unit's tentative name is "Balkan," which was reportedly first proposed by the U.S. military.
During previous meetings among the ministries of defense and foreign affairs of these countries, the option of sending a joint regional team of trainers and advisors for the training of the Afghan army had been approved.
Deputy Chief of General Staff of the Croatian Armed Forces, Rear Admiral Zdenko Simicic, said the initiative is based on regional cooperation among Western Balkan member states.
"We expect the training school for Afghan military police to be in full operational use in two years," said Simicic.
Romania, Iraq, Kosovo... Libia: nelle fosse comuni si seppellisce la verità |
Marco Santopadre, Radio Città Aperta |
“...Ieri sono arrivate altre conferme delle manifestazioni che sabato e domenica hanno sconvolto le città di * e * che sarebbero state represse nel sangue dalla polizia con l'appoggio dell'esercito” (Corriere della sera **/**/****) e ancora “...Fonti dell'opposizione interna parlano di scontri violentissimi e di 300 morti...” (La Repubblica).
Semplice, risponderete voi. Della Libia! Negli ultimi giorni notizie di stragi, di bombardamenti aerei sui manifestanti e sui civili inermi, di possibile uso delle armi chimiche contro la popolazione che si oppone al regime di Gheddafi, di stragi di medici e di feriti negli ospedali, di colonne di migliaia di profughi in fuga dai combattimenti e dagli eccidi bombardano le opinioni pubbliche occidentali e, quindi, anche italiana.
Torniamo alle citazioni di cui sopra: non si riferiscono a quanto sta accadendo in Libia, bensì a quanto stava – secondo i media internazionali – accadendo a Timisoara e ad Arad ai tempi delle rivolte contro Ceaucescu, nel 1989. L’episodio che più impatto ebbe sull’opinione pubblica italiana e occidentale fu il ‘massacro di Timisoara’ del Natale del 1989. Per giorni si parlò di un vero e proprio eccidio costato la migliaia di civili inermi, passati per le armi dalle truci milizie del regime nella città romena, e le immagini di ‘migliaia’ di cadaveri sepolti in una ‘fossa comune’ fecero più volte il giro del mondo diventando il simbolo di quanto accadeva in uno dei paesi dell’Europa orientale che si stava liberando dall’odiato comunismo di stampo sovietico. Ad un certo punto comparve anche un filmato che mostrava i primi corpi riesumati con evidenti tracce di “torture spaventose”; i cadaveri avevano in comune un taglio malamente ricucito che andava dal collo all'inguine...
Il presunto eccidio del Natale del 1989 a Timisoara, ‘incontrovertibilmente vero’ in quanto raccontato dalle tv e dai giornali di tutto il mondo con ‘testimonianze particolareggiate’ ed immagini a profusione, in poche settimane venne smascherato e divenne una delle bufale più inquietanti nella storia del giornalismo. I cadaveri ritratti erano solo 13 ed erano morti di morte naturale. I segni delle torture erano in realtà conseguenza delle autopsie praticate da un medico legale. Niente stragi, niente fosse comuni. Il 24 gennaio del 1990 una tv tedesca e la France Press denunciarono la messa in scena: “Tre medici di Timisoara hanno affermato che i corpi di persone decedute in modo naturale sono stati prelevati dall'istituto medico legale e dall'ospedale per essere esposti alle telecamere come vittime della Securitate”.
Ma l’industria internazionale delle bufale non si diede per vinta, avendo sperimentato la facilità con cui qualche agenzia di stampa e qualche fotoreporter possono di punto in bianco, in assenza di prove e di conferme incrociate, creare un caso e mobilitare le opinioni pubbliche. E quindi fornire ai governi e agli Stati Maggiori di Washington e dell’Unione Europea il là per potersi imbarcare in bombardamenti umanitari, invasioni preventive, occupazioni democratiche. Paradossalmente la censura, la verve propagandistica parca di notizie e il dilettantismo tipici dei media del paese preso di mira dalla ‘disinformatia’ contribuiscono a concedere credibilità alle esagerazioni e alle invenzioni prodotte con maestria professionale dall’industria internazionale della menzogna.
Scrive Federico Povoleri in un pezzo dedicato ai meccanismi della disinformazione:“Le cose da considerare in questa storia sono allo stesso tempo importanti e quasi incredibili: 1) La capacità di raggiungere in pieno un obiettivo di disinformazione a livello internazionale 2) L'accettazione acritica da parte dell'opinione pubblica di notizie che mancavano di fonti certe e attendibili 3) L'incredibile capacità di penetrazione della notizia che crebbe a dismisura attraverso leggende e false notizie di supporto 4) La dimostrazione di quanto un'informazione manipolata possa trasformare o addirittura costruire la realtà.”
Il modello, sperimentato con successo in Romania, venne infatti utilizzato di nuovo, ed in grande stile, per altri quadranti del globo dove la sete di petrolio e di territori da conquistare imponevano sanzioni prima e interventi militari poi.
Vi ricordate le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, con i giornali che svelavano una compravendita di materiale radioattivo con un piccolo e sconosciuto paese africano mai avvenuta? Giornalisti affermati affermavano che nel Kuwait occupato i soldati iracheni al servizio di Saddam Hussein uccidevano i neonati nelle incubatrici…
Prima ancora la fabbriche delle menzogne aveva funzionato egregiamente per giustificare i bombardamenti sulla Serbia e l’invasione della provincia del Kosovo. Si cominciarono a descrivere con dovizia di particolari le esecuzioni sommarie, le colonne di profughi bombardati dai caccia (questo avveniva davvero, solo che i caccia erano quelli della NATO decollati dalle basi militari italiane...), gli stupri di massa contro le donne kosovare, i villaggi distrutti. Siccome le opinioni pubbliche si dimostravano ancora troppo tiepide nei confronti di un intervento militare di terra, si cominciò a parlare di milioni di profughi in pericolo di vita, di eccidi indiscriminati, di pulizia etnica. A invasione conclusa le squadre forensi della FBI e della Polizia spagnola, inviate in Kosovo a caccia delle fosse comuni dove sarebbero stati sepolti decine di migliaia di civili kosovari, non ne trovarono, ma si imbatterono nei campi di prigionia e nelle sale della tortura allestite dai ‘liberatori’ dell’UCK, riconvertitisi nel frattempo nei nuovi padroni della provincia sottratta a Belgrado. (Vi consigliamo la lettura dell’articolo ‘La bufala delle fosse comuni in Kosovo. Assordante silenzio degli invasori ‘umanitari’ del Kosovo’ di John Pilger).
A quanto pare le smentite e le prove della manipolazione delle opinioni pubbliche da parte dell’industria della guerra non sono servite a molto. Oggi, di fronte a ciò che accade a Tripoli, il meccanismo all’opera è sempre lo stesso e le opinioni pubbliche - soprattutto quelle più sensibili alle tematiche umanitarie e orientate a ‘sinistra’ - sembrano accettare le varie ‘informazioni’ riportate dai media senza porsi particolari domande sulla loro veridicità. Che la maggior parte di queste siano precedute dal ‘sembra che…’, ‘si dice che...’, testimoni che vogliono rimanere anonimi affermano che…’ poco importa. Il meccanismo emotivo prende il sopravvento e rende alle cancellerie occidentali molto facile giustificare operazioni militari presentate come finalizzate a proteggere le popolazioni mentre in realtà mirano ad intervenire in territori dalle quali gli interessi dell’imperialismo erano stati esclusi od in parte limitati.
Paradossalmente sono spesso ingenue (o a volte prezzolate) Ong e associazioni di massa a pressare i governi affinché intervengano il prima possibile con sanzioni o interventi militari contro i regimi responsabili degli eccidi.
Nel caso della Libia milizie armate fino ai denti e ben organizzate vengono descritte come ‘manifestanti inermi’; non ci sono colonne di centinaia di migliaia di profughi che tentano di fuggire verso i paesi confinanti eppure la notizia continua a rimbalzare sui media italiani ed esteri; le cifre dei morti – che evidentemente comprende anche quelli di parte governativa – crescono iperbolicamente senza che se ne abbia nessuna conferma, e per giustificare che le strade non sono lastricate di cadaveri come detto nei giorni scorsi da alcuni ‘testimoni oculari’ via facebook o via twitter alcuni quotidiani hanno affermato oggi che i mercenari avrebbero scaricato i morti nel deserto gettandoli dagli aerei… Ma le prime crepe nel meccanismo della produzione di massa delle bufale di guerra cominciano ad aprirsi. E non solo sui media alternativi o più critici nei confronti del meccanismo dominante.
Oggi Il Manifesto riporta questa notizia: “Su nostra sollecitazione si è avuta la smentita ufficiale della Corte Penale Internazionale che il signor Sayed Al Shanuka o El-Hadi Shallouf non figurano né come impiegati né come responsabili di organi della Corte Penale Internazionale. Si tratta di un gravissimo episodio di disinformazione poiché da tali individui era stata fatta arrivare tramite la Tv Al Arabiya la notizia di 10 mila morti e di 50 mila feriti”. La denuncia, incredibilmente, arriva da alcuni esponenti del Partito Radicale, in prima fila nel chiedere un intervento deciso dell’Europa contro Gheddafi… Possibile che nessuno a Rainews 24, che ha dato per due giorni in tutti i suoi notiziari questa cifra sulla vittime, si sia preoccupato di verificarne la veridicità? Possibilissimo…
Anche sui tanto sbandierati bombardamenti aerei sui civili nei quartieri di Tripoli e Bengasi, più volte smentiti dagli italiani arrivati in Italia dalla Libia in questi giorni e da numerosi testimoni - questa volta forniti di nome e cognome - qualche dubbio ce lo ha anche il corrispondente de La Repubblica. Inoltre sul quotidiano in edicola oggi scrive l’inviato a Tripoli Salvatore Nigro : “Un libico (...) guardando le foto delle fosse in cui sono state sepolte alcune delle vittime dice: “Non è una fossa comune, è uno dei cimiteri di Tripoli vicino al mare, si vedono anche le sepolture più vecchie sullo sfondo”. Ma ormai è chiaro: nella guerra contro Gheddafi ci sono delle notizie diffuse senza controllo, rilanciate e trasformate in fatti veri”...
Dicendo questo non vogliamo assolutamente negare la gravità di quello che sta accadendo a Tripoli: in Libia sono in atto cruenti combattimenti tra due fazioni delle classi dirigenti all’interno di un sistema tribale che la rivoluzione di Gheddafi, degradatasi da anni in dittatura personale e famigliare, non è riuscita a scalzare. Come accade spesso nelle zone di guerra i civili sono i primi a fare le spese della violenza. Il problema è non lavorare, come si dice in questi casi, per il ‘re di Prussia’, avallando un intervento militare e neocoloniale contro il popolo libico - mascherato da operazione umanitaria -che rappresenta esattamente il contrario rispetto a quelle aspirazioni alla libertà, alla democrazia e alla giustizia sociale che stanno animando le rivolte dei popoli e dei lavoratori in tutto il Maghreb e nella penisola arabica.
ITALIANI IN JUGOSLAVIA
Occupazione dei Balcani e razzismo "antislavo"
Seminario di storia contemporanea
PROGRAMMA DEL SEMINARIO:
Ore 15.00
Apertura dei lavori
Ore 15.15
STEFANO BARTOLINI
L'immagine dello Slavo nell'Italia fascista.
Dalla costruzione di un'identità nemica alle pratiche persecutorie e snazionalizzatrici.
Ricercatore presso l'Istituto Storico della Resistenza e della società contemporanea di Pistoia, vicepresidente Associazione Passaggi di Storia di Firenze, curatore unico dell' Archivio Storico CGIL di Pistoia, coordinatore della redazione della rivista
Quaderni di Farestoria. Tra le sue pubblicazioni Fascismo antislavo. Il tentativo di "bonifica etnica" al confine nord orientale. (I.S.R.pt, 2006)
Ore 15.50
DAVIDE CONTI
La questione dei criminali di guerra italiani tra Guerra Fredda e continuità dello Stato.
Dottore di ricerca in storia contemporanea presso l'Università "La Sapienza" di Roma, ricercatore della Fondazione Basso sezione internazionale, docente e coordinatore dei corsi della Scuola di Giornalismo della Fondazione Basso.
Tra le sue pubblicazioni L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della "brava gente" (1940-1943) (Odradek, 2008)
Ore 16.30
COSTANTINO DI SANTE I soldati italiani in Jugoslavia: da occupanti a prigionieri (1941-1951).
Ricercatore presso l'Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche e responsabile della
Biblioteca Provinciale di storia contemporanea di Ascoli Piceno. Tra le sue pubblicazioni L'internamento civile
nell'ascolano. Il campo di concentramento di Servigliano 1940-1944 (Ascoli Piceno, 1998).
Introduce e coordina Silvia Boffelli - Associazione Culturale Anteo
La partecipazione è gratuita. Il C.I.D.I., ente accreditato per la formazione del personale della scuola (DM del 5/7/2005, n. 1217), rilascerà l'attestato di frequenza a chi ne farà richiesta.
Ideazione e realizzazione a cura dell'Associazione Culturale Anteo. Storia, ricerca e formazione.
Per ulteriori approfondimenti e informazioni
http://www.associazioneanteo.org/eventi_italianijugoslavia.htm
<< A peaceful country like Yugoslavia which built itself brick by brick after it had been destroyed by Hitler has been destroyed once again by the second Hitler. This is illegal. Federal Yugoslavia was a peaceful country. It was built by Tito the champion of peace brick after brick and then after the death of Tito it was fragmented into pieces for personal, imperialist interests. We others how can we feel peaceful if the peaceful country of Yugoslavia which did not pose any threat to anyone was invaded. The general assembly has to investigate this. It has to see who to prosecute in the ICJ. >>
( http://www.btinternet.com/~davidbeaumont/msf/gadafi.htm )
"Libija je na raskrsnici. Ili ćemo se danas dogovoriti o reformama ili će krv teći cijelom Libijom", rekao je Saif al-Islam u televizijskom govoru.
"Borićemo se do posljednje minute, do posljednjeg metka", izjavio je Gadafijev sin. "Nastavi li se nasilje, biće gore nego u Jugoslaviji", rekao je Al-Islam. (...)
(fena)
Dipendenti di una ditta inviano allarme via mail a radio B92
L'ambasciata serba a Tripoli "è entrata in contatto con i cittadini (serbi) che si trovano in un campo nei pressi della città di Raslanalf, aggrediti la notte scorsa da un piccolo gruppo di uomini armati. Nessuno nessuno è rimasto ferito, e la loro sicurezza, a questo momento non è compromessa", riferisce un comunicato il ministero degli Esteri serbo. Un gruppo di 50 connazionali dipendenti della ditta serba in Libia " Petrolcomet" ha inviato una mail con richiesta di aiuto all'emittente privata belgradese, B92, informando di essere stati attaccati da una ventina di uomini armati e dichiarandosi "in pericolo di vita" Il ministero degli Esteri di Belgrado "in collaborazione con la compagnia di bandiera JAT lavora (..)per l'evacuazione dei cittadini serbi che sono attualmente in Libia" aggiunge la nota. La Serbia vanta una storica collaborazione economica con la Libia, che risale ai tempi del Movimento dei Non allineati, di cui l'allora Jugoslavia e il Paese africano furono protagonisti. Attualmente l'ambasciata di Belgrado a Tripoli è stata contattata da circa 700 connazionali, ma il numero dei serbi stabili in Libia è "ben più alto", secondo quanto riporta l'agenzia locale, Beta.
“Ma il colonnello ha sottovalutato i clan delle montagne”
Ho una mia tesi, diversa da quella sostenuta nei giornali. Se non si fosse mossa la Cirenaica difficilmente la sommossa sarebbe arrivata a Tripoli e non avrebbe causato la fine del regime. La Cirenaica è da sempre una regione non addomesticata agli ordini di Gheddafi perché è storicamente sotto l’influenza della Senussia. Non dimentichiamo che è la regione dove Omar al Mukhtar ha fatto la sua guerra contro gli italiani ed è stato ucciso. Per tradizione la Cirenaica non ha mai obbedito molto al regime di Gheddafi, tanto è vero che già nel ’96 il Colonnello dovette mandare addirittura l’esercito, la marina e l’aviazione per reprimere una sommossa. Non mi stupisce perciò quanto è accaduto a Bengasi. Mi sorprende, invece, che la rivolta si sia estesa anche alla Tripolitania, questo sì. In apparenza non c’erano motivi gravi perché si potesse prevedere una insurrezione del genere. E’ vero che c’è un trenta per cento di giovani che non hanno un lavoro, ma i prodotti di prima necessità sono calmierati e la gente vive abbastanza bene.
Non è un grande esercito, nulla di paragonabile ai 400mila uomini dell’esercito egiziano. E’ un esercito di ottantamila uomini e in Cirenaica si sono schierati con gli insorti. E, in parte, anche in Tripolitania.
Berlusconi ha concluso un Trattato con Gheddafi con molta superficialità, a occhi chiusi, ben sapendo delle violazioni dei diritti umani. I libici hanno investito in Italia, ci danno un terzo del petrolio e del gas, hanno relazioni con Finmeccanica e con altre ditte che stanno lavorando in Libia. Avremo delle sorprese.