Informazione
Le famiglie che abitano il campo sono arrivate a Kragujevac da varie città del Kosovo dove hanno lasciato tutto. Il Commissariato per i profughi consegna loro un pasto al giorno. Molti non hanno un lavoro. La comunità soffre molto la mancanza di spazi sociali dove ritrovarsi e, di conseguenza, i disagi abitativi sono molteplici, specialmente nei periodi invernali. La condizione di sicurezza di molte strutture e assai precaria, quando inesistente.
La scuola è luogo tenuto in gran considerazione dalla comunità ed è frequentata da bambini delle famiglie profughe ma anche da bambini della comunità locale. L’edificio ha bisogno di alcuni importanti interventi strutturali ma anche di attrezzature a supporto delle attività didattiche e ricreative.
Sono presenti 4 classi elementari, per un totale di 35 bambini nati tra il 2000 e il 2004, e anche una classe materna, tutte frequentate anche da bambini locali.
COSTO STIMATO dell’INTERVENTO SCUOLA: 6.000 Euro
Per la serata, si esibiranno i Bitles con una loro performance teatrale e musicale, incentrata sulla storia dei Beatles.
I BITLES nascono e sono parte integrante di un progetto di musica e teatro dedicato ai Fab Four: I BEATLES A ROMA. Parallelamente all'attività teatrale si esibiscono in un show prettamente musicale tributo ai beatles con riferimenti anche ai gruppi che li hanno influenzati: ne viene fuori una performance scatenata ed elettrizzante da non riuscire a star fermi...d'altro canto parliamo di rock'n roll!
ore 17:30 presso la Sala Ajace (Piazza Libertà)
Gens Italica: l'inesorabile rappresaglia dei Palikuća
Inoltre, dalla documentazione che verrà presentata, non potranno che risultare evidenti le pesanti responsabilità di personaggi che, mescolandosi tra le "vittime delle foibe", sono entrati nella contemporanea agiografia revisionista, permettendo ai carnefici e ai loro sostenitori di recitare il ruolo delle vittime, operando una vera e propria falsificazione storica.
Oggetto: Presentazioni a Bari (27/5) e Gravina (28/5)
Data: 24 maggio 2011 09.59.11 GMT+02.00
Storie e memorie di una vicenda ignorata
La scheda del libro sul sito di CNJ-onlus: https://www.cnj.it/documentazione/bibliografia.htm#partigiani2011
La scheda del libro su Facebook: http://www.facebook.com/event.php?eid=103675256383363
ore 18.30 c/o associazione Marx XXI - II str. priv. Borrelli 32
(di fronte al “Piccolo teatro”, a pochi minuti a piedi dalla stazione FS, lato estramurale Capruzzi e dal parcheggio dell’ex Rossani in C.so Sicilia)
Presentazione del libro
I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana
Storie e memorie di una vicenda ignorata
Intervengono
Andrea Martocchia, autore del libro, Coordinamento nazionale per la Jugoslavia
Gaetano Colantuono, coautore col capitolo dedicato alle Puglie
Antonio Leuzzi, ANPI-Bari, Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea
Coordina
Andrea Catone, Associazione Marx XXI;
associazione Most za Beograd – un ponte per Belgrado in terra di Bari
ore 10.30 c/o Camera del Lavoro, Piazza della Repubblica
Storie e memorie di una vicenda ignorata
Incontro con l'autore
Andrea Martocchia
Interventi e testimonianze:
Andrea Ferrante, pres. ANPI
Sen. Onofrio Petrara
Luciana Gramegna, CGIL
Luigi Ljubimir Vjekoslav Maletic
Michele Loglisci, insegnante
Milena Fiore, ANPI
Luogo
Camera del Lavoro - p.zza della Repubblica, Gravina in Puglia
Creato da
ARCI MURETTI A SECCO GRAVINA, Luciana Gramegna, Milena Fiore, Arci Muretti A Secco
Maggiori informazioni:
Nelle settimane scorse l’ANPI di Gravina ha avuto modo di attuare una positiva collaborazione con alcune scuole della città ed associazioni, finalizzata alla costruzione di iniziative di formazione sul tema della lotta di Liberazione e della sua continuità rispetto al Risorgimento, nell’ambito del 150° dell’Unità d’Italia.
Nello specifico si è trattato di un ciclo di incontri nei quali la proiezioni di film a soggetto è stata seguita da alcuni interventi esplicativi e di contestualizzazione. In queste occasioni si è riscontrato un forte interesse degli studenti e la fattiva collaborazione di molti docenti.
In continuità con tale positiva esperienza l’ANPI invita a partecipare i cittadini alla presentazione del libro “I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana”, di Andrea Martocchia. Questo libro si aggiunge come importante contributo agli studi dell’Istituto pugliese per gli studi dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (IPSAIC). Il libro è frutto di una lunga ricerca relativa alla partecipazione di partigiani jugoslavi alla Resistenza italiana; partecipazione che proprio nel nostro territorio ha avuto una delle basi di partenza principali.
Si tratta tuttavia di una pagina di storia quasi del tutto sconosciuta, che sarebbe invece di grande interesse e utilità per la costruzione della memoria collettiva locale portare a conoscenza dei giovani.
L’iniziativa si svolgerà sabato 28 maggio ore 10,30 presso la Camera del lavoro di Gravina, sita in piazza della Repubblica.
Distinti saluti
Il presidente dell’ANPI di Gravina in Puglia
Viale Orsini, Gravina in Puglia
AL DIRIGENTE SCOLASTICO …
Della Scuola Secondaria di I grado …
OGGETTO: Iniziativa di presentazione del libro “I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana”
Egregio Sig. Preside,
nelle settimane scorse l’ANPI di Gravina ha avuto modo di attuare una positiva collaborazione con alcune scuole della città, finalizzata alla costruzione di iniziative di formazione sul tema della lotta di Liberazione e della sua continuità rispetto al Risorgimento, nell’ambito del 150° dell’Unità d’Italia.
Nello specifico si è trattato di un ciclo di incontri nei quali la proiezioni di film a soggetto è stata seguita da alcuni interventi esplicativi e di contestualizzazione. In queste occasioni si è riscontrato un forte interesse degli studenti e la fattiva collaborazione di molti docenti.
In continuità con tale positiva esperienza l’ANPI propone alle scuole di Gravina di invitare gli studenti a partecipare alla presentazione del libro “I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana”, che si aggiunge agli studi dell’Istituto per gli studi dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (IPSAIC). Il libro è frutto di una lunga ricerca relativa alla partecipazione di partigiani jugoslavi alla Resistenza italiana; partecipazione che proprio nel nostro territorio ha avuto una delle basi di partenza principali.
Si tratta tuttavia di una pagina di storia quasi del tutto sconosciuta, che sarebbe invece di grande interesse e utilità per la costruzione della memoria collettiva locale portare a conoscenza dei giovani.
L’iniziativa per la quale chiediamo la Vostra cortese collaborazione si svolgerà sabato 28 maggio ore 11, presso la Camera del lavoro di Gravina, sita in piazza della Repubblica.
Distinti saluti
Il presidente dell’ANPI di Gravina in Puglia
Gravina in Puglia, 14 maggio 2011
Da: Cathrin Schütz
Data: 16 maggio 2011 11.01.04 GMT+02.00
Oggetto: NATO in Beograd
English/Srpski
Dear friends, dear colleagues,
our friends Vladimir Krsljanin and Goran Petronijevic of Pokret za Srbiju are leading a campaign in Serbia against the upcoming NATO summit in Belgrade.
You can support the action by signing the online petition and spread the link:
http://www.thepetitionsite.com/1/FOR-SERBIA-FREE-OF-NATO-ZA-SRBIJU-BEZ-NATO/
The title "FOR-SERBIA-FREE-OF-NATO" is the title of their campaign. They have the petition and also will organize an anti-NATO-action (concert) in downtown Belgrade.
Here is the Belgrade NATO conference web site:
http://www.act.nato.int/smpc
Best,
Cathrin Schütz
NATO je izvrsio agresiju na nasu zemlju. U savezu sa teroristima i narkomafijom, NATO pokusava da otcepi Kosovo i Metohiju od Srbije. NATO cini zlocine sirom sveta.
Zahtevamo:
1. Da se otkaze odrzavanje NATO konferencije 13-15. juna u Beogradu;
2. Da sluzbenici NATO zemalja napuste sva ministarstva i institucije u Srbiji.
FOR SERBIA FREE OF NATO!
To: The President of the Republic of Serbia, The Government of the Republic of Serbia and The Parliament of the Republic of Serbia
NATO waged a war of aggression against our country. In alliance with terrorists and narco-mafia, NATO attempts to cut Kosovo and Metohija from Serbia. NATO commits crimes all over the World.
We demand:
1. The NATO Conference scheduled for 13-15 June in Belgrade to be canceled;
2. That "advisers" from NATO countries leave all ministries and institutions in Serbia.
NATO’s crimes from Kabul to Belgrade
Over the course of the last 20 years NATO has been revealed as the top criminal conspiracy of the world. It’s the mob boss of all mobsters. NATO, an imperialist military alliance led by the U.S., terrorizes whole continents. From Kabul to Tripoli, NATO is raining death from the skies.
The actual bombings, deaths and destruction are, of course, more of a problem for humanity than the hypocrisy and lies NATO tells. The hypocrisy simply adds insult to injury. Thus NATO not only bombed and killed 11 imams in Libya, but it murdered these religious leaders — who were trying to negotiate an end to the civil war — in the name of “protecting civilians.”
Now that there is no Soviet counterforce to hold their arrogance in check, the leaders of the imperialist powers — and NATO is their weapon of choice — have no shame. They no longer need to even think about a serious military opposition, although that doesn’t stop them from squeezing taxes out of the workers here, so the military-industrial complex can charge cost overruns for more doomsday weapons.
Yet despite their overwhelming military might, NATO has won no wars nor stabilized any conquests lately. Their arrogance leads them to underestimate their enemy: the world’s people, who resist being recolonized. The imperialist armies have spent 10 years in Afghanistan and sent 150,000 troops there, but they still can’t get control of that country. The U.S. invaded Iraq and still has less control there than the ruling class bargained for. And although Libya has only 6 million people, the NATO big shots project it will take months of bombing to achieve their objectives.
On top of all this, the swelled NATO heads may be underestimating another people. After decades as an anti-Soviet alliance, NATO’s first actual war was against Yugoslavia. In 1999, NATO celebrated 50 years of its existence with a 78-day bombing run against Serbia, doing much damage to Belgrade, Novi Sad and some industrial areas of the former Yugoslavia and killing thousands of people. The Pentagon still has an enormous military base, Camp Bondsteel, in the Kosovo province the imperialists want to wrench from Serbia.
Do the NATO tops think the people of Serbia have forgotten all this? They have chosen Belgrade, the capital of Serbia — and once of all Yugoslavia — as the site of NATO’s June 13-15 Strategic Military Partner Conference. This is the part of NATO aimed at integrating countries that used to be socialist into the military alliance. Now the unemployed youth of what have become capitalist countries can be cannon fodder for imperialist adventures in Africa and Asia or be used to surround Russia.
There are already plans for a protest — in the form of a concert — during the NATO meeting. Opponents of NATO’s war against Yugoslavia and the overturn in Serbia are leading a campaign against the conference. It was at open-air concerts in 1999 that Belgrade’s people defied the NATO bombers. Now the organizers are promoting a petition that demands canceling the conference and expelling all the “advisers” from NATO countries now running ministries and institutions in Serbia. See http://goo.gl/WK6bW.
Workers World offers our solidarity to the people of the former Yugoslavia who are resisting NATO. We hope this is another example where the imperialists have underestimated the people. We want NATO and U.S. troops and bombs out of Eastern Europe and the Balkans, just as we want them out of Afghanistan, Pakistan, Iraq and Libya. We must stop the superrich from plundering our budget here just so they can better plunder the rest of the world.
Besides our solidarity, we should remember that the next NATO summit will be held in 2012 in the United States. They haven’t announced a date or venue yet, so let’s keep an eye on it.
Workers World, 55 W. 17 St., NY, NY 10011
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Oggetto: Le prossime presentazioni a Roma-Arezzo-Terni-Firenze...
Data: 16 maggio 2011 22.28.30 GMT+02.00
Storie e memorie di una vicenda ignorata
La scheda del libro sul sito di CNJ-onlus: https://www.cnj.it/documentazione/bibliografia.htm#partigiani2011
La scheda del libro su Facebook: http://www.facebook.com/event.php?eid=103675256383363
Ordina il libro: http://www.odradek.it/html/ordinazione.html
con: Andrea Martocchia (autore), R. Veljović (sindacalista Zastava Auto - Kragujevac), Giacomo Scotti (saggista)
https://www.cnj.it/PARTIGIANI/progetto.htm#firenze220511
Da: Alessandro Di Meo <alessandro.di.meo@...>Data: 11 maggio 2011 13.36.12 GMT+02.00Oggetto: dal recente viaggio in Serbia...cari tutti,
oltre a ricordarvi i prossimi appuntamenti:
- sabato 14 maggio, ore 20,30, a Milano, presso il circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, viale Monza 255, presentazione dell'Urlo del Kosovo;
- mercoledì 1 giugno, ore 20,30, presso l'auditorium Ennio Morricone, facoltà Lettere e Filosofia, università Roma "Tor Vergata", spettacolo a sottoscrizione per il progetto di risistemazione della scuola di Trmbas, Kragujevac (Serbia),
vi invito alla lettura di un mio breve racconto appena tornato dalla Serbia, che troverete su:
http://unsorrisoperognilacrima.blogspot.com/
MERCOLEDÌ 11 MAGGIO 2011
Radnacciàsu!
“Radnacciàsu”, che in serbo vuol dire compito in classe, non le piace e quella doppia C proprio non riesco a pronunciarla come lei vorrebbe.
Ha sette anni, Tanja, e ride insieme alla sua amichetta, Anastasija, anche lei di sette anni. Siamo nella scuola Vuk Stefanović Karadžić di Trmbas, villaggio di Kragujevac, in Serbia. La scuola è situata in un campo abitato da famiglie profughe dal Kosovo, vittime dei bombardamenti Nato del ‘99.
Prima delle bombe “umanitarie”, quel villaggio era la sede estiva di tanti alunni delle scuole elementari. Ora, è un piccolo vulcano dove tanta rabbia si accumula, giorno dopo giorno, nell’indifferenza di chi ha causato tutto questo. Quando arriviamo, qualcuno ci guarda diffidente, qualcuno ci chiede soldi, altri ci vogliono solo mostrare le loro povere cose.
Stanno così da 12 anni, il loro presente è fatto di lotte quotidiane per la sopravvivenza.
Stanno così da 12 anni e non sembrano avere un futuro.
Ma il futuro lo leggi negli occhi di giovani madri, come Velika, poco più che ventenne e già madre di due bambini.
Stanno così da 12 anni, e non sembrano avere passato. Ma il passato lo leggi negli occhi di anziane madri, come Dobrìla, che ci mostra la foto del suo giovane figlio mai dimenticato, ammazzato in Kosovo. I suoi assassini sono stati premiati dalle bombe della Nato e, quindi, da quelle dell’Italia, complice e rea confessa, per nulla pentita.
Oggi, a Kragujevac, c’è la visita del presidente della Serbia, Boris Tadić. Difficilmente passerà da queste parti. Così come difficilmente, da queste parti, conosceranno mai il maglioncino casual di Marchionne e le sue ricette di risanamento. Non avevano tanto bisogno di risanarsi, ai tempi della Jugoslavia, Kragujevac la chiamavano la “Torino dei Balcani”, con la sua fabbrica di automobili Zastava, oggi preda dei classici e consolidati ricatti del capitalismo occidentale: investimenti pubblici, profitti privati.
La nostra amica Rajka Veljović, dell’ufficio adozioni della Zastava, sindacato Samostalni, oggi licenziata da tutto ed espulsa, di fatto, dalla fabbrica, ci accompagna facendo da garante per noi nei confronti degli abitanti del villaggio. Il suo volto è triste, stanco, rassegnato. Sono anni che viene qui ma in tanti anni la situazione del villaggio è solo peggiorata.
E la tristezza diventa rabbia, per tutti questi anni di sfacelo e di drammi, per un paese che viveva la sua storia con assoluta dignità e fierezza.
Dignità e fierezza che ritroviamo in quel suo raccontarci della tomba di Tito, a Belgrado, che dal 2002 ha visto aumentare in modo esponenziale le visite. C’è chi la chiama “nostalgia”. Ma, forse, è solo ricordo indelebile di tempi migliori, ormai andati. Rabbia e ricordo, tristezza e disperazione.Qui a Trmbas, alla gente di questo villaggio, anche Milošević e il suo “regime” garantiva un salario, un’istruzione, cure, cibo, casa e dignità. Ma dalle nostre parti tutti lo consideravano un “regime”, una “dittatura” e si sa, di questi tempi si fanno guerre contro le “dittature”, nel nome di “libertà e diritti umani” e anche fra i "pacifisti", ormai, spesso si applaude agli interventi “umanitari”. Dalla Jugoslavia alla Libia, dall’Iraq alla Palestina, passando per l’Afghanistan o per l’Africa. Salvo sorvolare sui risultati finali di queste guerre, che producono tragedie enormi e incontrollate, ma nel silenzio più totale, dove concetti come “libertà e diritti umani” scompaiono dalle agende politiche e dai mass-media.
Anche le persone di questo villaggio, senza saperlo, sono oggi libere e padrone di sé stesse. Non si rendono conto di quanto sia bello essere padroni di sé stessi. E’ la democrazia. Nessuno più che ti impone cose, ma le scegli tu. Anche se sei ridotto allo sbando e non sai dove sbattere la testa, sarà uno sbando… libero!
Tanja ci consegna il compito in classe svolto.
“Radnacciàsu”, adesso ho imparato, anche se a me sembra di pronunciarlo come prima. Lo consegnano anche gli altri bambini che abbiamo coinvolto in questo nostro gioco. Hanno scritto nome e cognome, luogo e data di nascita. Sono nati a Kragujevac, in Serbia. Hanno dai sette ai dieci anni. Si chiamano Tanja, Anastasija, Sladjana, Stefan, Marina, Filip. Le loro famiglie sono state cacciate dal Kosovo e Metohija, la loro terra. Dodici anni fa. E questo villaggio, nel cuore dell’Europa, aspetta che l’Europa si accorga della sua esistenza. Ma, forse, sarà meglio di no. Già una volta, l’Europa, si è ricordata di loro. Crediamo possa bastare.
p.s. Per il loro compito, abbiamo dato a questi bambini voto 5, il massimo nella scuola serba. Hanno bisogno di credere fortemente in loro stessi.
Mani sporche sulla guerra in Libia
di Sergio Cararo*
Nella guerra di Libia, stanno emergendo una dietro l'altra tutte le assai poco nobili motivazioni che hanno portato le maggiori potenze europee della Nato a scatenare una operazione militare vera e propria contro quello che fino a tre mesi era ritenuto “un membro decisivo del partenariato euro-mediterraneo”.
Ormai sono sempre meno coloro disposti ad accettare la motivazione ufficiale che ministri e bollettini della Nato ripetono come un mantra ossia “la protezione dei civili”. Gli ultimi bombardamenti della Nato poi hanno colpito gli edifici della televisione e dell'agenzia di stampa libica. Cosa hanno a che fare con la “protezione dei civili” a Bengasi o a Misurata? E' tempo di cominciare a chiamare le cose con il loro nome.
In questo caso sono i fatti – più che le opinioni – a inchiodare le "mani sporche" dei governi della Nato che hanno riempito il Mediterraneo di navi militari e riempito di missili e bombe le città libiche, siano esse vicine o lontane dal fronte della guerra civile che oppone le milizie di Gheddafi a quelle del Cnt di Bengasi.
La missione militare di “protezione civile” è diventata una caccia all'uomo con bombardamenti che si configurano come tentativi di omicidio mirato contro Gheddafi e i suoi familiari. In pratica siamo di fronte ad un terrorismo di Stato, in qualche modo eccitato dalla vicenda dell'uccisione di Osama Bin Laden, che punta all'eliminazione fisica del “nemico di turno” come presupposto alla soluzione politica o negoziata del conflitto;
La missione di “protezione dei civili” si dissolve qualora i civili assumono le fattezze dei profughi che dall'Africa o dal Maghreb fuggono verso le coste italiane su carrette e mezzi di fortuna. Le navi militari della Nato o li ignorano – e li lasciano morire nella tomba d'acqua del Mediterraneo – o si limitano a lanciare qualche bottiglietta d'acqua o qualche scatola di biscotti. Dopodichè le regole di ingaggio finiscono lì.
L'eliminazione del regime di Gheddafi sta assumendo i contorni di un “grosso affare” in molti sensi. Da un lato il sequestro dei beni finanziari libici all'estero, ha portato nelle casse delle banche dove erano depositate un bottino di quasi 120 miliardi di dollari. Si tratta dei beni della Lia (Lybian Investment Authority), della Central Bank of Lybia e della National Oil Corporation, congelati dalle sanzioni. Per aggirare il divieto di utilizzarli a proprio piacimento, le banche e i governi della Nato hanno escogitato un trucchetto con enormi conseguenze politiche e diplomatiche: hanno dovuto creare un soggetto. E' questa la spiegazione della fretta con cui alcuni paesi hanno riconosciuto il Cnt di Bengasi. Occorre tener conto che già il 19 marzo (con il conflitto appena iniziato) a Bengasi erano già state costituite la Central Bank of Bengasi e Libyan Oil Company, due soggetti giuridici in grado di dare un quadro legale al sequestro dei beni libici dovuto alle sanzioni.
Nei mesi scorsi, qualcuno deve aver pensato che il presidente francese Sarkozy fosse stato “mozzicato dalla tarantola”. Il suo oltranzismo e la sua fregola, hanno trascinato nei bombardamenti sulla Libia i governi di Usa, Gran Bretagna e poi l'Italia. Qual'era la ragione di questa escalation da parte dell'establishment francese? Alcuni hanno detto che erano ragioni elettorali e di calo di consensi. Come abbiamo visto alcune delle motivazioni erano altre e molto più concrete. Ma ce ne sono altre che attengono al ruolo colonialista della Francia in Africa e che solo in queste settimane sono state portate alla luce e all'attenzione di chi troppo facilmente dimentica il passato e il presente coloniale delle potenze europee (Italia inclusa) nelle relazioni con la sponda sud del Mediterraneo e il continente africano.
Per la Francia, il fronte libico era del tutto speculare a quello in Costa d'Avorio, il quale nello stesso periodo in cui si è iniziato a bombardare la Libia, ha visto l'intervento militare francese per deporre con la forza l'ex presidente ivoriano Gbagbo. Motivo? Gbagbo, come Gheddafi, per quanto fossero discutibili sul piano democratico, avevano però cercato di sganciare i paesi africani – aderenti all'Unione Africana – da quello che era il Cfe, cioè l'unità di conto monetaria che vincola le economie e addirittura gli accordi commerciali con altri paesi da parte dei paesi africani francofoni .... alle decisioni della Francia. Il cambio di regime in Libia come in Costa d'Avorio sono stati perseguiti sistematicamente e pesantemente dal governo francese sin dall'inizio di tutta la vicenda.
Qualcun'altro si domanderà: ma le rivolte del mondo arabo come si connettono a tutto questo? Una parte della risposta viene dalla filosofia dell'amministrazione Obama su quanto sta accadendo in Medio Oriente: “evolution but not revolution”. La modernizzazione possibile e i cambiamenti che stanno intervenendo in questa regione strategica, possono vedere al massimo una “evoluzione” nel senso della struttura politica con riforme che introducano meccanismi simili (ma non identici) a quelli dei paesi occidentali. Ma guai se dovessero mettere in discussione anche la struttura economico-sociale: rapporti di proprietà, nazionalizzazione delle risorse, distribuzione delle royalties sul petrolio etc. In quel caso altro che rivoluzione democratica, se non dovessero bastare i militari dei vari governi, regimi, monarchie arabe, le cannoniere della Nato sono già posizionate nel Mediterraneo e nel Mar Arabico. Chiaro il segnale?
Se queste osservazioni sono vere – e abbiamo la netta sensazione che lo siano – è evidente come a questo punto la Francia e le altre potenze della Nato perseguano l'omicidio di Gheddafi come un passaggio necessario per far quadrare l'operazione. Ne hanno creato i presupposti legali (la risoluzione dell'Onu, il riconoscimento di un nuovo soggetto di governo attraverso il Cnt di Bengasi) e ne stanno perseguendo la realizzazione con i “bombardamenti mirati”.
A fronte di tale presupposto e di tale evoluzione della guerra, chi accetta ancora di nascondersi dietro il dito della “protezione dei civili” è un complice di una operazione di stampo nitidamente coloniale che – esattamente un secolo dopo l'invasione italiana della Libia – si sta realizzando sotto i nostri occhi tra l'inerzia e la complicità delle “forze democratiche” e le grandi difficoltà che incontra il movimento contro la guerra in un contesto in cui “l'imperialismo cattivo” stavolta non è quello statunitense ma quello dal “volto umano” della nostra cara, vecchia e maledetta Europa.
Domenica prossima, a Roma, le reti del movimento No War che non hanno rinunciato a mobilitarsi contro questa guerra dal carattere sempre più palesemente coloniale, terranno una nuova assemblea nazionale per discutere come gettare sabbia e indignazione dentro questo ingranaggio. Ci si vede alle ore 10.00 in via Galilei 53. E' un appuntamento che pochi possono permettersi il lusso di perdere.
* editoriale di Contropiano, giornale comunista online, dell'11 maggio
Mercoledì 11 Maggio 2011 18:52
Roma. Pacifisti contestano davanti alla direzione del Partito Democratico
di Redazione Contropiano
Oggi pomeriggio, un folto gruppo di attivisti della Rete romana contro la guerra, hanno inscenato una manifestazione di protesta davanti alla sede nazionale del Partito Democratico a Roma nella centralissima via Sant'Andrea delle Fratte.
Nei cartelli e negli slogan i motivi della contestazione. “Il PD ha votato a favore della guerra”; “Non esistono guerre umanitarie”, “l'art.11 va rispettato”.
Gli attivisti contestano al PD di aver votato in Parlamento a favore della guerra e dei bombardamenti sulla Libia invece di incalzare il governo sulle sua contraddizioni.
Critiche anche verso il Presidente della Repubblica Napolitano che – secondo gli attivisti della Rete contro la guerra – ha il dovere di difendere anche l'art.11 della Costituzione e non di fare la sponda a chi ha voluto portare l'Italia a fare la guerra in Libia. Già alla fine di marzo la rete contro la guerra aveva infatti manifestato sotto il Quirinale.
Gli attivisti fanno riferimento ai sondaggi secondo i quali la maggioranza dell'opinione è contraria all'intervento militare italiano in Libia ma anche in Afghanistan, eppure la maggioranza parlamentare continua a sostenere le missioni militari all'estero. Per questo hanno chiesto un incontro con la direzione del PD ritenendo che di fronte agli sviluppi della guerra nel Mediterraneo ognuno deve assumersi le proprie responsabilità anche di fronte ai propri elettori.
Nei volantini distribuiti ai passanti gli attivisti annunciano una assemblea nazionale del movimento contro la guerra per domenica prossima a Roma e la partecipazione alla manifestazione nazionale di sabato a sostegno della Freedom Flotilla che intende raggiungere Gaza rompendo il blocco navale israeliano.
L'iniziativa ha provocato parecchio sconquasso nel quadrante della città politica. Polizia e carabinieri si sono precipitati in forze identificando gli attivisti, ma il sit in è proseguito tra battibecchi e discussioni. Mentre davanti alla sede del PD si procedeva all'identificazione, altri attivisti ne hanno approfittato per volantinare nelle strade circostanti. Il responsabile dell'Area Mediterranea del PD è uscito dalla sede dicendosi disponibile a discutere... ma solo dopo le elezioni...ballottaggi inclusi. Ovvero non prima di giugno! La guerra in Libia non è decisamente tra le priorità del Partito Democratico.
Qui di seguito il volantino distribuito durante la contestazione alla direzione nazionale del Partito Democratico
VERGOGNA! L'ITALIA BOMBARDA LA LIBIA CON VOTO BIPARTISAN
Perché oggi protestiamo davanti alla sede del Partito Democratico
Le bombe sono un crimine e bombardare significa uccidere i civili e non solo i soldati.
I bombardamenti mirati non esistono.
La cosa la cosa più paradossale e vergognosa, è che i sostenitori dei bombardamenti, dei bombardieri e dell’impegno militare italiano, giustificano la loro guerra “per proteggere i civili” mentre le loro navi li ignorano se stanno morendo in mezzo al Mar Mediterraneo, mentre con le loro bombe li uccidono nelle città libiche, mentre negano il cessate il fuoco e i corridoi umanitari, li costringono a fuggire come profughi e rimangono come inetti quando arrivano sulle nostre coste
La “protezione dei civili” è in realtà diventata un cavallo di Troia che consente alle potenze della NATO di entrare in Libia per conquistarla con un cambio di regime, è diventato il pretesto mediatico per giustificare la guerra e acquisire consenso.
L’anomalia italiana vede un Presidente della Repubblica sostenere una guerra in violazione dell’art.11 della Costituzione.
Siamo indignate e indignati e facciamo appello alla coscienza civile e pacifica del movimento di lotta nel nostro paese per ridare forza e voce al ripudio della guerra
Oggi protestiamo ad alta voce davanti alla direzione del Partito Democratico
Sabato 14 maggio saremo in piazza nella manifestazione per la Palestina e a sostegno della Freedom Flotilla diretta a Gaza per rompere l’assedio dei palestinesi (ore 14.30 piazza della Repubblica)
Domenica 15 maggio alle 10.00 terremo una Assemblea Nazionale contro la guerra a Roma, (Sala di Via Galilei 53).
Rete romana contro la guerra
PRIMO MAGGIO DI GUERRA
La "fabbrica del falso" sulla guerra in Libia
di Vladimiro Giacché
Il collasso dell'informazione occidentale sulla guerra i Libia sotto l'egemonia della "fabbrica del falso". Un saggio di Vladimiro Giacché.
La fabbrica del falso e la guerra in Libia
“Attraverso la ripetizione, ciò che inizialmente appariva solo come accidentale e possibile, diventa qualcosa di reale e consolidato”
G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie del Geschichte, in Sämtliche Werke, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1971, Bd. 11, p. 403.
L’attacco della Nato contro la Libia iniziato il 19 marzo 2011 rappresenta un caso emblematico a più riguardi. In primo luogo, conferma in modo eclatante una verità più generale: nel mondo contemporaneo la propaganda, la guerra delle parole e delle immagini è ormai parte della guerra stessa. In secondo luogo, evidenzia la confusione che regna in una sinistra che – anche quando si pretende “radicale” e conseguente – in Italia come in tutti i paesi occidentali, ha dimostrato una sorprendente arrendevolezza e subalternità rispetto alla propaganda e all’informazione ufficiale. Si tratta di un fenomeno tanto più significativo in quanto anche in questo caso – come già era accaduto per l’Iraq – gli stessi Paesi aderenti alla Nato si sono presentati all’appuntamento divisi: l’astensione della Germania già in sede Onu si è trasformata in decisa presa di distanza dalle operazioni, e la stessa Turchia ha manifestato il proprio dissenso rispetto alla conduzione della guerra. Ma mentre ai tempi della guerra di Bush le divisioni nel campo imperialista avevano grandemente giovato al movimento per la pace, in questo caso nulla di questo è avvenuto. Lo stesso gruppo parlamentare della GUE al Parlamento Europeo si è spaccato, e nel nostro Paese si è assistito al grottesco spettacolo di un PD assai più guerrafondaio degli stessi partiti di governo, mentre SEL ha tenuto un atteggiamento inizialmente ondivago (con una parte della base favorevole all’intervento) e soltanto la Federazione della Sinistra ha avuto da subito posizioni intransigenti sull’argomento.
In questo articolo esaminerò i principali dispositivi che la fabbrica del falso ha posto in essere nel caso della guerra di Libia, e proverò ad individuare i motivi di fondo che hanno indotto molti, anche a sinistra, a cedere alla propaganda di guerra. Nel mio argomentare metterò in gioco lo schema interpretativo che ho esposto più diffusamente nel mio libro La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea(DeriveApprodi, 20112). In questo testo proponevo un insieme di strategie di attacco alla verità non assimilabili alla menzogna pura e semplice. Vediamo come queste strategie sono entrate in gioco nel caso libico.
La verità mutilata
La verità viene mutilata quando nel trattare di un evento non si fa menzione del contesto in cui si colloca, delle circostanze, di ciò che gli sta attorno. O, semplicemente, la si racconta a metà.
Nella famosa sequenza dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Bagdad, divenuta una delle icone della guerra in Iraq, le inquadrature mandate in onda sulle tv internazionali e pubblicate sui giornali erano così ravvicinate da non mostrare che la piazza era praticamente deserta e che la “folla festante” si riduceva a poche decine di iracheni.1 In questo caso la verità viene mutilata dal taglio delle foto, che impedisce di vedere lo spazio in cui ha luogo l’evento, e ne induce una falsa rappresentazione.
Nel caso libico esiste un episodio del tutto parallelo. Si tratta della famosa foto che il 22 febbraio i media di tutto il mondo hanno rilanciato con grande evidenza sotto il nome di “fosse comuni in Libia”. Quello che la foto riprende è in realtà un normale cimitero in cui si stanno preparando alcune tombe singole, ma gli scatti che hanno fatto il giro del mondo non consentono di capirlo. Ma c’è di più: come ha rivelato il giornalista Rai Amedeo Ricucci, lestesse foto erano già state messe in rete mesi fa. Lo stesso Ricucci a questo proposito ha raccontato un episodio interessante. Il caporedattore di un’importante agenzia di stampa italiana, accortosi della bufala, fatto presente al suo direttore che si trattava di foto vecchie. La risposta del direttore è stata: “[questa notizia] gli altri la danno, non possiamo bucare”.2
Questo meccanismo è tutt’altro che nuovo. Il 26 e 30 maggio 2004, il New York Times fece autocritica sull’atteggiamento tenuto nei confronti della guerra in Iraq, ammettendo – in un editoriale firmato dalla direzione del quotidiano e poi in un articolo del garante dei lettori – che alcuni articoli “non erano stati rigorosi a sufficienza”, e si erano giovati di fonti “discutibili”. Di più: il quotidiano ammise che la copertura offerta era stata un fallimento “non individuale ma istituzionale”: un “fallimento” fatto anche di titoli strillati in prima con notizie false. In quel contesto ilNew York Times fece riferimento anche all’“ansia di scoop”, quale movente che avrebbe indotto a pubblicare notizie senza verificarne in misura adeguata l’attendibilità. Anche Franck de Veck (ex direttore del settimanale tedesco Die Zeit) ha attribuito una parte della colpa delle notizie false pubblicate nel caso iracheno alla necessità per i giornali di decidere rapidamente cosa mettere in pagina: “meglio un’opinione, anche non suffragata da prove, che nessuna”.3
Lo stesso è avvenuto nei primi giorni dei disordini in Libia. Se tutti i giornali aprono sui 10.000 morti in Libia, notizia lanciata dalla televisione saudita Al-Arabiya il 24 febbraio e assolutamente inverificabile, io – giornalista della redazione x – che faccio? “Prendo un buco” o la metto anch’io? Da un punto di vista di etica dell’informazione, la scelta dovrebbe essere ovvia: non la metto. In pratica succede quasi sempre il contrario: perché il fatto che tutti mettano una notizia non verificata mi copre se risulterà non vera. E in effetti, la notizia in questione si è rivelata falsa, come false erano le generalità dei presunti funzionari della Corte Penale Internazionale che ne sarebbero stati la fonte. Ma ha contribuito a creare il clima psicologico per predisporre l’opinione pubblica occidentale alla decisione di effettuare un intervento militare in Libia. Lo stesso vale per l’episodio raccontato da Ricucci, con l’aggravante – in quel caso – che la verifica era stata fatta e aveva dato esito negativo.
La verità messa in scena
Il mosaico delle verità dimezzate (le presunte atrocità commesse dai soldati di Gheddafi, mentre ovviamente i soldati lealisti ammazzati o umiliati dai rivoltosi della Cirenaica non vengono mostrati, o – quando lo sono – vengono etichettati come “mercenari”) e delle pure e semplici falsità finisce per comporre una più generale verità messa in scena. Una rivolta tribale è trasformata in rivoluzione democratica, gli scontri armati tra ribelli e truppe regolari sono trasformati in “genocidio” ad opera di queste ultime (memorabili alcuni titoli in prima del Fatto Quotidiano), e un personaggio come Gheddafi si trasforma, da un giorno all’altro, da affidabile partner d’affari a una via di mezzo tra Adolf Hitler e Idi Amin Dada; ovviamente, in parallelo alla demonizzazione del dittatore, c’è l’idealizzazione degli insorti, che attinge vette di notevole lirismo. Lo prova tra gli altri un titolo di Repubblica del 23 marzo: “Al fronte in sella a una Kawasaki i sorridenti guerrieri della rivoluzione”; con tanto di sottotitolo rock: “Un inno ispirato a Jim Morrison per l’esercito della nuova Libia”. Il messaggio sottinteso di questa ridicola propaganda di guerra: loro sono come noi, Gheddafi e i suoi sono dei barbari o – come pure è stato detto – “beduini”.
La principale verità messa in scena riguarda però le motivazioni dell’intervento militare occidentale, ossia il presunto diritto all’“ingerenza umanitaria”. Un memorabile testo di Danilo Zolo riferito all’aggressione alla Jugoslavia, come noto giustificata nello stesso modo, reca come titolo le prime parole di una frase di Proudhon: “Chi dice umanità cerca di ingannarti”.4 Sono parole di profonda verità. E non da oggi. Chiunque conosca la storia del colonialismo non avrà difficoltà a rinvenire i precedenti di questa giustificazione. A metà Ottocento, a sentire re Leopoldo del Belgio, la sua Associazione Internazionale per il Congo – uno dei principali strumenti del colonialismo belga – intendeva “rendere dei servigi duraturi e disinteressati alla causa del progresso”. Il raffinato storico dell’arte Ruskin nel 1870 vedeva nell’Inghilterra “un’isola che impugna lo scettro, fonte di luce e centro di pace per il mondo intero”; un’Inghilterra il cui dovere, per adempiere a tale missione, era quello di “fondare nuove colonie il più lontano e il più rapidamente possibile, insediandovi i più energici e valorosi tra i suoi uomini”, per poi “radunare in sé la divina conoscenza di nazioni lontane, passate dalla barbarie all’umanità e redente dalla disperazione alla pace”.5 Oggi la stessa litania la sentiamo nella forma del cosiddetto “imperialismo dei diritti umani” (Ignatieff), o – addirittura – dell’“imperialismo benevolo” (Kaldor). È una litania che negli ultimi anni è stata intonata più volte: a proposito del Kosovo, dell’Afghanistan, dell’Iraq, e ora della Libia.6 Ora, è logico che chi si rende colpevole di una guerra di aggressione preferisca ammantare le proprie azioni con motivazioni altruistiche. Un po’ meno logico è che si dia credito a queste giustificazioni autoapologetiche.
Ma c’è qualcos’altro da dire a questo riguardo: l’“ingerenza umanitaria”, dagli anni Novanta in poi, venuto meno il contrappeso di potere rappresentato dall’Unione Sovietica, è stata il grimaldello con cui gli Stati Uniti e i loro alleati hanno scardinato i principi di non ingerenza e di autodeterminazione dei popoli stabiliti nella Carta dell’Onu del 1948 (art. 1, par. 2 e art. 2, par. 7).7 Purtroppo, quello che oggi sembra difettare a sinistra è la capacità di capire il funzionamento di questo grimaldello e le sue conseguenze devastanti non soltanto per la pace nel mondo, ma per la stessa autodeterminazione delle nazioni.
La verità rimossa
Speculare alla verità messa in scena è la verità rimossa. La verità messa in scena ha infatti tra le sue principali finalità proprio quella di nascondere verità scomode. Che in questo caso sono più d’una.
La prima riguarda ovviamente i veri motivi dell’intervento in Libia. Che sono essenzialmente due, tra loro legati: l’opportunità di controllare – dividendolo – un Paese come la Libia e di mettere direttamente le mani su importanti giacimenti petroliferi. “Direttamente” significa: senza le onerose (per le compagnie petrolifere occidentali)royalties che Gheddafi aveva imposto per il petrolio estratto dal territorio libico. Questo risultato sarebbe raggiunto qualora si avverasse la previsione formulata il 28 marzo dal quotidiano arabo (ma stampato a Londra) al-Quds al-Arabi: il risultato dell’intervento militare occidentale potrebbe essere la divisione della Libia in “due stati, un Est ricco di petrolio in mano dei ribelli e un Ovest povero, diretto da Gheddafi… Una volta garantita la sicurezza dei pozzi petroliferi, potremmo trovarci di fronte ad un nuovo emirato petrolifero in Libia, a bassa densità di popolazione, protetto dall’Occidente e molto simile agli Emirati del Golfo Persico”.
Che l’obiettivo sia questo, e non la “protezione dei civili”, ce lo dice meglio di mille parole quello che sta succedendo sul campo. La Risoluzione 1973 dell’Onu, che prevedeva lo stabilimento di una “no-fly zone” per “proteggere la popolazione civile”, è stata da subito violata da Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Che hanno immediatamente compinciato a colpire obiettivi a terra, anche quando si trattava di scontri tra l’esercito libico e i ribelli armati, e anche quando gli obiettivi colpiti erano lontani dal luogo delle operazioni. I più obiettivi, tra gli osservatori, ne hanno dato atto. Qualcuno pacatamente e senza troppo scandalizzarsi. Il generale Fabio Mini, ad esempio, ha scritto il 30 marzo perRepubblica un articolo a suo modo esemplare, che recava questo titolo: “Attacchi a terra e forze speciali. La vera guerra degli alleati per liberare la Libia da Gheddafi”. Ancora più chiaro il sottotitolo: “Non solo no-fly zone: così combatte l’Occidente”. Anche Sergio Romano si è limitato a descrivere quanto accaduto e a prevedere quanto presumibilmente accadrà: “abbiamo constatato che la no-fly zone è divenuta di fatto una guerra combattuta dal cielo (almeno per ora) contro lo stato di Gheddafi per garantire agli insorti una vittoria che sarebbe altrimenti improbabile… Dominati dal timore di fallire, gli alleati si vedranno costretti ad alzare progressivamente la soglia del loro intervento sino a trasformare la protezione dei civili in una vera e propria alleanza con i ribelli”.8
Altri, per deformazione professionale più attenti alle forme giuridiche, qualche preoccupazione l’hanno invece manifestata. È il c
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March 24, 2011
Reasons and False Pretexts
Why are They Making War on Libya?
By DIANA JOHNSTONE
Reason Number One: Regime change.
This was announced as the real objective the moment French president Nicolas Sarkozy took the extraordinary step of recognizing the rebels in Benghazi as "the only legitimate representative of the Libyan people". This recognition was an extraordinary violation of all diplomatic practice and principles. It meant non-recognition of the existing Libyan government and its institutions, which, contrary to the magical notions surrounding the word "dictator", cannot be reduced to the personality of one strongman. A major European nation, France, swept aside all those institutions to proclaim that an obscure group of rebels in a traditionally rebellious part of Libya constituted the North African nation’s legitimate government.
Since factually this was clearly not true, it could only be the proclamation of an objective to be reached by war. The French announcement was equivalent to a declaration of war against Libya, a war to defeat Qaddafi and put the mysterious rebels in power in his place.
False Pretext Number One: "to protect civilians".
The falsity of this pretext is obvious, first of all, because the UN Resolution authorizing military action "to protect civilians" was drawn up by France – whose objective was clearly regime change – and its Western allies. Had the real concern of the UN Security Council been to "protect innocent lives", it would have, could have, should have sent a strong neutral observer mission to find out what was really happening in Libya. There was no proof of rebel claims that the Qaddafi regime was slaughtering civilians. Had there been visible proof of such atrocities, we can be sure that they would have been shown regularly on prime time television. We have seen no such proof. A UN fact-finding mission could have very rapidly set the record straight, and the Security Council could then have acted on the basis of factual information rather than of claims by rebels seeking international aid for their cause.
Instead, the Security Council, now little more than an instrument of Western powers, rushed ahead with sanctions, referral of alleged present or expected "crimes against humanity" to the International Criminal Court, and finally an authorization of a "no-fly zone" which Western powers were certain to interpret as a license to wage all-out war against Libya.
Once the United States and its leading NATO allies are authorized to "protect civilians", they do so with the instruments they have: air strikes; bombing and cruise missiles. Air strikes, bombing and cruise missiles are not designed to "protect civilians" but rather to destroy military targets, which inevitably leads to killing civilians. Aside from such "collateral damage", what right do we have to kill Libyan military personnel manning airports and other Libyan defense facilities? What have they done to us?
Reason Number Two: Because it’s easy.
With NATO forces bogged down in Afghanistan, certain alliance leaders (but not all of them) could think it would be a neat idea to grab a quick and easy victory in a nice little "humanitarian war". This, they can hope, could revive enthusiasm for military operations and increase the flagging popularity of politicians able to strut around as champions of "democracy" and destroyers of "dictators". Libya looks like an easy target. There you have a huge country, mostly desert, with only about six million inhabitants. The country’s defense installations are all located along the Mediterranean coast, within easy reach of NATO country fighter jets and US cruise missiles. Libyan armed forces are small, weak and untested. It looks like a pushover, not quite as easy as Grenada but no harder than Serbia. Sarkozy and company can hope to strut their victory strut in short order.
False Pretext Number Two: Arabs asked for this war.
On March 12, the Arab League meeting in Cairo announced that it backed a no-fly zone in Libya. This provided cover for the French-led semi-NATO operation. "We are responding to the demands of the Arab world", they could claim. But which Arab world? On the one hand, Sarkozy brazenly presented his crusade against Qaddafi as a continuation of the democratic uprisings in the Arab world against their autocratic leaders, while at the same time pretending to respond to the demand of… the most autocratic of those leaders, namely the Gulf State princes, themselves busily suppressing their own democratic uprisings. (It is not known exactly how the Arab League reached that decision, but Syria and Algeria voiced strong objections.)
The Western public was expected not to realize that those Arab leaders have their own reasons for hating Qaddafi, which have nothing to do with the reasons for hating him voiced in the West. Qaddafi has openly told them off to their faces, pointing to their betrayal of Palestine, their treachery, their hypocrisy. Last year, incidentally, former British MP George Galloway recounted how, in contrast to the Egyptian government’s obstruction of aid to Gaza, his aid caravan had had its humanitarian cargo doubled during a stopover in Libya. Qaddafi long ago turned his back on the Arab world, considering its leaders hopeless, and turned to Africa.
While the Arab League’s self-serving stance against Qaddafi was hailed in the West, little attention was paid to the African Union’s unanimous opposition to war against the Libyan leader. Qaddafi has invested huge amounts of oil revenues in sub-Saharan Africa, building infrastructure and investing in development. The Western powers that overthrow him will continue to buy Libyan oil as before. The major difference could be that the new rulers, put in place by Europe, will follow the example of the Arab League sheikhs and shift their oil revenues from Africa to the London stock exchange and Western arms merchants.
Real Reason Number Three: Because Sarkozy followed BHL’s advice.
On March 4, the French literary dandy Bernard-Henri Lévy held a private meeting in Benghazi with Moustapha Abdeljalil, a former justice minister who has turned coats to become leader of the rebel "National Transition Council". That very evening, BHL called Sarkozy on his cellphone and got his agreement to receive the NTC leaders. The meeting took place on March 10 in the Elysée palace in Paris. As reported in Le Figaro by veteran international reporter Renaud Girard, Sarkozy thereupon announced to the delighted Libyans the plan that he had concocted with BHL: recognition of the NTC as sole legitimate representative of Libya, the naming of a French ambassador to Benghazi, precision strikes on Libyan military airports, with the blessings of the Arab League (which he had already obtained). The French foreign minister, Alain Juppé, was startled to learn of this dramatic turn in French diplomacy after the media.
Qaddafi explained at length after the uprising began that he could not be called upon to resign, because he held no official office. He was, he insisted, only a "guide", to whom the Libyan people could turn for advice on controversial questions.
It turns out the French also have an unofficial spiritual guide: Bernard-Henri Lévy. While Qaddafi wears colorful costumes and dwells in a tent, BHL wears impeccable white shirts open down his manly chest and hangs out in the Saint Germain des Près section of Paris. Neither was elected. Both exercise their power in mysterious ways.
In the Anglo-American world, Bernard-Henri Lévy is regarded as a comic figure, much like Qaddafi. His "philosophy" has about as many followers as the Little Green Book of the Libyan guide. But BHL also has money, lots of it, and is the friend of lots more. He exercises enormous influence in the world of French media, inviting journalists, writers, show business figures to his vacation paradise in Marrakech, serving on the board of directors of the two major "center-left" daily newspaper, Libération and Le Monde. He writes regularly in whatever mainstream publication he wants, appears on whatever television channel he chooses. By ordinary people in France, he is widely detested. But they cannot hope for a UN Security Council resolution to get rid of him.
Diana Johnstone is the author of Fools Crusade: Yugoslavia, NATO and Western Delusions. She can be reached at diana.josto@...
CounterPunch Weekend Edition
May 6 -8, 2011
A Pretext for War
Do We Really Need an International Criminal Court?
By DIANA JOHNSTONE
A little over four years ago, CounterPunch ran an article I wrote based on my presentation at an international conference held in Tripoli on the International Criminal Court. At a moment when the ICC is being used, predictably, to justify the NATO aggression against Libya, including the targeted assassination of Moammer Qaddafi, or a ground invasion ostensibly to capture him, I think it would be appropriate to rerun this article.--DJ
We agree. AC/JSC.
Year after year, people in the Arab countries are helpless spectators to the ongoing destruction of Iraq and Palestine by the United States and Israel. They see families wiped out by bombs in Afghanistan, Iraq and Lebanon. They see Arabs tortured and humiliated in Abu Ghraib and in Guantanamo. They see Israel regularly carrying out "targeted" assassinations in the Occupied Territories (splashing death around the target) while extending its illegal settlement of land belonging to Palestinians. Probably no people have greater cause to yearn for an equitable system of international justice. But where are they to look for it?
Well, what about the International Criminal Court (ICC)? The ICC is supposed to punish perpetrators of war crimes and crimes against humanity. It has been in operation since July 2002, but seldom gets as much attention as it received during a symposium in mid-January at the Academy of Graduate Studies in the Libyan capital, Tripoli. Underlying the two-day discussion on the "ambition, reality and future prospects" of the ICC was the question: is the ICC a first baby step toward international justice? Or is it just another element of Western "soft power", imposed on small countries?
Although Libyan leader Moammer Gadhafi has expressed the second view, on balance most of the legal experts and academics -- from Libya and other Arab countries, but also from Europe, China and South America -- tended to lean toward the first view. Although nobody denied the evident shortcomings of the ICC, lawyers and jurists generally see it as "better than nothing" and point out that democratic legal systems have evolved from institutionalized power relations toward greater justice.
Selectivity
Meanwhile, a new war front was opening up. Urged on by the United States, Ethiopia invaded Somalia to restore disorder. U.S. war planes bombed fleeing members of the Islamic Courts Council that only recently managed to end the clan fighting that had ravaged Mogadishu for some fifteen years. The newly installed, U.S.-backed president, Abdulli Yusuf Ahmed, 73, announced that there would be "no talks" with the defeated Islamists, who were to be wiped out as they fled.
Now it so happens that among the war crimes listed in the Statute of Rome that governs the ICC is this one (Article 8.2.b.xii): "Declaring that no quarter will be given". This is exactly what the Ethiopian-U.S.-backed conquerors were doing. But there was no chance that the ICC would deal with this latest outburst of international criminal behavior.
Indeed, after four and a half years of existence, the ICC has taken just one suspect into its custody: Thomas Lubanga Dyilo, head of a rebel militia in the impenetrable Ituri forest in the eastern part of the Democratic Republic of Congo (ex-Zaïre). He is held under Article 8 (war crimes), section 2.e.vii on charges of recruiting children under the age of 15 to fight in his militia.
This is certainly bad behavior, but considering all that is going on in the world today, it hardly seems to rank among "the most serious crimes of concern to the international community as a whole" (Article 5, defining the crimes within jurisdiction of the court). A French judge working as an investigator in the ICC Prosecutor's office, Bernard Lavigne, acknowledged that since it is clearly unable to deal with all the crimes in the world, the Court is necessarily selective. He defended the selection of this lone suspect by the need to start off with an air-tight case that the Prosecution was sure to win.
Therein, however, lies one of the ICC's more subtle and insidious vices. Although the Statute formally upholds the "presumption of innocence", all the details point to a Court whose job is not meant to sort out the innocent from the guilty, but to punish the (presumed) guilty. Politically, the creation of the ICC responds to demands of various NGOs, given great resonance by Bosnia and especially Rwanda, to "end impunity" and to comfort victims. The underlying political assumption is that both the criminals and the victims can be easily identified prior to trial -- the trial being more a demonstration of the concern of the international community for justice than the search for a justice, and a truth, that may be elusive or seriously contested.
Like the ad hoc tribunals for Yugoslavia and Rwanda, the ICC, despite its title, is not essentially set up to deal with international conflicts, but rather to administer "international" justice to internal conflicts, in countries too weak to resist its authority.
The total impotence of the ICC to deal with the most dangerous crimes truly "of concern to the international community as a whole", those that outrage public opinion not only in the West but in all parts of the world, those that seriously threaten world peace, is most strikingly due to:
-- the fact that the crime of aggression is not covered;
-- the fact that the United States and its citizens are immune to prosecution, first of all because the United States has not ratified the ICC Statute, and secondly, because the United States has used its unprecedented economic and political clout to pressure countries into signing Bilateral Immunity Agreements (BIAs) that exempt Americans from prosecution. One hundred and two countries have signed BIAs with the United States.
Aggression exempted
Article 5 of the Rome Statute limits the jurisdiction of the Court to:
(a) The crime of genocide;
(b) Crimes against humanity;
(c) War crimes;
(d) The crime of aggression.
However, it goes on to specify that the Court "shall exercise jurisdiction over the crime of aggression once a provision is adopted [...] defining the crime and setting out the conditions under which the Court shall exercise jurisdiction with respect to this crime." In short, the crime of aggression is for the time being exempted from the Court's jurisdiction.
The formal reason is that aggression is "not defined". This is a specious argument since aggression has been quite clearly defined by U.N. General Assembly Resolution 3314 in 1974,
which declared that: "Aggression is the use of armed force by a State against the sovereignty, territorial integrity or political independence of another State", and listed seven specific examples including:
-- The invasion or attack by the armed forces of a State of the territory of another State, or any military occupation, however temporary, resulting from such invasion or attack, or any annexation by the use of force of the territory of another State or part thereof;
-- Bombardment by the armed forces of a State against the territory of another State or the use of any weapons by a State against the :territory of another State;
-- The blockade of the ports or coasts of a State by the armed forces of another State...
The resolution also stated that: "No consideration of whatever nature, whether political, economic, military or otherwise, may serve as a justification for aggression."
The real reason that aggression remains outside the jurisdiction of the ICC is that the United States, which played a strong role in elaborating the Statute, before refusing to ratify it, was adamantly opposed to its inclusion. It is not hard to see why..
This went against the nearly unanimous opinion of most of the world, which recalls that the Nuremberg Tribunal condemned Nazi leaders above all for the crime of aggression, as the "supreme international crime" which "contains within itself the accumulated evil of the whole".
It may be noted that instances of "aggression", which are clearly factual, are much easier to identify than instances of "genocide", whose definition relies on assumptions of intention.
Defenders of the ICC stress that "aggression" may be defined, and thus come under the active jurisdiction of the Court, at the Review Conference which should be held in 2009 to consider amendments. Even so, an amendment comes into force only one year after ratification by seven eighths of State Parties to the Statute, and applies only to State Parties (which so far notoriously do not include the United States). And should the United States turn around and choose to ratify the Statute, it may still declare that for a period of seven years it does not accept the jurisdiction of the Court for its nationals (Article 124). All this means that the earliest conceivable (but highly improbable) date when U.S. crimes, including aggression, might be brought under ICC jurisdiction would be 2017. Even then, there is scarcely any possibility that an American citizen, or any person acting on behalf of the United States, would end up in the dock at the ICC.
For one thing, the ICC must turn over jurisdiction to any State which proves "willing and able" to try the case in its own courts.
Moreover, Article 16 allows the Security Council to suspend any ICC investigation or prosecution for a period of 12 months. The suspension can be renewed indefinitely. These days, the Security Council is generally viewed throughout the world as an instrument of U.S. policy.
The BIAs would still apply.
And incidentally, employing poison gases counts as a war crime, but not the use of nuclear weapons.
In short, the ICC is established according to double standards to deal with small fry.
A court for "failed states"
Indeed, it is hard to see how the ICC can deal with any but extremely weak or "failed" States. According to Article 17, a case is not admissible unless the State concerned is genuinely "unwilling or unable" to investigate and prosecute it. The Court itself can determine whether the State concerned is "unwilling or unable".
At this point, the scene grows very murky. The Democratic Republic of Congo cooperated in turning over the case of Thomas Lubanga Dyilo to the ICC because he was a rebel against the State, and that troubled State has reason to want to be in the good graces of the ICC. But what if a State refuses, or shows itself "unwilling or unable" to pursue a case? What then? The ICC has no police force of its own. Will it then call on the Security Council to authorize arrest -- meaning military action on the territory of the "unwilling" State?
The preamble to the Rome Statute emphasizes that "nothing in this Statute shall be taken as authorizing any State Party to intervene in an armed conflict or in the internal affairs of any State". But this seems to be contradicted by the provisions of the Statute itself in regard to "unwilling" States.
Rather than a Court to keep the peace, the ICC could turn out to be -- contrary to the wishes of its sincere supporters -- an instrument to provide pretexts for war.
"If you can't beat them, join them."
It appeared from the Tripoli symposium that Arab intellectuals have an ambivalent attitude toward the ICC. On the one hand, many fear that the ICC can be instrumentalized to serve what they see as the long term U.S.-Israeli policy of breakig up Arab States and fragmenting the Middle East along ethnic or religious lines, as a way of "divide and rule". In such a strategy, ethnic conflicts over territory and resources can be depicted by Western media and NGOs as one-sided cases of "genocide" requiring urgent international intervention. The trial run was Yugoslavia, and Iraq is the prime example.
Jurists themselves, professionally attached to the construction of a new legal institution, may be oblivious to strategic aspects. But the very emphasis on applying criminal law to political conflicts tends to reinforce the Manichean view (typical of the Bush administration and of Israel) that the world's troubles are due to "bad guys", "terrorists", criminals that must be rooted out and punished. This precludes analysis of underlying causes of conflicts.
Like other Arab States, except for Jordan (and two formerly French territories, Djibouti and the Comoro Islands), Sudan is not a Party to the Rome Statute and thus does not fall under ICC jurisdiction. This fact has not prevented the mounting campaign for international intervention to stop what is described as "genocide" in Darfur. Some observers on the ground contend that this campaign is characterized by a limitless inflation of the number of casualties, to upgrade massacres to the status of "genocide". Whatever the reality, the call for "intervention", implying military intervention, is not accompanied by any clear explanation of how this would solve the underlying problems of religious identity and claim to scarce resources that have caused the crisis in Darfur. The well-financed and (largely) well-intentioned campaign to "save Darfur" actually tends to eclipse any effort to find genuine political and economic solutions by way of negotiation carried out by parties familiar with the history and culture of the region.
As can be seen in Afghanistan and elsewhere, the armed "rescue" of a country or region tends to be followed by a sharp drop in interest, and above all of the economic and practical aid promised at the outset.
In Tripoli, some argued that Sudan would be better placed to defend itself from impending military intervention if it were Party to the ICC. As a Belgian lawyer put it, for small countries the problem is to "avoid being entrapped", and for this purpose it is better to join the ICC than to stay out of it.
Many Arab and Third World intellectuals are tired of standing on the sidelines and "complaining". Joining the ICC might be a way to "join the world" and improve their own countries. This viewpoint seems particularly frequent among women lawyers and human rights NGOs.
But as one participant put it, "Inside or outside; the small countries are on the sidelines".
The view from Tripoli
To conclude with a subjective note, from the peaceful atmosphere of Tripoli the rabid Bushist-Blairist fantasies about the deadly threat from "Islamo-fascism" seem particularly grotesque. The semi-socialist regime installed 37 years ago by Colonel Moammer Kadhafi has widely redistributed oil revenues, educating the population and creating a large middle class thanks to a service sector (largely bureaucratic) that employs some 80 per cent of the population. This makes it a singularly tranquil society -- some bureaucrats may be superfluous, but they are not homeless, begging or thieving. Colonel Kadhafi is eccentric, sleeping in tents instead of palaces, but it is hard to avoid the feeling that he has been demonized not for his faults but for his support to Arab unity (which failed), to the Palestinians and to other liberation causes -- which was natural for a country like Libya that had been the victim not so very long ago of a ruthless colonization by Mussolini's forces, which subjected the local population to summary executions, mass deportations and concentration camps. Looking around, one may conclude that Kadhafi's "soft" dictatorship could well be the best transitional modernizing regime that exists in the Arab world.
In any case, the ICC symposium followed its own ambivalent course without interference from the government. The overall impression was of a great thirst for peace, development and justice -- all under threat from the fanatic Western "war on terror". Islamic extremism is a problem to be dealt with in a growing number of Arab countries (not Libya, apparently, where the devout but moderate Muslim practice seems to preempt the extremists), but which is clearly aggravated by U.S. aggression and Israeli persecution of the Palestinians.
Justice and globalization
I give the last word to excerpts from the contribution of a retired Libyan gentleman who has held high positions in the past, but now prefers to remain anonymous:
"The dominant system is oriented towards an international business law considered as the supreme reference overhanging all national law and of course international public and private law. The WTO has defined in this context an arsenal of principles and procedures all the way to and including a juridical system based on the negation of the elementary principles of separation of powers that characterize democracy.
"This is totally unacceptable. We need exactly the opposite. We need a business law that is respectful of the rights of nations, people and labor, and respectful of the environment, rights of communities, women, while ensuring the conditions for further progress of democratization of societies.
"We have to advocate an International Law of the Peoples, which should combine:
"-- The respect of national sovereignty, allowing people to choose their future according to their wishes.
"-- The respect of Human Rights, not only political rights but also social rights and the right to development and peace.
"No solution is reached through abolishing one of the two terms of the equation. We can neither abolish sovereignty nor can we abolish human rights.
"The principle of respect for the sovereignty of nations must be the cornerstone of international law. The fact that this principle is violated today with so much brutality by the democracies themselves constitutes an aggravating, rather than mitigating circumstance. [...] The solemn adoption of the principle of national sovereignty in 1945 was logically accompanied by the prohibition of recourse to war. [...] With the militarization of the globalization process, which is closely associated with the neo-liberal option and with its predilection for the supremacy of international business law, it has become more imperative than ever that priority be given to this reflection on people's rights."
Diana Johnstone is the author of Fools Crusade: Yugoslavia, NATO and Western Delusions. She can be reached at diana.josto@...
Oggetto: Perugia 13/5: Intitolazione della Sezione ANPI a Mario Bonfigli e Milan Tomović
Data: 08 maggio 2011 23.17.13 GMT+02.00
Storie e memorie di una vicenda ignorata
La scheda del libro sul sito di CNJ-onlus: https://www.cnj.it/documentazione/bibliografia.htm#partigiani2011
La scheda del libro su Facebook: http://www.facebook.com/event.php?eid=103675256383363
Ordina il libro: http://www.odradek.it/html/ordinazione.html
INTITOLAZIONE SEZIONE ANPI PERUGIA CITTÁ A
MARIO BONFIGLI E MILAN TOMOVIĆ
Inizialmente impegnato nella zona montana sopra Spello, Milan dimostrò subito coraggio e valore, tanto da meritare l'affidamento del comando di un distaccamento della IV brigata Garibaldi di Foligno, attivo ai confini fra Umbria e Marche, nella zona di monte Cavallo. Morì all'ospedale civile di Perugia, dove era stato segretamente portato e ricoverato, il 22 marzo 1944.
Mario Bonfigli, nome di battaglia "Mefisto", medaglia d'argento al Valor Militare della Resistenza, è stato primo comandante della brigata "S. Faustino Proletaria d'Urto", che operava nell'Alta valle del Tevere.
Tenente pilota della Regia Aeronautica, Mario era fuggito dall'aeroporto militare di Fano nei giorni successivi all'8 settembre 1943, con l'obiettivo di passare le linee e dare il suo contributo alla liberazione. L'Umbria fu per lui una scelta casuale e obbligata: il suo aereo, dopo un atterraggio di emergenza a Castiglion del Lago, fu scoperto dai tedeschi e reso inutilizzabile. È a Preggio che Bonfigli prende i primi contatti con la Resistenza, per trasferirsi poi verso Pietralunga. Non abbandonerà più l'Umbria, e resterà a Perugia anche dopo la Liberazione, diventando uno dei principali animatori dell'Anpi provinciale e regionale. Ci ha lasciato lo scorso 29 marzo.
Venerdì 13 maggio, alle ore 19, presso il circolo culturale Macadam, sito in Piazza Giordano Bruno 9, la sezione di Perugia dell'Anpi (Associazione nazionale Partigiani d'Italia) verrà ufficialmente intitolata a Mario Bonfigli e Milan Tomovic, figure diverse ma ugualmente significative nella lotta per la libertà. Il primo per l'integrità morale, l'umanità, la voglia mai sopita di combattere che ha saputo trasmettere anche e soprattutto a quei giovani, nipoti di quella generazione, che si sono avvicinati all'Anpi o con cui ha parlato nei suoi frequenti incontri con le scuole. Il secondo per ricordarci che la lotta e il sacrificio per la libertà non ha avuto confini, né esclusività di genere o nazionalità.
La serata sarà anche l'occasione di promuovere, in collaborazione con l'Isuc-Istituto per la storia dell'Umbria contemporanea e con il Cnj-Coordinamento nazionale per la Jugoslavia, una riflessione storica sulla presenza di combattenti jugoslavi (e stranieri in genere) nella Resistenza umbra.
A tale proposito interverranno Dino Renato Nardelli, responsabile della Sezione didattica dell'Isuc, curatore del volume "Montenegrini internati a Campello e Colfiorito 1942-1943. Note biografiche”, Tommaso Rossi, ricercatore dell'Isuc, curatore del volume "Toso. Memorie di un comandante partigiano montenegrino" e Andrea Martocchia, segretario del Cnj, curatore del volume "I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana. Storie e memorie di una vicenda ignorata".
L'incontro, coordinato da Mirella Alloisio, partigiana e presidente della sezione Anpi di Perugia, vedrà la partecipazione anche di Jacopo Mordenti, nipote di Mario Bonfigli.
Willkür statt Völkerrecht
Das IGH-Gutachten zum Kosovo droht eine neue Ära der Sezessionskriege einzuleiten
Vollständiger Text hier: http://imi-online.de/download/JW_IGH_Kongress2010.pdf
Wie „kreativ“ man mit der Wahrheit umzugehen versteht, führt die westliche Balkan-Politik, insbesondere der Umgang mit dem im Juli 2010 veröffentlichten Gutachten des Internationalen Gerichtshofs (IGH) zur Unabhängigkeit des Kosovo mehr als deutlich vor Augen. Schon um den NATO-Angriffskrieg gegen Jugoslawien im Jahr 1999 zu rechtfertigen, war man sich keiner noch so perfiden Lüge zu schade – erinnert sei hier nur an das angebliche Massaker von Racak, den Hufeisenplan oder die zahlreichen Völkermord und Ausschwitz-Vergleiche, die sich allesamt als nichtig herausgestellt haben.[1] Dass der Krieg zudem und unter offenem Bruch des Völkerrechts, ohne Mandat der Vereinten Nationen durchgeführt worden ist, passt ins Bild.
Inzwischen räumen selbst manche der damaligen Drahtzieher offen ein, dass nicht die Menschenrechtssituation, sondern geostrategische Erwägungen ausschlaggebend für die Kriegsentscheidung waren. So schreibt Strobe Talbott, seinerzeit stellvertretender US-Außenminister unter Bill Clinton: „Während die Länder überall in der Region ihre Volkswirtschaften zu reformieren, ethnische Spannungen abzubauen und die Zivilgesellschaft zu stärken versuchten, schien Belgrad Freude daran zu haben, beständig in die entgegengesetzte Richtung zu gehen. Kein Wunder, dass die NATO und Jugoslawien schließlich auf Kollisionskurs gingen. Der Widerstand Jugoslawiens gegen den umfassenden Trend zu politischen und wirtschaftlichen Reformen – und nicht die Bitte der Kosovo-Albaner – bietet die beste Erklärung für den Krieg der NATO.“[2]
http://imi-online.de/download/JW_IGH_Kongress2010.pdf
[1] Seinerzeit war die westliche Intervention ganz wesentlich mit einem angeblich von jugoslawischer Seite gegenüber der kosovarischen Bevölkerung verübten Völkermord begründet worden, obwohl lediglich fünf Tage vor deren Beginn in einer Lageanalyse des Auswärtigen Amtes festgehalten wurde, die Zivilbevölkerung werde in der Regel "vor einem drohenden Angriff durch die VJ gewarnt". Allerdings werde "die Evakuierung der Zivilbevölkerung vereinzelt durch lokale UCK-Kommandeure unterbunden". Weiter hieß es: "Von Flucht, Vertreibung und Zerstörung im Kosovo sind alle dort lebenden Bevölkerungsgruppen gleichermaßen betroffen.“ (Lutz, Dieter S.: "Krieg nach Gefühl" - Manipulation: Neue Zweifel am Nato-Einsatz im Kosovo, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 15.12.2000). Vgl. zu den Kriegslügen u.a. Hofbauer, Hannes (Hg.): Balkankrieg, Wien 2001.
[2] Klein Naomi: Die Schockstrategie. Der Aufstieg des Katastrophen-Kapitalismus, Frankfurt 2009, S. 457f. Hervorhebung JW.
Jürgen Wagner
Libyan Odyssey and the Dawn of a New Serbian Public Opinion
Nikola Tanasić
недеља, 03. април 2011.
“The Arab awakening from the Serbian Perspective”
Things, however, seem to get more complicated after taking into account that the first means, that is, the “media”, for organizing the protestors at the initial phases of the “Awakening” was the Internet, primarily the social networks Twitter and Facbook. This question is of course going to open a lot of discussion in the expert circles of sociologists and political theorists in the coming years – since, for the last two years, the two networks have been basically advertised as a potential political means and a tool of civil revolutions (which is suspicious onto itself). Being a topic worthy of its own space, it is enough to emphasize two things here – firstly, there is nothing more natural than the idea that the most contemporary and the most wide-spread means of communication has served as the single convergent point for crystallization of the popular rebellions in Tunisia, Algeria, Egypt, and other Arab countries. Having in mind the fact, put into the foreground countless times, that the Arab cultural space extends significantly beyond the boundaries imposed on it by the selfish and hoggish elites from specific countries, and that the capabilities of organizing massive actions via social networks are virtually limitless, it seems to be a very logical conclusion that the social networks represented the key asset of the protestors, to which the retrograde authorities paid too little attention, becoming, at the end, the very cause of their downfall. This was enough to officially christen the protests as Twitter and “Facebook Revolutions,” despite the regime of Hosni Mubarak introducing, and all other countries adopting, the practice of crashing the internet as a means of control, which, obviously, did not disrupt further conduct of the protests at all.
On the other hand, as romantic as the idea of people succeeding via “tweeting” and “liking” in bringing down a few osseous, deeply militarized and political technology-wise extremely self-conscious regimes, the virtual space, as shown in these events, still has kept its status of “shadow reality” and a mere echo of the real world. This was proved by at least a few key facts. First and foremost, no matter how much the Western media tried to portray the demonstrators in the Maghreb as “young and educated middle class demanding democracy”, the main protagonist of the revolt were the hungry masses which neither use the social networks, nor would they know how to set a politically self-conscious “status” in perfect English, which was evidently the case with the protest organizers on the internet. This problem is particularly visible when having in mind the fact that the network Twitter is for the most part used and followed by Americans (excluding the fashion of “tweeting” imposed on the Russian politicians by Dmitry Medvedev), and has practically been integrated into their national information (that is, propaganda) systems along the lines of some “21st century CNN”. The fabrication of Twitter as a firmly controlled “incubator of revolutionary ideas” we saw two years ago, with the world-wide promotion of this network as a means of fighting against the regime in Iran – another series of protests with posters in English and an extremely “external” political orientation. (The demonstrators were obviously sending their messages to the West and not to their fellow citizens and compatriots.) Finally, Twitter has a whole range of editing, evaluating, and censoring instruments used for sorting out “everyday croaking” from the “relevant tweeting,” favoring the statements made by the officials from the American administration and reports “from the scene of events” sent by the renowned reporters from Western news agencies and media houses. On the other hand, if we are talking about the far more “popular” and “democratic” Facebook, it turned out that the key problem there was dispersion of information and the lack of focus. This has finally lead to a somewhat paradoxical situation in which Muammar Gaddafi reigns this network supremely thanks to the support from citizens of Serbia, who simultaneously – so far – had no success in organizing any serious protest in “the real world”.
Illusions dispelled long-ago about the “objectivity” of the Western and the global media and their relevancy as “sources of information”, as well as vivid memories of our own suffering under the boot of the same army now being active in Libya, have brought up, despite reserved sympathies towards the whole idea of “Arab Awakening”, a restraint of a large portion of the Serbian community facing the news that the “peaceful protests” against the regime of Muammar Gaddafi in Libya quickly turned into an armed uprising. At a glance, too many things in Libya were different from the developments in Tunisia and Egypt, which were carefully followed by our media, as well as from the later protests, conflicts and counter-measures of repression in Qatar, Bahrain and Saudia Arabia, and to a certain degree in Yemen (which has been for decades in a state of suspended civil war). Besides the obvious armed nature of the uprising, the pre-prepared iconographies and the involvement of the “traveling revolutionary circus” with so many times seen slogans and scenarios of escalating violence, the most indicative thing is precisely the behavior of the global “classical” media.
Since these propaganda systems are able to “report” only prepared-in-advance tirades about prepared-in-advance events, they were visibly perplexed and restrained during the early phases of the “Arab Awakening”, when they quite literally “didn’t know what to think”. However, when the rebellion in Libya started, and in particular when it was necessary to prepare the terrain for a new international intervention, it was obvious that the world media “consolidated their ranks” and took on the events with ready-to-use information scenarios and strategies for escalation. While the actions of the “rebels,” romantically wearing flags of the “good king Idris” (just as the Iranian emigration protesting in Europe gladly waves the “Shah’s flag”) are practically broadcasted live, news from Qatar and Bahrain are limited and censored news, while from Saudia Arabia practically nothing else except for the government statements can be obtained. Yet, the developments in those countries deserve maybe even more attention and they have deeper political roots than the dealings in Libya.
Not counting New Serbian Political Thought, which has been following up on the entire Libyan crisis in detail and systematically from the beginning, Serbian public was getting news from Libya mainly through two sources – the global media distinctly unfriendly to Gaddafi, and the far more balanced (and often openly pro-Gaddafi) reports of eye witnesses evacuated from Libya, amongst whom the celebrated Serbian war reporter, Miroslav Lazanski, holds the last word. This chimericalness of the Serbian media scene was firstly noticed on the internet portals of the media houses, where the readers’ comments (excluding the extremely pro-western media) in a large majority and very emotionally were giving support to Gaddafi (“Play it Gaddafi!”, “Stomp the gang colonel!”, “Endure, our friend!”), although the articles themselves were unanimously portraying Gaddafi as a dictator who turned against his own people. It shouldn’t be forgotten that a large number of those sites are strictly censored in terms of comments, so it is obvious that the editors, apart from their own sympathies for the government in Libya, were this way more the efficiently contributing to the objectivity of the individual news.
The support, which rumbled through the Serbian media, exploded after the first announcement about the beginning of military campaign by France, Britain, the USA, and their allies from NATO against the regular army in Libya, like after the scandalous resolution of the UN Security Council, which gave them, along the tacit support from Russia and China, untied hands to operate in Libya as they please. Although this more than problematic resolution (not only because of the obvious permission of use of “excessive power” in Libya to just about anybody who finds an interest in doing so, but also because of using media reports as evidence of the conditions in the country), formally separates the Libyan intervention (pathetically named “Odyssey’s Dawn”) from the illegal wars of the North-Athlantic Alliance in FR Yugoslavia and the American “Coalition of the Willing” in Iraq, for the majority of citizens in Serbia there wasn’t a trace of doubt that it was just one more international military aggression of the powerful and rich against a country which is neither better nor worse than other countries. And the sole reasons for are those very same imperial, colonial and crypto-racist interests which were, not so long ago, keeping entire Africa under the European boot.
On top of that was added a sentimental recollection of a multi-decade tradition of outstanding bilateral relationships, which was started by Tito’s essentially far-sighted and civilizationally progressive “nonalignment policies” and the consistent Yugoslav anti-colonialism, which culminated during the nineties, when Gaddafi personally showed an enviable political and moral integrity by supporting the Serbian side in the Yugoslav wars, and refused up to this day (as did the majority of the “nonaligned” countries) to recognized the self-proclaimed state of the Kosovo Albanians. Even though he could, by supporting the “Muslim brothers” in Bosnia and in Kosovo, earn a lot of “cheap political points” (about which some far more “serious countries” than the Socialist Arab Jamahiriya were not squeamish at all), Gaddafi acted, on one hand as an ally and a friend to a people with whom “he was good, come good times”. On the other hand, he showed commitment to the principles of sovereignty and equality of small and poor nations, as well as to the international relations based on law and justice. In the end, to his popularity in Serbia, whether intentionally or not, contributed the actual Serbian government, which lately not only reactivated ties with nonaligned friends, but in those contacts, the friendship with Libya had a special place. (Don’t let it slip from our minds that two years ago president Boris Tadić chose to attend the 40th anniversary of Gaddafi’s “Glorious Revolution of September the First” because of which he missed the not at all insignificant marking the 70th anniversary of the start of World War II. And lets not forget that the Serbian defense minister, Dragan Šutanovac, more than once emphasized the agreement on military cooperation with Libya, worth more than half a billion dollars, as his greatest achievement at that position).
As a focal point of the existing support to Gaddafi in Serbia emerged a Facbook group called:Support for Muammar al Gaddafi from the people of Serbia (“Подршка пријатељу“, „Support for a Friend“), which in the first two days of existence collected over 40 thousand members, and in the next seven days the number of members grew to 65 thousand (and still growing). By comparison, the president Tadić’s Facebook page, with his entire party nomenclature available for him, in over 3 years of existence has gathered about 44 thousand members, whereas the most famous Serbs in the world, Novak Djoković and Emir Kusturica, as personalities who are loved and recognized world-wide, have support from 133 thousand and 214 thousand members respectively. Gathering 65 thousand members in a group which is not international and whose language is only Serbian, represents a real feat, by how much bigger, by so much is known that political organizing of Serbs on Facebook so far has not produced any serious results. However, the numbers do not end here. The Serbian support group for Gaddafi and Libya is convincingly the most numerous internet community considering the Libyan war overall – not only that there are nowhere close so many people supporting Gaddafi elsewhere in the world, but neither the opponents of his regime on the global level can nearly be pleased about such a support. The English language page of the “Libyan Youth Movement” (LYM), a sort of match to the west-sponsored Serbian anti-Milošević “resistance” movement “Otpor” (though it is obvious that the members of the LYM, like those of the Iranian “opposition”, mostly live abroad), gathered 13 thousand members from all over the world (including the Serbs who are, for the umpteenth time, scandalized by the historical decisions of their own people and use that page as one more proving ground for its disparagement and slander), whereas the Libyan official page has approximately the same number of members – except that even there about 30% of text is in Serbian language.
What undeniably, however, amazes the most with regard to this page is its outstanding politicality in a deep sense, seemingly been completely forgotten in contemporary Serbia which appeared to have been irreversibly and completely drowned in a stagnating sludge of petty-politics. The “Support for Muammar al Gaddafi from the people of Serbia” gathered people from all sides of the Serbian political spectrum, and even though the global agencies (like the BBC and the Voice of America) are outdoing each other in qualifying this movement as a “rightwing” and “ultra-nationalistic” one, its members equally represent the active left and right, nationalists and internationalists, conservatives and socialists. If, in that torrent of textual and multimedia contents, there could be noticed a common “tone,” then it would have certainly been articulated very self-consciously as a sort of anti-colonialism, anti-imperialism, and anti-globalism, with a very strong folkloric, national, Yugo-nostalgic, and before all, pacifistic themes. (This very natural attitude for the Serbs, at the very beginning of the intervention in Libya, was firstly championed by Djordje Vukadinović in his article, “Odyssey’s Dawn and Civilizational Twilight”, where the later development of the events very much proved him right). Administrators and members of the “Support for Muammar al Gaddafi from the people of Serbia” Facebook page have shown an outstanding political self-consciousness, and they didn’t’ massively fall for a single attempt of manipulation – regardless whether those provocations were foreign “infiltrators” who were trying to provoke enough “hate speech” and so force Facbook to close down the page, or whether it was a case like the movement “Nashi 1389” which, as did a whole range of other organizations, tried to benefit from the massiveness of support for their own political and other agendas. Members of the group were unanimously responding that the only goal of the group is to support the Libyan people and its legitimate state government, along with requests from the state government of Serbia to condemn openly the operations in Libya and to use all available means in order to help, first of all the suffering Libyan people, but also the “sworn friend Gaddafi”, who himself “never hesitated to send us help when we needed it most”.
The group supporting Gaddafi, for a number of reasons, represents a first rate political event in the Serbian public sphere. It has shown that there are political issues on which there exists a clear national consensus (in this case – public request for supporting Libya and condemning the military aggression, to which the Serbian officials, although inarticulately and timidly, partially responded), and the public itself is more than capable of articulating them outside existing party and political infrastructure, exclusively using the new technological potentials provided by the contemporary means of communication. This is the first time that this kind of political protest, clearly focused in entirety on a concrete political goal, is being organized in our community without any support from the “classical” political institutions, such as the parties. On the other hand, results from this protest echoed globally, and so the Serbian internet community, besides having “saved the face of the nation” in a situation in which the global public opinion to an extreme extent lethargically and uninterestingly looked upon the opening of a new battlefield in the Mediterranean basin. It has also shown the reach of the direct “Facebook democracy”, which, this time, unlike the “Twitter Revolutions” that just represented echoes of “tweets” of the Washington officials, made known that one small nation in the environment of new communications can draw public attention to positions diametrically opposite from those favored by the world media machinery. Even if this supporting group (so far) hasn’t brought about any organizing of serious antiwar gatherings in Belgrade and other Serbian cities, it certainly has enabled for the principle Serbian position to be heard. It has thus honored the people and citizens of Serbia, and dishonored all those who are closing their eyes in the face of the international arrogance in Libya.
Nella sconvolgente vicenda libica si parla poco di diritto internazionale, probabilmente perché fa comodo l’opinione che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite abbia esaurito il problema. Non è così.
Le NU non sono federazione mondiale, il C.d.s. non è né governo né legislatore del mondo. Come invece si ritiene generalmente a partire dalla prima guerra irachena: si arriva a ritenere sufficiente che il C.d.s. a discrezione invochi il cap. VII della Carta (minacce e rotture della pace, internazionale di per sé, cioè nei rapporti fra Stati, ma qui si innesta il trucco) per decidere ogni sorta d’azione nei confronti di uno Stato, anche al di fuori delle tipologie disegnate dalla Carta: pure per fatti interni, come un’insurrezione (ai quali venga sempre discrezionalmente affibbiata una rilevanza internazionale: questo è il trucco) e al fine, vedremo illegittimo, di “autorizzare” gli Stati che lo vogliano (i “volenterosi”) a intervenire contro lo Stato preso di mira. Magari perché “non protegge” la propria popolazione contro se stesso, e cioè gli insorti contro lo Stato centrale: una recente trovata fantagiuridica per giustificare gli interventi. Questo non è diritto e non è diritto internazionale. Ben pochi Stati avrebbero accettato la Carta se tale ne fosse stata la portata: così il presidente jugoslavo Milosevic nel colloquio che ebbi con lui nel suo carcere nell’agosto 2001.
Siamo davanti a un copione ormai usurato, ma purtroppo abituale per distruggere uno Stato o governo sgradito perché non subalterno. Il despota o tiranno che viene criminalizzato con sfrenate campagne mediatiche, le atrocità, le stragi, le fosse comuni, i diritti umani violati, i fondi all’estero: solo a posteriori a volte si scoprirà la mala informazione. Qualche protesta o rivolta ovviamente contrastata dal potere costituito, eccessi veri o presunti contro “civili innocenti” (spesso rivoltosi incendiari e armati): di qui gli interventi dei “buoni”, sino alla guerra con effetti catastrofici (con le differenze dei casi, Jugoslavia, Iraq, Somalia, Afghanistan...).
Veniamo al diritto internazionale, in larga misura espresso nella Carta delle NU, non però nelle applicazioni “stravaganti” più recenti. L’art. 2, n. 1, della Carta evoca la “sovrana eguaglianza di tutti i membri” e il n. 4 vieta l’uso della forza “contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”: l’Assemblea generale nel 1981 chiarisce “il diritto sovrano di uno Stato di determinare il suo sistema politico, economico, culturale e sociale… senza intervento, ingerenza sovversione… in qualsiasi forma dall’esterno” e il divieto di “abbattere o cambiare il sistema politico di un altro Stato o il suo governo”. Per il diritto internazionale non esistono forme statali vietate, sistemi autoaffermantisi come democratici o viceversa dittatori da respingere: lecite o no sono solo le specifiche azioni nei rapporti interstatali. Il regime statale rientra nelle scelte e nelle lotte delle forze interne di ogni Stato. Di fronte a rivolta interna è legittimo per il governo costituito di contrastarla. Senza interferenze. Il Protocollo II del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 1949 sul diritto bellico, tuttora vigente, stabilisce per gli Stati parti l’applicazione delle norme umanitarie ai conflitti armati interni (guerre civili, insurrezioni), ma senza che ciò possa invocarsi “per attentare alla sovranità di uno Stato o alla responsabilità del governo di mantenere o ristabilire l’ordine pubblico nello Stato o di difendere l’unità nazionale e l’integrità territoriale dello Stato con tutti i mezzi legittimi”: nulla “potrà essere invocato per giustificare un intervento, quale che ne sia la ragione, in un conflitto armato o negli affari interni o esterni” dello Stato in cui avviene il conflitto. È dunque impensabile quanto si va pretendendo nel senso che il vertice libico debba venire sostituito per volontà esterna, o che si interferisca nella guerra civile, addirittura con il sostegno di ogni genere ai ribelli, con gli attacchi armati contro le forze governative di contrasto all’insurrezione, con i riconoscimenti prematuri degli insorti.
Quanto alle accuse sul piano umanitario, a parte i pulpiti di provenienza e la totale assenza di verifiche fattuali serie, potrebbe al massimo pensarsi a pressioni di carattere politico-economico, in casi assolutamente estremi a corpi armati (ad es. di interposizione) sotto comando NU, perché solo questo è compatibile con il sistema di sicurezza collettiva. Se il C.d.s. potesse a sua discrezione travolgere i principii accennati sarebbe dittatore mondiale e padrone del diritto internazionale: il che non è. Qualora una decisione del C.d.s. consentisse ciò o fosse interpretabile in tal senso sarebbe invalida. Tralasciata la discutibilissima ris. 1970, adottata persino senza verifica dei fatti, la 1973 di fronte all’insurrezione armata si occupa solo della “violenza” esercitata nel (in principio legittimo) contrasto agli insorti e non pure di quella di costoro. Assumendo a base la protezione dei “civili”, dà in realtà copertura agli insorti, che civili non sono, e tende di fatto ad impedire la legittima azione governativa. La clausola per cui gli Stati disposti (i “volenterosi”) vengono autorizzati “a prendere tutte le misure necessarie per proteggere i civili” ripete e aggrava l’infelice precedente iracheno. La ris. è dunque illegittima, a parte l’indebita ingerenza in fatti interni, soprattutto per la (raffigurata) delega a Stati, invece eventualmente, ricorrendone i presupposti, dell’affidamento non eludibile dell’azione a corpi militari sotto comando NU; comunque per l’indeterminatezza delle azioni preventivate (che viene nei fatti intesa sino alla distruzione delle capacità militari dello Stato libico e alla tentata uccisione dei leader!), senza elementi di controllo né cura dei danni reali che possono conseguire ai civili (tutti, non solo quelli riconducibili non si sa poi come agli insorti).
La ris. equivale in realtà ad un “permesso”, per gli Stati che lo vogliano (e quindi secondo i loro interessi!), alla guerra e all’aggressione, permesso che le NU non possono dare perché frontalmente contrario al sistema obbligatorio di sicurezza collettiva della Carta. Ma il vero senso giuridico è un altro: non l’impossibile e insensata “autorizzazione” agli Stati, ma la rinuncia (illecita) delle NU a stigmatizzare e sanzionare l’aggressione contro la Libia.
Tutto ciò, per quanto riguarda l’Italia, nulla ha a che fare con l’art. 11 Cost., che naturalmente vieta le azioni in corso e non le considera fra quelle legittimamente disposte da un’organizzazione internazionale con l’obiettivo della pace e giustizia fra le nazioni.
Prof. Dott. Aldo Bernardini
Ordinario di Diritto Internazionale nell’Università di Teramo
Roma, 2 maggio 2011
Nel 1949, mentre infuria una guerra fredda che rischia di trasformarsi da un momento all’altro in olocausto nucleare, George Orwell pubblica il suo ultimo e più celebre romanzo: 1984. Se anche il titolo è avveniristico, il bersaglio è chiaramente costituito dall’Unione Sovietica, raffigurata come il «Grande fratello» totalitario, che vanifica la stessa possibilità di comunicazione, stravolgendo il linguaggio e creando una «neo-lingua» (newspeak), nell’ambito della quale ogni concetto si rovescia nel suo contrario. Pubblicando il suo romanzo l’anno stesso della fondazione della Nato (l’organizzazione militare che pretendeva di difendere anche la causa della morale e della verità), Orwell dava così il suo bravo contributo alla campagna dell’Occidente. Egli non poteva certo immaginare che la sua denuncia sarebbe risultata molto più calzante per descrivere la situazione venutasi a creare, pochi anni dopo il «1984», con la fine della guerra fredda e il trionfo degli Usa. Come la strapotenza militare, così la strapotenza multimediale dell’Occidente non sembra più incontrare nessuno ostacolo: lo stravolgimento della verità viene imposto con un bombardamento multimediale incessante e onnipervasivo, di carattere assolutamento totalitario. E’ quello che emerge con chiarezza dalla guerra in corso contro la Libia.
Guerra
E’ vero, è all’opera il più potente apparato militare mai visto nella storia; certamente non mancano le vittime civili dei bombardamenti della Nato; vengono utilizzate armi (all’uranio impoverito) il cui impatto è destinato a prolungarsi nel tempo; oltre agli Usa, nello scatenamento delle ostilità e nella conduzione delle operazioni militari si distinguono due paesi (Francia e Inghilterra), che hanno alle spalle una lunga storia di espansione e dominio coloniale in Medio Oriente e in Africa; siamo in un’area ricca di petrolio e i più autorevoli esperti e mezzi di informazione sono già impegnati ad analizzare il nuovo assetto geopolitco e geoeconomico. E, tuttavia – ci assicurano Obama, i suoi collaboratori e i suoi alleati e subalterni – non di guerra si tratta, ma di un’operazione umanitaria che mira a proteggere la popolazione civile e che per di più è autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu.
In realtà, come nei confronti delle sue vittime, anche nei confronti della verità la Nato procede in modo assolutamente sovrano. In primo luogo è da notare che le operazioni militari dell’Occidente sono iniziate prima e senza l’autorizzazione dell’Onu. Sul «Sunday Mirror» del 20 marzo Mike Hamilton rivelava che già da «tre settimane» erano all’opera in Libia «centinaia» di soldati britannici, inquadrati in uno dei corpi militari più sofisticati e più temuti del mondo (SAS); fra di loro figuravano «due unità speciali, chiamate “Smash” a causa della loro capacità distruttiva». Dunque, l’aggressione era già iniziata, tanto più che a collaborare con le centinaia di soldati britannici erano «piccoli gruppi della Cia», nell’ambito di «un’ampia forza occidentale in azione nell’ombra» e dall’«ammnistrazione Obama» incaricata, sempre «prima dello scoppio delle ostilità il 19 marzo», di «rifornire i ribelli e dissanguare l’esercito di Gheddafi» (Mark Mazzettti, Eric Schmitt e Ravi Somaiya in «International Herald Tribune» del 31 marzo). Si tratta di operazioni tanto più rilevanti, in quanto condotte in un paese già di per sé fragile a causa della sua struttura tribale e del dualismo di lunga data tra Tripolitania e Cirenaica.
In secondo luogo, anche quando si rivolgono all’Onu, gli Usa e l’Occidente continuano a riservarsi il diritto di scatenare guerre anche senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza: è quello che è avvenuto, ad esempio, nel 1999 in occasione della guerra contro la Jugoslavia e nel 2003 in occasione della seconda guerra contro l’Irak. Ora nessuna persona sensata definirebbe democratico un governo che si rivolgesse al Parlamento con questo discorso: vi invito a votarmi la fiducia, ma anche senza la vostra fiducia io continuerei a governare come meglio ritengo… E’ in questi termini che gli Usa e l’Occidente si rivolgono all’Onu! E cioè, le votazioni che si svolgono nel Consiglio di sicurezza sono regolarmente viziate dal ricatto a cui costantemente fanno ricorso gli Usa e l’Occidente.
In terzo luogo: appena strappata al Consiglio di sicurezza (grazie al ricatto appena visto) la risoluzione desiderata, gli Usa e l’Occidente si affrettano a interpretarla in modo sovrano: l’autorizzazione per imporre la «no fly zone» in Libia diviene di fatto l’autorizzazione a imporre una sorta di protettorato.
Per potente che sia, l’apparato multimediale degli aggressori non riesce ad occultare la realtà della guerra. E, tuttavia, la neo-lingua si ostina a negare l’evidenza: preferisce parlare di operazione di polizia internazionale. Ma è interessante notare la storia alle spalle di questa categoria. Riallacciandosi alla dottrina Monroe, da lui reinterpretata e radicalizzata, nel 1904 Theodore Roosevelt (presidente degli Usa) teorizza un «potere di polizia internazionale» che la «società civilizzata» deve esercitare sui popoli coloniali e che, per quanto riguarda l'America Latina, spetta agli Usa. Siamo così ricondotti alla realtà del colonialismo e delle guerre colonialismo, alla realtà che invano la neo-lingua cerca di rimuovere.
In prima fila nel promuovere la neolingua e lo stravolgimento della verità è disgraziatanente il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napoletano, più eloquentemente di ogni altro impegnato a dimostrare che quella in corso contro la Libia…non è una guerra! Se appena rievocasse i ricordi della militanza comunista che è alle sue spalle, egli capirebbe che la tentata rimozione della guerra è in realtà una confessione. Come a suo tempo ha spiegato Lenin, le grandi potenze non considerano guerre le loro spedizioni coloniali, e ciò non soltanto a causa dell’enorme sproporzione di forze tra le due parti in campo, ma anche perché le vittime «non meritano nemmeno l'appellativo di popoli (sono forse popoli gli asiatici e gli africani?)» (Opere complete, vol. 24, pp. 416-7).
Civili.
La guerra, anzi l’operazione di «polizia internazionale», scatenata contro la Libia mira a proteggere i «civili» dal massacro progettato da Gheddafi. Sennonché, la neo-lingua è immediatamente smentita dagli stessi organi di stampa che sono impegnati a diffonderla. Il «Corriere della Sera» del 20 marzo riporta con evidenza la foto di un aereo che precipita in fiamme dal cielo di Bengasi. Sia la didascalia della foto sia l’articolo relativo (di Lorenzo Cremonesi) spiegano che si tratta di un «caccia» pilotato da uno dei «piloti più esperti» a disposizione dei ribelli e abbattuto dai «missili terra-aria di Gheddafi». Ben lungi dall’essere disarmati, i rivoltosi dispongono di armi sofisticate e di attacco e per di più risultano assistiti sin dall’inizio dalla Cia e da altri servizi segreti, da «un’ampia forza occidentale che agisce nell’ombra» e da corpi speciali britannici famosi o famigerati a causa della loro «capacità distruttiva». Sarebbero questi i «civili»? Ora poi, con l’intervento di una poderosa forza internazionale a fianco dei rivoltosi, è semmai il fronte contrapposto a risultare sostanzialmente disarmato.
Ma può essere opportuna un’ulteriore riflessione sulla categoria qui in discussione. Come osserva un docente (Avishai Margalit) dell’Università ebraica di Gerusalemme, nel conteggio ufficiale degli «attacchi terroristi ostili» il governo israeliano include anche il «lancio di pietre». E – si sa – contro i «terroristi» non ci può fermare a mezza strada. Sulla più autorevole stampa statunitense («International Herald Tribune») possiamo leggere di «scene orripilanti di morte», che si verificano «allorché un carro armato e un elicottero israeliani aprono il fuoco su un gruppo di dimostranti palestinesi, compresi bambini, nel campo di rifugiati di Rafah». Sì, anche un bambino che lancia pietre contro l’esercito di occupazione può essere considerato e trattato quale «terrorista». Un’avvocatessa israeliana (Leah Tsemel) impegnata a difendere i palestinesi riferisce di un «bambino di dieci anni ucciso vicino a un check point all’uscita di Gerusalemme da un soldato a cui aveva semplicemente lanciato una pietra» (su tutto ciò cfr. D. Losurdo, Il linguaggio dell’Impero, Laterza, Roma-Bari, 2007, cap. I, § 13). Qui la neo-lingua celebra i suoi trionfi: un pilota esperto che combatte alla guida di un aereo militare è un «civile», ma un bambino che lancia pietre contro l’esercito di occupazione è chiaramente un «terrorista»!
Giustizia internazionale
Se i campioni della lotta contro i bambini «terroristi» e palestinesi possono dormire sonni tranquilli, coloro che si schierano contro i «civili» all’opera in Libia saranno deferiti alla Corte penale internazionale. A rischiare di essere deferiti (e condannati) non saranno soltanto i militari e i politici che comandano l’apparato militare. No, ad essere preso di mira è uno schieramento molto più ampio. Spiegavano Patrick Wintour e Julian Borger su «The Guardian» già del 26 febbraio: «Ufficiali britannici stanno contattando personale libico di grado elevato per metterlo alle strette: abbandonare Muammar Gheddafi o essere processati assieme a lui per crimini contro l’umanità». In effetti, su questo punto non si stancano di insistere i governanti di Londra e occidentali in genere. Essi considerano la Corte penale internazionale alla stregua di Cosa nostra, ovvero alla stregua di un «tribunale» mafioso. Ma il punto più importante e più rivoltante è un altro: ad essere minacciati di essere rinchiusi in carcere per il resto della loro vita sono funzionari libici, ai quali non viene rimproverato alcun reato. E ciè, dopo essere intervenuti in una guerra civile e averla probabilmente attizzata e comunque alimentata, dopo aver dato inizio all’intervento militare ben prima della risoluzione dell’Onu, Obama, Cameron, Sarkozy ecc. continuano a violare le norme del diritto internazionale, minacciando di colpire con la loro vendetta e la loro violenza, anche dopo la fine delle ostilità, coloro che non si arrendono immediatamente alla volontà di potenza, di dominio e di saccheggio espressa dal più forte. Sennonché, la neo-lingua oggi in vigore trasforma le vittime in responsabili di «crimini contro l’umanità» e i responsabili di crimini contro l’umanità in artefici della «giustizia internazionale».
Non c’è dubbio: assieme a un apparato di distruzione e di morte senza precedenti nella storia oggi infuria la neo-lingua, ovvero il linguaggio dell’Impero.
2 aprile 2011
1) è violato l'articolo 11 della costituzione democratica antifascista italiana.
ciò comporta la destituzione dell'occupante del quirinale per alto tradimento e la sua messa formale in stato di accusa.
2) è violata la risoluzione cs onu 1973, che istituisce una zona di non volo quale cordone di controllo per evitare il rifornimento di armi alle parti belligeranti, onde ostacolare le guerra, conformemente alle finalità costitutive dell'onu.
l'intervento privato della banda dei quattro, invece, ostacola l'opera internazionale dell'onu, e costruisce ulteriore guerra invece che pace.
governi e parlamenti dei quattro paesi si confermano, pertanto, illegittimi poichè dediti a gravi illegalità.
vi sono state, all'onu, numerose proteste, non ancora esaurite, contro l'operato della banda dei quattro eurostatunitense, in particolar modo le proteste dell'argentina e dell'unione stati nordafricani.
3) è violato il regolamento onu, basato sul diritto internazionale, in base al quale un paese sovrano ha diritto alla legittima difesa quando sia sotto attacco, fintantochè perduri l'attacco, allo scopo di respingere l'attacco. il governo libico, sotto attacco militare interno ed esterno, esercita tale legittima difesa, conformemente al regolamento onu ed al diritto internazionale.
governi e parlamenti della banda dei quattro sono in stato, invece, di grave violazione.
4) sono violate le leggi sul terrorismo stabilite dal diritto internazionale, che definisce "terrorismo" ogni "azione armata contro popolazione civile". tali sono stati i feroci bombardamenti da parte della banda dei quattro su tripoli fin dai primi giorni: il nunzio apostolico francescano a tripoli, don giovanni martinelli, e l'agenzia reuters hanno comunicato ben 40 morti civili assassinati in un giorno solo dalle bombe esplosive degli attentatori terroristici aviazione nato.
5) è violato il regolamento nato, che dispone i termini di una allenaza difensiva, impegnando alla mutua difesa i paesi membri nel caso che uno di essi sia militarmente attaccato dall'esercito di uno stato esterno. cosa che non è avvenuta: nessun paese esterno all'alleanza ha attaccato militarmente alcun paese nato, mentre al contrario la criminale banditesca banda dei quattro ha attaccato unilateralmente la libia e il suo governo.
6) la signora marina sereni, indegna rappresentante eletta in parlamento con il pd, ha mentito in forma grave al parlamento, o in malafede, o in ignorante colpevole buonafede, dichiarando sia obbligo accogliere la criminale decisione annunciata dal primo ministro di bombardare la libia, poichè vincolati dai termini dell'alleanza nato.
la motivazione è falsa, come visto al punto (5), e il regolamento nato non obbliga alcuno ad aderire alla iniziativa delinquenziale dei governi francese, inglese e statunitense, trattandosi di alleanza difensiva, ed essendo stato il proditorio attacco usa-gb-fra-ita criminalmente messo in atto senza alcun precedente attacco libico a nessun paese nato.
dimostrazione, ad uso dei dubbiosi, della ignobile falsità di quanto enunciato da marina sereni: se davvero i membri nato fossero obbligatoriamente vincolati all'intervento (vincolo inspiegabile, trattandosi di una alleanza difensiva, mentre la sventurata guerra è aggressione da parte usa-fra-gb-ita) non si darebbe il caso che solo quattro paesi abbiano aderito: vi sarebbe obbligo di inviare contingenti da parte di tutti i membri.
ma così non è: la germania è assente. la spagna è assente. il portogallo è assente. sono assenti, infatti, tutti gli altri alleati, estranei ad ogni obbligo riguardo l'avventurismo stragista infame fra-usa-gb-ita.
sono i fatti evidenti a smentire la menzogna parlamentare pd.
7) è violato il trattato di amicizia italia-libia, stipulato da tempo dai due governi, e mai annullato.
la gravissima situazione di palese e feroce illegalità in cui versano i quattro paesi governati da bande criminali deviate glpiste infiltrate nelle istituzioni impone ai popoli francese, inglese, statunitense e italiano il completo e assoluto rifiuto e ripudio senza intermedio di tutti i politici traditori della verità e del bene, disponendo fin d'ora la non obbedienza totale ed assoluta, e parimenti la non collaborazione, di tutti i cittadini fedeli alla costituzione, all'onu, al diritto internazionale ed alla verità contro gli infami assassini terroristi che strumentalizzando le armi degli eserciti nazionali stanno distruggendo democrazia, legalità, diritto, nonchè pace e coesistenza tra i popoli.
vincenzo zamboni
E p.c. On. Giorgio Napolitano;
Sen. Renato Schifani;
On. Gianf ranco Fini;
On. Silvio Berlusconi;
Segretario Comune Campo nell'Elba, Dott. Maria Rosa Chiecchi;
Membri del Consiglio Comunale di Campo nell'Elba;
OGGETTO: DIMISSIONI DA CONSIGLIERE COMUNALE
Illustrissimo Signor Sindaco,
pur nella mia modesta qualità di semplice Consigliere di un piccolo Comune, mi sento a tutti gli effetti un rappresentante dello Stato e delle sue Istituzioni. Ho appena appreso la notizia che un raid Nato, e che per quanto ne sappiamo potrebbe benissimo essere stato effettuato anche da un NOSTRO aereo, finalizzato sembra all'eliminazione fisica di un Capo di Stato, indubbiamente dittatoriale e autoritario, ma che fino a poco tempo fa veniva tranquillamente ricevuto ed omaggiato dalla Comunità internazionale in generale e dai nostri massimi rappresentanti in particolare, nel contesto di una guerra non dichiarata e comunque del tutto interna ad un Paese terzo, ha avuto come bersaglio una CIVILE ABITAZIONE, e come vittime un giovane ventinovenne, reo solo di rapporti di stretta parentela con l'obiettivo principale, nonché TRE BAMBINI. La notizia, passata come da prassi in sordina dagli organi di stampa, è, a mio parere, di una gravità inaudita e inaccettabile. Come Lei ben sa, conosco purtroppo da vicino il dolore immenso e insanabile per la perdita di un figlio. E di un bambino in particolare. Ritenendo violato in maniera palese l'articolo 11 della Costituzione con il pieno consenso di chi avrebbe avuto il dovere istituzionale di impedirlo, e ritenendo il nostro Stato, a tutti gli effetti, COMPLICE CONSAPEVOLE DI STRAGE E INFANTICIDIO VOLONTARIO, non posso e non voglio continuare a rappresentarlo in alcun modo. Le preannuncio pertanto le mie Dimissioni da Consigliere Comunale, che verranno debitamente comunicate e confermate nei modi e nei tempi di legge... Tanto era, ritengo, dovuto.
Marina Tiberto
I costi fissi della portaerei da 130 mila euro al giorno e i caccia Eurofighter da 61 mila euro l’ora sono un costo morale ed economico che non possiamo e dobbiamo sopportare.
Il peso maggiore è quello morale che i politici liquidano come “dovere umanitario”.
I lavoratori italiani non hanno nulla da guadagnare dalla guerra, che sicuramente consentirà al Governo, dentro una crisi economica che i lavoratori stanno pagando duramente, di dirottare ulteriori risorse sul fronte degli armamenti giustificando così ulteriori tagli al welfare.
Il decreto per lo sviluppo si fa attendere, ma entro questa settimana dovrebbe essere portato all’esame del Consiglio dei Ministri. Il rafforzato impegno dell’Italia in Libia non è da sottovalutare in chiave di sviluppo poiché parte degli investimenti previsti dal ministro dell’Economia, infatti, dovranno giocoforza essere trasferiti nel budget militare.
E se i bombardamenti dovessero andare avanti per tutto il 2011, il Governo dovrà mettere in conto un miliardo di euro. Senza considerare gli altri fronti in cui l’Italia è già impegnata (Afghanistan, Libano, Balcani, Iraq, Pakistan, Myanmar oltre ad altre operazioni Ue e Nato) che, solo nei primi sei mesi di quest’anno, sono costati 706 milioni di euro.
Per parlare di costi della guerra contro la Libia, in tre mesi di missione militare in Nord Africa e per i rimpatri sono stati spesi 700 milioni di euro.
I bombardamenti hanno dei costi variabili che dipendono dal numero delle missioni, dalle armi e dai mezzi impiegati dalle Forze Armate.
L’agenzia Ansa riporta, però, delle tabelle di conversione, non ufficiali, che servono per quantificare i costi fissi di navi e aerei per la missione Nato, che vanno dal carburante al personale, dalla manutenzione alle infrastrutture. Ad esempio, la Marina militare italiana ha impegnato quattro navi e quattro aeroplani imbarcati sulla portaerei Garibaldi.
Il costo della portaeromobili è di a circa 130 mila euro al giorno, mentre gli 8 caccia Av-8B Plus imbarcati costano 9 mila euro per ogni ora di missione (ognuna ne può durare anche 5).
A disposizione della Nato anche la un fregata classe Maestrale (la nave Libeccio) che costa giornalmente 60 mila euro; la rifornitrice Etna - 40 mila euro al giorno - e un pattugliatore classe Comandanti, il Comandante Bettica, che costa 15 mila euro al giorno.
Per quanto riguarda l'Aeronautica militare - che attualmente fornisce all'Alleanza atlantica 4 caccia Eurofighter e 4 caccia anti-radar Tornado ECR - gli assetti che potrebbero essere impiegati per i 'bombardamenti mirati’ sono i Tornado IDS e, forse, gli AMX, le cui missioni dovrebbero essere svolte sotto la protezione dei caccia Eurofighter e dei Tornado ECR.
Anche qui, i costi giornalieri dipenderanno essenzialmente dal numero di sortite e dal tipo di armamento (si pensi che il missile Storm Shadow che potrebbe essere utilizzato dai Tornado Ids arriva a costare quasi 300 mila euro).
Il più caro, da questo punto di vista, è l'Eurofighter, che costa circa 61 mila euro l'ora, mentre i Tornado e gli AMX costano all'incirca 28 mila euro per ora di volo.
Relativamente meno costosi gli elicotteri - dai circa 3.500 euro l'ora degli AB 212 agli oltre 8.000 degli EH 101 - ma finora non si parla dell'impiego di questi velivoli, anche se entrambi i tipi di velivoli sono già a bordo delle quattro navi della Marina.
Bene che vada, il ministero dell’Economia dovrà recuperare oltre un miliardo di euro entro la fine di giugno per rifinanziare le missioni.
E proprio per questo al Tesoro si sta pensando a un nuovo aumento dell’accisa sulla benzina, già deliberato per finanziare il Fondo unico per lo spettacolo.
USB PUBBLICO IMPIEGO COMPARTO DIFESA
'CARA' GUERRA
questa guerra costa molto, sia in termini di annientamento di vite umane, sia in termini di cancellazione di valori politici e etici, sia in termini di costi sociali.
Crediamo che nessuna persona dotata di un minimo di buon senso abbia creduto all’ipocrita bufala dell’intervento militare in Libia per la difesa dei civili: Francia e Gran Bretagna sono partite all’attacco da una parte per rientrare con ruoli egemonici nell’area mediterranea, dopo che le rivolte in Tunisia e in Egitto avevano deposto governi e presidenti loro alleati e protetti, dall’altra per mettere le mani sul petrolio, di cui la Libia possiede le seconde maggiori riserve al mondo, e sugli affari del post Gheddafi. Ma il petrolio non è stato il solo obiettivo.
Tra le nobili motivazioni della guerra non è stato secondario il fatto di impossessarsi di un’ingente quantità di denaro rappresentato dai fondi statali libici, i cosiddetti fondi sovrani.
Il 28 febbraio gli USA hanno congelato 32 miliardi di dollari, proventi del petrolio libico, che erano stati depositati presso le loro banche, un’immensa boccata d’ossigeno per un’economia sempre più indebitata. Poco dopo anche l’Unione Europea ha congelato 45 miliardi di euro di fondi libici! Serviranno a ripagare le spese di guerra?
Per guardare solo al nostro paese, mentre si prospettano anni di ulteriori pesanti sacrifici, con manovre finanziare che faranno impallidire quelle dei primi anni 90, non si esita neppure un attimo a distruggere con la guerra risorse che potrebbero essere usate per ben più nobili e utili scopi:
un’ora di volo dei Tornado costa 32.000 euro, che passano a 60.000 per gli aerei da ricognizione
un missile va dai 136.000 ai 170.000
una bomba costa dai 30.000 ai 50.000 euro
un raid aereo costa dai 200.000 ai 300 mila euro
lo stazionamento di 5 mezzi militari navali davanti alla libia costa oltre 10 milioni di euro al mese.
Il totale, finora, fa circa 100 milioni di euro al mese, tanto quanto costano alle finanze pubbliche gli stipendi di 4.000 insegnanti. Ma con il via libera ai bombardamenti i costi lievitano e in poche settimane si brucerà tutto il bilancio di un anno intero della Difesa!! E dopo? Aumenterà la benzina o introdurranno qualche altra tassa, chiuderanno altri ospedali, licenzieranno altre migliaia di precari pubblici?
Non si risparmia sulle spese di guerra, mentre si tagliano tutti i servizi pubblici, dalla scuola alla sanità alla previdenza all’assistenza.
Non ci sono soldi per il reddito ai disoccupati né per le case popolari, non ci sono soldi per gli aumenti di salario, non ci sono soldi per assumere i precari, non ci sono soldi per le spese sociali.
Tagliare la spesa pubblica è l’unico mantra che ci viene ripetuto in continuazione; dalla UE che impone il pareggio di bilancio entro il 2014, da Draghi, governatore di Bankitalia e candidato a governare la Banca Comune Europea, che invita ad un drastico taglio del 7% in termini reali necessario per raggiungere quell’obiettivo, accompagnato da ulteriori liberalizzazioni e privatizzazioni, da Tremonti che ci prepara finanziarie da 40 miliardi di euro.
Ma necessario per chi? necessario per i mercati finanziari, che stanno ridando fiato alla speculazione più sfrenata, non per i settari più deboli e tartassati della società, non per i lavoratori. E allora se così stanno le cose non ci potremmo risparmiare almeno questa guerra!
Finora la reazione dei lavoratori e dei cittadini italiani, che i sondaggi dicono essere ampiamente contrari all’intervento in Libia, non ha trovato strumenti adeguati di opposizione.
Diventa quindi estremamente urgente mettere in campo mobilitazioni che, in nome del no alla guerra, siano in grado di impedire che i tagli ai servizi e ai salari vadano a finanziare operazioni belliche.
Roma 03/05/2011
25 Aprile, Costituzione e guerra
Il Presidente della Repubblica ha oggi dato la sua approvazione all’aggressione allo stato libico.
La senatrice Finocchiaro (PD) ha dichiarato che il suo partito sosterrà il governo in questa azione contro l’esercito libico, naturalmente nel quadro del mandato dell’ONU(!?).
In precedenza, il PD aveva pienamente sostenuto il governo per quanto riguarda le missioni in Afganistan.
Nel 1999 il governo guidato da D’Alema partecipò molto attivamente all’aggressione alla Jugoslavia, bombardando anche obiettivi civili.
Nelle celebrazioni del 25 aprile, l’opposizione ha espressi alcuni concetti, che riporto brevemente:
Napolitano in un suo discorso del 1941, quando era ancora fascista, inneggiava alla invasione tedesca dell’Unione Sovietica, perché avrebbe civilizzato i Russi, D’Alema nel 1999 disse che si sarebbe portata un po’ di civiltà al di là dell’Adriatico… ma quando ci libereremo di queste follie?
26 Aprile 2011
Tamara Bellone
Ente Morale D.L. 5 aprile 1945 n. 224
Via Giovanni Grioli, 40 – 06132 San Sisto Perugia 0755280053
Via Cave, 7 – 06034 Foligno cell. 3391312122
COMITATO PROVINCIALE di PERUGIA
COMUNICATO STAMPA
L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), nel mese di marzo scorso, ha celebrato a Torino, in onore del 150° anniversario dell’unità del Paese, il XV congresso. Nei lavori inerenti all’evento, svoltisi nel nostro territorio il 12 marzo, l’assemblea dei delegati delle 11 sezioni perugine, in rappresentanza di 516 iscritti, ha eletto il nuovo Comitato Provinciale in numero di 60 membri.
Il nuovo Comitato ha successivamente nominato quale presidente provinciale l’avvocato Francesco Innamorati, partigiano del GAP di Perugia e poi Volontario della Libertà, arruolato nel Gruppo di Combattimento Cremona e decorato V.M. e come vicepresidente Simoncelli Giovanni, antifascista.
Il dibattito è stato partecipato: ora ha approfondito le finalità della nostra Associazione, che sono la difesa della Costituzione e la condanna storica e culturale dell’ideologia fascista, ora si è concentrato sulla politica di destra del Governo e sull’aumento dei focolai di guerra fra le nazioni. Al termie, il Comitato Provinciale ha invocato, con un ordine del giorno, il rispetto assoluto dell’articolo 11 della Costituzione e la fine delle missioni di pace effettuate con le armi. Inoltre, nella recente seduta avvenuta il 3 maggio, ha continuato a tenere la linea in difesa della pace e della non violenza, ed ha espresso all’unanimità ferma condanna per i bombardamenti aerei in Libia, auspicando una soluzione immediata e pacifica del conflitto.
Perugia 5 maggio 2011
il presidente
Avv. Francesco Innamorati
Ora e sempre Resistenza!