Informazione
Die Beerdigung wird am 16. Juli in der Wiener Kapuzinergruft, der Grablege der Habsburger, stattfinden.
Im Begräbnisritual der Habsburger hielt der Trauerzug vor der verschlossenen Tür der Kapuzinergruft und ein Herold klopfte an die Tür. Darauf fragte einer der Kapuziner-Brüder von drinnen: „Wer begehrt Einlass?“ Der Herold antwortete mit allen zu Lebzeiten des Verstorbenen getragenen Titeln.
N. N. von Gottes Gnaden Kaiser von Österreich; Apostolischer König von Ungarn; König von Böhmen, von Dalmatien, Kroatien, Slawonien, Galizien, Lodomerien und Illyrien; König von Jerusalem etc. Erzherzog von Österreich; Großherzog von Toskana und Krakau; Herzog von Lothringen, von Salzburg, Steier, Kärnten, Krain und der Bukowina; Großfürst von Siebenbürgen; Markgraf von Mähren; Herzog von Ober- und Nieder-Schlesien, von Modena, Parma, Piacenza und Guastalla, von Auschwitz und Zator, von Teschen, Friaul, Ragusa und Zara; gefürsteter Graf von Habsburg und Tirol, von Kyburg, Görz und Gradiska; Fürst von Trient und Brixen; Markgraf von Ober- und Nieder-Lausitz und in Istrien; Graf von Hohenems, Feldkirch, Bregenz, Sonnenberg etc.; Herr von Triest, von Catarro und auf der windischen Mark; Großwoiwode der Woiwodschaft Serbien etc. etc.
Von drinnen erfolgte allerdings die Antwort "Wir kennen sie/ihn nicht!".
Daraufhin klopfte der Herold noch einmal. Wieder wurde gefragt „Wer begehrt Einlass?“ Diesmal antwortete der Herold mit der Kurzfassung der Titel. Doch die Antwort war "Wir kennen sie/ihn nicht!".
Der Herold klopfte ein drittes Mal, wieder wurde dieselbe Frage gestellt. Nun antwortete der Herold: „X.Y., ein armer Sünder“, woraufhin das Tor geöffnet wurde.
Der Herr schenke ihm die ewige Ruhe. Das ewige Licht leuchte ihm. Gott lasse ihn ruhen in Frieden!
Gott schütze Österreich!
Međunаrodni krivični sud (MKS) izdаo je nаlog za hapšenje Moаmerа Gadafija, predsjednika Libije, okrivljujući gа zа "nelegitimno hаpšenje ljudi " i za "ubistvа člаnovа opozicije" koji se protive libijskoj vladi, od februаrа ove godine. Još jednom, MKS dolаzi dа se dokаže kаo smiješnа mаrionetа imperijаlističkog poretkа, čiji je jedini cilj dа legitimiše imperijаlističke intervencije.
Od velikog je znаčаjа dа se podsjetimo još jednom dа ovаj sud ne sudi аmeričkim vojnicimа ili zločinima počinjenim od strаne SAD-a i od osnivanja, nikаdа nije rekao ni riječ protiv bezbrojnih zločina NATO-а ili bilo koje druge imperijаlističke koаlicije ili intervencije.
Svjetska Federacija Demokratske Omladine ne priznаje MKS kao autoritet da okrivljuje bilo koga za bilo šta. Tokom posljednjih godinа, ovаj tаkozvаni "sud", nikаdа nije govorio o ubistvima koja su izvršili imperijаlistički kriminаlаci i njihovi sаveznici u Libiji, Avgаnistаnu, Irаku, Pаlestini, Zаpаdnoj Sаhаri, Bаhreinu, Jemenu, Tunisu i Egiptu (dа pomenemo sаmo nekoliko) i uvijek je stаjаo nа strаni okupаtorа, bombаrderа i diktаtorа. Njegovа ulogа je dа doprinese pljаčkama i ubistvima koje imperijаlizаm širi po svetu sа svojim stаlnim rаtovimа i konfliktimа.
Motivаcijа imperijаlizmа dа bombаrduje i nаpаda Libiju nikаdа nije bio i nije Gаdаfi ili bilo kakva licemjerna odbrana ljudskih prava. Imperijаlizаm je nаoružаo pobunjeničke snаge, bombаrdovаo i nаpаo Libiju i ubijao nevin libijski narod kako bi krenuo u pohod na ogromne rezerve nаfte i dа bi instаlirаo u toj oblаsti još jedаn ogromаn vojni kompleks koji će stvoriti bolje uslove zа svаku novu intervenciju.
Ovom prilikom, WFDY pozivа sve svoje članove dа osude ovаj novi tаlаs propаgаnde kаo dio kontinuirаnog nаporа kojeg činimo zа hitаn prekid rаtа protiv Libije, tаko dа libijski narod sam može da riješi svoje probleme , kаo i u svаkoj drugoj suverenoj držаvi.
Prvedeno sa stranice Svjetske Federacije Demokratske Omladine
The International Criminal Court (ICC) has issued a capture warrant Muammar Khadafi, president of Libya, blaming him for the “illegitimate arresting of
people” and “murders of opposition members” standing against the Libyan government, both done since last February.
Once again, the ICC comes to prove itself as a ridiculous puppet of the imperialist order, whose only purpose is to legitimate the imperialist interventions.
It is of high importance to remind, once again, that this court does not judge American soldiers or crimes done by the US and, since it exists, never it has taken even a word against the countless crimes of NATO or any other imperialist coalition or intervention.
WFDY does not recognize to the ICC even a drop of authority to blame or find guilty anyone for anything. Over the last years, this so-called “court”, has never even spoken about the killing done by imperialist criminals and their allies in Libya, Afghanistan, Iraq, Palestine, Western Sahara, Bahrain, Yemen, Tunisia and Egypt (just to mention a few) and always stood by the side of the occupiers, the bombers and the dictators. Its role is to contribute to the pillage and murder that imperialism spreads around the world with its constant wars and conflicts.
The motivation of imperialism to bombard and invade Libya was never and is not Khadafi or any hypocrite defense of the human rights. Imperialism has armed rebel forces, bombed and invaded Libya and killed innocent Libyan people to go after the Libyan immense reserves of oil and to be able to install in that area another huge military compound that will create better conditions for any new interventions.
On this occasion, WFDY calls upon all its member organizations to denounce this new wave of propaganda as part of the continuous efforts we are making for the immediate end of the war against Libya, so that it can be the Libyan people to solve their own issues, as in any other sovereign country.
"Libia, l'obiettivo della Nato è assassinare Gheddafi"
Lo storico italiano Angelo Del Boca: "Una guerra fondata sulla disinformazione e veri e propri falsi. Altro che proteggere i civili: i capi dell'Alleanza dichiarano che il fine è far fuori il Colonnello".
La guerra in Libia analizzata dal più autorevole studioso italiano del Nord Africa: Angelo Del Boca.
A mesi di distanza dall'inizio della guerra in Libia, le chiedo: che storia è questa?
«È una storia che si può guardare da molti lati, e comunque la si analizzi resta sempre una brutta storia. Perché è vero che c'è stata una risoluzione, la 1973, del Consiglio di Sicurezza dell'Onu che autorizzava l'attacco alla Libia di Gheddafi, ma poi questa facoltà è stata sicuramente snaturata, nel senso che ciò che si sta cercando di fare in tutti i modi è assassinare Gheddafi. Ormai nessuno tace su questa ipotesi. Gli stessi rappresentanti della Nato ammettono che se il Colonnello viene colpito e fatto fuori è ancora meglio È quindi una guerra strana ».
Strana perché?
«Perché in realtà la Francia ha un suo obiettivo, l'Italia un altro e gli Stati Uniti un altro ancora. Ma in definitiva nessuno sa come uscirne. E' una guerra nata sotto una cattiva informazione e continua ad essere corredata da storie inverosimili, da veri falsi. Amnesty International è stata sia a Tripoli che a Bengasi, e ha documentato che le torture sono state fatte in modo particolare a Bengasi su presunti mercenari che non erano altro che poveri migranti africani provenienti dal Sahara».
Ma qual è a suo avviso l'obiettivo dell'Italia?
«L'obiettivo dell'Italia è il più strano. Perché in realtà noi siamo entrati in guerra controvoglia. Da principio davamo soltanto le nostre basi, poi abbiamo messo a disposizione un certo numero di aerei, e soltanto in un secondo tempo è arrivato l'ordine di sparare. Oggi si dice che il 30 per cento delle missioni le fa l'Italia. Ed è veramente un controsenso perché noi dovevamo restare estranei a questa guerra, così come ha fatto la Germania di Angela Merkel. E noi avevamo ancora più motivi della Germania ».
Quali?
«Primo: la Costituzione italiana all'articolo 11 ci proibisce di entrare in guerra. Secondo: soltanto tre anni fa abbiamo firmato un trattato di amicizia e cooperazione con Tripoli. E anche se di recente abbiamo di fatto annullato questo accordo, in realtà è un atto che non si può cancellare se non viene fatto contemporaneamente dalle due parti. Per finire, con la nostra aggressione ad uno Stato sovrano, noi facciamo un balzo indietro di 100 anni, a quando attaccammo Tripoli nel 1911, in una atmosfera coloniale che oggi si ripete in maniera straordinaria, tragicamente straordinaria».
Quali scenari possibili nel futuro immediato?
«Le opzioni sono tutte legate alla sorte di Gheddafi. Gheddafi ha tre possibilità: quella di fuggire dal Paese, ma non è nella sua storia mitizzata; può lasciare la Libia dopo trattative, ma non vedo in queste ultime settimane trattative consistenti. E infine, l'ultima possibilità, quella che lui sembra, in un certo senso, invocare: morire da martire nella sua Tripoli. L'ultima sua dichiarazione in un qualche modo evoca proprio questa fine, quando Gheddafi dice ho le spalle al muro . Per quanto mi riguarda, come biografo di Gheddafi, spero che non sia questo il suo ultimo destino, ma temo che questa guerra finirà proprio con un assassinio».
Quale Libia sta nascendo sulle macerie del regime di Gheddafi?
«Nel dopo-Gheddafi si parla di mandare un centinaio di osservatori e poi anche alcune migliaia di soldati, turchi si suppone, per mantenere quel minimo di tranquillità dopo la guerra. Queste sono le ipotesi formulate in ambito Nato. Io invece prevedo un terribile caos nella Libia di domani, una somalizzazione dell'intero Paese. Vi saranno molte vendette consumate, e poi bisogna vedere che cosa accadrà sul piano delle speculazioni, perché non credo proprio che Sarkozy abbia puntato tutto sulla guerra solo per guadagnare qualche punto sul piano elettorale. Penso che ci saranno molti interessi petroliferi in gioco e a farne le spese di questo cambiamento sarà sicuramente l'Italia».
Mentre parliamo, la tv di Stato libica ha denunciato una strage di civili a Brega a seguito di un raid aereo Nato. L'Alleanza nega...
«Non è la prima volta che Bruxelles nega ma i morti civili ci sono, proprio i civili che andavano protetti...». Non esistono dunque bombe «intelligenti»... «In questa guerra di intelligente non c'è niente, non solo le bombe. Penso anche a dichiarazioni di autorevoli capi militari della Nato che ammettono che il bersaglio principale è Gheddafi».
French lawyers sue Sarkozy over crimes against humanity in Libya
By Antoine Lerougetel
17 June 2011
Two high-profile French lawyers, Jacques Vergès and former Socialist Party minister Roland Dumas, have announced that they plan to sue French president Nicolas Sarkozy on charges of crimes against humanity committed in the on-going NATO military intervention in Libya. They are acting for some thirty Libyan families who have lost family members in the NATO bombings.
At a press conference May 29 in Libya they declared that they would initiate legal proceedings in the French courts on Monday, May 30. There has been an almost complete blackout of the announcement in the French media. Only the Socialist Party-leaning newsweekly Marianne commented, attacking Dumas and Vergès for “a grotesque accusation against the president of the Republic.”
At a press conference in Libya on Sunday Dumas said, referring to the NATO bombing, “this mission, which is supposed to protect civilians, is in the process of killing them.” He said the war in Libya was “a brutal aggression against a sovereign nation.”
Calling the NATO alliance nations “murderers”, Vergès denounced “a French state led by thugs and murderers ... We intend to break the wall of silence.” He said he had seen several civilian victims at a hospital and had been told by one of its doctors that there were as many as 20,000 victims.
Dumas said he was ready to take the defense of Gaddafi himself if he was to appear at the International Criminal Court (ICC) at The Hague. On May 16, acting at the behest of the major Western powers, the ICC prosecutor requested an arrest warrant for crimes against humanity against Gaddafi.
Dumas questioned the authority of Sarkozy and NATO to conduct bombing based on UN Security Council Resolution 1973, calling it “the artificial—very artificial—cover of the United Nations.”
The lawsuit comes at a time when the NATO allies have stated that the war will be extended for at least 90 days, until September, and when Britain and France have announced the stepping up of the military bombardments, which have already involved several attempts at targeted political assassination through the bombing of homes of Libyan leader Muammar Gaddafi’s family.
British ex-SAS elite troops and other mercenaries employed by NATO are helping identify targets in the Libyan port city of Misrata, They are there with the blessing of Britain, France and other NATO countries, which have supplied them with communications equipment. They are likely to be providing information for the pilots of newly deployed British and French attack helicopters.
The French government was the main protagonist of United Nations Security Council Resolution 1973, a flimsy legal cover for the naked neo-colonial, imperialist intervention supposedly to protect civilians from the Libyan armed forces. In reality, it is part of the scramble for Libya’s oil and gas resources and the imposition of a pliant pro-imperialist government being assembled and groomed in Benghazi.
Other lawyers acting for Aïcha Gaddafi, the daughter of the Libyan leader Muammar Gaddafi, have reportedly filed charges against NATO in a Belgian court. They declared, “The decision to target a civilian home in Tripoli constitutes a war crime.”
The charge concerns a NATO air raid on April 30 that killed Gaddafi’s youngest son and three of his infant grandchildren. The two lawyers are also suing for the annulment of the EU ministers’ decision to freeze the accounts of the Libyan regime in the European Court of Justice in Luxembourg.
It is not clear whether the octogenarian Vergès and Dumas, with long and close ties to the French state, are directly working with sections of the French state but certainly serious doubts have emerged in French ruling circles on Sarkozy’s decision to embark on the military intervention in Libya.
The TTU defense information web site commented on an unpublished 50-page report issued after a three-week visit to Libya by intelligence experts headed by Yves Bonnet, former chief of the French national intelligence agency, the DST. According to the TTU site, the intervention is overstepping resolution 1973 and “the control of energy resources is at the heart of the current strategy. The US would like to overthrow Gaddafi in order to kick China out of the country. Egypt, which has never accepted the attachment of Cyrenaica and its oil reserves to Tripoli, can see nothing but advantages from the partitions of the country.”
The site adds: “The report expresses alarm at this ‘thoughtless’ involvement by Paris, which plays into the hands of the American administration, which has taken care not to show its hand and let France take all the risks.” It expresses serious doubts as to whether the Benghazi transitional council could “preserve the interests of the powers involved,” implying most especially those of French imperialism.
The military commentator Jacques Borde has also suggested that, while France is futilely overreaching its military capacities, its Arab and Western allies will be reaping the rewards in terms of the share-out of the spoils. There is also the danger of the “Somalisation” of Libya – that is its disintegration into warring tribes and warlords.
The two aging lawyers have long political and legal histories. Dumas, born 1922, was a close collaborator of François Mitterrand, Socialist Party (PS) president of France from 1981 to 1995, and served as a minister in several PS governments. He has never been a policy-maker, but rather a trusted errand boy for the executive.
He was part of the corrupt relations of French imperialism with African governments known as Françafrique. In 1983 he was Mitterrand’s special envoy to Gaddafi. His task was to persuade Libya not to invade Chad in support of a rebellion in the north of the country against the pro-French government. Finally, with the complicity of Gaddafi, the government was kept in power thanks to France’s intervention.
In 1995 Dumas was nominated President of the Constitutional Council, the French constitutional court, by Mitterrand. He resigned in January 1999 because of the Elf corruption affair.
Vergès was born in 1925 of a Vietnamese mother and a Réunionese father. Among the most famous legal defenses he carried out were that of the terrorist Carlos “the Jackal” and the Nazi war criminal Klaus Barbie, “the butcher of Lyon” in occupied France. He accused French imperialism of committing similar crimes in Algeria to those of the Nazis.
Dumas has admitted that he and Vergès were approached by the Gaddafi régime to take the case. Whatever their motivations, however, there is no doubt that the indictment they are making of French and Western imperialism’s criminal action against the Libyan people is a source of some embarrassment for the Sarkozy government and its imperialist allies. So it is also for the PS, the PCF, and the fake lefts of the NPA in France, who have peddled the lie that the intervention is “humanitarian” and designed to protect the Libyan people.
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DOMENICA 4 SETTEMBRE 2011
ORGANIZZA UNA VISITA
ALL’OSPEDALE PARTIGIANO “FRANJA”
L'ospedale partigiano Franja è oggi uno dei pochi esempi ancora conservati dei 120 ospedali partigiani, che operarono durante la seconda guerra mondiale in Slovenia. Essi venivano creati a seconda dei bisogni del movimento di resistenza all'interno delle singole zone della Slovenia. I loro costruttori, volendo offrire ai feriti le migliori condizioni possibili di cura, ma soprattutto di sicurezza, cercarono a tal fine dei siti in mezzo ai boschi, in forre difficilmente accessibili ed in grotte sotterranee.
Il complesso dell'ospedale partigiano Franja è composto da 13 baracche di legno diverse per dimensioni e scopi e da vari fabbricati ausiliari. Il suo fondatore ed il primo costruttore fu il dottor Viktor Voljcak, ma l'ospedale prende il nome dalla dottoressa ed amministratrice Franja Bojc Bidovec. Fu attivo dal dicembre 1943 al maggio 1945
PROGRAMMA:
ore 6.00 ritrovo presso il piazzale COOP/CGIL Conegliano
ore 6.15 ritrovo presso il piazzale del IV Corpo d’Armata (ex COOP) Vittorio Veneto;
ore 10.30 arrivo a Cerkno (Slovenia) e visita all’ospedale partigiano “Franja”, al termine
partenza per Lubiana dove ci sarà la possibilità di pranzare e visitare la città;
ore 17.30 partenza per Conegliano/Vittorio con arrivo previsto ore 21.00
Il costo previsto è di 20 euro per il pullman e di 5 euro per l’ingresso.
Piero 339 8535838
Mirella 329 9266295
e-mail: anpivittorioveneto @ gmail.com
NB.: DOCUMENTO DI RICONOSCIMENTO IN TASCA E SCARPE COMODE AI PIEDI
Data: 06 luglio 2011 11.22.33 GMT+02.00
Oggetto: I ragazzi serbi a Roma: il 7 luglio alle ore 20,30
Carissimi,
come molti di voi sanno, ogni anno ospitiamo un gruppo di ragazzi provenienti dalla Serbia, ex Jugoslavia, profughi dal Kosovo e Metohija.
Per chi volesse incontrarli e ocnoscerli, giovedì 7 luglio, alle ore 20,30, presso l'Auditorium della facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Roma - Tor Vergata, via Columbia, 1 si esibiranno in una rappresentazione teatrale, coordinati dall'attrice Cristina Fioretti. Seguirà una performance di musica etnica, con le percussioni del maestro Michele Martino.
Se qualcuno di voi riuscisse a venire, sarebbe magnifico, soprattutto per non lasciarli soli. In questi anni, molti di noi non l'hanno fatto...
Una volta tanto, l'ingresso è libero e non vi si chiederanno soldi a sottoscrizione!!!
Un abbraccio a tutti
Alessandro
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visita: http://unsorrisoperognilacrima.blogspot.com/
"Deve esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo e tutto sarà giusto..."
(francesco guccini - cyrano)
Un ponte per... associazione di volontariato per la solidarietà internazionale
Piazza Vittorio Emanuele II, 132 - 00185 - Roma
tel 06-44702906 e-mail: posta@... web: www.unponteper.it
Italia: una “memoria condivisa” fatta di vittimismo e negazione del conflitto
Spesso, in questi anni, come forze dell’antagonismo sociale e della sinistra di classe abbiamo realizzato iniziative volte a contrastare la rilettura ufficiale della storia italiana. Uno sforzo meritorio, che ha prodotto momenti di discussione utili, anche sul piano della formazione di chi vi ha partecipato. Mai come oggi è necessario rafforzare questo impegno, fondandolo su una piena comprensione delle ragioni che hanno spinto a definire i nuovi criteri di interpretazione della vicenda italiana. In questa intervista, Davide Conti – autore di L’occupazione italiana dei Balcani (2008) e Criminali di guerra italiani (2011) – si sofferma sulle caratteristiche di quella “memoria condivisa” che si è andata delineando a partire dalla fine della Prima Repubblica. E che negli ultimi anni è stata sancita attraverso una precisa, ragionata calendarizzazione, tesa a sottacere le verità più scomode e capace di rifunzionalizzare alle nuove esigenze antichi miti, come quello degli “italiani brava gente”. Per il suo carattere complessivo, il discorso di Conti deve essere preso in considerazione da chiunque voglia contrastare la narrazione storica oggi dominante. Anche per superare quella frammentarietà – legata alla necessità di intervenire volta per volta su singoli aspetti del dibattito pubblico sulla memoria – che ha inevitabilmente segnato la nostra azione su questo terreno.
Semmai le motivazioni sono state in primo luogo di carattere geopolitico ed in second'ordine legate a questioni interne. Dal punto di vista geopolitico - cioè dell'asse portante del paradigma dell'impunità dei criminali di guerra italiani - sicuramente la collocazione del nostro paese nell'ambito del dispositivo internazionale della NATO ha prodotto, per gli alleati, la necessità di evitare processi contro i vertici ed i quadri medio-alti e medi del Regio Esercito. Si voleva impedire quella decapitazione di fatto del nostro corpo militare, che sarebbe stata la naturale conseguenza di una seria procedura di epurazione in seno all'esercito. L'idea era invece quella di riarmarlo e di reintegrarlo in un nuovo dispositivo bellico, perciò gli alleati rinunziarono a processare quei criminali di guerra che loro stessi avevano indicato in liste apposite, consegnate alle Nazioni Unite. Parliamo della Francia, degli USA e dell'Inghilterra. Per quanto riguarda gli altri paesi, fummo aiutati dalle stesse ragioni geopolitiche: la contrapposizione col blocco orientale consentì all'Italia, appoggiata dagli alleati, di non consegnare gli accusati di pratiche e condotte militari illecite soprattutto in Unione Sovietica ed in paesi balcanici come Jugoslavia ed Albania. Un discorso a parte andrebbe fatto per la Grecia, che fa parte dell'area dei Balcani ma trovandosi nello stesso schieramento geopolitico dell'Italia, quello occidentale, rinunciò con un accordo segreto siglato nel 1948 a vedersi consegnati i presunti criminali di guerra. Di più, essa sbloccò di fatto delle procedure che permisero il progressivo rientro anche di quei militari italiani che, essendo stati già processati e condannati, stavano scontando la pena nelle carceri greche.
Questo è il quadro generale. Il risultato, sul piano interno, fu la possibilità sostanziale per i governi a maggioranza conservatrice di mantenere quella continuità dello Stato che è stato il tratto caratteristico del dopoguerra italiano.
- Quali sono stati invece gli effetti sull'opinione pubblica?
Si pensi anzitutto a come è stata tradotta in Italia la data del 27 gennaio, la giornata internazionale dedicata alla Shoah. E' una giornata che ricorda l'ingresso dei carri armati sovietici nel campo di sterminio di Auschwitz, quindi la rottura del sistema concentrazionario nazista e la fine del processo di sterminio razionalizzato e programmato messo in atto dal Terzo Reich. Alcuni paesi, ad esempio la Francia, hanno scelto di affiancare alla data internazionale del 27 gennaio - che non può da sola ricomporre tutte le dimensioni nazionali e locali dello sterminio degli ebrei - una data nazionale, tale da ricordare quanto il collaborazionismo francese di Vichy abbia contribuito al genocidio ebraico. Così è stata istituita per legge la giornata del 16 luglio, nella ricorrenza del rastrellamento antiebraico di Parigi organizzato dalle truppe naziste con il sostegno organico delle milizie di Vichy. Con questa scelta, la Francia imprime nella memoria collettiva l'idea di una corresponsabilità attiva nello sterminio degli ebrei.
Un dibattito simile si è avuto in Italia, quando si è pensato di poter affiancare anche nel nostro paese una data nazionale a quella internazionale del 27 gennaio. Si era pensato di portare in Parlamento - e così è stato fatto - la proposta di istituire la giornata della memoria italiana indicandola nel 16 ottobre, nella ricorrenza del rastrellamento del ghetto ebraico di Roma. Il nostro Parlamento ha respinto questa proposta ed ha mantenuto una data, dal punto di vista nazionale, più "neutra", perché appunto inquadra in una dimensione internazionale, ma molto poco italiana, il genocidio ebraico.
Si è proseguito poi, nel corso del tempo, istituendo la giornata del ricordo, che è quella più controversa del nostro calendario pubblico. Si intenderebbe ricordare le vittime delle foibe, quindi di quei fenomeni di violenza che si sono verificati nel settembre del 1943 e nel maggio del 1945 lungo il confine orientale. Ora, la data scelta pone una questione che non dovrebbe essere trascurata: il 10 febbraio non si verifica nessun episodio di violenza sul confine orientale da indicare col termine foibe. Le foibe sono un fenomeno che si sviluppa all'indomani dell'8 settembre 1943, quando la rotta dell'esercito italiano produce una temporanea rioccupazione delle terre del confine orientale da parte della popolazione civile. La prima ondata delle foibe si sviluppa a partire dall'11 settembre e termina immediatamente dopo con la rioccupazione del territorio a parte delle truppe tedesche. In questa prima ondata perdono la vita 500 persone.
- Giacomo Scotti, nel suo "Dossier foibe", legge questi accadimenti come un’insurrezione popolare spontanea, senza una precisa direzione militare...
Nel maggio del '45 l'avanzata dell'esercito popolare di liberazione jugoslavo produce una seconda ondata delle foibe. Dunque, ci si potrebbe riferire a due mesi precisi: il settembre del 1943 ed il maggio del 1945. L'indicazione del 10 febbraio come giornata del ricordo delle vittime delle foibe, quindi, non ha un'attinenza calendaristica, bensì un significato fortemente politico. Tanto è vero che ha prodotto ogni anno degli attriti - progressivamente mitigati, ma sempre attriti - tra gli stati della ex Repubblica Jugoslava e l'Italia. Il punto è che il 10 febbraio ricorre la firma del Trattato di Parigi (1947) che restituisce alla Jugoslavia i territori che erano stati occupati dal Regio Esercito e dal regime fascista.
L'indicazione di questa data assume di fatto la caratteristica di una contestazione della legittimità di quel Trattato, ponendosi sostanzialmente in continuità con quella che sino a qualche anno fa era una lettura minoritaria, quasi clandestina. Una lettura propria dell'estrema destra, quella del diktat imposto all'Italia, che recuperava l'idea, diffusasi dopo la prima guerra mondiale, della "vittoria mutilata". In sostanza, si contestava ai governi democratici la firma di un Trattato di Pace che - restituendo alla Jugoslavia i territori illecitamente occupati - mutilava di nuovo il nostro paese. Ecco,questa lettura che era tipica dell'irredentismo neofascista oggi assume un carattere di memoria nazionale. Ciò dovrebbe produrre una forte preoccupazione nei settori democratici di questo paese.
D'altro canto, la rilettura ufficiale della storia d'Italia ha creato anche altri paradossi, altre contraddizioni Quest'anno, nella ricorrenza del 150° anno dell'Unità d'Italia, è stata indicato il 17 marzo come data di riferimento. In questo caso ha prevalso la dimensione aconflittuale della storia, perché il 17 marzo è l'anniversario del Regio Decreto che costituisce il Regno d'Italia senza Roma Capitale. Dunque, si escludono la "questione romana" ed il contenzioso col Vaticano dalla memoria pubblica nazionale. Questa lettura aconflittuale ha consentito una narrazione della storia dell'Unità d'Italia quasi condivisa, paradossalmente, non solo dalle istituzioni ufficiali della Repubblica, ma anche dalla stessa Chiesa cattolica. Un’indicazione nel 20 settembre - giorno della breccia di Porta Pia - o un richiamo esplicito all’esperienza della Repubblica Romana (1849), avrebbero espresso elementi conflittuali, impedendo una siffatta convergenza. Si sarebbe cioè determinata la necessità di un approfondimento in termini non solo storici, ma anche di ricostruzione della memoria pubblica del nostro paese.
- Questo approccio, in fondo, lo si può registrare anche rispetto agli anni '70...
- La calendarizzazione che hai sin qui spiegato, a partire dalla giornata del ricordo del 10 febbraio, è stata fatta propria - ed in una certa misura promossa - anche dalle forze dominanti del centrosinistra. Per quali motivi, secondo te? Più che al consueto e logoro discorso sulla "sinistra che rinsegue la destra" non si dovrebbe fare riferimento a motivi di carattere geopolitico?
C'è però, agganciato a questo primo piano, un tentativo di sciogliere l'"anomalia italiana", di ricostruire un perimetro pubblico di reciproca legittimazione fra le forze politiche. L'Italia, più di altri paesi europei, aveva vissuto l'elemento contraddittorio di una proiezione militare ed ideologica del conflitto politico. La Costituzione, la legge fondamentale, era stata scritta da tutte le forze democratiche del paese, inclusi i comunisti, ma sulla base della proiezione interna del conflitto bipolare, la discriminante storica dell'antifascismo era stata presto sostituita da quella politica dell'anticomunismo. Si era dunque prodotta, poco dopo la promulgazione della Costituzione, una repentina riduzione dello spazio pubblico legittimato alla guida ed al governo del paese. La fine della Guerra fredda e - con essa - quella della Prima Repubblica, ha posto il problema della reciproca legittimazione di tutte le forze politiche, incluse quelle nuove, che non avevano partecipato - nemmeno come partiti poi trasformatisi - al processo costituente. Noi ci siamo trovati nel 1994 con una serie di forze politiche che, per una ragione o per l'altra - cioè per la conventio ad excludendum o perché nate da poco - o non avevano radici costituzionali o non erano mai state legittimate a guidare il paese. Questo ha posto un problema, spingendo verso una ridefinizione della narrazione storica e del discorso pubblico. Non a caso, sono stati i maggiori esponenti dei partiti dell'ex estrema destra e della, diciamo, ex estrema sinistra parlamentare, Fini e Violante, ad avviare un processo di questo tipo. Promuovendo un incontro simbolico proprio sul confine orientale, proprio a Trieste, naturalmente legato al tema delle foibe. In sostanza, negli ultimi anni si è manifestata la necessità di ricostruire un nuovo perimetro pubblico all'interno del quale l'intero corpo elettorale - non più vincolato da legami ideologici e quindi, per questo, mobile da uno schieramento all'altro - trovi una narrazione comune, fondata su valori nuovi che sciolgano il nodo del blocco di milioni di voti e quindi determinino una diversa modalità di accesso al potere ed una differente modalità di legittimazione del sistema democratico italiano. Ciò, nell’ottica di una riforma costituzionale fondata su schemi molto lontani dall’idea della Repubblica nata dalla Resistenza. La stessa equiparazione fra i vari segmenti dell’elettorato italiano – inclusi quelli un tempo considerati scomodi – non comporta la possibilità popolare di incidere sugli assetti sociali e politici. La linea guida della riforma in questione è il rafforzamento del potere esecutivo a discapito di quello legislativo. Per procedere in questa direzione, era necessario quello “sblocco di sistema” che è passato anche per la costruzione di una memoria pubblica condivisa fondata su nuovi criteri e valori. Con la fine della Prima Repubblica, è venuta meno l’idea che il richiamo alla Resistenza potesse essere l’elemento unificante dello spazio pubblico italiano. Dunque, è decaduta quella retorica celebrativa che talvolta aveva coperto prassi e provvedimenti in aperto contrasto con il dettato costituzionale. Si pensi alle leggi eccezionali degli anni ’70, come la Legge reale, che di fatto sospendevano garanzie primarie. Questi passaggi venivano arbitrariamente legittimati dal fatto che le forze che li promuovevano avevano radici in un’esperienza aperta, pluralistica e fortemente democratica come quella resistenziale.
A questa esigenza di sostituire una retorica celebrativa con un’altra, risultano funzionali narrazioni come quella relativa al confine orientale promossa negli ultimi anni.
- Come hai detto all’inizio, i criminali di guerra nostrani sono stati salvati anche in virtù della collocazione geopolitica italiana. Il perpetuarsi del mito degli italiani brava gente quanto si lega al ruolo internazionale e militare svolto oggi da questo paese?
Il fatto che i principali partiti, proprio sul piano della politica estera, abbiano trovato una convergenza su questo tipo di lettura si ricollega al discorso che facevamo poc’anzi rispetto alla necessità di ridefinire un perimetro di reciproca legittimazione che passi per la collocazione in un preciso versante geopolitico. Nello stesso schieramento di centrosinistra, il test di affidabilità cui devono sottoporsi le forze minori vede la centralità delle scelte di politica estera, collocate su un piano di maggiore rilevanza rispetto a tutto il resto.
- Un’ultima domanda. Negli ultimi anni, gli studi sui crimini legati ad eventi bellici e coloniali si sono moltiplicati. Per quanto la tendenza dei grandi media sia ancora oggi quella di “oscurarli”, non sempre ciò risulta possibile e qualcosa dei risultati di queste ricerche trapela, creando lievi incrinature al discorso ufficiale sugli italiani brava gente. A tuo avviso, c’è la possibilità che questa battaglia, sia pure non sul breve termine, risulti vittoriosa?
Personalmente ritengo che, per quanto il discorso pubblico italiano sia impostato in modo tale da farci sembrare sempre vittime, prima o poi la ricchezza delle fonti documentarie e l’impegno profuso nei lavori di ricostruzione storica finiranno per imporsi. Anche rispetto a quelle vicende – come l’occupazione militare dei Balcani – che si ritiene più scomodo ricordare.
A cura di Il Pane e le rose – Collettivo redazionale di Roma
“Stop alla guerra Nato in Libia: scriviamo ai membri non belligeranti del Consiglio di Sicurezza Onu”
Alcuni paesi della Nato, con l’alleanza di alcune petromonarchie del Golfo, stanno conducendo da tre mesi in Libia una guerra illegale a sostegno di una delle due fazioni armate che si affrontano; una guerra fondata su informazioni false, portata pervicacemente avanti con vittime dirette e indirette; una guerra che continua malgrado le tante occasioni negoziali disponibili fin dall’inizio.
Che fare? La pressione popolare nei confronti dei paesi Nato è certo necessaria, ma non basta. Potrebbe essere utile, se attuata in massa, una campagna di email dirette a paesi non belligeranti e membri del Consiglio di Sicurezza del’Onu, chiedendo loro di agire. Molti di quei paesi hanno già manifestato volontà negoziali e potrebbero utilizzare come strumento di pressione questo appoggio popolare da parte di cittadini di paesi Nato.
Per questa ragione i gruppi Rete No War e Statunitensi contro la guerra hanno consegnato un analogo appello ad alcune ambasciate a Roma.
Ecco come partecipare alla campagna, semplicemente, con una email. Basta mandare il testo seguente (in inglese) nel corpo del messaggio alle email di: Russia, Cina, India, Sudafrica, Nigeria, Gabon, Bosnia Erzegovina, Libano, Colombia, Portogallo, Germania. Per informazioni (ma l’appello va inviato direttamente agli indirizzi dei paesi!): boylan@...;mari.liberazioni@...
Email delle rappresentanze dei paesi: ChinaMissionUN@...; rusun@...; India@...;portugal@...; contact@...; chinesemission@...; dsatsia@...;
delbrasonu@...; info@...; siumara@...;bihun@...; a.moungara-moussotsi@...; colombia@...;pmun.newyork@...; perm.mission@...; perm.mission@...;aumission_ny@..., AU-NewYork@...; LamamraR@...; waneg@...;presidentrsa@...; unsc-nowar@...
Nell’oggetto della email scrivere: PLEASE STOP NATO WAR IN LIBYA. APPEAL TO NON-BELLIGERANT MEMBERS OF THE UN SEC. COUNCIL
Testo da inviare
WE APPEAL TO NON-BELLIGERENT MEMBERS
OF THE U.N. SECURITY COUNCIL
- to put an end to the misuse of U.N. Security Council Resolution 1973 to influence the internal
affairs of Libya through warfare, by revoking it, and
- to press for a peaceful resolution of the conflict in Libya, backing the African
Union’s central role in this context.
We thank those countries that have tried, and are still trying, to work towards peace.
Our appeal is based on the following:
- the military intervention in Libya undertaken by some NATO members
has now gone far beyond the provisions of Security Council Resolution 1973, and is based on hyped-up accounts of defenseless citizens being massacred by their government, while the truth is that, in Libya, there is an on-going and intense internal armed conflict;
- we are aware of the economic and geo-strategic interests that lie behind the war in Libya and,
in particular, behind NATO support of one of the two armed factions;
- NATO military intervention in Libya has killed (and is continuing to kill) countless civilians, as well harming and endangering the civilian population, including migrants and refugees, in various other ways;
- the belief, at this stage, only non-belligerent countries – and particularly those with U.N. Security Council voting rights – can successfully bring a peaceful end to the conflict through negotiations and by implementing the opening paragraph of UNSC Resolution 1973, which calls for an immediate ceasefire.
Respectfully yours,
Name (or association)
Address (optional)
Vingt ans après le début des guerres yougoslaves, où en sont les États issus de l’ancienne fédération socialiste, notamment au niveau de ce qu’il est convenu d’appeler leur « intégration euro-atlantique » ?
Le 25 juin 1991, la Slovénie et la Croatie proclamaient unilatéralement leur indépendance, provoquant une riposte de l’Armée populaire yougoslave (JNA) qui tentait, dès le lendemain, de reprendre le contrôle des frontières extérieures de la fédération. Côté tant slovène que croate, des unités de défense territoriale et de police, ainsi que des milices acquises aux gouvernements nationalistes de ces deux républiques, ouvraient le feu sur les soldats de la JNA.
En Slovénie, la guerre s’acheva rapidement, le 7 juillet, par la signature de l'accord de Brioni, par lequel Belgrade renonçait de facto à exercer tout contrôle sur l’entité la plus septentrionale de la fédération. Le conflit a coûté la vie à une centaine de personnes, surtout des soldats yougoslaves, sommairement exécutés après leur reddition ou brûlés vifs dans leurs tanks.
Ensuite, la Slovénie, république la plus prospère de Yougoslavie, s’est tournée vers l’Occident, adoptant les réformes de marché prescrites, et a adhéré à l’OTAN en 2004 et à l’Union européenne (UE) en 2007. Dotée d’une population ethniquement slovène à plus de 90 %, elle n’a pas connu les troubles qui ont ravagé les autres républiques ex-yougoslaves, bien que plusieurs dizaines de milliers de citoyens qui en étaient originaires aient été expulsés ou « effacés » des registres, privés de papiers, et donc de travail, de pension, d’enseignement… Pas plus que dans les États baltes, où des centaines de milliers de russophones ont connu, ou connaissent, un semblable « effacement », la plupart des associations de défense des droits de l’homme ne se sont guère émues de cette situation qui n’a été que partiellement réglée suite à de discrètes pressions de l’UE.
En Croatie, les événements prirent un tour bien différent. En cause, essentiellement la présence d’une minorité serbe consistante (environ 12 % de la population), vivant surtout dans les confins ruraux de la république (Krajina, Slavonie…). Tentant au départ de jouer à l’arbitre dans les escarmouches entre milices croates et serbes, la JNA – désertée par ses éléments slovènes et croates – prit progressivement le parti d’une population serbe, inquiète de sa radiation dans la nouvelle constitution croate (l’ancienne faisait des Serbes de Croatie et des Croates les deux « peuples constitutifs » de la république) et de l’adoption par Zagreb de symboles (monnaie, drapeau…) datant de l’ère oustachie. La violence culmina avec le siège, puis la prise, de la ville de Vukovar par la JNA et les milices serbes. On apprendra plus tard que la ville, à la frontière avec la Serbie, avait été sciemment abandonnée par le Président Tudjman, désireux d’en faire un symbole de la « barbarie serbo-bolchévique ».
Après un cessez-le-feu et la reconnaissance de l’indépendance des deux républiques sécessionnistes par l’Allemagne et le Vatican, puis par les autres Etats de ce qui était encore la Communauté économique européenne, une force des Nations Unies s’interposa entre les lignes serbes et croates à partir du printemps 1992. Entérinant ainsi la sécession croate, Belgrade créait, en avril 1992, une nouvelle fédération n’englobant plus que la Serbie et le Monténégro et retirait son armée de Croatie, puis de Bosnie-Herzégovine. Le front fut gelé pendant quelques années, avec un quart du territoire sous contrôle serbe, jusqu’à ce que la Croatie acquière d’abondants armements et de précieux soutiens militaires, en dépit d’un embargo sur les armes imposé à toute l’ex-Yougoslavie par l’ONU dès septembre 1991. C’est ainsi que, en plus d’une bonne partie de l’arsenal de l’ex-RDA, livrée gracieusement par le puissant allié allemand, Zagreb se tourna vers la Pentagone qui y déploya la Military Professional Resources Inc. (MPRI), une firme officiellement privée employant de hauts officiers U.S. à la retraite. Avec l’aide de la CIA, elle planifia les deux « blitzkrieg » de mai et d’août 1995, qui balayèrent les principaux bastions serbes et provoquèrent l’exode de plus d’un quart de million de personnes vers la Serbie et la Bosnie. Avec les victimes de ces opérations et l’assassinat de plus d’un millier de vieillards et de handicapés serbes n’ayant pu ou voulu prendre la fuite, on évalue entre dix et quinze mille le nombre total de morts causé par la guerre en Croatie.
Le pays ne s’est pas remis de ce nettoyage ethnique massif puisque, actuellement, la population serbe n’y dépasse guère les 3 %. Celle-ci a dû se sentir quelque peu réconfortée par la première condamnation de responsables de l’opération « Tempête » d’août 1995, en l’occurrence les généraux Gotovina et Markac, condamnés respectivement à 24 et 18 ans de prison par le Tribunal de La Haye (TPIY) en avril 2011. Peu de choses, sans doute, par rapport aux millénaires de prison que devront purger plusieurs dizaines de responsables et d’exécutants du massacre de Srebrenica, condamnés par le même Tribunal, ainsi que par des cours de Bosnie-Herzégovine, de Serbie et d’autres pays. Est-il utile de préciser que la complicité des Etats-Unis dans le nettoyage de la Krajina a été soigneusement mise sous le tapis par le TPIY, après que Gotovina ait été convaincu qu’il ne serait pas opportun de l’invoquer pour sa défense ? Mais il n’est pas impossible que le général, déçu par la lourdeur de sa sentence, change de tactique durant la procédure d’appel qui devrait bientôt s’enclencher.
Quoi qu’il en soit, après une période de transition durant laquelle dut s’effacer le dernier fief serbe en Slavonie orientale, la Croatie a récupéré l’intégralité de son territoire en 1998. Sur le plan économique, les biens publics ont été sauvagement privatisés, et souvent accaparés par le clan Tudjman, condition pour qu’elle acquière le statut de « candidat » à l’UE en 2004. Bloquée par la Slovénie pendant quelques années à cause d’une dispute sur le tracé de leurs frontières communes, son adhésion au club européen vient d’être programmée pour 2013 par la Commission, en dépit d’une population devenue particulièrement « eurosceptique » et qui devrait se prononcer par référendum. Entre-temps, la Croatie a été un deux bénéficiaires, avec l’Albanie, du dernier élargissement de l’OTAN en 2009.
La guerre éclata au début avril 1992 en Bosnie-Herzégovine. La dernière étincelle à enflammer la poudre fut le référendum sur l’indépendance, tenu un mois avant la guerre sous la pression de l’UE. Dans une république où toutes les décisions avaient toujours été prises avec l'assentiment consensuel des responsables de ses trois communautés constitutives – Serbes, Croates et Musulmans (1) –, la polarisation ethnique atteignit son paroxysme lorsque la population fut sommée de déclarer si elle souhaitait ou non se détacher d’une Yougoslavie en pleine décomposition. Au-delà des clivages politiques apparus dans une région qui venait d’accéder au multipartisme, Musulmans et Croates optèrent pour l’indépendance, tandis que les Serbes boycottèrent le scrutin.
Au cours des mois précédant la guerre, trois séries de négociations entre responsables politiques bosniaques avaient pourtant failli aboutir à un accord permettant de sauvegarder la paix entre les communautés, dans le cadre yougoslave d’abord, puis dans celui d’une entité indépendante mais décentralisée. A chaque fois, Alija Izetbegovic, membre musulman de la Présidence tripartite, avait refusé de ratifier un accord conclu ou était revenu sur sa signature. A chaque fois, il avait semblé agir sous l’influence de diplomates des États-Unis. Trois ans et demi et cent mille morts plus tard, l’accord de paix de Dayton entérinait une division du pays plus nette que celle envisagée avant la guerre. Mais, dans l'intervalle, l’OTAN avait pu faire étalage de sa force en Bosnie, et avait ainsi survécu à la Guerre froide. De plus, après avoir été pris de court par les sécessions croate et slovène, les États-Unis avaient montré que ni l'ONU, ni l'UE – qui, pendant la guerre, avaient multiplié les tentatives de médiation et de plans de paix – n'étaient capables de gérer les Balkans sans leur implication directe. Car c'est bien dans l'Ohio, à 8.000 km de Sarajevo, que se trouve la base de Dayton…
De même, la sanglante guerre qui opposa Croates et Musulmans en Herzégovine et en Bosnie centrale fut arrêtée par un accord signé à Washington le 1er mars 1994. L'Herceg Bosna, entité croate créée dans le sud du pays, était officiellement abolie et les deux parties étaient réunies dans une « Fédération ». A l'exception d'une guerre inter-musulmane – ignorée par les médias – dans le nord-ouest de la Bosnie, les forces théoriquement « fédérées » pouvaient concentrer leur énergie sur l'ennemi commun serbe. L’armée du général Mladic, après avoir connu une nette supériorité militaire initiale grâce à l'accaparement de la majorité des armements terrestres de la JNA (qui avait quitté la république dès le deuxième mois de guerre) dut faire faire face à un adversaire de mieux en mieux armé grâce à des livraisons massives en provenance de Turquie, d'Iran et de nombreux autres pays, et la complicité active des navires de l'OTAN qui appliquaient à leur manière l'embargo de l'ONU.
A une époque où nombreux considéraient l'OTAN comme une organisation obsolète appelée à connaître le même sort que son homologue basé à Varsovie, la guerre de Bosnie permit à l'organisation atlantique de se trouver un nouvel ennemi et une nouvelle raison d'être. Mandatée par l’ONU pour faire respecter une « no fly zone » au-dessus de la Bosnie, elle effectua la première action armée de son histoire le 28 février 1994 en abattant quatre avions de combat serbes. Ses interventions allèrent en crescendo jusqu'au bombardement massif d'objectifs militaires et civils en août et septembre 1995. Intervenant six semaines après le massacre, bien réel, de prisonniers musulmans capturés à Srebrenica et deux jours après un attentat au marché de Sarajevo, vraisemblablement monté par les autorités locales, ces trois semaines de bombardement de l'OTAN entraînèrent un retournement radical de la situation. Alors que Milosevic, président de Serbie, ordonnait à l’armée yougoslave de rester de marbre, comme un mois plus tôt en Croatie lors de l'opération « Tempête », les forces coalisées de la « Fédération » croato-musulmane et de Croatie s'emparaient d'un tiers du territoire de l'entité serbe, la Republika Srpska, proclamée en janvier 1992 et forgée à la faveur des combats.
A peu de choses près, l'accord de Dayton, avalisé par les présidents Tudjman et Milosevic, entérinait ce nouveau découpage territorial. Si les Musulmans devaient renoncer à Srebrenica et d'autres localités de l'est de la Bosnie, de vastes régions de l'ouest du pays, autrefois essentiellement peuplées de Serbes, passaient dans l'escarcelle de la « Fédération », comme la plupart des grandes villes, dont le caractère multiethnique semble s’être définitivement effacé.
Seize ans plus tard, la Bosnie-Herzégovine vit en paix et dans une relative sécurité, mais la majorité des déplacés et réfugiés ne sont pas rentrés chez eux. Les tensions qui étaient à l'origine de la guerre – centralisme des Musulmans majoritaires et tendances autonomistes des deux autres communautés – sont plus vives que jamais. Dans un Etat dirigé par un « Haut représentant », nommé par l'UE et doté de pouvoir quasi-dictatoriaux, la Republika Srpska a tendance à se rebiffer de plus en plus. Les Serbes critiquent en particulier une justice, aux mains des institutions centrales, qui n'a jamais jugé le moindre crime de guerre dont a été victime un des leurs. Un référendum, contestant ces institutions, a été convoqué, puis annulé de justesse sous la pression de l’UE, qui s’est peut-être souvenue que le référendum qu’elle avait exigé seize ans plus tôt avait plongé le pays dans la guerre. Les Croates, noyés dans une « Fédération » croato-musulmane où ils pèsent de moins en moins, se considèrent comme les grands perdants de Dayton. En effet, alors qu’ils ont connu, en proportion, la part la plus faible de victimes de guerre, près de la moitié de leur population a quitté le pays depuis, émigrant généralement en Croatie. Leur revendication d'une entité propre, à l'instar des Serbes qui – eux – ont pu se maintenir démographiquement, devient de plus bruyante, surtout depuis que les partis croates sont exclus du nouveau gouvernement de la « Fédération ».
En outre, Bosniaques de toutes ethnies sont accablés par de dures conditions de vie et un chômage massif, le plus élevé d'Europe, après le Kosovo. Si une armée unifiée a finalement été constituée à partir des trois factions qui s'étaient entretuées, aucune adhésion à l'OTAN n'est encore à l'horizon. Les Bosniaques connaissent pourtant bien l'OTAN, puisque des dizaines de milliers de soldats de l’organisation atlantique y ont remplacé les troupes de l’ONU dès la fin des combats et y sont restées jusque fin 2004. Leur a alors succédé une force de l’UE, Eufor Althea, actuellement réduite à 1.600 hommes. Néanmoins, l’OTAN a conservé, à Butmir, près de Sarajevo, un QG et quelque 200 militaires états-uniens, chargés de « conseiller » le gouvernement bosniaque en matière de défense et de traque de criminels de guerre. En outre, la même base abrite le QG d’Althea, qui paye d’ailleurs un loyer à ses hôtes de l’OTAN.
De même, la Bosnie-Herzégovine est le seul pays des Balkans (Kosovo excepté) pour lequel aucune adhésion à l’UE n’est encore envisagée. Les blocages institutionnels récurrents dans cette sorte de fédération hybride (deux entités, trois peuples constitutifs) retardent considérablement les sacro-saintes « réformes » exigées par Bruxelles et sont entretenus par un statut de protectorat qui n’ose dire son nom, mais qui favorise corruption, irresponsabilité et opportunisme politique. Comme en Belgique, aucun gouvernement central n’a pu être constitué après les dernières élections législatives, tenues là-bas le 3 octobre 2010.
Si l’UE justifie le maintien du poste de « Haut représentant » par les tensions entre communautés bosniaques, un protectorat n’est cependant pas synonyme de paix et stabilité. Le « Haut représentant », actuellement un citoyen autrichien, Valentin Inzko, devrait se rappeler que le précédent protectorat imposé à la Bosnie-Herzégovine par l’Autriche-Hongrie s’est achevé par la Première Guerre mondiale et le démantèlement de l’empire de Vienne…
(1) Ainsi se désignaient les Slaves de rite musulman et d'expression serbo-croate de Yougoslavie. Durant la guerre, le parti majoritaire (SDA) décida de rebaptiser sa communauté du nom de « Bosnjaci », traduit en français par « Bosniaques ». En français, cependant, ce terme désigne également les habitants de toute la Bosnie-Herzégovine, indépendamment de leur origine ethnique ou religieuse. Le double sens de ce mot fut à la base de nombreuses confusions et entretint une vision biaisée du conflit.
Source : Alerte OTAN
Luogo: La Feltrinelli, piazza Piemonte, Milano
presentazione del libro
“NIENTE È PIÙ INTATTO DI UN CUORE SPEZZATO”
insieme all’Autrice Vanna De Angelis
interviene: Moni Ovadia
musiche: Jovica Jovic
<<Storie di vita vera, drammi e avventure, amori e orrori – dall’olocausto rom alla rivolta degli zingari nello Zigeunerlager di Auschwitz-Birkenau - si mescolano a tradizioni, folclore e costumi in un’avvincente epopea che prende il via negli ultimi anni della seconda guerra mondiale. E che parla di ieri per raccontare anche l’oggi. Niente è più intatto di un cuore spezzato è la storia vera di Dusan e Radmila Balval, due giovanissimi rom, genitori di Jovica Jovic, il talentuoso fisarmonicista rom che collabora con Moni Ovadia, Dario Fo, Piero Pelù, Vinicio Capossela e altri grandi musicisti internazionali.>>
* * *
Dusan e Radmila Balval, due giovanissimi rom, sono i protagonisti di un racconto eccezionale che comincia quando Dusan, che ha poco più di quindici anni e un incredibile talento per il violino, vive e viaggia con la sua famiglia e altre affini - la sua kumpania - nella Serbia affidata dal Reich al generale filonazista Nedic. La kumpania si sta spostando verso sud, con la speranza di sfuggire alla violenza razzista al momento riservata agli ebrei, in una rocambolesca peregrinazione da un paese all’altro in cui i rom portano musica e abilità di calderai, maniscalchi, acrobati. Intanto, l’apocalisse della guerra incalza. Storie di vita vera, musica e miseria, amori e orrori, dall’olocausto rom alla rivolta dello Zigeunerlager di Auschwitz-Birkenau dove, alla fine di aprile del 1944, quattromila zingari (fra cui il giovanissimo Dusan) lottano contro i tedeschi per non finire nelle camere a gas. Drammi e avventure si mescolano al racconto vivido di tradizioni, folclore e costumi, in un’odissea indimenticabile.
Vanna De Angelis
Vive a Milano. Narratrice e saggista, sceneggiatrice per la radio e la televisione, ha pubblicato con successo saggi divulgativi sui processi alle donne accusate di stregoneria e sull’amazzonato e, con il nome collettivo di Gordon Russell, quattro romanzi sulla gladiatura. Tra i suoi titoli, “La bambina del bosco degli elfi” (Piemme 2010).
www.edizpiemme.it
UN NOMADISMO FORZATO
Racconti rom dal Kosovo all'Italia
Edizioni Archeoares, 2011
7 euro, 180 p., ISBN 978-88-96889-22-0
scarica la preview: http://www.megaupload.com/?d=CMBLD7DQ
Libia: e se fosse tutto falso?
In questo Dossier un po' di buoni argomenti per riflettere sulla guerra, sulla missione Nato e sugli obiettivi dell'intervento militare.
La madre di tutte le bugie
Le sta studiando la Fact Finding Commission (Commissione per l’accertamento dei fatti) fondata a Tripoli da una imprenditrice italiana, Tiziana Gamannossi, e da un attivista camerunese, con la partecipazione di attivisti da vari Paesi.
La madre di tutte le bugie: “10 mila morti e 55 mila feriti”. Il pretesto per un intervento dalle vere ragioni geostrategiche (http://globalresearch.ca/index.ph p?context=va&aid=23983) è stato fabbricato a febbraio. Lo scorso 23 febbraio, pochi giorni dopo l’inizio della rivolta, la tivù satellitare Al Arabyia denuncia via Twitter un massacro: “10mila morti e 50mila feriti in Libia”, con bombardamenti aerei su Tripoli e Bengasi e fosse comuni. La fonte è Sayed Al Shanuka, che parla da Parigi come membro libico della Corte penale internazionale – Cpi (http://www.ansamed.info/en/libia/news/ME.XEF93179.html).
La “notizia” fa il giro del mondo e offre la principale giustificazione all’intervento del Consiglio di Sicurezza e poi della Nato: per “proteggere i civili”. Non fa il giro del mondo invece la smentita da parte della stessa Corte Penale internazionale: “Il signor Sayed Al Shanuka – o El Hadi Shallouf – non è in alcun modo membro o consulente della Corte”(http://www.icc-cpi.int/NR/exeres/8974AA77-8CFD-4148-8FFC-FF3742BB6ECB.htm).
Ci sono foto o video di questo massacro di migliaia di persone in febbraio, a Tripoli e nell’Est? No. I bombardamenti dell’aviazione libica su tre quartieri di Tripoli? Nessun testimone. Nessun segno di distruzione: i satelliti militari russi che hanno monitorato la situazione fin dall’inizio non hanno rilevato nulla (http://rt.com/news/airstrikes-libya-russian-military/). E la “fossa comune” in riva al mare? E’ il cimitero (con fosse individuali!) di Sidi Hamed, dove lo scorso agosto si è svolta una normale opera di spostamento dei resti (http://www.youtube.com/watch?v=hPej4Ur_tz0). E le stragi ordinate da Gheddafi nell’Est della Libia subito in febbraio? Niente: ma possibile che sul posto nessuno avesse un telefonino per fotografare e filmare?
L’esperto camerunese di geopolitica Jean-Paul Pougala (docente a Ginevra) fa anche notare che per ricoverare i 55 mila feriti non sarebbero bastati gli ospedali di tutta l’Africa, dove solo un decimo dei posti letto è riservato alle emergenze (http://mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=24960).
Mercenari, miliziani e cecchini
“I mercenari, i miliziani e i cecchini di Gheddafi violentano con il Viagra”. Il governo libico imbottirebbe di viagra i soldati dando loro via libera a stupri di massa, è stata l’accusa della rappresentante Usa all’Onu Susan Rice. Ma Fred Abrahams, dell’organizzazione internazionale Human Rights Watch, afferma che ci sono alcuni casi credibili di aggressioni sessuali (del resto il Governo libico e alcuni migranti muovono le stesse accuse ai ribelli) ma non vi è la prova che si tratti di un ordine sistematico da parte del regime. Ugualmente fondata solo su contradditorie testimonianze (e riportata solo da un giornale scandalistico inglese (http://www.dailymail.co.uk/news/article-1380364/Libya-Gaddafis-troops-rape-children-young-eight.html) l’accusa di sterminio di intere famiglie e di violenze su bambini di otto anni.
“Gheddafi ha usato le bombe a grappolo a Misurata”. Sottomunizioni dei micidiali ordigni Mat-129 sono stati trovati nella città da organizzazioni non governative e dal New York Times. Tuttavia,secondo una ricerca diHuman Rights Investigation (Hri) riportata da vari siti (http://www.uruknet.de/?l=e&p=-6&hd=0&size=1) potrebbero essere stati sparati dalle navi della Nato.
“Strage di civili a Misurata”. Negli scontri fra lealisti e ribelli armati sono certo morti decine o centinaia di civili, presi in mezzo. Ma ognuna delle due parti rivolge all’altra accuse di stragi e atrocità.
Oltre 750 mila sfollati
Atrocità commesse ai danni di neri e migranti. Secondo le denunce di Governi africani, di migranti neri in Libia, e le testimonianze raccolte da organizzazioni umanitarie come la Fédération internationale des droits de l’homme – Fidh (www.lexpress.fr/actualite/monde/libye-des-exactions-anti-noirs-dans-les-zones-rebelles_994554.html), nell’Est libico – controllato dai ribelli - innocenti lavoratori migranti sono stati accusatidi essere “mercenari di Gheddafi”e linciati, torturati, uccisi o comunque fatti oggetto di atti di razzismo e furti. I ribelli, come proverebbero diversi video, hanno giustiziato e seviziato soldati libici in particolare neri (http://fortresseurope.blogspot.com/search/label/Rivoluzionari%20e%20razzisti%3F%20I%20video). La comunità internazionale ha finora ignorato queste denunce.
Fatte cadere tutte le proposte negoziali. Fin dall’inizio della guerra civile libica, sono state avanzate diverse proposte negoziali, prima da Governi latinoamericani e poi dall’Unione Africana (Ua), che prevedevano il cessate il fuoco ed elezioni a breve termine. Sono state tutte ignorate dalla Nato e dai ribelli.
DÉJÀ VU
(Come nel 1992 per la Bosnia, di nuovo nel 2011 sulla Libia notizie false di "stupri di massa" vengono costruite e date in pasto alle "anime candide" dell'opinione pubblica occidentale, così: più sei femminista e "di sinistra" e più aderisci alla cagnara guerrafondaia... a cura di I. Slavo)
http://www.voltairenet.org/Propagande-de-guerre-viols-de
Propagande de guerra: viols de masse en Libye
L’accusation de viol de masse est parfois une réalité, c’est aussi un classique de la propagande de guerre.
En l’occurrence, un mensonge de cette nature a été soigneusement bâti par les services de l’OTAN contre le colonel Kadhafi. Rappelons sa chronologie :
Le 29 mars 2011, la jeune Iman al-Obeidi (29 ans) s’introduit dans le hall de l’hôtel Rixos de Tripoli où logent de nombreux journalistes occidentaux. Elle assure avoir été arrêtée deux jours auparavant à un check point, puis avoir été séquestrée et violée par 15 hommes pro-Kadhafi. Elle montre ses blessures aux journalistes duNew York Times et de Reuters avant d’être embarquée par les services de sécurité. La jeune femme devient vite une icône et donne divers interviews à la presse occidentale. En définitive, elle quitte la Libye le 5 mai, via la Tunisie avec l’aide des services secrets français et se rend d’abord au Qatar, puis obtient l’asile politique aux USA grâce à l’intervention de la secrétaire d’État Hillary Clinton.
Maître Salwa Fawzi El-Deghali, une avocate devenue ministre des droits des femmes du Conseil national de transition, affirme avoir envoyé par courrier postal des milliers de questionnaires aux femmes de Cyrénaïque et avoir reçu 259 témoignages de viols.
Le 28 avril, lors d’une réunion à huis clos du Conseil de sécurité, l’ambassadrice Susan Rice (USA) accuse le colonel Kadhafi d’avoir fait distribuer du viagra à ses troupes pour que la soldatesque viole en masse les rebelles.
Lors d’une conférence de presse organisée le 8 juin au siège des Nations Unies, le Procureur de la Cour pénale internationale (CPI), Luis Moreno-Ocampo indique « qu’un nouveau chef d’accusation pourrait être fondé sur le recours à des viols en série pour tenter de contenir les manifestations. Ces viols pourraient être au nombre de plusieurs centaines, a-t-il précisé. L’enquête devait déterminer si ces viols avaient été ordonnés ou non par Mouammar Kadhafi lui-même, comme certaines informations l’ont indiqué. De même, le Procureur a fait état d’informations pouvant attester que le pouvoir libyen aurait fait distribuer aux soldats des stimulants sexuels de type viagra », rapporte le département de l’Information de l’ONU.
Cependant, le professeur Mahmoud Cherif Bassiouni, chef de la Commission d’enquête de l’ONU (pas du Tribunal) sur la Libye, met en doute les accusations du procureur. Il rappelle que sa Commission a été informée de ces allégations lors de sa mission à Benghazi. Il a alors demandé à Maître Salwa Fawzi El-Deghali de lui fournir une copie du questionnaire et des 259 réponses reçues et n’a jamais rien obtenu. En outre, il souligne l’invraisemblance de cette version dans la mesure où aucun service postal ne fonctionne depuis le début de l’insurrection.