Informazione


Regressione capitalistica

1) Donne e lavoro nelle giovani "democrazie" dell’Est e del Sud 
(Cristina Carpinelli, NoiDonne, giugno 2011)
2) Catastrofe demografica nella Romania capitalista
(Jose Luis Forneo, giugno 2011)


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Europa orientale e meridionale

La regressione esportabile
 
Uno sguardo d’insieme su donne e lavoro nelle giovani democrazie dell’Est e del Sud evidenzia un preoccupante e generalizzato arretramento dei diritti
 
Cristina Carpinelli
 
Giugno 2011
 
Con la crisi economica mondiale, le giovani democrazie dell’Europa dell’Est e del Sud stanno arrancando in una seria recessione. Il crollo si è abbattuto su finanza, assicurazioni ed edilizia, settori tipicamente maschili, ma anche su servizi e commercio, dove gran parte delle maestranze sono donne. Molti lavoratori sono espulsi dal mondo del lavoro. Di questi, le donne sono in numero superiore: tenendo conto delle differenze nei livelli occupazionali tra i sessi, si può affermare che le donne sono le vittime predestinate della recessione. L’impatto della crisi ha colpito in modo particolare le donne già provate dagli anni della transizione durante cui i tassi d’ingresso e d’uscita dal lavoro (maschile e femminile) si ripartirono iniquamente a loro grande svantaggio.
 
Quando l’indice GEI (Gender Equity Index) segna regressioni a livello nazionale, per la maggior parte dei casi si tratta di passi indietro nella partecipazione delle donne all’economia. Questo, come afferma il Social Watch (Report 2010), è il caso dell’Europa orientale e meridionale, che presenta il peggioramento più consistente. L’indice GEI 2009, riferito allo Stato di Slovenia, che è il paese con il Pil più alto tra le c.d. economie in transizione, corrisponde al 65%. Un valore piuttosto basso, principalmente causato dalla scarsa presenza femminile negli organi legislativi (12,2%). La situazione è decisamente migliore nel settore degli affari dove le slovene occupano circa il 20% delle cariche direttive.
 
La Repubblica di Macedonia, che nel passato aveva goduto di elevati livelli di partecipazione femminile all’economia, si trova nel gruppo di quelli che hanno fatto marcia indietro (43,5% - dati Eurostat, 2010). Slovacchia, Croazia, Ungheria e Bulgaria presentano tassi di disoccupazione femminile sotto alla media europea (9,5%) e in costante peggioramento nel corso degli ultimi anni (dati Eurostat - 2010) . Il Forum delle donne indipendenti d’Albania ha di recente denunciato l’alto tasso di disoccupazione femminile delle albanesi (19%), connesso alla privatizzazione del mercato del lavoro e agli elevati tassi migratori.
 
La globalizzazione dei mercati ha prodotto la delocalizzazione degli impianti produttivi da parte di imprese e multinazionali. Si è esteso, in questo modo, il lavoro dipendente mal pagato e precario, specialmente fra le donne. Molte realtà imprenditoriali italiane hanno trasferito in Romania considerevoli investimenti finanziari e tecnologici. Queste realtà imprenditoriali si sono insediate, in particolare, nella provincia di Timişoara, che attualmente dà parecchio lavoro alla manodopera autoctona dal costo “contenuto”: nelle imprese calzaturiere, dove le occupate sono tutte donne rumene, i lavoratori percepiscono un decimo del salario italiano.
 
Un dato in controtendenza arriva dalla regione del Baltico. Nelle tre piccole repubbliche, la crisi economica si è pesantemente abbattuta tra il 2007-2010. I settori dell’economia che sono stati colpiti sono il primario (agricoltura e allevamento) e il secondario (costruzioni navali e industria meccanica, chimica ed elettronica) dove è occupato il 50% della forza lavoro del paese, quasi tutta maschile. Il settore terziario, in cui è al contrario concentrata gran parte della manodopera femminile, non ha subìto i contraccolpi della crisi. Questa situazione si è riflessa sui tassi di disoccupazione: l’Estonia è al primo posto per il tasso maschile di disoccupazione più elevato di quello femminile (rispettivamente 19,7% e 11,2%). Seguono Lituania (18,6% e 10,6%) e Lettonia (26,6% e 19,2%) - dati Eurostat 2010. Questo orientamento, spiccatamente marcato nel Baltico, si è riscontrato anche in tutta l’Ue-27. Ciò è dovuto al fatto che i settori dell’industria e della costruzione, a prevalenza di manodopera maschile, sono stati duramente segnati dalla crisi. Negli ultimi mesi del 2010, però, i tassi di disoccupazione femminile e maschile sono cresciuti allo stesso ritmo e questo riflette l’allargamento della crisi ad altri comparti, in cui la composizione degli occupati per sesso è più equilibrata di quella dei settori ridotti per primi.
 
La condizione delle donne serbe non è dissimile a quella che si riscontra in molti altri paesi: stipendi più bassi rispetto a quelli degli uomini, scarsa presenza femminile nei ruoli dirigenziali, difficoltà a conciliare famiglia e carriera, ecc. Le donne serbe, però, appaiono meno consapevoli dei loro diritti. Un sondaggio del Centro belgradese per i diritti umani e dello “Strategic marketing” (2009) ha rivelato che più della metà delle donne interrogate non sapeva che al colloquio di lavoro il datore non ha diritto di chiedere informazioni sulla situazione familiare della candidata. Secondo i dati 2010 dell’Eurobarometro, le disuguaglianze delle retribuzioni tra donne e uomini sono nella Repubblica Ceca tra le più alte dell’Ue. La Cechia si colloca al penultimo posto tra i 27 paesi europei. In media le retribuzioni delle donne sono inferiori del 26% rispetto a quelle degli uomini (la media europea è del 18%.).
 
Secondo una ricerca condotta nel 2010 dal sito fizetesek.hu, le donne ungheresi guadagnano in media un quarto in meno rispetto agli uomini. La differenza tra gli stipendi cresce sino al 31% tra coloro che possiedono un titolo universitario. Il gap fra le retribuzioni delle donne e degli uomini a livello dirigenziale figura essere pari al 29%, mentre è del 23% per gli operai specializzati e solo del 7% per i lavoratori non specializzati. Di recente il governo ungherese ha deciso di ripristinare il congedo di maternità di tre anni con effetto retroattivo. Inoltre, le madri che opteranno per il ritorno al lavoro con orario part-time otterranno i rimborsi per la maternità solo se lavoreranno per un massimo di 4 ore al giorno. Il precedente sistema di maternità dava alle madri la possibilità di mantenere il loro posto di lavoro durante i loro 3 anni di assenza per prendersi cura dei neonati, con pagamenti di maternità in misura decrescente ogni anno. La Bulgaria è, invece, il paese dove si registra l’offerta più scarsa di servizi all’infanzia, con un tasso d’occupazione femminile che diminuisce sensibilmente con l’aumentare del numero dei figli: donne con un figlio (77,6%); donne con tre o più figli ( 44,3%) - Eurostat 2009. Infine, in Croazia, il divario maggiore fra retribuzioni maschili e femminili emerge innanzitutto nelle imprese straniere occidentali, presso cui i lavoratori guadagnano di media il 29,8% in più delle lavoratrici, demolendo il senso comune secondo cui queste imprese sarebbero esportatrici di modelli del lavoro avanzati.


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www.resistenze.org - popoli resistenti - romania - 27-06-11 - n. 370

Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Dati della catastrofe demografica nella Romania capitalista
 
di Jose Luis Forneo
 
22/06/2011
 
  
La natalità scende, il tasso di mortalità è tra i più alti d'Europa, la speranza di vita è bassa e l’emigrazione continua a battere ogni record: questi sono i dati che forniscono gli specialisti dell'Istituto Nazionale di Statistica (INS), lanciando un allarme sulla drastica diminuzione della popolazione rumena nel 2011, confrontandola col censimento del 2002.
 
Ma che cosa speravano? Quando un popolo è spogliato dei propri diritti basilari, la sua ricchezza è saccheggiata ed è obbligato a vivere di prodotti importati e con salari ridicoli, il declino della popolazione è una conseguenza logica (e la sua causa criminale). I dati statistici ufficiali mostrano che la popolazione ha continuato il suo declino in modo costante dal 1990, dopo il colpo di stato che ripristinò la disuguaglianza capitalista. Nel 1990 la popolazione rumena aveva raggiunto il suo massimo storico di 23,2 milioni di persone. Al 2009 questo numero è sceso di 2 milioni e, ad oggi, si pensa di essere arrivati a 3 milioni. Nell’ottobre 2011 avverrà il prossimo censimento della popolazione e le previsioni non sono rosee. Vergil Voineagu, professore dell'Università di Sociologia di Bucarest, stima che "se si arriverà a 18 milioni di abitanti sarà già tanto, ma le previsioni sono peggiori".
 
Questo significa che dalla "Rivoluzione" fino ad oggi, i cittadini sono calati di 5 milioni! In quanto alla natalità, è scesa anno dopo anno dal 1990. Allora si registravano 314.746 nascite all'anno, mentre nel 2000 erano già 234.600 e nel 2009, 222.388. Questa tendenza in discesa si è mantenuta e nell'anno 2010 si sono registrate 10.000 nascite in meno che nei periodi precedenti. Con un tasso di natalità del 9,9 per mille abitanti, il livello della Romania sta sotto la media dell'Unione europea, dove il tasso più alto è dell'Irlanda (16,7‰) e della Francia (12,8‰) ed il più basso è quello dell’Austria (9,1‰).
 
In quanto a mortalità infantile, quella rumena è la più alta di tutta l'Unione europea, dopo quella della Bulgaria, con 10 decessi per ogni 1000 nascite, dato costante dalla "Rivoluzione". Al contrario, nel 2010 si sono registrati 260.000 decessi (12,1 per 1.000 abitanti), di alcune migliaia superiori agli anni precedenti e 10.000 di più che nel 1990. Anche per quel che riguarda questo parametro, il tasso di mortalità, la Romania occupa i peggiori posti della classifica europea, superata solo dalla Bulgaria (14,2 morti per ogni 1.000 abitanti), Lettonia ed Ungheria (13‰). La speranza di vita media in Romania è attualmente di 73,5 anni, cifra anche questa tra le più basse dell'UE.
 
In sintesi, i dati statistici mostrano che, dal 1992 la crescita demografica ha assunto un indice negativo e che questa tendenza si è mantenuta così fino ad oggi. Se nel 1992 si avevano 3.462 decessi in più rispetto alle nascite, nel 2009 la tendenza negativa è aumentata fino a 34.825. D’altro canto, secondo l'INS, tra il 1992 e il 2002 (i due ultimi censimenti), almeno 700.000 persone hanno abbandonato il paese per poter sopravvivere (in realtà questa cifra è sottostimata, infatti se già solo si contano gli emigrati in Spagna, la cifra reale dei "deportati economici" potrebbe superare i 3 milioni). La cifra dei lavoratori, forzati ad emigrare a causa della distruzione della ricchezza del popolo rumeno durante gli ultimi 20 anni, continua a crescere, aumentando di più di 10.000 all'anno. Più del 60% degli emigranti sono donne, dato che favorisce anche la caduta della natalità interna, perché in molti casi i loro figli non saranno mai registrati come rumeni, bensì come appartenenti al paese che li ospita. Queste cifre, non sono altro che la dimostrazione palese del genocidio prodotto dal capitalismo sui paesi ex-socialisti: mortalità crescente per la mancanza di lavoro, aumento della povertà, crescita dei prezzi e calo della qualità nell’assistenza sanitaria; natalità in calo, specialmente per la grande emigrazione, alta mortalità infantile (la più alta di tutta l'UE) e più di tre milioni di emigranti forzati, per via della distruzione di quattro milioni di posti di lavoro dal 1990, anno in cui si contavano più di otto milioni di lavoratori, mentre oggi si arriva appena a quattro.


Da: Alessandro Di Meo <alessandro.di.meo @ uniroma2.it>
Data: 06 luglio 2011 11.22.33 GMT+02.00
Oggetto: I ragazzi serbi a Roma: il 7 luglio alle ore 20,30

Carissimi,
come molti di voi sanno, ogni anno ospitiamo un gruppo di ragazzi provenienti dalla Serbia, ex Jugoslavia, profughi dal Kosovo e Metohija.
Per chi volesse incontrarli e ocnoscerli, giovedì 7 luglio, alle ore 20,30, presso l'Auditorium della facoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Roma - Tor Vergata, via Columbia, 1 si esibiranno in una rappresentazione teatrale, coordinati dall'attrice Cristina Fioretti. Seguirà una performance di musica etnica, con le percussioni del maestro Michele Martino.
Se qualcuno di voi riuscisse a venire, sarebbe magnifico, soprattutto per non lasciarli soli. In questi anni, molti di noi non l'hanno fatto...
Una volta tanto, l'ingresso è libero e non vi si chiederanno soldi a sottoscrizione!!!

Un abbraccio a tutti

Alessandro
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visita: http://unsorrisoperognilacrima.blogspot.com/

"Deve esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo e tutto sarà giusto..."
(francesco guccini - cyrano)

Un ponte per... associazione di volontariato per la solidarietà internazionale
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www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o28116:e1
 
Italia: una “memoria condivisa” fatta di vittimismo e negazione del conflitto 

Una conversazione con Davide Conti
 
22/06/2011
 
Spesso, in questi anni, come forze dell’antagonismo sociale e della sinistra di classe abbiamo realizzato iniziative volte a contrastare la rilettura ufficiale della storia italiana. Uno sforzo meritorio, che ha prodotto momenti di discussione utili, anche sul piano della formazione di chi vi ha partecipato. Mai come oggi è necessario rafforzare questo impegno, fondandolo su una piena comprensione delle ragioni che hanno spinto a definire i nuovi criteri di interpretazione della vicenda italiana. In questa intervista, Davide Conti – autore di L’occupazione italiana dei Balcani (2008) e Criminali di guerra italiani 
(2011) – si sofferma sulle caratteristiche di quella “memoria condivisa” che si è andata delineando a partire dalla fine della Prima Repubblica. E che negli ultimi anni è stata sancita attraverso una precisa, ragionata calendarizzazione, tesa a sottacere le verità più scomode e capace di rifunzionalizzare alle nuove esigenze antichi miti, come quello degli “italiani brava gente”. Per il suo carattere complessivo, il discorso di Conti deve essere preso in considerazione da chiunque voglia contrastare la narrazione storica oggi dominante. Anche per superare quella frammentarietà – legata alla necessità di intervenire volta per volta su singoli aspetti del dibattito pubblico sulla memoria – che ha inevitabilmente segnato la nostra azione su questo terreno. 
 
- Anzitutto, sulla base della tua ricerca sui criminali di guerra italiani, ci puoi spiegare come hanno fatto costoro ad eludere le richieste di giustizia e quali sono stati gli interessi che hanno favorito questa soluzione?

 Naturalmente le ragioni che hanno permesso una sostanziale impunità per i presunti criminali di guerra italiani (adotto questa formula proprio perché non sono stati fatti i processi), non vanno rintracciate nella dimensione giuridica.
Semmai le motivazioni sono state in primo luogo di carattere geopolitico ed in second'ordine legate a questioni interne. Dal punto di vista geopolitico - cioè dell'asse portante del paradigma dell'impunità dei criminali di guerra italiani - sicuramente la collocazione del nostro paese nell'ambito del dispositivo internazionale della NATO ha prodotto, per gli alleati, la necessità di evitare processi contro i vertici ed i quadri medio-alti e medi del Regio Esercito. Si voleva impedire quella decapitazione di fatto del nostro corpo militare, che sarebbe stata la naturale conseguenza di una seria procedura di epurazione in seno all'esercito. L'idea era invece quella di riarmarlo e di reintegrarlo in un nuovo dispositivo bellico, perciò gli alleati rinunziarono a processare quei criminali di guerra che loro stessi avevano indicato in liste apposite, consegnate alle Nazioni Unite. Parliamo della Francia, degli USA e dell'Inghilterra. Per quanto riguarda gli altri paesi, fummo aiutati dalle stesse ragioni geopolitiche: la contrapposizione col blocco orientale consentì all'Italia, appoggiata dagli alleati, di non consegnare gli accusati di pratiche e condotte militari illecite soprattutto in Unione Sovietica ed in paesi balcanici come Jugoslavia ed Albania. Un discorso a parte andrebbe fatto per la Grecia, che fa parte dell'area dei Balcani ma trovandosi nello stesso schieramento geopolitico dell'Italia, quello occidentale, rinunciò con un accordo segreto siglato nel 1948 a vedersi consegnati i presunti criminali di guerra. Di più, essa sbloccò di fatto delle procedure che permisero il progressivo rientro anche di quei militari italiani che, essendo stati già processati e condannati, stavano scontando la pena nelle carceri greche.
Questo è il quadro generale. Il risultato, sul piano interno, fu la possibilità sostanziale per i governi a maggioranza conservatrice di mantenere quella continuità dello Stato che è stato il tratto caratteristico del dopoguerra italiano.
 
Quali sono stati invece gli effetti sull'opinione pubblica?

 Diciamo che alla popolazione è stato permesso di non fare i conti con i lati più scomodi della propria storia, alimentando quel mito degli "italiani brava gente" che è ancora oggi fortemente radicato nella nostra società. Non solo, dal punto di vista della ricomposizione della memoria pubblica, questa mancata Norimberga italiana ha determinato un altro fenomeno, cioè la ricostruzione - in epoca post Guerra Fredda - di una narrazione della memoria nazionale tutta incentrata su un paradigma vittimistico. In sostanza, si tende a vedere costantemente l'Italia come un soggetto che subisce un fatto storico, che non è protagonista in negativo nemmeno per quanto concerne la seconda guerra mondiale, che questo paese ha contribuito a scatenare a fianco della Germania hitleriana. Quindi,dalla fine della Prima Repubblica in poi abbiamo assistito alla costruzione di una memoria e di un discorso pubblico interamente incentrati sull’elusione di qualsiasi responsabilità italiana nei passaggi e nei nodi più complessi della nostra storia. A ciò va aggiunta la sostanziale cancellazione dell'elemento conflittuale, che è totalmente espunto non solo dal discorso pubblico ma dalla stessa memoria nazionale di questo paese. Queste due tendenze sono ben esemplificate dalla progressiva calendarizzazione a cui abbiamo assistito in questi anni.
 
Si pensi anzitutto a come è stata tradotta in Italia la data del 27 gennaio, la giornata internazionale dedicata alla Shoah. E' una giornata che ricorda l'ingresso dei carri armati sovietici nel campo di sterminio di Auschwitz, quindi la rottura del sistema concentrazionario nazista e la fine del processo di sterminio razionalizzato e programmato messo in atto dal Terzo Reich. Alcuni paesi, ad esempio la Francia, hanno scelto di affiancare alla data internazionale del 27 gennaio - che non può da sola ricomporre tutte le dimensioni nazionali e locali dello sterminio degli ebrei - una data nazionale, tale da ricordare quanto il collaborazionismo francese di Vichy abbia contribuito al genocidio ebraico. Così è stata istituita per legge la giornata del 16 luglio, nella ricorrenza del rastrellamento antiebraico di Parigi organizzato dalle truppe naziste con il sostegno organico delle milizie di Vichy. Con questa scelta, la Francia imprime nella memoria collettiva l'idea di una corresponsabilità attiva nello sterminio degli ebrei.
 
Un dibattito simile si è avuto in Italia, quando si è pensato di poter affiancare anche nel nostro paese una data nazionale a quella internazionale del 27 gennaio. Si era pensato di portare in Parlamento - e così è stato fatto - la proposta di istituire la giornata della memoria italiana indicandola nel 16 ottobre, nella ricorrenza del rastrellamento del ghetto ebraico di Roma. Il nostro Parlamento ha respinto questa proposta ed ha mantenuto una data, dal punto di vista nazionale, più "neutra", perché appunto inquadra in una dimensione internazionale, ma molto poco italiana, il genocidio ebraico.
 
Si è proseguito poi, nel corso del tempo, istituendo la giornata del ricordo, che è quella più controversa del nostro calendario pubblico. Si intenderebbe ricordare le vittime delle foibe, quindi di quei fenomeni di violenza che si sono verificati nel settembre del 1943 e nel maggio del 1945 lungo il confine orientale. Ora, la data scelta pone una questione che non dovrebbe essere trascurata: il 10 febbraio non si verifica nessun episodio di violenza sul confine orientale da indicare col termine foibe. Le foibe sono un fenomeno che si sviluppa all'indomani dell'8 settembre 1943, quando la rotta dell'esercito italiano produce una temporanea rioccupazione delle terre del confine orientale da parte della popolazione civile. La prima ondata delle foibe si sviluppa a partire dall'11 settembre e termina immediatamente dopo con la rioccupazione del territorio a parte delle truppe tedesche. In questa prima ondata perdono la vita 500 persone.
 
Giacomo Scotti, nel suo "Dossier foibe", legge questi accadimenti come un’insurrezione popolare spontanea, senza una precisa direzione militare...

 E' giusto, io infatti parlerei di jacquerie contadina. Erano molto forti il rancore e l'odio di classe, legati al ricordo dell’espandersi del fascismo di frontiera degli anni ‘20, la cui inusitata violenza aveva colpito soprattutto operai e contadini, ferendo in profondità la popolazione di quei luoghi. All'indomani della rotta dell'8 settembre, esplode una conflittualità sociale memore di quei trascorsi traumatici.
 
Nel maggio del '45 l'avanzata dell'esercito popolare di liberazione jugoslavo produce una seconda ondata delle foibe. Dunque, ci si potrebbe riferire a due mesi precisi: il settembre del 1943 ed il maggio del 1945. L'indicazione del 10 febbraio come giornata del ricordo delle vittime delle foibe, quindi, non ha un'attinenza calendaristica, bensì un significato fortemente politico. Tanto è vero che ha prodotto ogni anno degli attriti - progressivamente mitigati, ma sempre attriti - tra gli stati della ex Repubblica Jugoslava e l'Italia. Il punto è che il 10 febbraio ricorre la firma del 
Trattato di Parigi (1947) che restituisce alla Jugoslavia i territori che erano stati occupati dal Regio Esercito e dal regime fascista.
 
L'indicazione di questa data assume di fatto la caratteristica di una contestazione della legittimità di quel Trattato, ponendosi sostanzialmente in continuità con quella che sino a qualche anno fa era una lettura minoritaria, quasi clandestina. Una lettura propria dell'estrema destra, quella del diktat imposto all'Italia, che recuperava l'idea, diffusasi dopo la prima guerra mondiale, della "vittoria mutilata". In sostanza, si contestava ai governi democratici la firma di un Trattato di Pace che - restituendo alla Jugoslavia i territori illecitamente occupati - mutilava di nuovo il nostro paese. Ecco,questa lettura che era tipica dell'irredentismo neofascista oggi assume un carattere di memoria nazionale. Ciò dovrebbe produrre una forte preoccupazione nei settori democratici di questo paese.
 
D'altro canto, la rilettura ufficiale della storia d'Italia ha creato anche altri paradossi, altre contraddizioni Quest'anno, nella ricorrenza del 150° anno dell'Unità d'Italia, è stata indicato il 17 marzo come data di riferimento. In questo caso ha prevalso la dimensione aconflittuale della storia, perché il 17 marzo è l'anniversario del Regio Decreto che costituisce il Regno d'Italia senza Roma Capitale. Dunque, si escludono la "questione romana" ed il contenzioso col Vaticano dalla memoria pubblica nazionale. Questa lettura aconflittuale ha consentito una narrazione della storia dell'Unità d'Italia quasi condivisa, paradossalmente, non solo dalle istituzioni ufficiali della Repubblica, ma anche dalla stessa Chiesa cattolica. Un’indicazione nel 20 settembre - giorno della breccia di Porta Pia - o un richiamo esplicito all’esperienza della Repubblica Romana (1849), avrebbero espresso elementi conflittuali, impedendo una siffatta convergenza. Si sarebbe cioè determinata la necessità di un approfondimento in termini non solo storici, ma anche di ricostruzione della memoria pubblica del nostro paese.
 
Questo approccio, in fondo, lo si può registrare anche rispetto agli anni '70...

 Sì, ne è una conferma l'indicazione del 9 maggio come giornata dedicata alle vittime del terrorismo. Qui le due dimensioni dominanti della narrazione della storia di questo paese - quella aconflittuale e quella legata al paradigma del vittimismo - trovano una connessione. Anche in questo caso il dibattito politico si è incentrato sull'indicazione di due date, come possibili punti di riferimento per una giornata dedicata alle vittime del terrorismo: quella del 12 dicembre - che avrebbe ricordato la Strage di Piazza Fontana e gli attentati dinamitardi di Roma del 1969 – e, appunto, quella del 9 maggio. Data, quest'ultima, che rinvia al ritrovamento di Aldo Moro a via Caetani, nel 1978. Il dibattito ha prodotto la convergenza di quasi tutte le forze politiche verso l'indicazione del 9 maggio, in una dimensione che, come dicevo, coniuga il paradigma vittimistico - cioè l'attacco di un nemico esterno allo Stato, quindi alla comunità organica nazionale - con l'elemento aconflittuale. Eludendo ladata del 12 dicembre, infatti, si evitano i conti con un passato scomodo che avrebbe chiamato direttamente in causa le responsabilità delle istituzioni statali in stragi di cittadini italiani.
 
- La calendarizzazione che hai sin qui spiegato, a partire dalla giornata del ricordo del 10 febbraio, è stata fatta propria - ed in una certa misura promossa - anche dalle forze dominanti del centrosinistra. Per quali motivi, secondo te? Più che al consueto e logoro discorso sulla "sinistra che rinsegue la destra" non si dovrebbe fare riferimento a motivi di carattere geopolitico?

 Direi che qui ci si può richiamare a due motivi strettamente intrecciati fra loro, uno internazionale, appunto, l'altro interno. Quello internazionale si collega alla fine della Guerra Fredda, quindi alla conclusione di una fase in cui la divisione politica manteneva una proiezione di divisione ideologica ed anche militare. La fine della Guerra Fredda ha comportato il prevalere di una componente politico-ideologico-militare sull'altra, determinando in tutte le società europee una ridefinizione del discorso pubblico ed anche dell'accesso al potere politico. In un mondo non più bipolare, l'accesso a potere è definito in modo diverso, sulla base di una nuova dialettica con la politica estera, la politica economica e quella commerciale con l'estero.
 
C'è però, agganciato a questo primo piano, un tentativo di sciogliere l'"anomalia italiana", di ricostruire un perimetro pubblico di reciproca legittimazione fra le forze politiche. L'Italia, più di altri paesi europei, aveva vissuto l'elemento contraddittorio di una proiezione militare ed ideologica del conflitto politico. La Costituzione, la legge fondamentale, era stata scritta da tutte le forze democratiche del paese, inclusi i comunisti, ma sulla base della proiezione interna del conflitto bipolare, la discriminante storica dell'antifascismo era stata presto sostituita da quella politica dell'anticomunismo. Si era dunque prodotta, poco dopo la promulgazione della Costituzione, una repentina riduzione dello spazio pubblico legittimato alla guida ed al governo del paese. La fine della Guerra fredda e - con essa - quella della Prima Repubblica, ha posto il problema della reciproca legittimazione di tutte le forze politiche, incluse quelle nuove, che non avevano partecipato - nemmeno come partiti poi trasformatisi - al processo costituente. Noi ci siamo trovati nel 1994 con una serie di forze politiche che, per una ragione o per l'altra - cioè per la conventio ad excludendum o perché nate da poco - o non avevano radici costituzionali o non erano mai state legittimate a guidare il paese. Questo ha posto un problema, spingendo verso una ridefinizione della narrazione storica e del discorso pubblico. Non a caso, sono stati i maggiori esponenti dei partiti dell'ex estrema destra e della, diciamo, ex estrema sinistra parlamentare, Fini e Violante, ad avviare un processo di questo tipo. Promuovendo un incontro simbolico proprio sul confine orientale, proprio a Trieste, naturalmente legato al tema delle foibe. In sostanza, negli ultimi anni si è manifestata la necessità di ricostruire un nuovo perimetro pubblico all'interno del quale l'intero corpo elettorale - non più vincolato da legami ideologici e quindi, per questo, mobile da uno schieramento all'altro - trovi una narrazione comune, fondata su valori nuovi che sciolgano il nodo del blocco di milioni di voti e quindi determinino una diversa modalità di accesso al potere ed una differente modalità di legittimazione del sistema democratico italiano. Ciò, nell’ottica di una riforma costituzionale fondata su schemi molto lontani dall’idea della Repubblica nata dalla Resistenza. La stessa equiparazione fra i vari segmenti dell’elettorato italiano – inclusi quelli un tempo considerati scomodi – non comporta la possibilità popolare di incidere sugli assetti sociali e politici. La linea guida della riforma in questione è il rafforzamento del potere esecutivo a discapito di quello legislativo. Per procedere in questa direzione, era necessario quello “sblocco di sistema” che è passato anche per la costruzione di una memoria pubblica condivisa fondata su nuovi criteri e valori. Con la fine della Prima Repubblica, è venuta meno l’idea che il richiamo alla Resistenza potesse essere l’elemento unificante dello spazio pubblico italiano. Dunque, è decaduta quella retorica celebrativa che talvolta aveva coperto prassi e provvedimenti in aperto contrasto con il dettato costituzionale. Si pensi alle leggi eccezionali degli anni ’70, come la Legge reale, che di fatto sospendevano garanzie primarie. Questi passaggi venivano arbitrariamente legittimati dal fatto che le forze che li promuovevano avevano radici in un’esperienza aperta, pluralistica e fortemente democratica come quella resistenziale.
 
A questa esigenza di sostituire una retorica celebrativa con un’altra, risultano funzionali narrazioni come quella relativa al confine orientale promossa negli ultimi anni.
 
Come hai detto all’inizio, i criminali di guerra nostrani sono stati salvati anche in virtù della collocazione geopolitica italiana. Il perpetuarsi del mito degli italiani brava gente quanto si lega al ruolo internazionale e militare svolto oggi da questo paese?

 Direi Molto. Dal ‘900 l’Italia porta dietro poca memoria ed il luogo comune sugli italiani brava gente è un retaggio ben ancorato all’attualità. Come italiani facciamo molta fatica a percepire i militari di casa nostra all’estero, oggi, come militari “facenti funzioni”, che in sostanza operano con regole d’ingaggio militare, che fanno operazioni di polizia, che interrogano o arrestano sul campo veri o presunti terroristi o oppositori politici. Non si percepisce la morte di questi militari (che, lo ricordiamo, fanno parte di un esercito che non è più di leva, bensì organizzato su base volontaria e professionale) come quella di soldati caduti nell’esercizio delle loro attività belliche. Quando viene proposta l’immagine dei militari italiani all’estero, da parte di tutti i media e di tutte le forze politiche, si dipinge la figura dei “costruttori di pace”, che contribuiscono a realizzare strade, ponti e ospedali o che aiutano i civili ad andare a scuola. Così in Afghanistan come in Libano o in altri scenari bellici.
 
Il fatto che i principali partiti, proprio sul piano della politica estera, abbiano trovato una convergenza su questo tipo di lettura si ricollega al discorso che facevamo poc’anzi rispetto alla necessità di ridefinire un perimetro di reciproca legittimazione che passi per la collocazione in un preciso versante geopolitico. Nello stesso schieramento di centrosinistra, il test di affidabilità cui devono sottoporsi le forze minori vede la centralità delle scelte di politica estera, collocate su un piano di maggiore rilevanza rispetto a tutto il resto.
 
Un’ultima domanda. Negli ultimi anni, gli studi sui crimini legati ad eventi bellici e coloniali si sono moltiplicati. Per quanto la tendenza dei grandi media sia ancora oggi quella di “oscurarli”, non sempre ciò risulta possibile e qualcosa dei risultati di queste ricerche trapela, creando lievi incrinature al discorso ufficiale sugli italiani brava gente. A tuo avviso, c’è la possibilità che questa battaglia, sia pure non sul breve termine, risulti vittoriosa?

 Al riguardo non sono pessimista. Emergono sempre più quelle fonti e quei documenti che sono la struttura portante di qualsiasi discorso storico. C’è quindi un elemento oggettivo che non può essere completamente ignorato. In più, vi sono dei precedenti, rispetto alla lettura del passato coloniale italiano, che fanno ben sperare. Si pensi all’esito della battaglia per la verità sull’aggressione fascista all’Etiopia. Angelo Del Boca l’ha condotta con straordinaria tenacia già a partire dagli anni ’60. Negli anni ’90, gli ultimi difensori di quell’impresa coloniale, come Indro Montanelli, si sono dovuti arrendere di fronte all’evidenza dei documenti. E l’Italia ha sancito ufficialmente il vero carattere della guerra all’Etiopia, con il riconoscimento dell’”uso sistematico” di gas asfissianti da parte di un ministro del governo Dini, Corcione, che non a caso era un generale.
 
Personalmente ritengo che, per quanto il discorso pubblico italiano sia impostato in modo tale da farci sembrare sempre vittime, prima o poi la ricchezza delle fonti documentarie e l’impegno profuso nei lavori di ricostruzione storica finiranno per imporsi. Anche rispetto a quelle vicende – come l’occupazione militare dei Balcani – che si ritiene più scomodo ricordare.

 
A cura di Il Pane e le rose – Collettivo redazionale di Roma



Stop alla guerra NATO in Libia. Campagna Rete no war e U.S citizens for peace and justice

CAMPAGNA PROMOSSA DA RETE NO WAR E U.S CITIZENS FOR PEACE AND JUSTICE- Rome

 “Stop alla guerra Nato in Libia: scriviamo ai membri non belligeranti del Consiglio di Sicurezza Onu”

Alcuni paesi della Nato, con l’alleanza di alcune petromonarchie del Golfo, stanno conducendo da tre mesi in Libia una guerra illegale a sostegno di una delle due fazioni armate che si affrontano; una guerra fondata su informazioni false, portata pervicacemente avanti con vittime dirette e indirette; una guerra che continua malgrado le tante occasioni negoziali disponibili fin dall’inizio.

Che fare? La pressione popolare nei confronti dei paesi Nato è certo necessaria, ma non basta. Potrebbe essere utile, se attuata in massa, una campagna di email dirette a paesi non belligeranti e membri del Consiglio di Sicurezza del’Onu, chiedendo loro di agire. Molti di quei paesi hanno già manifestato volontà negoziali e potrebbero utilizzare come strumento di pressione questo appoggio popolare da parte di cittadini di paesi Nato.

Per questa ragione i gruppi Rete No War e Statunitensi contro la guerra hanno consegnato un analogo appello ad alcune ambasciate a Roma.

Ecco come partecipare alla campagna, semplicemente, con una email. Basta mandare il testo seguente (in inglese) nel corpo del messaggio alle email di: Russia, Cina, India, Sudafrica, Nigeria, Gabon, Bosnia Erzegovina, Libano, Colombia, Portogallo, Germania. Per informazioni (ma l’appello va inviato direttamente agli indirizzi dei paesi!): boylan@...;mari.liberazioni@...

Email delle rappresentanze dei paesi: ChinaMissionUN@...rusun@...India@...;portugal@...contact@...chinesemission@...dsatsia@...;

delbrasonu@...info@...siumara@...;bihun@...a.moungara-moussotsi@...colombia@...;pmun.newyork@...perm.mission@...perm.mission@...;aumission_ny@...AU-NewYork@...LamamraR@...; waneg@...;presidentrsa@...; unsc-nowar@...


Nell’oggetto della email scrivere: PLEASE STOP NATO WAR IN LIBYA. APPEAL TO NON-BELLIGERANT MEMBERS OF THE UN SEC. COUNCIL

Testo da inviare

 WE APPEAL TO NON-BELLIGERENT MEMBERS
OF THE U.N. SECURITY COUNCIL
 
-          to put an end to the misuse of U.N. Security Council Resolution 1973 to influence the internal
affairs of Libya through warfare, by revoking it, and
-          to press for a peaceful resolution of the conflict in Libya, backing the African
Union’s central role in this context.
 
We thank those countries that have tried, and are still trying, to work towards peace.
 
Our appeal is based on the following:
 
-       the military intervention in Libya undertaken by some NATO members
has now gone far beyond the provisions of Security Council Resolution 1973, and is based on hyped-up accounts of defenseless citizens being massacred by their government, while the truth is that, in Libya, there is an on-going and intense internal armed conflict;
 
-       we are aware of the economic and geo-strategic interests that lie behind the war in Libya and,
in particular, behind NATO support of one of the two armed factions;
    -          NATO military intervention in Libya has killed (and is continuing to kill) countless civilians, as well harming and endangering the civilian population, including migrants and refugees, in various other ways;
 
    -          the belief, at this stage, only non-belligerent countries – and particularly those with U.N. Security Council voting rights – can successfully bring a peaceful end to the conflict through negotiations and by implementing the opening paragraph of UNSC  Resolution 1973, which calls for an immediate ceasefire.
 
Respectfully yours,
Name (or association)
Address (optional)





30 juin 2011



Vingt ans après le début des guerres yougoslaves, où en sont les États issus de l’ancienne fédération socialiste, notamment au niveau de ce qu’il est convenu d’appeler leur « intégration euro-atlantique » ?



Le 25 juin 1991, la Slovénie et la Croatie proclamaient unilatéralement leur indépendance, provoquant une riposte de l’Armée populaire yougoslave (JNA) qui tentait, dès le lendemain, de reprendre le contrôle des frontières extérieures de la fédération. Côté tant slovène que croate, des unités de défense territoriale et de police, ainsi que des milices acquises aux gouvernements nationalistes de ces deux républiques, ouvraient le feu sur les soldats de la JNA. 

En Slovénie, la guerre s’acheva rapidement, le 7 juillet, par la signature de l'accord de Brioni, par lequel Belgrade renonçait de facto à exercer tout contrôle sur l’entité la plus septentrionale de la fédération. Le conflit a coûté la vie à une centaine de personnes, surtout des soldats yougoslaves, sommairement exécutés après leur reddition ou brûlés vifs dans leurs tanks. 

Ensuite, la Slovénie, république la plus prospère de Yougoslavie, s’est tournée vers l’Occident, adoptant les réformes de marché prescrites, et a adhéré à l’OTAN en 2004 et à l’Union européenne (UE) en 2007. Dotée d’une population ethniquement slovène à plus de 90 %, elle n’a pas connu les troubles qui ont ravagé les autres républiques ex-yougoslaves, bien que plusieurs dizaines de milliers de citoyens qui en étaient originaires aient été expulsés ou « effacés » des registres, privés de papiers, et donc de travail, de pension, d’enseignement… Pas plus que dans les États baltes, où des centaines de milliers de russophones ont connu, ou connaissent, un semblable « effacement », la plupart des associations de défense des droits de l’homme ne se sont guère émues de cette situation qui n’a été que partiellement réglée suite à de discrètes pressions de l’UE.

En Croatie, les événements prirent un tour bien différent. En cause, essentiellement la présence d’une minorité serbe consistante (environ 12 % de la population), vivant surtout dans les confins ruraux de la république (Krajina, Slavonie…). Tentant au départ de jouer à l’arbitre dans les escarmouches entre milices croates et serbes, la JNA – désertée par ses éléments slovènes et croates – prit progressivement le parti d’une population serbe, inquiète de sa radiation dans la nouvelle constitution croate (l’ancienne faisait des Serbes de Croatie et des Croates les deux « peuples constitutifs » de la république) et de l’adoption par Zagreb de symboles (monnaie, drapeau…) datant de l’ère oustachie. La violence culmina avec le siège, puis la prise, de la ville de Vukovar par la JNA et les milices serbes. On apprendra plus tard que la ville, à la frontière avec la Serbie, avait été sciemment abandonnée par le Président Tudjman, désireux d’en faire un symbole de la « barbarie serbo-bolchévique ». 

Après un cessez-le-feu et la reconnaissance de l’indépendance des deux républiques sécessionnistes par l’Allemagne et le Vatican, puis par les autres Etats de ce qui était encore la Communauté économique européenne, une force des Nations Unies s’interposa entre les lignes serbes et croates à partir du printemps 1992. Entérinant ainsi la sécession croate, Belgrade créait, en avril 1992, une nouvelle fédération n’englobant plus que la Serbie et le Monténégro et retirait son armée de Croatie, puis de Bosnie-Herzégovine. Le front fut gelé pendant quelques années, avec un quart du territoire sous contrôle serbe, jusqu’à ce que la Croatie acquière d’abondants armements et de précieux soutiens militaires, en dépit d’un embargo sur les armes imposé à toute l’ex-Yougoslavie par l’ONU dès septembre 1991. C’est ainsi que, en plus d’une bonne partie de l’arsenal de l’ex-RDA, livrée gracieusement par le puissant allié allemand, Zagreb se tourna vers la Pentagone qui y déploya la Military Professional Resources Inc. (MPRI), une firme officiellement privée employant de hauts officiers U.S. à la retraite. Avec l’aide de la CIA, elle planifia les deux « blitzkrieg » de mai et d’août 1995, qui balayèrent les principaux bastions serbes et provoquèrent l’exode de plus d’un quart de million de personnes vers la Serbie et la Bosnie. Avec les victimes de ces opérations et l’assassinat de plus d’un millier de vieillards et de handicapés serbes n’ayant pu ou voulu prendre la fuite, on évalue entre dix et quinze mille le nombre total de morts causé par la guerre en Croatie. 

Le pays ne s’est pas remis de ce nettoyage ethnique massif puisque, actuellement, la population serbe n’y dépasse guère les 3 %. Celle-ci a dû se sentir quelque peu réconfortée par la première condamnation de responsables de l’opération « Tempête » d’août 1995, en l’occurrence les généraux Gotovina et Markac, condamnés respectivement à 24 et 18 ans de prison par le Tribunal de La Haye (TPIY) en avril 2011. Peu de choses, sans doute, par rapport aux millénaires de prison que devront purger plusieurs dizaines de responsables et d’exécutants du massacre de Srebrenica, condamnés par le même Tribunal, ainsi que par des cours de Bosnie-Herzégovine, de Serbie et d’autres pays. Est-il utile de préciser que la complicité des Etats-Unis dans le nettoyage de la Krajina a été soigneusement mise sous le tapis par le TPIY, après que Gotovina ait été convaincu qu’il ne serait pas opportun de l’invoquer pour sa défense ? Mais il n’est pas impossible que le général, déçu par la lourdeur de sa sentence, change de tactique durant la procédure d’appel qui devrait bientôt s’enclencher. 

Quoi qu’il en soit, après une période de transition durant laquelle dut s’effacer le dernier fief serbe en Slavonie orientale, la Croatie a récupéré l’intégralité de son territoire en 1998. Sur le plan économique, les biens publics ont été sauvagement privatisés, et souvent accaparés par le clan Tudjman, condition pour qu’elle acquière le statut de « candidat » à l’UE en 2004. Bloquée par la Slovénie pendant quelques années à cause d’une dispute sur le tracé de leurs frontières communes, son adhésion au club européen vient d’être programmée pour 2013 par la Commission, en dépit d’une population devenue particulièrement « eurosceptique » et qui devrait se prononcer par référendum. Entre-temps, la Croatie a été un deux bénéficiaires, avec l’Albanie, du dernier élargissement de l’OTAN en 2009.

La guerre éclata au début avril 1992 en Bosnie-Herzégovine. La dernière étincelle à enflammer la poudre fut le référendum sur l’indépendance, tenu un mois avant la guerre sous la pression de l’UE. Dans une république où toutes les décisions avaient toujours été prises avec l'assentiment consensuel des responsables de ses trois communautés constitutives – Serbes, Croates et Musulmans (1) –, la polarisation ethnique atteignit son paroxysme lorsque la population fut sommée de déclarer si elle souhaitait ou non se détacher d’une Yougoslavie en pleine décomposition. Au-delà des clivages politiques apparus dans une région qui venait d’accéder au multipartisme, Musulmans et Croates optèrent pour l’indépendance, tandis que les Serbes boycottèrent le scrutin. 

Au cours des mois précédant la guerre, trois séries de négociations entre responsables politiques bosniaques avaient pourtant failli aboutir à un accord permettant de sauvegarder la paix entre les communautés, dans le cadre yougoslave d’abord, puis dans celui d’une entité indépendante mais décentralisée. A chaque fois, Alija Izetbegovic, membre musulman de la Présidence tripartite, avait refusé de ratifier un accord conclu ou était revenu sur sa signature. A chaque fois, il avait semblé agir sous l’influence de diplomates des États-Unis. Trois ans et demi et cent mille morts plus tard, l’accord de paix de Dayton entérinait une division du pays plus nette que celle envisagée avant la guerre. Mais, dans l'intervalle, l’OTAN avait pu faire étalage de sa force en Bosnie, et avait ainsi survécu à la Guerre froide. De plus, après avoir été pris de court par les sécessions croate et slovène, les États-Unis avaient montré que ni l'ONU, ni l'UE – qui, pendant la guerre, avaient multiplié les tentatives de médiation et de plans de paix – n'étaient capables de gérer les Balkans sans leur implication directe. Car c'est bien dans l'Ohio, à 8.000 km de Sarajevo, que se trouve la base de Dayton…

De même, la sanglante guerre qui opposa Croates et Musulmans en Herzégovine et en Bosnie centrale fut arrêtée par un accord signé à Washington le 1er mars 1994. L'Herceg Bosna, entité croate créée dans le sud du pays, était officiellement abolie et les deux parties étaient réunies dans une «  Fédération ». A l'exception d'une guerre inter-musulmane – ignorée par les médias – dans le nord-ouest de la Bosnie, les forces théoriquement « fédérées » pouvaient concentrer leur énergie sur l'ennemi commun serbe. L’armée du général Mladic, après avoir connu une nette supériorité militaire initiale grâce à l'accaparement de la majorité des armements terrestres de la JNA (qui avait quitté la république dès le deuxième mois de guerre) dut faire faire face à un adversaire de mieux en mieux armé grâce à des livraisons massives en provenance de Turquie, d'Iran et de nombreux autres pays, et la complicité active des navires de l'OTAN qui appliquaient à leur manière l'embargo de l'ONU.

A une époque où nombreux considéraient l'OTAN comme une organisation obsolète appelée à connaître le même sort que son homologue basé à Varsovie, la guerre de Bosnie permit à l'organisation atlantique de se trouver un nouvel ennemi et une nouvelle raison d'être. Mandatée par l’ONU pour faire respecter une « no fly zone » au-dessus de la Bosnie, elle effectua la première action armée de son histoire le 28 février 1994 en abattant quatre avions de combat serbes. Ses interventions allèrent en crescendo jusqu'au bombardement massif d'objectifs militaires et civils en août et septembre 1995. Intervenant six semaines après le massacre, bien réel, de prisonniers musulmans capturés à Srebrenica et deux jours après un attentat au marché de Sarajevo, vraisemblablement monté par les autorités locales, ces trois semaines de bombardement de l'OTAN entraînèrent un retournement radical de la situation. Alors que Milosevic, président de Serbie, ordonnait à l’armée yougoslave de rester de marbre, comme un mois plus tôt en Croatie lors de l'opération « Tempête », les forces coalisées de la « Fédération » croato-musulmane et de Croatie s'emparaient d'un tiers du territoire de l'entité serbe, la Republika Srpska, proclamée en janvier 1992 et forgée à la faveur des combats.

A peu de choses près, l'accord de Dayton, avalisé par les présidents Tudjman et Milosevic, entérinait ce nouveau découpage territorial. Si les Musulmans devaient renoncer à Srebrenica et d'autres localités de l'est de la Bosnie, de vastes régions de l'ouest du pays, autrefois essentiellement peuplées de Serbes, passaient dans l'escarcelle de la « Fédération », comme la plupart des grandes villes, dont le caractère multiethnique semble s’être définitivement effacé. 

Seize ans plus tard, la Bosnie-Herzégovine vit en paix et dans une relative sécurité, mais la majorité des déplacés et réfugiés ne sont pas rentrés chez eux. Les tensions qui étaient à l'origine de la guerre – centralisme des Musulmans majoritaires et tendances autonomistes des deux autres communautés – sont plus vives que jamais. Dans un Etat dirigé par un « Haut représentant », nommé par l'UE et doté de pouvoir quasi-dictatoriaux, la Republika Srpska a tendance à se rebiffer de plus en plus. Les Serbes critiquent en particulier une justice, aux mains des institutions centrales, qui n'a jamais jugé le moindre crime de guerre dont a été victime un des leurs. Un référendum, contestant ces institutions, a été convoqué, puis annulé de justesse sous la pression de l’UE, qui s’est peut-être souvenue que le référendum qu’elle avait exigé seize ans plus tôt avait plongé le pays dans la guerre. Les Croates, noyés dans une « Fédération » croato-musulmane où ils pèsent de moins en moins, se considèrent comme les grands perdants de Dayton. En effet, alors qu’ils ont connu, en proportion, la part la plus faible de victimes de guerre, près de la moitié de leur population a quitté le pays depuis, émigrant généralement en Croatie. Leur revendication d'une entité propre, à l'instar des Serbes qui – eux – ont pu se maintenir démographiquement, devient de plus bruyante, surtout depuis que les partis croates sont exclus du nouveau gouvernement de la « Fédération ».

En outre, Bosniaques de toutes ethnies sont accablés par de dures conditions de vie et un chômage massif, le plus élevé d'Europe, après le Kosovo. Si une armée unifiée a finalement été constituée à partir des trois factions qui s'étaient entretuées, aucune adhésion à l'OTAN n'est encore à l'horizon. Les Bosniaques connaissent pourtant bien l'OTAN, puisque des dizaines de milliers de soldats de l’organisation atlantique y ont remplacé les troupes de l’ONU dès la fin des combats et y sont restées jusque fin 2004. Leur a alors succédé une force de l’UE, Eufor Althea, actuellement réduite à 1.600 hommes. Néanmoins, l’OTAN a conservé, à Butmir, près de Sarajevo, un QG et quelque 200 militaires états-uniens, chargés de « conseiller » le gouvernement bosniaque en matière de défense et de traque de criminels de guerre. En outre, la même base abrite le QG d’Althea, qui paye d’ailleurs un loyer à ses hôtes de l’OTAN. 

De même, la Bosnie-Herzégovine est le seul pays des Balkans (Kosovo excepté) pour lequel aucune adhésion à l’UE n’est encore envisagée. Les blocages institutionnels récurrents dans cette sorte de fédération hybride (deux entités, trois peuples constitutifs) retardent considérablement les sacro-saintes « réformes » exigées par Bruxelles et sont entretenus par un statut de protectorat qui n’ose dire son nom, mais qui favorise corruption, irresponsabilité et opportunisme politique. Comme en Belgique, aucun gouvernement central n’a pu être constitué après les dernières élections législatives, tenues là-bas le 3 octobre 2010.

Si l’UE justifie le maintien du poste de « Haut représentant » par les tensions entre communautés bosniaques, un protectorat n’est cependant pas synonyme de paix et stabilité. Le « Haut représentant », actuellement un citoyen autrichien, Valentin Inzko, devrait se rappeler que le précédent protectorat imposé à la Bosnie-Herzégovine par l’Autriche-Hongrie s’est achevé par la Première Guerre mondiale et le démantèlement de l’empire de Vienne…


(1) Ainsi se désignaient les Slaves de rite musulman et d'expression serbo-croate de Yougoslavie. Durant la guerre, le parti majoritaire (SDA) décida de rebaptiser sa communauté du nom de « Bosnjaci », traduit en français par « Bosniaques ». En français, cependant, ce terme désigne également les habitants de toute la Bosnie-Herzégovine, indépendamment de leur origine ethnique ou religieuse. Le double sens de ce mot fut à la base de nombreuses confusions et entretint une vision biaisée du conflit. 


Source : Alerte OTAN



martedì 21 giugno · 18.30 - 21.30
Luogo: La Feltrinelli, piazza Piemonte, Milano

presentazione del libro

“NIENTE È PIÙ INTATTO DI UN CUORE SPEZZATO”

insieme all’Autrice Vanna De Angelis

interviene: Moni Ovadia
musiche: Jovica Jovic

<<Storie di vita vera, drammi e avventure, amori e orrori – dall’olocausto rom alla rivolta degli zingari nello Zigeunerlager di Auschwitz-Birkenau - si mescolano a tradizioni, folclore e costumi in un’avvincente epopea che prende il via negli ultimi anni della seconda guerra mondiale. E che parla di ieri per raccontare anche l’oggi. Niente è più intatto di un cuore spezzato è la storia vera di Dusan e Radmila Balval, due giovanissimi rom, genitori di Jovica Jovic, il talentuoso fisarmonicista rom che collabora con Moni Ovadia, Dario Fo, Piero Pelù, Vinicio Capossela e altri grandi musicisti internazionali.>>

* * *

Dusan e Radmila Balval, due giovanissimi rom, sono i protagonisti di un racconto eccezionale che comincia quando Dusan, che ha poco più di quindici anni e un incredibile talento per il violino, vive e viaggia con la sua famiglia e altre affini - la sua kumpania - nella Serbia affidata dal Reich al generale filonazista Nedic. La kumpania si sta spostando verso sud, con la speranza di sfuggire alla violenza razzista al momento riservata agli ebrei, in una rocambolesca peregrinazione da un paese all’altro in cui i rom portano musica e abilità di calderai, maniscalchi, acrobati. Intanto, l’apocalisse della guerra incalza. Storie di vita vera, musica e miseria, amori e orrori, dall’olocausto rom alla rivolta dello Zigeunerlager di Auschwitz-Birkenau dove, alla fine di aprile del 1944, quattromila zingari (fra cui il giovanissimo Dusan) lottano contro i tedeschi per non finire nelle camere a gas. Drammi e avventure si mescolano al racconto vivido di tradizioni, folclore e costumi, in un’odissea indimenticabile.

Vanna De Angelis
Vive a Milano. Narratrice e saggista, sceneggiatrice per la radio e la televisione, ha pubblicato con successo saggi divulgativi sui processi alle donne accusate di stregoneria e sull’amazzonato e, con il nome collettivo di Gordon Russell, quattro romanzi sulla gladiatura. Tra i suoi titoli, “La bambina del bosco degli elfi” (Piemme 2010).
www.edizpiemme.it


Adem Bejzak e Kristin Jenkins

UN NOMADISMO FORZATO

...di guerra in guerra...
Racconti rom dal Kosovo all'Italia

Edizioni Archeoares, 2011

7 euro, 180 p., ISBN 978-88-96889-22-0


la copertina e l'indice anche sul sito CNJ: https://www.cnj.it/documentazione/bibliografia.htm#bejzak2011

"Ho conosciuto la famiglia Bejzak e i profughi rom del Kosovo per la prima volta nei campi di Firenze in un'afosa estate fiorentina del 2003. Ero venuta a Firenze per svolgere delle ricerche per la mia tesi universitaria sui rom fuggiti verso l'Italia dal Kosovo dopo la guerra del 1999..." (Kristin Jenkins, co-autrice)
 
"I racconti fra queste pagine sono una forma di lotta. Attraverso i nostri pensieri ed i nostri ricordi, lottiamo per far conoscere le nostre verità, perché le nostre verità sono sempre state nascoste, dimenticate o manipolate. Lottiamo per far capire che il nostro è un nomadismo forzato. Fino ad adesso nessuno scrittore è riuscito a scrivere da dove nasce il nostro nomadismo - il nostro nomadismo nasce dalla guerra" (Adem Bejzak, autore)

"Il libro di Adem Bejzak è il modo in cui alcune vittime di pregiudizi chiedono di essere ascoltate. Merita perciò di essere letto con attenzione e rispetto" (Piero Colacicchi, Introduzione)

Adem Bejzak è nato a Pristina nel 1957. Un attivista Rom, da anni è impegnato nella difesa dei diritti umani del popolo Rom. Dal 1993 vive e lavora a Firenze, dove nel 1999 è stato raggiunto dalla sua famiglia a causa della guerra in atto in Kosovo. Attualmente la famiglia Bejzak vive e lavora a Firenze. (dalla quarta di copertina)





Libia: e se fosse tutto falso?


In questo Dossier un po' di buoni argomenti per riflettere sulla guerra, sulla missione Nato e sugli obiettivi dell'intervento militare.




La madre di tutte le bugie


14/06/2011

La guerra della Nato in Libia (operazione “Protettore unificato”), alla quale l’Italia sta partecipando, è presentata all’opinione pubblica internazionale come un intervento umanitario “a tutela del popolo libico massacrato da Gheddafi”.In realtà la Nato e il Qatar sono schierati, per ragioni geostrategiche, a sostegno di una delle due parti armate nel conflitto, i ribelli di Bengasi (dall’altra parte sta il Governo). E questa guerra, come ha ricordato Lucio Caracciolo sulla rivista di geopolitica Limes, sarà ricordata come un “collasso dell’informazione”,  intrisa com’è di bugie e omissioni. 

     Le sta studiando la Fact Finding Commission (Commissione per l’accertamento dei fatti) fondata a Tripoli da una imprenditrice italiana, Tiziana Gamannossi, e da un attivista camerunese, con la partecipazione di attivisti da vari Paesi. 

      La madre di tutte le bugie: “10 mila morti e 55 mila feriti”. Il pretesto per un intervento dalle vere ragioni geostrategiche (http://globalresearch.ca/index.ph p?context=va&aid=23983) è stato fabbricato a febbraio. Lo scorso 23 febbraio, pochi giorni dopo l’inizio della rivolta, la tivù satellitare Al Arabyia denuncia via Twitter un massacro: “10mila morti e 50mila feriti in Libia”, con bombardamenti aerei su Tripoli e Bengasi e fosse comuni. La fonte è Sayed Al Shanuka, che parla da Parigi come membro libico della Corte penale internazionale – Cpi (http://www.ansamed.info/en/libia/news/ME.XEF93179.html). 

     La “notizia” fa il giro del mondo e offre la principale giustificazione all’intervento del Consiglio di Sicurezza e poi della Nato: per “proteggere i civili”. Non fa il giro del mondo invece la smentita da parte della stessa Corte Penale internazionale: “Il signor Sayed Al Shanuka – o El Hadi Shallouf – non è in alcun modo membro o consulente della Corte”(http://www.icc-cpi.int/NR/exeres/8974AA77-8CFD-4148-8FFC-FF3742BB6ECB.htm). 

     Ci sono foto o video di questo massacro di migliaia di persone in febbraio, a Tripoli e nell’Est? No. I bombardamenti dell’aviazione libica su tre quartieri di Tripoli? Nessun testimone. Nessun segno di distruzione: i satelliti militari russi che hanno monitorato la situazione fin dall’inizio non hanno rilevato nulla (http://rt.com/news/airstrikes-libya-russian-military/). E la “fossa comune” in riva al mare? E’ il cimitero (con fosse individuali!) di Sidi Hamed, dove lo scorso agosto si è svolta una normale opera di spostamento dei resti (http://www.youtube.com/watch?v=hPej4Ur_tz0). E le stragi ordinate da Gheddafi nell’Est della Libia subito in febbraio? Niente: ma possibile che sul posto nessuno avesse un telefonino per fotografare e filmare? 

     L’esperto camerunese di geopolitica Jean-Paul Pougala (docente a Ginevra) fa anche notare che per ricoverare i 55 mila feriti non sarebbero bastati gli ospedali di tutta l’Africa, dove solo un decimo dei posti letto è riservato alle emergenze (http://mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=24960).  

(1.continua)

Marinella Correggia


Mercenari, miliziani e cecchini


14/06/2011

L’opera di demonizzazione del nemico, già suggerita con successo dall’agenzia Wirthlin Group agli Usa per la guerra contro l’Iraq, è riuscita ottimamente nel caso della Libia. “Gheddafi usa mercenari neri”. I soldati libici sono sempre definiti “mercenari”, “miliziani”, “cecchini”. In particolare i media sottolineano la presenza, fra i combattenti pro-governativi, di cittadini non libici del Continente Nero; i ribelli a riprova ne fotografano svariati cadaveri. Ma moltissimi libici delle tribù del Sud sono di pelle nera. 

     “I mercenari, i miliziani e i cecchini di Gheddafi violentano con il Viagra”.  Il governo libico imbottirebbe di viagra i soldati dando loro via libera a stupri di massa, è stata l’accusa della rappresentante Usa all’Onu Susan Rice. Ma Fred Abrahams, dell’organizzazione internazionale Human Rights Watch, afferma che ci sono alcuni casi credibili di aggressioni sessuali (del resto il Governo libico e alcuni migranti muovono le stesse accuse ai ribelli) ma non vi è la prova che si tratti di un ordine sistematico da parte del regime. Ugualmente fondata solo su contradditorie testimonianze (e riportata solo da un giornale scandalistico inglese (http://www.dailymail.co.uk/news/article-1380364/Libya-Gaddafis-troops-rape-children-young-eight.html) l’accusa di sterminio di intere famiglie e di violenze su bambini di otto anni. 

     “Gheddafi ha usato le bombe a grappolo a Misurata”.  Sottomunizioni dei micidiali ordigni Mat-129 sono stati trovati nella città da organizzazioni non governative e dal New York Times.  Tuttavia,secondo una ricerca diHuman Rights Investigation (Hri) riportata da vari siti (http://www.uruknet.de/?l=e&p=-6&hd=0&size=1) potrebbero essere stati sparati dalle navi della Nato. 

     “Strage di civili a Misurata”. Negli scontri fra lealisti e ribelli armati sono certo morti decine o centinaia di civili, presi in mezzo. Ma ognuna delle due parti rivolge all’altra accuse di stragi e atrocità.

(2.continua)

Marinella Correggia


Oltre 750 mila sfollati


14/06/2011

Decine di migliaia di vittime civili…effetti collaterali dei “missilamenti” Nato. Oltre alle centinaia di morti civili nei bombardamenti aerei iniziati in marzo (oltre 700, secondo il Governo libico), e a centinaia di feriti tuttora ricoverati negli ospedali, la guerra ha provocato oltre 750 mila fra sfollati e rifugiati: dati forniti da Valerie Amos dell’Ufficio umanitario delle Nazioni Unite, ma risalente al 13 maggio. Si tratta di cittadini libici trasferitisi in altre parti del Paese e soprattutto di moltissimi migranti rimasti senza lavoro e timorosi di violenze (solo nel poverissimo Niger sono tornati oltre 66 mila cittadini: (http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=24959). Oltre 1.500 migranti sarebbero già morti nel mar Mediterraneo dall’inizio dell’anno.   

     Atrocità commesse ai danni di neri e migranti. Secondo le denunce di Governi africani, di migranti neri in Libia, e le testimonianze raccolte da organizzazioni umanitarie come la Fédération internationale des droits de l’homme – Fidh (www.lexpress.fr/actualite/monde/libye-des-exactions-anti-noirs-dans-les-zones-rebelles_994554.html), nell’Est libico – controllato dai ribelli - innocenti lavoratori migranti sono stati accusatidi essere “mercenari di Gheddafi”e linciati, torturati, uccisi o comunque fatti oggetto di atti di razzismo e furti. I ribelli, come proverebbero diversi video, hanno giustiziato e seviziato soldati libici in particolare neri (http://fortresseurope.blogspot.com/search/label/Rivoluzionari%20e%20razzisti%3F%20I%20video). La comunità internazionale ha finora ignorato queste denunce. 

     Fatte cadere tutte le proposte negoziali. Fin dall’inizio della guerra civile libica, sono state avanzate diverse proposte negoziali, prima da Governi latinoamericani e poi dall’Unione Africana (Ua), che prevedevano il cessate il fuoco ed elezioni a breve termine.  Sono state tutte ignorate dalla Nato e dai ribelli.

(3.fine)

Marinella Correggia





DÉJÀ VU

(Come nel 1992 per la Bosnia, di nuovo nel 2011 sulla Libia notizie false di "stupri di massa" vengono costruite e date in pasto alle "anime candide" dell'opinione pubblica occidentale, così: più sei femminista e "di sinistra" e più aderisci alla cagnara guerrafondaia... a cura di I. Slavo)
 
http://www.voltairenet.org/Propagande-de-guerre-viols-de

Propagande de guerra: viols de masse en Libye

L’accusation de viol de masse est parfois une réalité, c’est aussi un classique de la propagande de guerre.
En l’occurrence, un mensonge de cette nature a été soigneusement bâti par les services de l’OTAN contre le colonel Kadhafi. Rappelons sa chronologie :
 Le 29 mars 2011, la jeune Iman al-Obeidi (29 ans) s’introduit dans le hall de l’hôtel Rixos de Tripoli où logent de nombreux journalistes occidentaux. Elle assure avoir été arrêtée deux jours auparavant à un check point, puis avoir été séquestrée et violée par 15 hommes pro-Kadhafi. Elle montre ses blessures aux journalistes duNew York Times et de Reuters avant d’être embarquée par les services de sécurité. La jeune femme devient vite une icône et donne divers interviews à la presse occidentale. En définitive, elle quitte la Libye le 5 mai, via la Tunisie avec l’aide des services secrets français et se rend d’abord au Qatar, puis obtient l’asile politique aux USA grâce à l’intervention de la secrétaire d’État Hillary Clinton.
 Maître Salwa Fawzi El-Deghali, une avocate devenue ministre des droits des femmes du Conseil national de transition, affirme avoir envoyé par courrier postal des milliers de questionnaires aux femmes de Cyrénaïque et avoir reçu 259 témoignages de viols.
 Le 28 avril, lors d’une réunion à huis clos du Conseil de sécurité, l’ambassadrice Susan Rice (USA) accuse le colonel Kadhafi d’avoir fait distribuer du viagra à ses troupes pour que la soldatesque viole en masse les rebelles.
 Lors d’une conférence de presse organisée le 8 juin au siège des Nations Unies, le Procureur de la Cour pénale internationale (CPI), Luis Moreno-Ocampo indique « qu’un nouveau chef d’accusation pourrait être fondé sur le recours à des viols en série pour tenter de contenir les manifestations. Ces viols pourraient être au nombre de plusieurs centaines, a-t-il précisé. L’enquête devait déterminer si ces viols avaient été ordonnés ou non par Mouammar Kadhafi lui-même, comme certaines informations l’ont indiqué. De même, le Procureur a fait état d’informations pouvant attester que le pouvoir libyen aurait fait distribuer aux soldats des stimulants sexuels de type viagra », rapporte le département de l’Information de l’ONU.
Cependant, le professeur Mahmoud Cherif Bassiouni, chef de la Commission d’enquête de l’ONU (pas du Tribunal) sur la Libye, met en doute les accusations du procureur. Il rappelle que sa Commission a été informée de ces allégations lors de sa mission à Benghazi. Il a alors demandé à Maître Salwa Fawzi El-Deghali de lui fournir une copie du questionnaire et des 259 réponses reçues et n’a jamais rien obtenu. En outre, il souligne l’invraisemblance de cette version dans la mesure où aucun service postal ne fonctionne depuis le début de l’insurrection.

RÉSEAU VOLTAIRE | 12 JUIN 2011


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Pristina-Bengasi e ritorno. Requiem per la Unione Europea


di Andrea Martocchia* per l'ernesto Online

su l'Ernesto Online del 10/06/2011

*segretario, Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - onlus

I meccanismi della comunicazione di massa che accompagnano la nuova guerra di aggressione cui partecipa il nostro paese - quella contro la Libia - ricalcano pedissequamente quelli già attivati nel corso di altre aggressioni degli ultimi anni - Iraq, Jugoslavia, Afghanistan. Nel caso libico dobbiamo però, in aggiunta, prendere atto che certi settori democratici, quelli del frequente richiamo alla "difesa della Costituzione", si comportano come se non avessero imparato assolutamente *niente* dalle guerre precedenti. Ci è capitato ad esempio di essere avvicinati da un cronista di una emittente del circuito di Radio Popolare, il quale ci ha allungato il microfono chiedendo: "Allora in che altro modo si doveva intervenire?" (intendendo al posto della guerra di aggressione, per "spezzare le reni" al dittatore di turno). Abbiamo replicato che la domanda era posta male ed era rivelatrice di come venti anni di guerre imperialiste costruite sulla disinformazione strategica non abbiano insegnato niente nemmeno ai giornalisti "di sinistra".

Il caso di Rossana Rossanda è da questo punto di vista il più emblematico ed il più scandaloso, anche perché era stato raccontato che Rossanda aveva fatto ammenda per avere sostenuto i bombardamenti della NATO contro la Repubblica Serba di Bosnia nel 1995. Pure il "circuito" di Michele Santoro dimostra di avere subito una pesante involuzione per quanto riguarda questi temi. Su AnnoZero del 5 maggio 2011, il leader della opposizione Bersani ha rivendicato la giustezza dei bombardamenti presenti e passati, con esplicito riferimento ai bombardamenti sulla Jugoslavia comandati dal suo compagno di partito D'Alema nel 1999, senza alcun contraddittorio.

A spiegare non solo questa degenerazione della "opinione pubblica" di sinistra in Italia, ma il più generale declino delle attività del movimento contro la guerra (1), si potrebbero portare alcune motivazioni specifiche. Un dato di fatto è la strumentalizzazione delle questioni libiche per finalità di politica interna, che dura da quasi tre anni. Ad avviso di chi scrive, se c'è una sola cosa buona che ha fatto il governo Berlusconi ebbene questa è stata la chiusura del contenzioso di epoca coloniale con la Libia in modo onorevole per quest'ultima, attraverso il Trattato di Amicizia (2); eppure, gli accordi - poi traditi - tra Roma e Tripoli sono stati fatti oggetto di veementi contestazioni da settori ben più preoccupati per la sorte dei migranti nei centri di accoglienza in Libia, che non per la sorte degli stessi nei CIE, nelle carceri, nelle periferie, nei cantieri o nei campi di pomodori in Italia. Quelle veementi contestazioni hanno sempre eluso tanto l'analisi del contesto internazionale, che vedeva la Libia alla guida di un movimento di emancipazione politica ed economica dell'Africa (Unione Panafricana: non è che per caso la aggressione militare c'entra qualcosa con questo?) quanto la memoria dei crimini pregressi dell'Italia su quei territori.

Una seria analisi delle cause della aggressione alla Libia dovrebbe certo considerare il quadro geopolitico più complessivo e ci porterebbe molto lontano, ben più lontano dei confini del nostro imperialismo straccione. Chiudiamo invece qui questa doverosa premessa, per passare al tema principale che ci siamo prefissati, e cioè alla questione del Kosovo.

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Lo abbiamo detto e scritto in più occasioni, e dobbiamo tornare a ripeterlo: paradigmatico degli "interventi umanitari" post-Ottantanove è proprio il caso jugoslavo. E, nell'ambito della complessa vicenda jugoslava, per ferocia e sprezzo di ogni legalità vanno rammentati quei bombardamenti del 1999, finalizzati a imporre un "regime change" a Belgrado, a spaccare la Federazione jugoslava (allora composta da Serbia e Montenegro) cancellando ogni residuo riferimento alla "Jugoslavia" dalle mappe geografiche e da ogni altro consesso formale (persino da internet, hanno voluto abolire il dominio ".yu"), e miranti a strappare alla Serbia la regione cui essa più teneva per ragioni storico-culturali ed economico-strategiche: il Kosovo.

Mentre scriviamo cade il dodicesimo anniversario dalla conclusione di quei bombardamenti (7 giugno 1999), e siamo prossimi al ventesimo anniversario dall'inizio della crisi jugoslava più generale (25 giugno 1991: secessioni di Slovenia e Croazia).

Il Kosovo dal giugno 1999 – con l'occupazione totale del territorio da parte degli eserciti stranieri – e ancora oggi, nonostante la dichiarazione di "indipendenza" (3), è a tutti gli effetti un protettorato coloniale. Il suo "status" è controverso al punto che la sua "indipendenza" finora è stata riconosciuta solamente da 75 dei 192 Stati che compongono le Nazioni Unite. "Arbitrio al posto del diritto internazionale" è l'eloquente titolo di una analisi del Centro di informazioni sulla militarizzazione (IMI), con sede a Tubinga, dedicata allo scandalo dei riconoscimenti internazionali e della omertà garantita dalla Corte di Giustizia dell'ONU (Wagner 2011).

La forzata ridefinizione dei confini interni balcanici è stata conseguita anche attraverso l'instaurazione di un regime di apartheid e terrore all'interno del Kosovo, che ha comportato la fuga di centinaia di migliaia di abitanti di etnia non-albanese o albanesi progressisti e anti-secessionisti (4), la distruzione o l'espropriazione dei loro beni oltreché di tutte le strutture, le infrastrutture e persino dei luoghi di culto e di quello straordinario patrimonio artistico che rimandava ad identità storico-culturali diverse da quella islamica. (5)

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Tra i paesi che non hanno riconosciuto il Kosovo come Stato indipendente ce ne sono alcuni aderenti alla UE: Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro si sono... avvalse della facoltà concessa dal balordo ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner : tra i paesi della UE « ognuno è libero di fare la scelta che vuole circa il riconoscimento dello Stato del Kosovo » (sic). Alla faccia di una politica estera comune europea!

La non ricomponibile differenziazione tra i paesi europei a proposito del Kosovo ha svelato dunque agli osservatori più attenti già in quella occasione (2008) il sostanziale fallimento dei progetti di unificazione politica europea. Tale fallimento appare oggi conclamato: persino Romano Prodi, l'europeista per antonomasia, che ancora nel febbraio scorso lamentava l'impossibilità di concordare regole comuni e condivise in sede UE a causa della tendenza franco-tedesca a prevaricare imponendo di fatto un modello di "Europa germanica" (6), in una importante intervista a Bianca Berlinguer agli inizi della crisi libica ha intonato un esplicito requiem funebre: « Io, guardi, non ci penso neanche più, nella politica estera, ad azioni comuni dell'Europa! » (7).
Nessuno potrebbe dargli torto, visto che l'azione unilaterale di parte francese contro la Libia ha spaccato persino quell'asse franco-tedesco di cui sopra.

Quello che però forse sfugge, non solo a Prodi, è che le basi di quella politica estera comune europea che è oggi completamente naufragata erano state poste a Maastricht il 17 dicembre 1991 sacrificando cinicamente l'unità jugoslava e con essa la pace e l'amicizia fra popoli che abitano nel cuore del continente. In quella sede infatti, compiacendo il cancelliere tedesco Helmut Kohl, si decise di sancire lo squartamento della Jugoslavia come prezzo da pagare proprio per l'unificazione europea (8). E' un dato di fatto che oggi sono sfumate sia l'unità jugoslava, sia l'unità europea. Sono passati venti anni: anche in questo caso, siamo prossimi ad un anniversario molto importante.

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Lo status coloniale del Kosovo è soprattutto evidente dal punto di vista economico. Dopo i bombardamenti del 1999, nella regione serba sotto occupazione da parte delle truppe internazionali si è aperta la grande partita della alienazione del patrimonio pubblico (o in incipiente privatizzazione) incluse le importantissime ricchezze del sottosuolo.

Già nel 2000 F. Marenco scriveva: « Alle truppe francesi è stato affidato il settore settentrionale, specializzato nella metallurgia non-ferrosa; la zona centrale della provincia, nella quale sono ubicate numerose centrali elettriche ed installazioni petrolifere, è invece stata affidata agli inglesi. (...) I Tedeschi, i quali hanno occupato il distretto meridionale in compagnia di Russi e Canadesi, hanno invece potuto prendere possesso della Balkanbelt, industria della gomma con una tradizione di collaborazione con la Deutsche Kontinental e fortemente indebitata nei confronti dei tedeschi. Quanto agli Italiani, essi hanno prontamente piantato la loro bandiera nel distretto occidentale di Pe?, al confine con l'Albania, prendendo sede nei locali della Zastava-Iveco, ditta che produce parti di camion e che è stata al centro di un progetto pluriennale di cooperazione internazionale » con la Fiat (9). « Le accuse che sono state fatte ai nuovi colonizzatori sono molteplici. Si parla per esempio della chiusura forzata di alcuni stabilimenti industriali, passati direttamente sotto il controllo dei militari, nell'ambito della competizione fra Francia e Inghilterra per il controllo della società mineraria Trepca (piombo, zinco, cadmio, oro e argento): uno dei principali volani dell'economia jugoslava, considerato dal New York Times "il più prezioso bene immobile dei Balcani". Nel novembre 1999, in un impianto produttivo della Trepca di Kosovska Mitrovica il generale francese Ponset si è autosostituito al direttore, cacciandone via gli operai serbi, sostituendoli con albanesi (...) Nell'agosto del 2000, con il pretesto di preservare l'inquinamento atmosferico il capo della missione dell'Onu Kouchner, francese, ha ordinato ai soldati dell'Alleanza di evacuare l'industria della Trepca. (...) Nel distretto di Pristina, invece, il 14 luglio 1999 le truppe inglesi hanno fatto irruzione nella miniera "Kisnica", sempre facente capo alla Trepca, sostituendone il direttore con uno di loro scelta e rimandando a casa 400 dipendenti » (Marenco 2000).

Come in Serbia e in gran parte dei territori jugoslavi smembrati nonché degli altri paesi ex-socialisti "in transizione", anche in Kosovo è stata creata una agenzia, la KTA (10), che ha lavorato in strettissima collaborazione con le autorità coloniali (UNMIK). Ma ancora oggi, dopo la fine delle attività della KTA, la situazione è instabile e la "liberalizzazione" dell'economia è fallimentare. Secondo la stampa locale (11) « nove anni di privatizzazioni orchestrate dall'UNMIK » e dalla KTA hanno prodotto solamente « una popolazione impoverita, servizi pubblici che colano a picco e infrastrutture inoperanti ». I giornali sintetizzano così il severissimo rapporto dell'Istituto Norvegese per le Relazioni Internazionali (14/9/2010), che ricorda come 70mila persone abbiano perso il lavoro a causa della chiusura forzata delle più grandi aziende statali e autogestite. Il momento clou di questa devastazione è stato proprio negli anni di reggenza di Bernard Kouchner, particolarmente zelante nell'ordinare il sequestro dei beni collettivi jugoslavi – e quindi anche la paralisi delle aziende - in vista della loro privatizzazione. Gli "internazionali" (soprattutto gli USA) hanno persistito « a voler praticare una privatizzazione rapida e totale » e la ossessiva « liberazione dal fardello dello Stato dichiarando che questo era il solo modo per garantire la sopravvivenza a lungo termine di un Kosovo indipendente ».

Tutti gli osservatori lamentano anche numerose irregolarità nelle procedure con cui i privati saccheggiano le risorse del Kosovo: e non c'è da sorprendersene, poichè è cosa nota (12) che la classe dirigente assurta al potere nella provincia non è solamente quella del terrorismo di matrice razzista dell'UCK, ma è anche quella mafiosa dei traffici di droga, armi ed esseri umani. Oltre alle malversazioni, comunque, bisogna considerare le condizioni della società kosovara, oggettivamente incompatibili con una vita economica "regolare", di qualunque segno essa sia. Il territorio è sotto massiccio controllo militare e sempre a rischio di esplosioni di violenza, e già questo scoraggerebbe qualsiasi investitore serio; inoltre, l'assetto proprietario dei beni immobili e delle aziende è suscettibile di contestazioni e revisioni, soprattutto da parte di quei soggetti pubblici e privati serbi che sono stati espropriati in maniera illegale e violenta negli ultimi dieci anni. Nel rapporto norvegese si evidenzia come gli espropri siano stati condotti senza concludere alcun regolare iter di messa in liquidazione (che comporterebbe un pagamento ai precedenti proprietari), di solito dichiarando solo "fallimento" manu militari. Dobbiamo poi ricordare che la distruzione della documentazione catastale e anagrafica a partire da giugno 1999 è stata una delle brutali consuetudini nel corso delle manifestazioni secessioniste-irredentiste, assieme al saccheggio e all'incendio di moltissimi edifici e strutture pubbliche e private.

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Il 2 giugno scorso, il presidente serbo Tadic non ha partecipato alla parata che cadeva nel 150.mo dell'Unità d'Italia perchè alla cerimonia era stata invitata, ed era presente, anche la cosiddetta presidentessa della cosiddetta Repubblica del Kosovo, Atifet Jahjaga.

La elezione della Jahjaga è l'esito di un percorso rocambolesco che illustra bene i conflitti politici interni alla leadership nazionalista-panalbanese e la crisi istituzionale apertasi lo scorso anno nell'entità kosovara, a seguito di svariati arresti tra cui quello del "governatore" della "banca centrale" Hashim Rexhepi (per corruzione) e le dimissioni del "presidente" Fatmir Sejdiu (per asserita incompatibilità con responsabilità di partito).

Le "elezioni politiche", conclusesi il 22 febbraio 2011 dopo alcune ripetizioni, sono state segnate da pesanti irregolarità. Il "parlamento" così insediato ha dapprima eletto a nuovo "presidente" - solo al terzo tentativo e con un margine risicato - il magnate Behgjet Pacolli dell'AKR (Alleanza per un Nuovo Kosovo), dopodiché ha votato la fiducia ad un "governo" nuovamente guidato dal criminale di guerra Hashim Thaci, del PDK (Partito Democratico del Kosovo, di maggioranza relativa), con l'appoggio dell'AKR e di svariati partitini - quelli falsamente rappresentativi delle "minoranze etniche" e quello di Uke Rugova, il figlio del "padre della patria" Ibrahim, storico promotore della politica del separatismo etnico. (13)

Se ci riferiamo ad Hashim Thaci come ad un criminale di guerra è, tra le altre cose, per il suo coinvolgimento nello scandalo dei "desaparecidos" serbi e della cosiddetta "casa gialla". La "casa gialla" è un edificio nella località di Burrell, in Albania a poca distanza dal Kosovo, dove vennero deportati centinaia di prigionieri che, in una sala operatoria fatiscente, subirono l'espianto di organi, utilizzati per finanziare l'UCK. Il crimine, che vede Thaci tra i principali responsabili nella "catena di comando", è stato tenuto insabbiato finché Carla Del Ponte era procuratrice al "tribunale ad hoc" dell'Aia, dopodiché è stata lei stessa a volerlo denunciare, forse per risciacquarsi la coscienza, parlandone nel suo libro «La caccia» (Del Ponte 2008). Di qui è partita una investigazione condotta da Dick Marty per conto del Consiglio d'Europa (CoE), sfociata in uno scottante Rapporto pubblicato nel dicembre 2010 e in una Risoluzione dello stesso CoE (gennaio 2011) che ha richiesto un approfondimento nelle sedi competenti. Attualmente ogni azione è impantanata in sede ONU perché gli Stati Uniti e i loro alleati si oppongono a che l'indagine sia proseguita da un organismo imparziale della stessa ONU. (14)

Torniamo alla geografia politica kosovaro-albanese. L' "opposizione parlamentare" è lì rappresentata dai partiti LDK, AAK (dell'altro criminale Ramush Haradinaj, anch'egli ex "premier" da anni protagonista di un balletto tra dentro e fuori le carceri dell'Aia) e dal movimento super-nazionalista Vetevendosje.
E' molto significativo che la polemica politica in Kosovo si incentri talvolta su chi è più o meno legato agli interessi stranieri: mentre il quotidiano Koha Ditore ha pubblicato una serie di foto in cui, sulla base degli sms scambiati tra Pacolli e l'ambasciatore Christopher Dell, si evincerebbe il ruolo decisivo degli Stati Uniti nella elezione dello stesso Pacolli, altri rimproverano piuttosto a questa figura di essere legato alla mafia russa. (15) Pacolli si è dovuto infine dimettere a causa dei brogli denunciati dalla "Corte costituzionale": a questo punto ha lui stesso denunciato che la nuova "presidente" Jahjaga - dapprima una illustre sconosciuta, impiegata in polizia come traduttrice per gli americani - era stata direttamente indicata dall'ambasciatore USA. (16) Ogni aspetto della vicenda kosovara ci riporta, insomma, alle pesanti e sfacciate ingerenze dell'imperialismo.

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Gli accostamenti che si possono fare tra la aggressione alla Libia e la aggressione alla Jugoslavia sono molti e clamorosi; in particolare, la strumentalizzazione della "fronda" etno-tribale della Cirenaica è simile, per molti aspetti, alla alleanza che i paesi NATO hanno stretto con l'estremismo pan-albanese in Kosovo.
La questione è stata affrontata da Diana Johnstone (16) che ha messo in evidenza il ripetersi dello stesso tipo di crimini contro la pace: « martellante campagna di menzogne mediatiche, demonizzazione del leader, ricorso al Tribunale Penale Internazionale, strumentalizzazione dei profughi, rifiuto dei negoziati » ... Nel caso libico abbiamo visto di nuovo "fosse comuni" inesistenti, "ribelli" filo-occidentali razzisti e criminali, bombe "umanitarie" a fermare un "genocidio" inventato, oltre alle ciniche operazioni "coperte" dei servizi segreti occidentali ed al vigliacco opportunismo della classe politica italiana.
A Pristina, lungo la strada che adesso porta il nome di Bill Clinton, da due anni svetta una enorme statua dello stesso Bill Clinton.
A Roma, lungo la via Nomentana, sul cancello dell'ambasciata libica presidiata da militari in assetto di guerra sventola di nuovo, come mezzo secolo fa, la bandiera della monarchia di re Idris.

I nuovi bombardamenti che sono oggi in corso contro la Libia, contro quello Stato e contro quel popolo, cadono nel centenario della colonizzazione italiana di quel paese (1911). Come nel caso jugoslavo, anche per la Libia gli anniversari scandiscono il tempo delle azioni e delle inazioni, delle bugie e delle rimozioni, delle responsabilità individuali e collettive, come rintocchi di campane. C'è chi ai rintocchi delle campane si abitua a tal punto da non sentirle più, e chi invece non riesce a non farci caso e quando rintocca una campana si ferma a pensare. Noi che non riusciamo a non sentire le campane quando suonano, crediamo ormai di essere in pochi e quasi ci vergogniamo di dire agli altri: le sentite anche voi, quelle campane? - perché sappiamo che è come richiamare tutti alle proprie responsabilità. E' così che, via via, ci isoliamo, diventiamo solipsistici, ci ritroviamo come dissidenti in questa società che non è più regolata secondo i valori ed i principi vergati sulla Carta Costituzionale, che non ha più memoria delle tragedie e dei crimini per scongiurare il cui ripetersi quella Carta era stata scritta. Dissidenti in una società totalitaria, nella quale guerre di conquista coloniale possono essere scatenate a forza di menzogne, anche contro l'opinione della maggioranza della popolazione.


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Fonti e Bibliografia:

Adem Bejzak e Kristin Jenkins, Un nomadismo forzato ...di guerra in guerra... Racconti rom dal Kosovo all'Italia, Archeoares 2011 (Bejzak 2011)

Andrea Catone, FIAT Serbia. Un caso classico di imperialismo, su L'Ernesto n.3-4/2010 (Catone 2010)

Giuseppe Ciulla e Vittorio Romano, Lupi nella nebbia, Jaca Book 2010 (Ciulla 2010)

Carla Del Ponte e Chuck Sudetic. La caccia. Io e i criminali di guerra, Feltrinelli 2008 (Del Ponte 2008

Alessandro Di Meo, L'urlo del Kosovo, ExOrma 2010

Jürgen Elsässer, Menzogne di guerra, La Città del Sole 2002

Antonio Evangelista, La torre di crani. Kosovo 2000-2004, Editori Riuniti 2007 (Evangelista 2007)

Hannes Hofbauer, Experiment Kosovo. Die Rückkehr des Kolonialismus, Promedia Verlag 2008

Diana Johnstone, Fools' Crusade: Yugoslavia, NATO, and Western Delusions, Monthly Review Press 2003

Franco Marenco, I falchi e gli usurai, su L'Ernesto n.5/2000 (Marenco 2000)

Andrea Martocchia, La rimozione della Jugoslavia, su L'Ernesto nn.3-4/2003 -
https://www.cnj.it/documentazione/rimozione.htm

Sandro Provvisionato, UCK: l'armata dell'ombra, Gamberetti 2000 (Provvisionato 2000)

Uberto Tommasi, Mariella Cataldo, Kosovo Buco nero d'Europa, Achab 2004 (Tommasi 2004)

Jean Toschi Marazzani Visconti, Il corridoio, La Città del Sole 2005

Jürgen Wagner, Willkür statt Völkerrecht, IMI-Studie Nr. 09/2011 (21.4.2011) - http://www.imi-online.de/2011.php?id=2293 (Wagner 2011)

Luana Zanella (a cura di), L'altra guerra del Kosovo. Il patrimonio della cristianità serbo-ortodossa da salvare, Casadeilibri 2006 (Zanella 2006)


Note:

(1) Non si confondano però le attività del movimento contro la guerra, né tantomeno la sua - oggi quasi inesistente - rappresentanza pubblica, con i sentimenti prevalenti nella popolazione, che nonostante la continua propaganda guerrafondaia si è mantenuta in ampia maggioranza contraria alla guerra di aggressione contro la Libia, come mostrato dai sondaggi di opinione (cfr. ad es. "Quando l'antiberlusconismo fa male a certa sinistra" di F. Francescaglia, che menziona i significativi numeri di un sondaggio di Mannheimer - http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=20803 ).

(2) Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica Italiana e la Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 - http://it.wikisource.org/wiki/Trattato_Di_Amicizia,_Partenariato_E_Cooperazione_Tra_La_Repubblica_Italiana_E_La_Grande_Giamahiria_Araba_Libica_Popolare_Socialista .

(3) Sul crimine commesso con il riconoscimento della statualità della entità secessionista-razzista del Kosovo, fortemente voluto da Massimo D'Alema, si veda il Comunicato Stampa di CNJ-onlus del febbraio 2008 "Italia e Balcani: una perfetta continuità con le politiche del Fascismo" - https://www.cnj.it/POLITICA/cnj2008.htm - ed anche l'inascoltato appello di senatori e senatrici del dicembre 2007 "L'Italia non legittimi azioni unilaterali in Kosovo" - https://www.cnj.it/documentazione/KOSMET/apelsenato.htm .

(4) Della pulizia etnica compiuta in Kosovo a partire dal giugno 1999 dai secessionisti pan-albanesi sotto la supervisione delle truppe straniere di occupazione è soprattutto trascurato un aspetto: e cioè quello della presenza in Italia di numerose vittime, appartenenti a molte diverse "etnie" kosovare e generalmente rifugiati, in misere condizioni, nei cosiddetti "campi rom". Su questa questione tanto sconvolgente quanto ignorata si vedano ad esempio l'Appello del giugno 2007 al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, al Parlamento Europeo e al Governo italiano (https://www.cnj.it/INIZIATIVE/appello07kosovo_firenze.htm) nonché il recentissimo importante volume di testimonianze di uno di questi rifugiati, Adem Bejzak (Bejzak 2011): entrambi i documenti gettano soprattutto luce sulle vicende dei kosovari rifugiati in Toscana.

(5) Sul tema rimandiamo a Zanella 2006.

(6) « L'Europa e il direttorio zoppo. Se Germania e Francia decidono tutto e l'Italia tace », su Il Messaggero del 6 febbraio 2011.

(7) Su TG3 Linea Notte del 22/2/2011 - http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-fc90c582-3539-4b49-86b1-df4b01cd9edd.html .

(8) Il documento UE numero 1342, seconda parte, del 6/11/1992 indicherà che a Maastricht l'unità europea era stata raggiunta proprio a scapito della Jugoslavia, con una cinica trattativa della quale ha raccontato anche Gianni De Michelis su Limes n.3/1996.

(9) Sul caso Zastava, più in generale, raccomandiamo la lettura dell'articolo di Andrea Catone "FIAT Serbia. Un caso classico di imperialismo", apparso su L'ERNESTO n.3/2010 e online: http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=20054 .

(10) http://kta-kosovo.org/html/ .

(11) Koha Ditore, 15 settembre 2010.

(12) Su questo tema rimandiamo a: Provvisionato 2000, Tommasi 2004, Evangelista 2007, Ciulla 2010.

(13) Da segnalare il penoso tentativo di riabilitazione della figura di Ibrahim Rugova da parte di ambienti "pacifisti di sua maestà", a Rovereto lo scorso 26 maggio 2011. Bizzarro caso di intellettuale-poeta di cui nessuno ha mai letto una poesia e di pacifista-ghandiano che dichiarò testualmente: « Noi kosovari dobbiamo ringraziare Dio per l'intervento della NATO » (ANSA 13/02/2003) e « La NATO è il nostro esercito privato... deve rimanere in Kosovo in eterno » (Der Spiegel 11/12/2000), Rugova alla sua morte nel gennaio 2006 è stato sepolto a Pristina nel "cimitero dei martiri", riservato solo agli eroi della guerriglia (ANSA 23/01/2006).

(14) Sul rapporto Marty ("Inhuman treatment of people and illicit trafficking in human organs in Kosovo", 15/12/2010) e sugli sviluppi dello scandalo sui crimini di guerra commessi dalla leadership secessionista kosovara rimandiamo a tutta la documentazione richiamata dalla pagina https://www.cnj.it/documentazione/KOSMET/organi.htm , in corso di aggiornamento.

(15) Oltre al fatto che Pacolli, ex-marito di Anna Oxa, è attualmente sposato ad una russa, va ricordato che il suo nome fu di spicco nell'inchiesta Mabetex avviata e poi insabbiata da Carla Del Ponte. Essa riguardava malversazioni economiche in cui erano implicati anche membri della famiglia Eltsin.

(16) "Kosovo: New president handpicked by Americans, predecessor says", ADN Kronos International - April 11, 2011

(17) "Un altro intervento della NATO? Rifanno il colpo del Kosovo?", su www.globalresearch.ca del 16/03/2011 - http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=20721

(italiano / english)


NATO applying Balkan scenario to Libya


1) NATO’s Libya 'hope' strategy is bombing 
Lewis MacKenzie, June 10, 2011

2) NATO Says It Is Broadening Attacks on Libya Targets
Thom Shanker / NYT, 26 April 2011  

3) U.S.-British covert operations exposed
Abayomi Azikiwe / Pan-African News Wire , Apr 7, 2011 

4) VoR: Will NATO apply the Balkan scenario to Libya? (P. Iskenderov), Attack on Libya indiscriminate, disproportionate (T. Blokhin)

5) Un comandante della CIA per i ribelli libici / A CIA commander for the Libyan rebels
P. Martin / WSWS, 28 March 2011

6) Il possibile successore di Gheddafi
E. Piovesana, 24 marzo 2011

7) Dibattito: Aldo Bernardini, Piera Tacchino


See also:

RECOMMENDED: Global Research's latest articles on Lybia and desinformation
http://www.globalresearch.ca/

Who are the Libyan Freedom Fighters and Their Patrons?
By Prof. Peter Dale Scott

The Euro-US War on Libya: Official Lies and Misconceptions of Critics
by James Petras and Robin E. Abaya


Some pictures of brand new guns and other arms in the posession of Libyan "revolutionaries". All of these arms were manufactured in NATO lands and in Libyan military magasines is not possible to find munitions for them. More pictures  with  commentary in Russian at
http://nstarikov.ru/blog/8569

Reports suggest French intelligence encouraged anti-Gaddafi protests
http://www.wsws.org/articles/2011/mar2011/inte-m28.shtml

“Il nostro uomo a Tripoli” – i terroristi islamici si uniscono all’opposizione democratica della Libia
Prof. Michel Chossudovsky - Global Research, 3 aprile 2011
http://aurorasito.wordpress.com/2011/04/04/“il-nostro-uomo-a-tripoli-i-terroristi-islamici-si-uniscono-allopposizione-libia-democratica-della-libia/
"Our Man in Tripoli": US-NATO Sponsored Islamic Terrorists Integrate Libya's Pro-Democracy Opposition
by Prof. Michel Chossudovsky

What you dont know about the libyan crisis

Washington funnels confiscated Libyan assets to "rebel" leadership
The illegality of the Obama administration's moves to use Libya's national wealth to keep the so-called rebel leadership afloat underscores the colonial character of the US-NATO war to oust Muammar Gaddafi...

Gli inglesi, tramite accordi segreti, spremono altri soldi dai leader del "Consiglio ribelle"
http://aurorasito.wordpress.com/2011/04/29/gli-inglesi-spremono-altri-soldi-dai-leader-del-consiglio-ribelle-con-accordi-segreti/


Ecco tutte le bugie che ci hanno raccontato sulla guerra libica
http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/5897-ecco-tutte-le-bugie-che-ci-hanno-raccontato-sulla-guerra-libica.html
http://www.youtube.com/watch?v=nFN14FeGVzk

No all'intervento in Libia! Dichiarazione di 58 partiti comunisti e operai

Appello - Fermiamo la guerra in Libia 
Per adesioni fermiamolaguerra@...
PRIME ADESIONI: http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=20771


=== 1 ===

http://www.theglobeandmail.com/news/opinions/opinion/natos-libya-hope-strategy-is-bombing/article2054254/

Globe and Mail - June 10, 2011

NATO’s Libya 'hope' strategy is bombing 

Lewis MacKenzie


We are now in the 84th day of the bombing campaign that the United Nations Security Council authorized to enforce a no-fly zone over Libya in a bid to protect civilians from Moammar Gadhafi’s forces. In a bizarre development, the North Atlantic Treaty Organization has said it will extend the campaign for 90 days, surely a first in the history of war when one side “extends the contract” for a set period. This presumably occurred because NATO’s strategy is still based on the flimsy hope that Colonel Gadhafi will see the error of his ways and capitulate before his surroundings and his supporters are bombed back to the Stone Age.

NATO’s obsession with its strategy of hope was tried once before in 1999, with the bombing of Serbia and the breakaway province of Kosovo. A myth that the 78-day bombing campaign persuaded Serbian leader Slobodan Milosevic to withdraw his forces from Kosovo continues to grow despite overwhelming facts to the contrary.

Before that war – and contributing to its start – the international community gathered in Rambouillet, France, and, on March 18, 1999, produced an accord that spelled out a peace plan to deal with the armed insurrection by the Kosovo Liberation Army (designated at the time by the CIA as a terrorist organization).

Unfortunately – but intentionally – the accord contained two poison pills that Mr. Milosevic could never accept, making war or at least the allied bombing of a sovereign state inevitable. The first pill demanded that NATO have freedom of movement throughout the entire land, sea and airspace of the former Federal Republic of Yugoslavia. In other words, NATO would have the right to park its tanks around Mr. Milosevic’s downtown office in Belgrade. The other pill required that a referendum be held within three years to determine the will of those citizens living in Kosovo regarding independence. The fact that Kosovo’s population was overwhelmingly Albanian Muslim guaranteed that the outcome of any such referendum would be a vote for independence and the loss of the Serbian nation’s historic heart.

Mr. Milosevic refused to sign the accord, and NATO began bombing Serbia on March 24, 1999, without a Security Council resolution, citing a “humanitarian emergency” – a decision still widely challenged by many international legal scholars. NATO said it would take only a few days of bombing to persuade Mr. Milosevic to withdraw his forces from Kosovo.

As the weeks dragged on, NATO’s strategy of hope appeared to be in serious trouble. Its aircraft, incapable of destroying to any significant degree the Serbian military’s personnel and equipment, had turned to bombing fixed infrastructure: bridges, roads, factories, refineries, TV stations. As in all wars conducted from thousands of feet above the target, mistakes were made and civilians were killed. In one town I visited during the campaign, a medical clinic and a 10-storey apartment building had been demolished, with no “legitimate” targets anywhere to be seen.

With no indication that Mr. Milosevic was going to give in, diplomacy was given a long overdue chance. Led by Russian envoy Vitaly Churkin, Mr. Milosevic was told that, if he withdrew from Kosovo, the two poison pills would be removed from the Rambouillet accord. Within days, Mr. Milosevic agreed.

Myth buster: Diplomacy, not bombing, played the key role in bringing a punitive bombing campaign based on hope to an end.

The same solution should be pursued in the case of Libya. The main obstacle is the rebel leadership. The UN envoy to Libya has requested that the rebels call for a ceasefire, but they have steadfastly refused to do so until Col. Gadhafi is gone. NATO leaders are no longer demanding Col. Gadhafi’s removal as a prerequisite for stopping the bombing. So where do the rebels get off refusing to accede to a request from the very organization that authorized the bombing in the first place? They should be told in no uncertain terms that, if they’re not prepared to negotiate with Col. Gadhafi’s representatives, NATO’s support in the air and at sea will cease.

Retired major-general Lewis MacKenzie was the first commander of UN peacekeeping forces in Sarajevo.


=== 2 ===

http://www.nytimes.com/2011/04/27/world/middleeast/27strategy.html

New York Times - April 26, 2011

NATO Says It Is Broadening Attacks on Libya Targets

Thom Shanker  


WASHINGTON: NATO planners say the allies are stepping up attacks on palaces, headquarters, communications centers and other prominent institutions supporting the Libyan government, a shift of targets that is intended to weaken Col. Muammar el-Qaddafi’s grip on power and frustrate his forces in the field. 

Officials in Europe and in Washington said that the strikes were meant to reduce the government’s ability...link by link, the command, communications and supply chains required for sustaining military operations. 

The broadening of the alliance’s targets comes at a time when the rebels and the government in Libya have been consolidating their positions along more static front lines, raising concerns of a prolonged stalemate....

Strikes on significant bulwarks of Colonel Qaddafi’s power over recent days included bombing his residential compound in the heart of the capital, Tripoli — an array of bunkers that are also home to administrative offices and a military command post — as well as knocking state television briefly off the air. 

(...)

Senior officers who served in NATO’s previous air war, fought in 1999...said that the current air campaign over Libya drew on lessons from Kosovo. 

Gen. John P. Jumper, who commanded United States Air Force units in Europe during the Kosovo campaign, recalled that allied “air power was getting its paper graded on the number of tanks killed” — even though taking out armored vehicles one by one was never going to halt “ethnic cleansing.” 

So NATO began to hit high-profile institutional targets in Belgrade, the Serbian capital, instead of forces in the field. While they were legitimate military targets, General Jumper said, destroying them also had the effect of undermining popular support for the Serbian leader, Slobodan Milosevic. 

“It was when we went in and began to disturb important and symbolic sites in Belgrade, and began to bring to a halt the middle-class life in Belgrade, that Milosevic’s own people began to turn on him,” General Jumper said. “They began to question why the whole thing in Kosovo was going on, because it was ruining the country.” 


=== 3 ===


CIA & MI6 in Libya

U.S.-British covert operations exposed


By Abayomi Azikiwe 
Editor, Pan-African News Wire 
Published Apr 7, 2011 8:01 PM


The New York Times, the Washington Post and other corporate news sources are now openly admitting that the opposition forces fighting the Libyan government are supported and coordinated by the U.S. Central Intelligence Agency and Britain’s MI6 with in-country special forces.

President Barack Obama in March signed an order dispatching CIA operatives to identify targets for bombing and to vet potential leaders within the rebel forces in the event of toppling the Libyan government.

Al Jazeera says in a recent article that both U.S. and Egyptian Special Forces are providing training to the rebel groups at a secret facility in eastern Libya. This adds greater clarity to the insistence on the part of the Obama administration that the current leader of Libya, Moammar Gadhafi, be forced from office. The U.S. wants a compliant regime in control of this oil-rich North African state of more than 6 million people.

Egypt’s military receives in excess of $1.5 billion a year from the U.S. for training, equipment and cooperation with Washington. An unidentified rebel fighter described being trained in military techniques by U.S. and Egyptian military forces.

“He told us that Thursday night (March 31) a new shipment of Katyusha rockets had been sent into eastern Libya from Egypt. He didn’t say they were sourced from Egypt, but that was their route through. He said these were state-of-the-art, heat-seeking rockets and that they need to be trained on how to use them, which was one of the things the American and Egyptian special forces were there to do.” (Al Jazeera, April 4)

The fact that the rebel forces are receiving arms and training from U.S., British and Egyptian intelligence and military units illustrates the hypocrisy of the naval blockade being imposed on Libya, under the guise of an arms embargo. The only arms embargo is against the Libyan government, while the imperialist states and their allies in the region are free to provide air and sea support for the rebels.

While Al Jazeera has been supportive of the military and political campaign against the Libyan government, it was forced to admit on April 4 that “since the rebels appear to be receiving covert support in terms of weaponry and training, it is not surprising that they are not inclined to criticize NATO openly.”

U.S. cover story falls apart

The Obama administration claims it does not know who the so-called “rebels” are in Libya. But Khalifa Haftar, officially appointed leader of the military campaign against the Libyan government, has for many years been financed and supported by the CIA. For two decades he lived in Virginia near CIA headquarters in Langley.

A report by the right-wing Jamestown Foundation declares, “Today as Colonel Haftar finally returns to the battlefields of North Africa with the objective of toppling Gadhafi ... he may stand as the best liaison for the United States and allied NATO forces in dealing with Libya’s unruly rebels.”

This same study revealed that Haftar played an important role in June 1998 in establishing the so-called Libyan National Army, the military wing of the National Front for the Salvation of Libya “with strong backing from the Central Intelligence Agency.” Not only did the CIA set up the LNA but it also created a training camp in Virginia where members of the group were taught counterinsurgency and destabilization tactics by the U.S. government.

The Nation magazine, in an April 3 article entitled, “The CIA, the Libyan rebellion, and the president,” concludes, “An event that Americans were led to believe was an autonomous rising on the model of Egypt turns out to have been deeply compromised from the start, and compromised by American meddling. All the external parties are in Libya for different reasons. Things could not have gotten this far without the CIA.”

The CIA and Africa

While the first clandestine operations of the CIA were directed against leftists in Europe after World War II, it soon focused on weakening oppressed nations, national liberation movements and socialist states. In 1953, the CIA engineered a coup against Mohammad Mossadegh, the elected leader of Iran, who had tried to nationalize the oil industry for the benefit of the people. He was replaced by the Shah, a U.S. puppet, who was finally overthrown in 1979.

The CIA was behind the 1954 overthrow of the progressive Arbenz government of Guatemala. In Cuba in 1961, CIA-trained exile forces landed at the Bay of Pigs in an attempt to topple the revolutionary government of Fidel Castro.

In 1966, the CIA was behind the destabilization and overthrow of the Pan-African and socialist-oriented government of President Kwame Nkrumah in Ghana. Nkrumah had supported national liberation movements throughout Africa and the world and formed close relations with the Soviet Union, China, Cuba and Yugoslavia.

In 1975, the CIA attempted to prevent the consolidation of national independence in the oil-rich Southern African nation of Angola. Agency operatives aided the racist South African Defense Forces and the counterrevolutionary UNITA and FNLA movements. Angola finally was liberated in 1994.

Importance of anti-imperialist perspective

An important role of the CIA has been to foster chaos in order to destabilize and overthrow governments in countries where U.S. imperialism wanted to intervene to protect its strategic interests. Thus it has a long track record of fomenting disinformation and psychological warfare.

The corporate media are always ready to build public support for U.S. imperialist aims and objectives, both domestically and internationally. As Washington sends the CIA, stealth bombers and “Tomahawk” missiles to engineer regime change in Libya, the media have framed this as an act of humanitarian relief designed to protect civilians. They have little to say when Libyans die and property is destroyed.

It is the duty of the anti-war and peace movements in the U.S. and throughout the Western industrialized countries to expose the role of the CIA and other intelligence services and uphold the right of oppressed, post-colonial and revolutionary governments to self-determination and sovereignty.

Any other approach strengthens the imperialists and their intelligence and military apparatuses. It only delays the struggle for international solidarity of the workers and oppressed inside the U.S. and around the world.


Articles copyright 1995-2011 Workers World. Verbatim copying and distribution of this entire article is permitted in any medium without royalty provided this notice is preserved. 

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=== 4 ===

http://english.ruvr.ru/2011/03/31/48262650.html

Voice of Russia - March 31, 2011

Will NATO apply the Balkan scenario to Libya?

Pyotr Iskenderov 

NATO is discussing the deployment of multinational forces in Libya, said Admiral James Stavridis, NATO’s supreme allied commander for Europe while testifying before the Senate Armed Services Committee. These forces will be under NATO command and will operate as they did in Bosnia-Herzegovina and Kosovo.
The statement by Admiral Stavridis shifts the possible development in Libya onto a new level. It seems that the U.S. and NATO do not consider rendering assistance to the opposition groups in ousting the Libyan leader Muammar Gaddafi as a priority. The Admiral believes that, clearly, there is a wide range of possibilities organizing a mission for stabilizing the situation in Libya under the aegis of NATO.
The West no longer considers the opposition groups as a means to oust Gaddafi for several reasons. Firstly, the opposition groups are very weak and divided. Secondly, according to Admiral Stavridis, al-Qaeda terrorists and pro-Iranian Hezbolla militants are among the rebels. In an interview with the NBC, President Barack Obama indirectly admitted this. He emphasized that there is no guarantee that there are no people who are unfriendly towards the U.S. and its interests among the rebels.
However, that the U.S. and NATO plan to carry out the operation in Libya in line with that of the Kosovo scenario has nothing to do with the state of affairs in the rebel camp. 
A deployment of multinational forces on a long-term basis under the aegis of NATO paves the way for Brussels to bypass the only restriction imposed by the UN Security Council on an operation in Libya. 
Resolution 1973 stipulates the use of all measures against the Gaddafi regime, except an occupation. The transition of the ongoing aerial operation to a multinational mission means, as shown by the Kosovo experience, a shift to an occupation under the peacekeeping slogans. 
Similar scenarios have been staged by the U.S., Britain and other Western countries also in Afghanistan and Iraq. "Their military presence remains despite of restrictions imposed by the U.N.," says Alexander Karasev, an expert at the Institute of Slavic Studies in an interview with our correspondent:
“The discussion of problems at the UN Security Council is aimed at finding a decision that will satisfy the international community and at the same time the interested parties. However, the latest developments show that the Western powers have lately learned to bypass formal restrictions imposed on them by the UN Charter and UN Security Council decisions. An allegedly humanitarian intervention by NATO against Yugoslavia in 1999 ended with the deployment of NATO forces in Kosovo and the setting up of the largest U.S. base Bondsteel Camp in the province. The U.S. and NATO may repeat this scenario in Libya,” Alexander Karasev said.
Speaking at the National Defence University, Barack Obama said that "we should not afraid to use our military swiftly and decisively, also unilaterally when there is a need to defend our people, our country, our allies and our innermost interests."
Commenting on the speech, an expert at the Centre for Strategic and International Studies in Washington, Stephen Flanagan, emphasized that the President’s speech had reminded him of the one that President Clinton gave during the Kosovo crisis explaining the reasons that led to the launch of the NATO operation in Yugoslavia. Both presidents emphasized the need for defending the American “innermost and other interests and values that were threatened”.
It’s unclear whether all this has anything to do with humanitarian aims and interests of the Libyan people as stated in by the authors of the UN resolution.

---

http://english.ruvr.ru/2011/03/20/47711252.html

Voice of Russia - March 20, 2011

Attack on Libya indiscriminate, disproportionate

Timur Blokhin

Russia, China and India have joined the African Union and the Arab League in denouncing the Western-led attack on Libya as disproportionate and indiscriminate. Indeed, reports speak about mounting civilian casualties in the offensive. At least 65 Libyan civilians are known dead and more than 150 wounded or injured.
One earlier victim of such attacks is Serbia, where NATO warplanes hit the Chinese Embassy in Belgrade and a passenger train during the bombing campaign of 1999.
Dr George Vukadinovic is a political analyst in Belgrade:
"Similarly to the 1999 NATO campaign over Kosovo, the offensive in Libya is fraught with unpredictable political and economic consequences for Europe and the Mediterranean. I believe the European Union showed poor judgment in joining the Libya attack. The Libya resolution of the UN Security Council was the result of haste and unilateral pressure on the members. In the vote on the resolution, the much-hyped European unanimity on major issues showed cracks, with Germany abstaining."
We have a similar opinion from another Serbian analyst, Dr Gostemir Popovic:
"The attack on Libya is a unilateral action led by the United States. Dubbing Gaddafi an aggressor is part of American efforts to justify this war. It has nothing to do with the truth, because it is the attacking force that is killing Libyan civilians and destroying their once prosperous country. This war blatantly flouts international agreements. It must be stopped, and its masterminds brought to international justice. If this is not done, the entire Mediterranean may degenerate into unfettered violence. In 1999, the United States was after separating Kosovo. This time, it appears to be after splitting Libya. The pattern is the same, as is the puppet master behind the scenes."
The anti-Gaddafi coalition claims to have already knocked out 20 of Libya’s 22 air defence installations. It says this improves security for Libyan civilians and creates conditions for bringing aid to them.
Gaddafi, meantime, stays defiant and pledges everything in his power to defeat what he calls a Western aggression against his country. Civilian volunteers on the Gaddafi side are welcome to take up arms and join a popular militia. Gaddafi hopes this force can grow to at least one million within the coming days.


=== 5 ===


A CIA commander for the Libyan rebels


28 March 2011


The Libyan National Council, the Benghazi-based group that speaks for the rebel forces fighting the Gaddafi regime, has appointed a long-time CIA collaborator to head its military operations. The selection of Khalifa Hifter, a former colonel in the Libyan army, was reported by McClatchy Newspapers Thursday and the new military chief was interviewed by a correspondent for ABC News on Sunday night.

Hifter’s arrival in Benghazi was first reported by Al Jazeera on March 14, followed by a flattering portrait in the virulently pro-war British tabloid theDaily Mail on March 19. The Daily Mail described Hifter as one of the “two military stars of the revolution” who “had recently returned from exile in America to lend the rebel ground forces some tactical coherence.” The newspaper did not refer to his CIA connections.

McClatchy Newspapers published a profile of Hifter on Sunday. Headlined “New Rebel Leader Spent Much of Past 20 years in Suburban Virginia,” the article notes that he was once a top commander for the Gaddafi regime, until “a disastrous military adventure in Chad in the late 1980s.”

Hifter then went over to the anti-Gaddafi opposition, eventually emigrating to the United States, where he lived until two weeks ago when he returned to Libya to take command in Benghazi.

The McClatchy profile concluded, “Since coming to the United States in the early 1990s, Hifter lived in suburban Virginia outside Washington, DC.” It cited a friend who “said he was unsure exactly what Hifter did to support himself, and that Hifter primarily focused on helping his large family.”

To those who can read between the lines, this profile is a thinly disguised indication of Hifter’s role as a CIA operative. How else does a high-ranking former Libyan military commander enter the United States in the early 1990s, only a few years after the Lockerbie bombing, and then settle near the US capital, except with the permission and active assistance of US intelligence agencies? Hifter actually lived in Vienna, Virginia, about five miles from CIA headquarters in Langley, for two decades.

The agency was very familiar with Hifter’s military and political work. AWashington Post report of March 26, 1996 describes an armed rebellion against Gaddafi in Libya and uses a variant spelling of his name. The article cites witnesses to the rebellion who report that “its leader is Col. Khalifa Haftar, of a contra-style group based in the United States called the Libyan National Army.”

The comparison is to the “contra” terrorist forces financed and armed by the US government in the 1980s against the Sandinista government in Nicaragua. The Iran-Contra scandal, which rocked the Reagan administration in 1986-87, involved the exposure of illegal US arms sales to Iran, with the proceeds used to finance the contras in defiance of a congressional ban. Congressional Democrats covered up the scandal and rejected calls to impeach Reagan for sponsoring the flagrantly illegal activities of a cabal of former intelligence operatives and White House aides.

A 2001 book, Manipulations africaines, published by Le Monde diplomatique, traces the CIA connection even further back, to 1987, reporting that Hifter, then a colonel in Gaddafi’s army, was captured fighting in Chad in a Libyan-backed rebellion against the US-backed government of Hissène Habré. He defected to the Libyan National Salvation Front (LNSF), the principal anti-Gaddafi group, which had the backing of the American CIA. He organized his own militia, which operated in Chad until Habré was overthrown by a French-supported rival, Idriss Déby, in 1990.

According to this book, “the Haftar force, created and financed by the CIA in Chad, vanished into thin air with the help of the CIA shortly after the government was overthrown by Idriss Déby.” The book also cites a Congressional Research Service report of December 19, 1996 that the US government was providing financial and military aid to the LNSF and that a number of LNSF members were relocated to the United States.

This information is available to anyone who conducts even a cursory Internet search, but it has not been reported by the corporate-controlled media in the United States, except in the dispatch from McClatchy, which avoids any reference to the CIA. None of the television networks, busily lauding the “freedom fighters” of eastern Libya, has bothered to report that these forces are now commanded by a longtime collaborator of US intelligence services.

Nor have the liberal and “left” enthusiasts of the US-European intervention in Libya taken note. They are too busy hailing the Obama administration for its multilateral and “consultative” approach to war, supposedly so different from the unilateral and “cowboy” approach of the Bush administration in Iraq. That the result is the same—death and destruction raining down on the population, the trampling of the sovereignty and independence of a former colonial country—means nothing to these apologists for imperialism.

The role of Hifter, aptly described 15 years ago as the leader of a “contra-style group,” demonstrates the real class forces at work in the Libyan tragedy. Whatever genuine popular opposition was expressed in the initial revolt against the corrupt Gaddafi dictatorship, the rebellion has been hijacked by imperialism.

The US and European intervention in Libya is aimed not at bringing “democracy” and “freedom,” but at installing in power stooges of the CIA who will rule just as brutally as Gaddafi, while allowing the imperialist powers to loot the country’s oil resources and use Libya as a base of operations against the popular revolts sweeping the Middle East and North Africa.


Patrick Martin


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Un comandante della CIA per i ribelli libici

APRILE 3, 2011 DI SITOAURORA LASCIA UN COMMENTO
Patrick Martin WSWS 28 marzo 2011

Il Consiglio nazionale libico, il gruppo di Bengasi che parla per conto delle forze ribelli che combattono il regime di Gheddafi, ha nominato un collaboratore di lunga data della CIA alla direzione delle operazioni militari. La scelta di Khalifa Hifter, un ex colonnello dell’esercito libico, è stata segnalata da McClatchy Newspapers Giovedi, e il nuovo capo militare è stato intervistato da un corrispondente di ABC News, nella notte di Domenica.
L’arrivo di Hifter a Bengasi è stato riportato da Al Jazeera il 14 marzo, seguito da un ritratto lusinghiero del tabloid britannico violentemente guerrafondaio Daily Mail del 19 marzo. Il Daily Mailha descritto Hifter come una delle “due stelle militari della rivoluzione“, che “era da poco tornato dal suo esilio negli USA per dare alle forze ribelli una certa coerenza tattica.” Il giornale non faceva riferimento ai suoi rapporti con la CIA.
Il quotidiano McClatchy ha pubblicato un profilo di Hifter, Domenica. Intitolato “Il nuovo leader dei ribelli ha trascorso gran parte degli ultimi 20 anni, nelle periferie della Virginia“, l’articolo osserva che una volta fu comandante superiore del regime di Gheddafi, fino “alla disastrosa avventura militare in Ciad, alla fine degli anni ’80.”
Hifter poi si avvicinò all’opposizione anti-Gheddafi, per emigrare infine negli Stati Uniti, dove ha vissuto fino a due settimane fa, quando è tornato in Libia per prendere il comando a Bengasi. Il profilo di McClatchy conclude: “Fin dal suo arrivo negli Stati Uniti, nei primi anni ’90, Hifter ha vissuto nella periferia di Washington, DC, in  Virginia.” Viene citato un amico che “si è detto non essere sicuro di quello che Hifter ha fatto esattamente per mantenere se stesso, e che Hifter ha avuto soprattutto l’obiettivo di aiutare la sua numerosa famiglia.
Per chi sa leggere tra le righe, questo profilo è una indicazione subdola del ruolo di Hifter come operativo della CIA. Come altro poteva, un alto ex comandante militare libico, entrare negli Stati Uniti nei primi anni ’90, pochi anni dopo l’attentato di Lockerbie, e poi stabilirsi nei pressi della capitale degli Stati Uniti, se non con il permesso e l’assistenza attiva delle agenzie di intelligence degli Stati Uniti? Hifter effettivamente ha vissuto per due decenni a Vienna, in Virginia, a circa cinque miglia dal quartier generale della CIA di Langley.
L’agenzia era molto familiare con il lavoro politico e militare di Hifter. Un articolo del Washington Post del 26 Marzo 1996 descrive una ribellione armata contro Gheddafi in Libia e utilizza una variante ortografia del suo nome. L’articolo cita testimoni della ribellione che segnalano che “il suo capo è il colonnello Khalifa Haftar, di un gruppo tipo contra, basato negli Stati Uniti è chiamato Libyan National Army“.
Il confronto è con le forze terroristiche “contra” finanziate e armate dal governo USA negli anni ’80, contro il governo sandinista in Nicaragua. Lo scandalo Iran-Contra, che ha scosso l’amministrazione Reagan nel 1986-87, riguardava la scoperta della vendita illegale di armi degli Stati Uniti all’Iran, e del loro ricavato utilizzato per finanziare i Contras, sfidando il divieto del Congresso. Democratici del Congresso coprirono lo scandalo e respinsero le richieste per mettere sotto accusa Reagan, per la sua sponsorizzazione delle attività palesemente illegali di una cricca di ex agenti dell’intelligence e di consiglieri della Casa Bianca.
In un libro del 2001, Manipulations africaines, pubblicato da Le Monde diplomatique, porta la connessione con la CIA ancora più indietro, al 1987, riferendo che Hifter, allora un colonnello esercito di Gheddafi, fu catturato in combattimento in Ciad durante la ribellione sostenuta dai libico contro il governo sostenuto dagli USA di Hissène Habré. Ha disertato aderendo al Fronte di Salvezza Nazionale libico (LNSF), il principale gruppo anti-Gheddafi che aveva l’appoggio della CIA statunitense. Ne organizzò la milizia, che operava in Ciad fino a quando Habré fu rovesciato dal rivale, supportato dai francesi, Idriss Déby, nel 1990.
Secondo questo libro, “la forza di Haftar, creata e finanziata dalla CIA, in Ciad, sparì nel nulla con l’aiuto della CIA, poco dopo che il governo fosse stato rovesciato da Idriss Déby.” Il libro cita anche un rapporto del Congressional Research Service del 19 dicembre 1996, secondo cui il governo degli Stati Uniti forniva aiuti finanziari e militari al LNSF e che un numero di membri del LNSF vennero trasferiti negli Stati Uniti.
Queste informazioni sono disponibili a chiunque conduca anche una sommaria ricerca su Internet, ma non è stata riportata dai mass media controllati dalle aziende negli Stati Uniti, fatta eccezione della notizia del McClatchy, che evita ogni riferimento alla CIA. Nessuna delle reti televisive, intenta a lodare i “combattenti per la libertà” della Libia orientale, si è preoccupato di segnalare che queste forze sono ora comandate da un collaboratore di lunga data dei servizi d’intelligence degli Stati Uniti.
Né i liberali né la “sinistra” entusiasta dell’intervento USA-Europa in Libia l’hanno notato. Essi sono troppo occupati nel salutare l’amministrazione Obama per il suo  approccio alla guerra multilaterale e “consultivo“, apparentemente così diversa da quello unilaterale e da “cowboy” di Bush in Iraq. Il risultato è lo stesso: la morte e la distruzione che piovono sulla popolazione, e la sovranità e l’indipendenza calpestate di un paese ex-coloniale non significano nulla per questi apologeti dell’imperialismo.
Il ruolo di Hifter, giustamente descritto 15 anni fa come leader di un “gruppo tipo contra“, dimostra le vere forze di classe al lavoro nella tragedia libica. Eventualmente ci sia stata una vera opposizione popolare espressa nella rivolta iniziale contro la dittatura corrotta di Gheddafi, la ribellione è stata sequestrata dall’imperialismo.
L’intervento degli Stati Uniti ed Europeo in Libia, è rivolto non a portare la “democrazia” e “libertà“, ma all’installazione al potere di tirapiedi della CIA che governano brutalmente come Gheddafi, consentendo anche alle potenze imperialiste di saccheggiare le risorse petrolifere del paese e d’utilizzare la Libia come base delle operazioni contro le rivolte popolari che spazzano il Medio Oriente e Nord Africa.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – Aurora03.da.ru

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24/03/2011

http://it.peacereporter.net/articolo/27574/Il+possibile+successore+di+Gheddafi


Dopo aver incontrato Sarkozy e la Clinton, Mahmoud Jibril è stato nominato ieri capo del governo provvisorio dei ribelli libici



Il Consiglio nazionale dei ribelli libici ha nominato ieri un governo di transizione guidato daMahmoud Jibril, il distinto signore ricevuto con tutti gli onori da Sarkozy all'Eliseo lo scorso 10 marzo e incontratosi pochi giorni dopo con la Clinton.
Questo anonimo tecnocrate sessantenne, finora sconosciuto alle cronache, è stato per anni l'uomo chiave di Washington e Londra all'interno del regime del Colonnello Gheddafi. In qualità di direttore dell'Ufficio nazionale per lo sviluppo economico (Nedb) del governo libico, Jibril lavorava per facilitare la penetrazione economica e politica angloamericana in Libia promuovendo un radicale processo di privatizzazione e liberalizzazionedell'economia nazionale.
Dopo aver studiato e insegnato per anni 'pianif

(Message over 64 KB, truncated)


(Una originale iniziativa è stata annunciata per protestare contro il vertice della NATO che è stato provocatoriamente convocato a Belgrado nei prossimi giorni. All'inizio della conferenza e per tutti i giorni successivi, alle ore 19:30, la gente è invitata ad affacciarsi alle finestre e a far risuonare sirene simili all'antiaerea, per creare un effetto analogo a quello drammatico vissuto dalla gente comune nella primavera del 1999. La locandina dice: "i vostri proiettili andavano addosso ai nostri bambini".
Per altre informazioni sulla opposizione alla NATO in Serbia:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6620 )


Sirenama na prozora protiv NATO!

1) Сиренама са прозора и на точковима против НАТО зликоваца!

2) S.K.O.J.: ANTI NATO KAMPANJA. Ne u naše ime! Ne u našoj zemlji!


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(Segnalato via Facebook / a cura di Ivana e Andrea


Сиренама са прозора и на точковима против НАТО зликоваца!

lunedì 13 giugno · 11.00 - 20.00

Luogo / Mesto: Прозор и Ушће

Двери Српске попуњен профил:
Дочекајмо НАТО конференцију у Србији сиренама за ваздушну опасност! НАТО марш напоље из Србије! 

Колико пута нас је сирена за ваздушну опасност за време бомбардовања Србије (СРЈ) подсетила да нисмо безбедни? Колико пута смо се због ње осетили нелагодно? Време је да ту нелагодност осете главешине атлантског савеза и наши „мудри“ властодршци за време НАТО конференције у Београду, од 13 – 15. јуна.

Преузмите звук шизеле са нашег сајта и пуштајте га свако вече за време трајања конференције, тачно у 19.30, када почиње једна НАТО информативна емисија која треба да нас убеди да је добро то што нам раде. 

Изнесите звучнике на прозоре и терасе и појачајте до максимума! Ширите даље ову вест и позовите пријатеље, комшије и познанике! Нека наш бунт и наш глас другима звучи као опасност! 

Звук сирене којом ћете „зачинити“ конференцију у Београду можете преузети овде http://www.dverisrpske.com/mp3/sizela.mp3

О протестној вожњи која креће од Ушћа у понедељак у 11х:http://www.dverisrpske.com/sr-CS/pokret-za-zivot-srbija/novosti/arhiva-najava/protest-na-tockovima-sirenom-protiv-natoa.php

http://www.dverisrpske.com/sr-CS/teme/serbia/ne-u-nato/probudimo-srbiju-podsetimo-one-koji-su-zaboravili.php

Овим позивом редакција се придружује и подржава кампању сајта antinato.in.rs


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POČETAK ANTI NATO KAMPANJE


Aktivisti SKOJ-a su otpočeli kampanju protiv održavanja NATO konferencije u Beogradu u periodu od 13.-15. juna 2011 podrškom akciji organizacije “Pokret za slobodu“ koja je sprovedena u Beogradu, 20. maja, ispred Ministarstva odbrane Republike Srbije uz učešće još nekoliko levičarskih organizacija. U okviru ove akcije bilo je planirano da se preda protestno pismo/zahtev ministru Šutanovcu sa ciljem da obrazloži građanima Srbije motive i druge pojedinosti vezane za organizovanje NATO konferencije u Beogradu. Više nego ciničan i banalan je bio razlog za ne prihvtanje protestnog pisma u Ministarstvu odbrane. Naime, objašnjeno je da u ministarstvu ne postoji pisarnica te da zbog toga nije moguće prihvatiti to pismo i uručiti ga ministru. To jasno pokazuje ne smao antinarodnu orijentisanost vlasti u Srbiji, poglavito Ministarstva odbrane i njenog ministra (koji je ukupnu vojsku Srbije sveo na manje od 15.000, što je nedevoljno za odbranu jednog okruga u Srbiji, a kamoli čitave zemlje), već i krajnju nedemokratičnost koja krasi vlast u Srbiji koja ne samo da ignoriše stavove ljudi angažovanih u akciji protiv NATO konferencije, već i skoro 85% javnog mnjenja Srbije koje ima izrazito negativno mišljenje o NATO-u. 
Podrška ovoj akciji od strane skojevaca dosledno predstavlja stav organizacije o nužnosti kreiranja što šireg mogućeg fronta u borbi protiv sramnog i licemernog pokušaja vlasti u Srbiji da uvuku NATO u našu državu i našu državu u NATO. NATO ubice nikada neće biti dobrodošle u Srbiji, a zahtev za otkazivanjem najavljene NATO konferencije predstavlja odbranu minimuma ljudskog, narodnog i nacionalnog dostojanstva građana Srbije. Zato će SKOJ aktivno nastaviti borbu sa ciljem otkazivanja NATO konferencije u Beogradu pozivajući najšire narodne mase da ustanu protiv ove bezočne imperijalističke sprdnje sa žrtvama NATO-a u Srbiji (sve i da nije bilo krvave agresije na SR Jugoslaviju 1999. naša dužnost bi bila da uradimo sve da do NATO konferencije u Srbiji ne dođe), kao i solidarnost sa svim progresivnim ljudima u svetu koji žele da žive u svetu mira, solidarnosti i progresa – svetu bez NATO-a!

Ne u naše ime! Ne u našoj zemlji!


Zbog čega Srbija ne treba da bude član NATO i zbog čega je odluka o održavanju NATO samita u Beogradu sramna:

NATO je agresivna imperijalistička organizacija koja zarad interesa krupnog kapitala gazi osnovna ljudska prava i prava naroda na samoopredeljenje. NATO zarad interesa krupnog kapitala gazi suverenitet i nezavisnost mnogih država i naroda u svetu.
NATO je odgovoran za razbijanje SFRJ u kojoj su u miru i bratstvu živeli južnoslovenski narodi i nacionalne manjine. Razbijanje Jugoslavije 
NATO je sproveo izazvavši i sponzorišući zajedno sa drugim imperijalističkim organizacijama i državama bratoubilačke ratove koji su odneli brojne živote i izazvale uništenje materijalnih dobara.
NATO je izvršio zločinačku agresiju na SRJ koja je odnela brojne živote i uništenje materijalnih dobara. Epilog NATO agresije pored brojnih civilnih žrtava je i okupacija Kosova. Na Kosovu je izgrađena najveća NATO baza na Balkanu koja za cilj ima dalje korake u porobljavanju balkanskih naroda i svih građana koji žive na Kosovu. 
Nakon NATO agresije na SRJ sproveden je neoliberalni ekonomski koncept u Srbiji koji je nazvan tranzicija a u stvari je bio legalna pljačka imovine koju je stvarala radnička klasa decenijama, a u interesu multinacionalnog kapitala za čije interese se NATO i bori. Taj retrogradni proces je doveo do propadanja srpske ekonomije, prelazak privrednih preduzeća u ruke stranih i domaćih tajkuna. Stotine hiljada ljudi je ostalo bez posla a radni ljudi jedva sastavljaju kraj sa krajem zbog ekonomske sistemske krize koju su izazvale finansijske vrhuške najmoćnijih zemalja članica NATO.
NATO je zločinačka imperijalistička vojna ogranizacija koja je izvršila brojne nepravedne invazije na mnoge zemlje sveta. Poslednji u nizu tih ratova su oni u Avganistanu, Iraku i sada u Libiji.
S obzirom na sve nabrojano a i na mnoge dobro poznate stvari o zločinačkim delima NATO imperijalista sasvim je jasno da Srbiji nije mesto u toj vojnoj alijansi. Ako bi se to ipak desilo, to bi bilo pogubno i za zemlju i za narod. Srbija i njeni vojnici bi postali deo imperijalističke soldateske sa zadatkom da okupiraju slobodoljubive zemlje i narode. Tako nešto nikada nije bilo svojsveno narodu Srbije i ne treba da bude ni sada. Većina naroda u Srbiji je protiv ulaska u NATO i buržoaski političari moraju da poštuju volju naroda. Ako bi Srbija postala deo NATO srpski vojnici širom sveta bi ginuli za interese multinacionalnog kapitala, istog onog koji je uništio SFRJ, izvršio agresiju na SRJ i okupirao Kosovo. Takođe, Srbija bi postala omražena među slobodoljubivim zemljama i narodima u svetu a našla bi se na udaru raznih terorističkih organizacija koje se iz sopstvenih razloga sukobljavaju sa NATO. Ništa od toga građanima ne treba, pa im tako ne treba ni samit NATO u Beogradu. Zadatak svih progresivnih i antiimperijalističkih snaga je da se ujedine i da jasno poruče i Vladi Srbije i NATO, Srbiji ne treba NATO- NATO napolje iz Srbije.

Ne NATO samitu u Beogradu!
Ne ulasku Srbije u NATO!
NATO napolje iz Srbije! 




ANTI NATO KAMPANJA


Protest protiv NATO konferencije u Beogradu 13-15. juna

Pozivamo vas da nam se pridružite u protestu protiv namere vlasti da Srbiju priključi NATO alijansi - namere kojoj se protivi ogromna većina stanovništva. Ministar odbrane Dragan Šutanovac najavio je da će se 13-15. juna održati NATO konferencija u Beogradu koja će za cilj imati razgovor o budućim aktivnostima NATO-a. Pozivamo sve slobodarske organizacije, iz zemlje i inostranstva, da udruženim snagama pružimo otpor održavanju ove konferencije. Udružimo se u borbi protiv prisiljavanja Srbije da se priključi vojnom savezu koji čini zločine širom sveta zarad imperijalističkih interesa.


Pre samo dvanaest godina naši gradovi bili su bombardovani, a civilne žrtve zavedene kao kolateralna šteta. Uprkos mogućnosti da se konflikt na Kosovu razreši na miran način, od Srbije je tokom pregovora u Rambujeu zahtevano da prihvati prisustvo stranih vojnih trupa na svojoj teritoriji - što je značilo pristati na vojnu okupaciju. Postavljajući uslove na koje ne bi pristala nijedna slobodna zemlja, predstavnici NATO-a sabotirali su mogućnost mirnog razrešenja konflikta između Srba i Albanaca – i tako sebi dali zeleno svetlo za početak bombardovanja. U tom konfliktu nijedna od sukobljenih strana nije bila nevina, ali nijedna nije zaslužila ni tako brutalnu odmazdu usmerenu najpre prema civilnom stanovništvu. Nedavno otkriće da je OVK bila umešana u trgovinu ljudskim organima razbilo je dugogodišnji mit o postojanju nevine strane u kosovskom sukobu. Kada im je to odgovaralo, Sjedinjene Američke Države skinule su OVK sa sopstvene liste terorističkih organizacija i proglasile ih borcima za slobodu, iako se radilo o jednoj nacionalističkoj i nehumanoj organizaciji. 

U intervenciji NATO protiv bivše SR Jugoslavije poginulo je oko 3.500 ljudi, dok je oko 10.000 ranjeno i povređeno. Bez odluke Saveta bezbednosti Ujedinjenih Nacija, vazdušni napadi trajali su skoro tri meseca. Uništavani su ne samo vojni ciljevi, već i energetska postrojenja, mostovi, vozovi, itd. NATO alijansa koristila je i zabranjeno naoružanje – 36.000 ''kasetnih bombi'' i 15 tona municije sa radioaktivnim primesama, kojom je bombardovano ukupno 112 lokacija. Materijalna šteta se procenjuje između 30 i 100 milijardi dolara. Bombardovane su izbegličke kolone, spomenici kulture, bolnice, rafinerije, zgrada nacionalne televizije, itd. 

Pretpostavljamo da je jedan od ciljeva bombardovanja Jugoslavije bio dokazati da se primenom vojnih sredstava mogu ostvariti politički ciljevi. Pustošenjem Jugoslavije inaugurisan je koncept borbe za ljudska prava koji ne preza ni od uspostavljanja sve većeg broja kriznih žarišta ni od upotrebe oružja od kojeg će stradati najpre civili. Sledećih godina smo na Bliskom Istoku, u Avganistanu, kao i nedavno u Libiji, videli tragičan ishod takvog uverenja – bezbroj nedužnih ljudi stradalo je kako bi Sjedinjene Američke Države nekom nametnule ''demokratiju''. I samo bombardovanje Srbije moglo bi se smatrati uspehom u borbi za ljudska prava; pod uslovom da se kao legitimno prihvati proterivanje stotina hiljada ne-Albanaca po dolasku NATO trupa na Kosovo. I danas se osobe izbegle sa Kosova, prema Sporazumu o readmisiji, iz inostranstva proteruju u Srbiju, jer im na Kosovu niko ne garantuje bezbednost. Na koji način su onda postignuti humani ciljevi proklamovani pre bombardovanja!?


Verujemo da je NATO izvor nestabilnosti i konflikta, a ne stabilnosti i razumevanja među narodima. Za ovu destruktivnu alijansu čitav svet je samo pozornica za sprovođenje vojnih akcija - dovoljno je neprijatelja optužiti za podršku ''međunarodnom terorizmu'', ili nameru pružanja takve podrške, i snažna medijska kampanja već će se postarati da opravda svaku intervenciju. Smatramo da je NATO instrument represije bogatih zemalja nad siromašnima - instrument koji siromašne treba da drži u pokornosti zarad eksploatacije prirodnih resursa i jeftine radne snage. Cilj NATO-a je proizvodnja kontinuiranog rata, ostvarivanje dominacije nad značajnim geostrateškim tačkama, i uništenje lokalnih pokreta otpora – što je sve praćeno neprestanom propagandnom koja za cilj ima opravdanje njegovog postojanja. NATO je činilac povećavanja nejednakosti pod parolom borbe za demokratiju i ljudska prava. On pospešuje implementaciju neoliberalnog ekonomskog poretka koji, između ostalog, podrazumeva degradaciju stečenih radničkih prava, sve veće klasno raslojavanje, dominaciju korporativnih interesa, itd. Uloga NATO-a je i u održavanju društveno-ekonomskih uslova u sadašnjem stanju koje nije nimalo povoljno za obične ljude osiromašene u procesu deindustrijalizacije i pada životnog standarda.
  
Vodeće članice NATO-a svojim delovanjem opstruišu Ujedinjene Nacije - jedinu međunarodnu organizaciju koja bi mogla imati legitiman mehanizam međunarodnog delovanja. Vodeća članica NATO-a – Sjedinjene Američke Države – poznata je po dugoj tradiciji zloupotrebe ljudskih prava kao sredstva za ideološko i političko ratovanje. NATO se, uostalom, angažuje u rešavanju konflikata jedino ukoliko u tome nalazi neki interes. Nasilje politički podobnih diktatora po pravilu ne nailazi ni na kakav otpor. Poznata je Ruzveltova opaska na račun nikaragvanskog diktatora Somoze: ''On je možda kučkin sin, ali je naš kučkin sin''. Progon Kurda u Turskoj i okupacija dela Kipra, kao i podrška vojnim diktaturama u Južnoj Americi od 50-ih do 80-ih, pokazuje da je NATO neprincipijelna organizacija koja ne drži do ljudskih prava već do interesa svojih najmoćnijih članica.
  
Oportunistička opravdanja za pristupanje NATO paktu neadekvatna su – i uglavnom su deo propagande interesnih grupa i plaćenih lobista:
  
- Države članice NATO-a možda imaju demokratske principe za kućnu upotrebu, ali u odnosu prema drugim zemljama njihove vojne akcije su nedemokratske: one potkopavaju legitimne međunarodne institucije i sprovode se samo zarad osvajanja sirovina, tržišta, resursa, energenata, i radne snage, kao i zarad kontrole stabilnosti ovih faktora. Međutim, i argument o demokratičnosti članica NATO-a otpada kad se prisetimo da se među osnivačima NATO-a našao Portugal, pod tadašnjim diktatorskim režimom. Turska, još jedna članica NATO-a, daleko je čak i od privida demokratije kakav imaju zapadne države.
  
- Argument o potrebi pristupanja NATO-u da bi Srbija bila primljena u EU, neubedljiv je koliko i argument da treba dozvoliti uzgajenje Genetski modifikovane hrane kako bismo bili primljeni u Svetsku trgovinsku organizaciju. Radi se o propagandnom triku NATO lobista koji nije potkrepljen nikakvim činjenicama. Finska, Švedska, Austrija, Malta, Kipar i Irska članice su EU a nisu članice NATO-a, dok je Norveška članica NATO-a a odbija da pristupi EU.
  
- NATO je potpuno neefikasan u spasavanju ugroženih civila. U Libiji je u više navrata NATO bombardovao sopstvene saveznike – pobunjeničke snage (verovatno kako bi uništio potencijalni otpor koji bi se javio po svrgavanju Gadafija). U Jugoslaviji je početkom NATO bombardovanja konflikt samo još više eskalirao – tokom bombardovanja albanski civili bili su proterani na makedonsku granicu a nakon bombardovanja ne-albanski civili su proterani sa Kosova uprkos bezbednosnim snagama NATO-a stacioniranim na kopnu.
  
- Argument da pristupanje NATO-u pojeftinjuje odbrambene potrebe jedne države proizilazi iz računice koja uzima u obzir najkatastrofalniji scenario. Umesto da se razgovara o demilitarizaciji, međusobno kontrolisanom razoružavanju i smirivanju konflikta, NATO potpiruje paranoične vizije budućnosti u kojima se podrazumeva da će preživeti samo oni koji se nađu pod njegovim okriljem.
  
- Odlučivanje unutar NATO-a nije nimalo demokratsko već je uslovljeno snagom pojedinih članica. One zemlje koje ekonomski zavise od drugih, mogu samo da podrže predloge vodećih članica – i to, po mogućstvu, dobrovoljno. Prilikom odlučivanja vrše se u pozadini jaki pritisci na članice kako bi se usvojila predložena agenda. Članstvo u savezu, dakle, podrazumeva ograničenu a ne punu ravnopravnost. Postoje brojni mehanizmi da se zaobiđe formalni princip odlučivanja konsenzusom a sve je veće nastojanje da se ograniči pravo veta, kako nove članice ne bi mogle da otežavaju donošenje odluka. O tome najbolje svedoči izjava Nikolasa Brnsa (predstavnika SAD-a u NATO-u): ''O velikim političkim pitanjima se sasvim sigurno neće odlučivati u Savetu NATO-a''. Osim toga, izjava Medlin Olbrajt: ''Delovaćemo multilateralno (zajednički), ako je to moguće i unilateralno (jednostrano) ako je to neophodno'', najbolje oslikava stav da će mišljenje drugih članica biti ignorisano ukoliko se ne poklapa sa stavom SAD-a.
  
-Tokom devedesetih vojna proizvodnja članica NATO sačinjavala je 80% ukupne svetske vojne proizvodnje – tolika industrija zahteva i tržište na kojem bi se roba plasirala i upotrebljavala – pa u tome treba tražiti razlog opstanka NATO i nakon okončanja Hladnog rata. NATO ustvari čini sve kako bi produbio i produžio krize naizgled podržavajući ideju smirivanja sukoba i zaštitu civila. Drugi razlog je potreba SAD-a da očuva dominaciju u evropskim i svetskim odnosima – odnosno odbrana ekonomsko-političke nadmoći zapadnih zemalja. 
  
-Članice NATO su i nuklearne sile što povećava mogućnost strateškog raspoređivanja nuklearnog oružja i na teritoriju novih članica. Pored povećanja rizika od nuklearnog rata, povećava se i mogućnost da se nuklearna odmazda sprovede nad potčinjenim članicama NATO-a. Nova politika NATO propisuje čak i delovanje nuklearnim oružjem u preventivne svrhe – za te svrhe u planu je bio rad na razvoju manjih nukelarnih bombi namenjenih za preciznu upotrebu na ograničenom prostoru. 
  
U susednoj Hrvatskoj ispitivanja javnog mnjena pokazala su da 70% stanovništva smatra da se o ulasku u NATO treba odlučivati putem referenduma. Istovremeno, 124.000 stanovnika potpisalo je zahtev za raspisivanjem referenduma, iako su organizatori inicijative bili suočeni s potpunim medijskim ćutanjem, kao i sa nedostatkom novca i resursa. Uprkos tome, Hrvatska je postala članica NATO-a bez ikakve ozbiljne javne rasprave. U Crnoj Gori, takođe, vlast je ta koja trenutno ulaže ogromna sredstva da bi promovisala priključivanje NATO alijansi. Njihova delatnost je u skladu sa preporukama iz NATO-a da je raspisivanje referenduma nepotrebno, kao i zahtevom da potencijalne članice poprave stav javnosti prema savezu. Janezu Drnovšeku, premijeru a zatim predsedniku Slovenije, predstavnici SAD-a poručili su da NATO želi poslušne članice koje ne stvaraju političke probleme (Delo, 2002). U Srbiji ministar Šutanovac smatra da o tako važnom pitanju ne treba davati narodu da odlučuje, jer, po onome što je izjavio, narod ne razume reformiste kao što su on i svojevremeno Vuk Karadžić.
  
Delegati NATO članica će 13-15. juna u Beogradu odlučivati o budućim aktivnostima NATO alijanse. Smatramo da je jedina budućnost koju NATO treba da ima - momentalna obustava svih aktivnosti, a zatim rasformiranje te nelegitimne i genocidne alijanse.


  
Ne u naše ime! Ne u našoj zemlji!