Informazione
Bolivia: Assassination Team Included Croatian Paramilitaries
Posted by: "rwrozoff"
Sat Apr 18, 2009 7:03 am (PDT)
http://www.b92. net/eng/news/ world-article. php?yyyy= 2009&mm=04& dd=18&nav_ id=58599
BBC News
April 18, 2009
Bolivia gang "fought in Balkans"
LA PAZ - Two members of a mercenary gang said to have plotted to kill Bolivian President Evo Morales were veterans of the Balkan wars of the 1990s, reports say.
Three died and two were arrested in the eastern city of Santa Cruz after police fought a gun battle with the group.
Bolivian police officials said two of the five fought for Croatian independence. The three others are said to be Irish, Romanian and Hungarian.
They were said to be planning attacks on government and opposition figures.
Chief among the suspected targets was Bolivian President Evo Morales, but Vice-President Alvaro Garcia Linera and Santa Cruz Governor Ruben Costas, a bitter opponent of Morales, were also targeted, police said.
There has been no immediate explanation of why the alleged plotters would target government and opposition targets alike.
Costas has questioned the government's information, accusing it of "mounting a show" aimed at discrediting the opposition.
Revealing details of the alleged mercenary gang, police chief Victor Hugo Escobar said prosecutors were now seeking "clear and concrete information" .
The group, suspected by authorities of being behind a dynamite attack on the home of a Catholic cardinal earlier in the week, was tracked down on Thursday to a hotel in Santa Cruz, some 900km (620 miles) east of the capital, La Paz.
The resulting shootout killed Magyarosi Arpak, a Romanian, and Irishman Michael Martin Dwyer, officials say.
The police chief named Eduardo Rosa Flores, 49, a Bolivian-Hungarian man also killed in the gun battle, as the ringleader of the group.
He fought in the war for Croatian independence in the 1990s where he commanded a paramilitary organization, reports said.
The two men arrested were named as Mario Francisco Tasik Astorga, 58, another veteran of the Croatian war, and Elot Toazo, a Hungarian computer expert.
Morales revealed the existence of the alleged plot as he travelled to Venezuela and Trinidad for regional summits.
He said intelligence reports had warned of an assassination plot by a group comprising foreign attackers intending to "riddle us with bullets".
Early reports from Bolivia's leftist government suggested the plotters were linked in some way to opposition movements in the country's lowlands supported by Costas.
But news that Costas was himself thought to be a target brought a clarification from government officials.
"The terrorist group has a strategy... not only against the president or vice-president, but other authorities as well," Deputy Interior Minister Marcos Farfan told Bolivian radio.
Giovedì, il giorno dopo un attacco dinamitardo alla casa del cardinale Julio Terrazas, primate cattolico, le forze speciali boliviana hanno fatto irruzione in un hotel nel centro di Santa Cruz uccidendo tre presunti terroristi - il boliviano-ungherese Eduardo Rosza Flores, l'irlandese Dwyer Michael Martin e l'ungherese Magyarosi Arpas - e arrestandone altri due - il boliviano-croato Mario Radic e l'ungherese Elod Toazo.
La situazione si è ulteriormente ingarbugliata dopo una serie di perquisizioni che hanno portato allo scoprimento di un arsenale di armi e di esplosivi nel padiglione che ospita la Cooperativa di telecomunicazioni Cotas alla Fiera-esposizione cruceña.
Il vicepresidente Alvaro Garcia Linera ha denunciato che si trattava di una cospirazione dell'ultra-destra, accusando quel gruppo «di mercenari stranieri e boliviani» di essere il responsabile anche per l'attaco dinamitardo contro la casa del cardinale e di star organizzando attentati non solo contro il presidente Morales ma anche contro il governatore Costas, il personaggio più in vista dell'opposizione. Fonti investigative hanno segnalato anche di avere incontrato prove che il gruppo di recente si era recato nella località di Alto Parapatí, dove il presidente era andato per ripartire terre fra i contadini, con lo scopo di «studiare il sistema di sicurezza» di Morales. I media sotto controllo statale hanno dato molto spazio ai vincoli fra l'ex-leader del Comitato civico di Santa Cruz, Branko Markovich, di origini croate, e la destra radicale di Croazia.
«Cercano una scusa per decapitare l'opposizione», ha ribatto il governatore Costas segnalando la non casualità fra questi fatti e il viaggio di Morales in Venezuela al vertice dell'Alba (l'Alternativa bolivariana per le Americhe) e a Trinidad al summit delle Americhe, «dove certo dovremo ascoltare la litania sul golpe civile-militare-dipartimentale per rovesciare il presidente».
Però è la romanzesca figura del capo apparente del gruppo, il boliviano-ungherese Eduardo Rosza Flores, quella che aggiunge una nuova dose di dubbi. Nato 49 anni fa a Santa Cruz, suo padre fu un liberopensatore comunista ungherese che formò tutta una generazione di artisti plastici cruceños e sua madre una fervente cattolica boliviana. Da questa miscela uscì un personaggio con una vita tanto estrema quanto contraddittoria: dopo l'esilio di suo padre passò la sua adolescenza nel Cile di un Allende alle ultime battute; si formò militarmente in Ungheria e all'accademia Dzerzhinski di Mosca; ogni giorno più anticomunista studiò linguistica e letteratura all'università di Budapest. Duante la guerra dei Balcani, negli anni '90, lavorò come corrispondente del giornale di Barcellona La Vanguardia e dell'agenzia londinese Bbc. Però il richiamo delle armi fu più forte di quello della penna e in poco tempo divenne comandante della brigata internazionale di volontari stranieri che si battevano per l'indipendenza della Croazia. La sua vita fu portata sullo schermo in Ungheria in un film intitolato «Chico» in cui lui interpretava se stesso e dove si ricorda la sua «amicizia» con il famoso terrorista Carlos, lo sciacallo.
Le sue posizioni religiose non risultano meno sconcertanti: di origine ebrea, si convertì al cattolicesimo dell'Opus Dei per passare infine, nel '95 a Sarajevo, all'Islam. Poi come poeta poliglotta produsse scritti sulla mistica sufi.
«Rosza era un buon combattente ma è stato sempre un enigma», è stato il commento del deputato croato Branimir Glavas. Zoltan Brady, caporedattore della rivista letteraria ungherese Kapu in cui lavorò Rosza, ha dichiarato al giornale The Budapes Times che nel 2008 Chico viaggiò in Bolivia con l'obiettivo di lottare «contro il governo comunista» e per l'indipendenza di Santa Cruz. In effetti il suo blog è pieno di links a siti independentisti radicali.
Ora, in un'atmosfera molto confusa, l'opposizione ha cominciato a parlare di «esecuzione» dei presunti terroristi anziché dello scontro a fuoco raccontato dalla polizia. Investigazioni ufficiose di giornalisti crucegni rivelano che Rosza sarebbe stato contrattato dagli ultrà di Santa Cruz per addestrare gruppi irregolari e circolano anche voci su uno scontro in atto fra il governatore Costas - considerato troppo «moderato» - e possibili candidati radicali alla sua successione, come Marinkovich. Tuttavia le acrobazie ideologico-religiose di Rosza fanno saltare qualsiasi filo logico come del resto le continue denunce di attentati contro di lui da parte di Evo hanno inevitabilmente indebolito la versione ufficiale dei fatti. Chissà che i due sopravissuti arrestati possano far luce sull'intrigo.
"Nel ’94, trascorsi un paio di giorni con lui - racconta sul Quotidiano Nazionale il giornalista italiano Andrea Cangini - e dopo l’uscita dell’intervista, fummo abbordati da un fotoreporter. Ci mise in guardia. Considerava Flores responsabile dell’assassinio di due giornalisti che indagavano su un traffico d’armi".
Il coinvolgimento di mercenari europei, già attivi nelle milizie di destra all’interno della guerre che hanno dilaniato la Jugoslavia negli anni Novanta, rivelano all’opinione pubblica internazionale l’esistenza di una rete terrorista neofascista ancora attiva e che trova nelle forze reazionarie ancora dominanti in alcune regioni boliviane, un inquietante centro di complicità. Lo scenario disegnato dagli attentati contro il Presidente e il Vicepresidente della Bolivia e contro il cardinale di Santa Cruz appare estremamente grave e preoccupante non solo per la Bolivia ma per tutte le forze democratiche e progressiste dell’America Latina e del mondo.
I democratici e i progressisti italiani non possono rimanere indifferenti di fronte alla gravità dei fatti accaduti in Bolivia. Non solo per la simpatia e la solidarietà verso il primo presidente indigeno nella storia recente dell’America Latina e della Bolivia o per il processo democratico e popolare che la nuova Costituzione boliviana sta realizzando. Quanto accaduto in Bolivia concretizza agli occhi dell’opinione pubblica l’esistenza ancora attiva di quella rete terroristica neofascista che ha insanguinato con attentati e stragi anche la storia recente dell’Italia e che ha trovato storicamente rifugio e complicità proprio negli ambienti della destra boliviana che oggi si oppone violentemente al cambiamento democratico in corso in Bolivia. Non è irrilevante ricordare che il fascista italiano Stefano Delle Chiaie collaborò insieme al nazista tedesco Klaus Barbie nel golpe militare del 1980 in Bolivia e assunse incarichi di consigliere nel regime emerso dal golpe o che - molto più recentemente - un altro fascista italiano rifugiatosi in Bolivia, Marco Marino Diodato, è coinvolto nella strage degli indios sostenitori di Evo Morales avvenuto a Pando nel settembre 2008 e fondatore nel '94 dell'organizzazione paramilitare FRIE, la Fuerza de Reacion Immediata del Ejercito
Esprimendo la nostra piena solidarietà al Presidente Evo Morales, al suo governo e al popolo boliviano intendiamo esprimere anche la nostra determinazione nel combattere in ogni angolo del mondo il terrorismo neofascista che intende sbarrare la strada al protagonismo popolare nei processi di cambiamento democratico, in Bolivia come in Europa.
COME L’AMORE così la guerra: c’è chi la fa per noia, chi per professione e chi, infine, per passione. Eduardo Rozsa Flores aveva in sé tutti e tre i moventi. Dicono fosse in Bolivia per uccidere il presidente Evo Morales, sicuramente faccia al suolo è finito lui. Giovedì, assieme ad altri due «mercenari», ucciso dopo una sparatoria lunga una trentina di minuti. Questa la versione ufficiale. Di certo c’è che Flores, detto ‘il Comandante’ in onore di una passione giovanile per il Che, scelse la guerra e lo fece consapevolmente. «La vita — ci disse durante un incontro di 15 anni fa — è passione, impulso, emozione, rischio. Dove, se non in guerra, può realizzarsi a pieno? In guerra non c’è menzogna che tenga, tutti vengono fuori per quello che realmente sono...».
UN AVVENTURIERO, dunque. Nel senso di amante dell’avventura, delle emozioni forti e dei legami cementati dal rischio comune perché «il cameratismo è un sentimento di gran lunga superiore all’amicizia: quando hai rischiato la vita per qualcosa in cui credi, chi si trovava al tuo fianco ti resterà vicino per sempre». Nel ’91 Flores era un giornalista della Vanguardia e il giornale di Barcellona lo mandò a seguire gli albori del conflitto yugoslavo. Osservò due cose. «Che mi trovavo meglio con i soldati croati che con i miei colleghi» e che «i serbi sparavano deliberatamente sui giornalisti». Non era tipo da rimanere in albergo in attesa di notizie.
PER SFIDA, si appese un bersaglio alla schiena. Ma la sfida doveva andare oltre. Si licenziò con un telegramma, si arruolò nell’esercito croato, fondò la Brigata internazionale (Piv): una sorta di legione straniera di cui, col grado di colonnello, divenne il capo. Sul campo si guadagnò l’etichetta di eroe, ma una sola guerra non poteva bastargli. Prima, quando il comunismo cominciava a scricchiolare, organizzò la fuga degli ebrei albanesi da un paese ormai in disfacimento. Operazione di certo gradita al Mossad. Più di recente, fu avvistato in Iraq; si presume col ‘gradimento’ della Cia. Di passaporti ne aveva diversi. Di personalità pure.
NATO in Bolivia nel ’60 da padre ebreo comunista ungherese e madre cattolica boliviana, dopo un passaggio in Cile e uno in Svezia, a 14 anni Eduardo Flores si ritrovò in Ungheria. Amava allora definirsi «comunista di sinistra, qualsiasi cosa volesse dire». A Budapest finisce gli studi e si arruola. Si specializza nel mestiere delle armi in Unione Sovietica, ma dopo meno di due anni appende la divisa al chiodo. «Niente di più noioso che fare il soldato in tempo di pace», spiegherà. Vincere la noia, dunque. Ma come? Qualche mese in Israele («alla ricerca delle mie radici») non basta. Due lauree prese in Spagna men che meno. Diverrà il referente ungherese di Ilich Ramirez Sanchez detto Carlos. Meglio conosciuto come lo Sciacallo: il più famoso, e fors’anche il più spietato, terrorista internazionale. Attraverso Flores, Carlos tiene i contatti con una parte della Baden Meinhof e con alcune cellule della Raf, le Brigate rosse tedesche. Inutile dire che il Comandante andava fiero del loro rapporto e mai fece nulla per nasconderlo. Anzi.
SI IMPEGNÒ in prima persona per consentire allo Sciacallo, dal ’94 in carcere a Parigi, di essere estradato in Venezuela. E attorno al loro sodalizio ruota buona parte del film che un regista ungherese ha qualche anno fa deciso di dedicare alla sua vita. Una vita da film, in effetti. Si intitola ‘Chico’. Ecco, ‘Chico’, o meglio il Comandante, apparteneva a quella categoria di uomini che i romanzi li leggono, ma preferiscono viverli. Che i film li vedono, ma preferiscono recitarli. Un uomo di quelli che provano a fare della propria vita un’opera d’arte. Lui ci riuscì, la sua arte fu la guerra. La guerra e l’intrigo.
ERA TUTTO già lì, nella sua testa e nel lampo degli occhi. Ma non nel corpo. Basso, grassoccio, gioviale e apparentemente bonario: a vederlo, mai si sarebbe detto che era un guerriero. Un guerriero per scelta. «Ogni volta che vedo il nemico mi si paralizzano le gambe», diceva. Per poi aggiungere: «Ma dopo un istante subentra il gelo». Nel ’94, trascorsi un paio di giorni con lui e dopo l’uscita dell’intervista, fummo abbordati da un fotoreporter. Ci mise in guardia. Considerava Flores responsabile dell’assassinio di due giornalisti che indagavano su un traffico d’armi. E’ possibile. Di certo il Comandante sognava l’azione. O meglio, «la rivoluzione». Ridendo, raccontava d’essere stato dato per morto 18 volte. Non ci sarà una diciannovesima.
Eduardo Rozsa Flores nel 1992, quando era
a capo della Brigata internazionale croata
Flores con
i commilitoni:
sopra è il primo
da sinistra accucciato; qui sventola la bandiera spagnola
Le armi trovate dalla polizia durante
il blitz di antiterrorismo; sotto,
il cadavere di Eduardo Rozsa Flores
(Ansa e Reuters)
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Sonderausgabe April 2009: 10 Jahre nach dem Jugoslawien-Krieg
mercoledi 29 aprile 2009
(Odradek, Roma 2008)
interviene l'autore Davide Conti
http://politicaeclasse.blogspot.com/
politicaeclassebologna @ yahoo.it
Con il sostegno di
COORDINAMENTO NAZIONALE PER LA JUGOSLAVIA - ONLUS
https://www.cnj.it
jugocoord @ tiscali.it
Prospettive rivoluzionarie nel XXI secolo
di Domenico Losurdo
su altre testate del 09/04/2009
Nel 1938 Trotskij fondava la Quarta internazionale a partire da un presupposto: come nel corso del primo conflitto mondiale, così nel corso del secondo conflitto mondiale che ormai si profilava si sarebbe verificata la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria e ne sarebbe derivata un’ondata rivoluzionaria ancora più gigantesca di quella che aveva segnato la nascita della Russia sovietica. In effetti, un’ondata rivoluzionaria scuoteva l’intero pianeta ma si sviluppava secondo modalità diverse e contrapposte, a partire da guerre di resistenza e liberazione nazionale contro l’imperialismo: ciò non valeva solo per l’Unione Sovietica impegnata nella Grande guerra patriottica o per la Cina, o per la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, l’Albania; anche per paesi capitalistici più o meno avanzati quali la Grecia, l’Italia, la Francia, la rivoluzione si sviluppava come guerra di liberazione nazionale diretta dal partito comunista. In realtà, contrariamente alle previsioni di Trotskij, la nascita della Russia sovietica e l’impulso da essa fornita al movimento anticolonialista e sul versante opposto l’emergere del Terzo Reich impegnato a riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale, facendola valere nella stessa Europa orientale, in sintesi proprio le novità emerse a partire dall’ottobre 1917 rendevano impossibile la ripetizione dello scenario della prima guerra mondiale.
Nel 1952, un anno prima della sua morte, Stalin faceva anche lui una previsione: sconfitti nel 1945, Germania e Giappone non avrebbero subito per sempre l’egemonia degli Stati Uniti; sarebbero scoppiate nuove violente contraddizioni interimperialiste, e ciò sarebbe stata l’occasione per un nuovo e forse decisivo ampliamento del campo socialista. Si sarebbe cioè verificato uno scenario simile a quello della prima e soprattutto della seconda guerra mondiale, la quale ultima, prima di coinvolgere l’Unione Sovetica, aveva visto scontrarsi solo paesi capitalistici. Com’è noto, le cose sono andate in direzione esattamente contrapposta: la forza del campo socialista e la paura della sua estensione hanno contribuito al compattamento dell’imperialismo, mentre è stato proprio il campo socialista che, non riuscendo a risolvere il problema nuovo del rapporto tra paesi socialisti, ha conosciuto contraddizioni aspre e persino violente al suo interno e infine è andato incontro alla sua dissoluzione.
Infine. Nel 1965 da Pechino Lin Piao faceva una terza previsione: la dialettica che aveva promosso la vittoria della rivoluzione in Cina, e cioè l’accerchiamento della città a partire dalla campagna, si sarebbe manifestata anche a livello planetario. La vittoria in Asia, Africa, America Latina delle rivoluzioni anticoloniali dirette da partiti comunisti avrebbe progressivamente accerchiato la metropoli capitalista e imperialista, finché questa stessa avrebbe finito col crollare. In realtà, nel 1928 Mao aveva charito che a rendere possibile la costruzione del «potere rosso» nelle campagne cinesi erano «le contraddizioni e la lotta fra gli Stati imperialisti». Proprio la vittoria della rivoluzione cinese e di altre rivoluzioni anticoloniali spingeva i paesi capitalisti ad accantonare in una certa misura le loro rivalità e a compattarsi sotto la guida degli Stati Uniti. Sicché, tra il 1989 e il 1991 non era la campagna socialista ad accerchiare la metropoli capitalista e imperialista, era al contrario la metropoli capitalista e imperialista ad accerchiare paesi quali Cuba, il Vietnam e la Cina.
In conclusione, ogni volta che si è abbandonato al gioco delle analogie, il movimento comunista è andato incontro a cocenti delusioni o a vere proprie catastrofi. E’ necessario invece, per dirla con Lenin, procedere ad un’«analisi concreta della situazione concreta». A questa lezione occorre ispirarsi, allorché ci interroghiamo sulle prospettive della rivoluzione nel XXI secolo. La situazione è radicalmente mutata rispetto al passato. Sull’onda del fallimento del progetto hitleriano di riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale, individuando nell’Europa orientale il Far West da colonizzare e germanizzare, sull’onda di Stalingrado e della disfatta inflitta al nazifascismo, subito dopo la seconda guerra mondiale si sviluppava una rivoluzione anticolonialista di dimensioni planetarie. Ad essere scosse non erano solo le colonie propriamente dette. In paesi come gli Stati Uniti e il Sudafrica i popoli di origine coloniale si ribellavano contro lo Stato razziale e il regime di white supremacy. Prima ancora che trovare espressione cosciente nei partiti e nelle forze di sinistra, l’internazionalismo era nei fatti: esso abbracciava i popoli coloniali e di origine coloniale, i paesi socialisti che appoggiavano la rivoluzione anticolonialista e antirazzista, le masse popolari dell’Occidente che si erano scosse di dosso il giogo del fascismo e che talvolta, ad esempio in Italia, erano riuscite a sancire nella stessa Costituzione il rifiuto della guerra e della politica di guerra e di egemonia.
1. La rivoluzione anticoloniale ieri e oggi
Ebbene, la prima domanda che ci dobbiamo porre è questa: che ne è oggi della gigantesca rivoluzione anticoloniale stimolata dalla rivoluzione d’ottobre e accelerata da Stalingrado? No, tale rivoluzione non è dileguata. In una realtà come quella palestinese il colonialismo continua a sussistere nella sua forma classica, come dimostrano l’ininterrotta espansione delle colonie israeliane nei territori occupati, la conseguente espropriazione, deportazione ed emarginazione del popolo palestinese e il diffondersi di un regime di apartheid. E, tuttavia, nonostante la strapotenza e l’impiego barbarico della macchina da guerra israeliana, sostenuta peraltro dagli Stati Uniti e dalla stessa Unione Europea, nonostante tutto ciò, il popolo palestinese resiste eroicamente.
In altre parti del mondo la lotta tra colonialismo e anticolonialismo si manifesta in forme diverse. Sul continente americano il Novecento si apriva con una significativa dichiarazione di Theodore Roosevelt: alla «società civilizzata» nel suo complesso – egli affermava – spettava un «potere di polizia internazionale», e tale potere gli Stati Uniti l’avrebbero esercitato in America Latina. A partire da questa ripresa e radicalizzazione della dottrina Monroe, non si contano gli interventi militari effettuati dalla repubblica nordamericana a danno dei suoi vicini, considerati estranei al mondo civile e assimilati a barbari bisognosi della tutela imperiale. Sennonché, la dottrina Monroe è caduta radicalmente in crisi a partire da una rivoluzione di cui in questi giorni si è celebrato il cinquantesimo anniversario. Nel corso del mezzo secolo nel frattempo trascorso, ogni mezzo è stato messo in atto per isolare, diffamare. strangolare, liquidare la rivoluzione cubana, ma oggi la sua forza e il suo significato internazionale sono confermati dai mutamenti in atto in paesi quali il Venezuela, la Bolivia, l’Ecuador, il Brasile, il Nicaragua, il Paraguay. Con modalità di volta in volta assai diverse, la rivoluzione anticolonialista e antimperialista è in marcia in America Latina.
Nel corso del Novecento la rivoluzione anticolonialista ha divampato anche in Asia e in Africa. E’ oggi? Per fare il punto della situazione, conviene prendere le mosse da un’osservazione di Frantz Fanon, il grande teorico della rivoluzione algerina. Allorché si sentono costrette a capitolare – scrive Fanon nel 1961– le potenze coloniali sembrano dire ai rivoluzionari: «Giacché volete l’indipendenza, prendetevela e crepate»; in tal modo «l’apoteosi dell’indipendenza si trasforma in maledizione dell’indipendenza». E’ a questa nuova sfida, di carattere non più militare, che occorre saper rispondere: «ci vogliono capitali, tecnici, ingegneri, meccanici, ecc.». D’altro canto, già nel 1949, prima ancora della conquista del potere, Mao aveva insistito sull’importanza dell’edificazione economica: Washington desidera che la Cina si «riduca a vivere della farina americana», finendo così col «diventare una colonia americana». E dunque, senza la vittoria nella lotta per la produzione, agricola e industriale, la vittoria militare era destinata a rivelarsi fragile e inconcludente. In altre parole, Mao e Fanon hanno in qualche modo previsto da un lato lo stallo di tanti paesi africani che non sono riusciti a passare dalla fase militare alla fase economica della rivoluzione, dall’altro la svolta verificatasi in rivoluzioni anticoloniali come quella cinese e vietnamita.
2. La nascita del Terzo Mondo
E’ un punto cruciale sul quale conviene soffermarsi. Chiediamoci in che modo si è formato il Terzo Mondo, lo spazio tradizionalmente oppresso e saccheggiato dall’Occidente colonialista e imperialista. Con una lunga storia alle spalle, che l’aveva vista per secoli o per millenni in posizione eminente nello sviluppo della civiltà umana, ancora nel 1820 la Cina vantava un Pil che costituiva il 32,4% del Prodotto interno lordo mondiale; nel 1949, al momento della sua fondazione, la Repubblica Popolare Cinese era divenuto il paese più povero, o tra i più poveri, del globo. Non molto diversa è la storia dell’India che, sempre nel 1820, contribuiva per il 15, 7% al PIL mondiale, prima di cadere anch’essa in una spaventosa miseria. E cioè, non possiamo comprendere il processo di formazione del Terzo Mondo facendo astrazione dalla politica di saccheggio e di de-industrializzazione condotta dalle potenze colonialiste e imperialiste.
Ma al processo di formazione del Terzo Mondo contribuisce un’altra circostanza. Per comprenderla, dobbiamo far riferimento ad una rivoluzione che alla fine del Settecento si svolge in un paese che oggi si chiama Haiti ma che allora portava il nome di Santo Domingo. E’ una rivoluzione degli schiavi neri che spezzava al tempo stesso le catene del dominio coloniale e dell’istituto della schiavitù: nasceva così sul continente americano il primo paese affrancato dal flagello della schiavitù. A dirigere questo processo di emancipazione era un giacobino nero, Toussaint Louverture, una grande personalità storica per lo più ignorata dai nostri libri di storia ma che in una società democratica dovrebbe figurare obbligatoriamente anche nei libri di educazione civica. Ebbene, dopo la vittoria militare Toussaint Louverture si poneva il problema dell’edificazione economica: a tal fine avrebbe voluto utilizzare anche i tecnici e gli esperti bianchi provenienti dalle file del nemico sconfitto; per questo motivo fu accusato o sospettato di voler restaurare il dominio bianco e di tradire così la rivoluzione. Ne scaturiva una tragedia che ancora oggi ci deve far riflettere. Santo Domingo era un’isola assai ricca, grazie allo zucchero prodotto in piantagioni di ampie dimensioni e di notevole efficienza e largamente esportato. Certo, la ricchezza prodotta dagli schiavi era intascata dai loro padroni. Era possibile per gli ex-schiavi far funzionare a loro profitto l’economia sviluppata da loro ereditata grazie alla rivoluzione? Disgraziatamente, in seguito alla sconfitta della linea di Toussaint Louverture, a Santo-Domingo/Haiti subentrava un’arretrata agricoltura di sussistenza. L’isola conosceva così la miseria generalizzata, ed essa è tuttora uno dei paesi più poveri del globo. In conclusione, a formare il Terzo Mondo sono anche i paesi che non riescono a passare dalla fase militare a quella economica della rivoluzione, i paesi in cui per una ragione o per un’altra la rivoluzione anticoloniale conosce la sconfitta o il fallimento.
3. L’imperialismo e la condanna all’inedia dei popoli ribelli
Non si comprenderebbe nulla della lotta tra colonialismo e anticolonialismo, tra imperialismo e anti-imperialismo, se non si tenesse conto che essa viene condotta anche sul piano economico. Subito dopo la rivoluzione guidata da Toussaint Louverture, Thomas Jefferson dichiarava di voler ridurre all’«inedia» il paese che aveva avuto la sfrontatezza di abolire la schiavitù. Questa medesima vicenda si è riproposta nel Novecento. Già subito dopo l’ottobre 1917, Herbert Hoover, in quel momento alto esponente dell’amministrazione Wilson e più tardi presidente degli Usa, agitava in modo esplicito la minaccia della «fame assoluta» e della «morte per inedia» non solo contro la Russia sovietica ma contro tutti popoli inclini a lasciarsi contagiare dalla rivoluzione bolscevica. E’ una politica che continua ancora oggi: è noto a tutti che l’imperalismo cerca di strangolare economicamente Cuba e possibilmente di ridurla alla condizione di Gaza, dove gli oppressori possono esercitare il loro potere di vita e di morte, prima ancora che coi bombardamenti terroristici, già col controllo delle risorse vitali. Per quanto riguarda la Repubblica Popolare Cinese, agli inizi degli anni ’60 un collaboratore dell’amministrazione Kennedy, e cioè Walt W. Rostow, si vantava per il fatto che gli Stati Uniti erano rusciti a ritardare per «decine di anni» lo sviluppo economico del grande paese asiatico! E contro di esso ancora oggi Washington conduce una politica di embargo tecnologico, quella politica che fino all’ultimo è stata messa in atto ai danni dell’Unione Sovietica.
E, dunque, la solidarietà internazionalista deve rivolgersi anche ai paesi che sono riusciti a passare dalla fase militare alla fase più propriamente economica della rivoluzione anticolonialista e antimperialista. Dell’importanza di questo passaggio di fase sono consapevoli i leaders latino-americani. Per fare solo un esempio, qualche tempo fa, il vice-presidente della Bolivia ha lanciato una parola d’ordine assai significativa: «Industrializzazione o morte!». Agli occhi di Alvaro Garcia Linera si tratta di realizzare «lo smantellamento progressivo della dipendenza economica coloniale». In questa prospettiva diviene importante il crescente scambio commerciale e tecnologico con un paese come la Cina: esso rende meno grave la minaccia di strangolamento economico agitata dall’imperialismo, rende cioè più agevole la lotta contro la dottrina Monroe anche sul piano economico.
Già dunque si delinea una sostanziale convergenza tra i paesi e i popoli protagonisti della rivoluzione anticolonialista e antimperialista. E’ un fronte internazionalista che tende ad allargarsi. Dopo la vittoria conseguita nella guerra fredda, avvalendosi anche della complcità dell’Unione europea, gli Stati Uniti hanno trasformato in semicolonie paesi come l’Albania e territori come il Kossovo. E’ la conferma della tesi da me enunciata, secondo cui, a formare il Terzo mondo e lo spazio coloniale o semicoloniale di cui ha bisogno il capitalismo, sono da un lato l’iniziativa diretta dell’imperialismo dall’altra il fallimento o la sconfitta di determinate rivoluzioni, sia per cause interne sia per l’intervento ancora una volta dell’imperialismo. Non si deve dimenticare che la stessa Russia, dopo la restaurazione del capitalismo, stava diventando o rischiava di diventare una semicolonia. E dunque anche questo paese esprime una resistenza al folle progetto di Washington di imporre il suo dominio a livello mondiale.
Disgraziatamente, a questo fronte anticolonialista e antimperialista che potrebbe costituirsi manca ancora una componente essenziale: esso non gode ancora della piena solidarietà dei movimenti di opposizione che pure si manifestano nell’ambito dei paesi capitalistici avanzati. Come spiegare ciò? Non si tratta di un problema nuovo. Nella Seconda Internazionale non mancavano certo in Europa le voci che giustificavano l’espansionismo coloniale in nome dell’esportazione della civiltà. Oggi l’ideologia dominante preferisce parlare di diritti umani e di lotta contro il l’autoritarismo, il totalitarismo, il fondamentalismo, ma la sostanza colonialista o neocolonialista di tale atteggiamento non cambia.
4. L’imperialismo come nemico principale dei diritti dell’uomo
Per rendersi conto di ciò, non c’è bisogno di rinviare a Marx o a Lenin. Voglio qui prendere le mosse dal discorso pronunciato il 6 gennaio 1941 da Franklin Delano Roosevelt. Nell’invitare a non perdere mai di vista la «supremazia dei diritti umani», accanto alle tradizionali libertà della tradizione liberale (libertà di parola e di espressione nonché di religione) il presidente statunitense teorizza anche la «libertà dal bisogno» (freedom from want) e la «libertà dalla paura» (freedom from fear). Concentriamoci inizialmente su queste ultime due. Ebbene, non solo una parte consistente della popolazione degli Stati Uniti è priva persino di assistenza sanitaria, ma le amministrazioni che si sono succedute negli ultimi tempi a Washington si sono impegnate in una sorta di crociata planetaria per cancellare lo Stato sociale anche in quei paesi in cui è in misura maggiore o minore ancora presente. Allorché invece teorizza la «libertà dalla paura», F. D. Roosevelt prende di mira la Germania nazista, che minacciava di invadere i paesi confinanti e vicini. Oggi sono in primo luogo gli Stati Uniti a fa pesare in ogni angolo del mondo la paura e l’angoscia dei bombardamenti, delle distruzioni su larga scala e persino dell’annientamento nucleare. Al fine di cominciare a realizzare la «libertà dalla paura», in polemica indiretta contro il Terzo Reich, F. D. Roosevelt invocava la «riduzione» degli armamenti. Oggi, gli Stati Uniti da soli spendono in armamenti quanto il resto del mondo assieme. E cioè, almeno per quanto riguarda questi fondamentali «diritti umani» che sono la «libertà dal bisogno» e la «libertà dalla paura», il nemico principale è proprio il paese che si erge a giudice inappellabile della causa dei diritti umani.
Anche se ci concentriamo sui diritti classici della tradizione liberale, il risultato non è molto diverso. Chi, nella primavera del 1999, ha assassinato, bombardandoli dall’alto, i giornalisti televisivi jugoslavi colpevoli di non condividere l’opinione dei vertici e degli ideologi della Nato e di ostinarsi a condannare l’aggressione subita dal loro paese? E quanti sono i giornalisti «accidentalmente» uccisi dal fuoco delle forze di occupazione in Irak o in Palestina? Godono dei «diritti universali di parola e di associazione» gli abitanti di Gaza che, dopo aver votato per Hamas nel corso di libere elezioni, si sono visti condannati prima allo strangolamento economico e al blocco e successivamente a bombardamenti selvaggi e all’invasione? E hanno goduto di questi diritti i detenuti di Abu Ghraib e di Guantanamo? E che ne è della rule of law, del governo della legge per i palestinesi uccisi dalle «esecuzioni extragiudiziare» (con ampi «danni collaterali») sovranamente decise dal governo di Washington nella regione pachistana confinante con l’Afghanistan, ovvero dal governo di Tel Aviv (appoggiato da quello di Washington) in Palestina? Infine: gli arabi e gli islamici che negli Usa osano contribuire ad una sottoscrizione a favore della popolazione di Gaza e di Hamas rischiano di essere perseguiti e condannati in quanto «terroristi». Per dirla con Marx, «la profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie» o ai popoli di origine coloniale collocati nella stessa metropoli. In questo caso l’«ipocrisia» e la barbarie» borghese «vanno in giro ignude». Come ha confermato la sorte riservata a Gaza.
Ciò non significa negare che problemi di rispetto dei diritti umani si pongano per i paesi e i popoli impegnati nella rivoluzione anticolonialista e antimperialista e negli stessi paesi che si richiamano al socialismo. E, tuttavia, basta leggere autori quali Madison o Hamilton, per sapere che il governo della legge, la rule of law non può fiorire là dove è presente una minaccia alla sicurezza nazionale. Gridare allo scandalo per l’assenza di democrazia nei paesi sottoposti ad un assedio più o meno pressante sul piano diplomatico, economico e militare è espressione di follia ovvero di cinismo realpolitico. In altre parole, non c’è reale democrazia senza democrazia nei rapporti internazionali, e il principale nemico della democrazia nei rapporti internazionali è costituito da un paese che, per bocca di Clinton come di Bush sr. e jr. e di tanti altri presidenti, pretende di essere la nazione eletta da Dio col compito di guidare e dominare il mondo per l’eternità.
Anche l’odierno «imperialismo dei diritti umani», come giustamente è stato definito, non è qualcosa di totalmente nuovo. Allorché, dopo un’eroica rivoluzione, agli inizi del Novecento Cuba conquista l’indipendenza dalla Spagna, Washington costringe il paese formalmente indipendente ad introdurre nella sua Costituzione il cosiddetto emendamento Platt, in base al quale viene riconosciuto agli Stati Uniti il diritto di intervenire militarmente nell’isola, ogni volta che essi ritengono minacciato nell’isola il tranquillo godimento della proprietà e della libertà. E’ come se oggi gli aspiranti padroni del mondo pretendessero di far valere l’emendamento Platt a livello planetario!
E’ l’«imperialismo dei diritti umani» a rendere debole la sinistra nei paesi capitalistici avanzati.
5. Un nuovo blocco storico a livello internazionale
Agiscono anche altri fattori. In Europa e negli Stati Uniti vivono nuclei importanti di immigrati provenienti dal Medio Oriente e dal mondo arabo e islamico. Essi, che spesso hanno lasciato la loro famiglia alle spalle, soffrono con particolare intensità la tragedia che continua a pesare più che mai sul popolo palestinese. Essi sono in prima fila a manifestare contro il colonialismo e l’imperialismo, contro Israele e gli Stati Uniti, ed è anche per questo, oltre che per la logica interna al capitalismo, che questi immigrati sono sfruttati in modo particolare, emarginati e spesso – in ogni caso negli anni dell’amministraziaone Bush – arrestati arbitrariamente per essere torturati nelle prigioni segrete della Cia. Si impegna a sufficienza la sinistra occidentale per cercare di stabilire un legame stretto e permanente con queste comunità? Volerle trascurare sarebbe come se, negli Stati Uniti della supremazia bianca il partito comunista americano avesse condotto la sua agitazione facendo astrazione dai neri. E invece no. Anche se poi sono stati gravemente indeboliti prima dal terrore maccartista e poi dalla crisi del campo socialista, a lungo i comunisti americani hanno saputo lottare, rischiando la libertà e anche la vita, contro le discriminazioni, le umiliazioni, l’oppressione, i linciaggi scatenati dal regime di white supremacy.
I niggers di cui parlavano con disprezzo i razzisti statunitensi sono oggi in Occidente rappresentati dagli immigrati arabi e islamici; ed essi non si limitano a rivendicare la «libertà dal bisogno»; non intendono in quanto poveri fare appello ad una compassione paternalistica. In primo luogo essi rivendicano – per usare un linguaggio filosofico – il riconoscimento; essi esigono di essere riconosciuti nella loro dignità umana, nella loro cultura, nelle loro rivendicazioni nazionali, a cominciare dalla rivendicazione nazionale del popolo palestinese, il popolo-martire per eccellenza dei giorni nostri!
E’ solo liquidando in modo completo l’influenza dell’«imperialismo dei diritti umani» e dell’islamofobia (che ha preso il posto ai giorni nostri del tradizionale flagello razzista), è solo agendo in tal modo che il movimento di opposizione presente nei paesi capitalistici avanzati potrà dare un reale contributo alla lotta contro la reazione.
Ci troviamo oggi in una situazione, che per un verso non è priva di prospettive positive e incraggianti: 1. sull’onda della lotta anti-imperialista risorgono popoli e civiltà che erano stati annientate dal colonalismo: si pensi al ruolo crescente degli indios in America Latina; 2. il prodigioso sviluppo di un paese come la Cina spezza il monopolio tecnologico detenuto dall’imperialismo. Quella che gli storici chiamano la «grande divaricazione», per cui a un certo punto un abisso si è aperto tra paesi capitalistici avanzati e Terzo Mondo, questa «great divergence» tende a ridursi; 3. la presa di coscienza della crisi del capitalismo ridà slancio alla prospettiva del socialismo oltre che nel terzo Mondo, anche nei paesi capitalistici avanzati. Per un altro verso vediamo il paese-guida del capitalismo immerso sì in una profonda crisi economica e sempre più screditato a livello internazionale; al tempo stesso esso continua ad aggrapparsi alla pretesa di essere il popolo eletto da Dio e ad accrescere febbrilmente il suo già mostruoso apparato di guerra e ad estendere la sua rete di basi militari in ogni angolo del mondo. Tutto ciò non promette nulla di buono. E’ la compresenza di prospettive promettenti e di minacce terribili a rendere urgente la costruzione a livello internazionale di un nuovo blocco storico, per usare il linguaggio di Gramsci. Non è un’impresa facile perché si tratta di saldare assieme forze collocate in contesti storico-culturali e in situazioni politiche e geopolitiche assai diverse. E questo nuovo blocco storico, che solo può dare nuovo slancio all’internazionalismo, potrà essere costruito solo se i partiti comunisti, anche quelli dei paesi capitalistici avanzati, da un lato recuperano l’orgoglio della propria storia, dall’altro rafforzano la loro capacità di analisi concreta della situazione concreta.
Riferimenti bibliografici
Frantz Fanon, Les damnés de la terre (1961), tr. it., di Carlo Cignetti, I dannati della terra, pref. di Jean-Paul Sartre, Einaudi, Torino, II ed., 1967, pp. 55-58.
Alvaro Garcia Linera in un’intervista a Pablo Stefanoni, in «il manifesto» del 22 luglio 2006, p. 3.
Mao Tsetung, Perché può esistere in Cina il potere rosso? (5 ottobre 1928), in Opere scelte, Edizioni in lingue estere, Pechino, 1969-75, vol. 1, p. 61.
Mao Tsetung, Il fallimento della concezione idealistica della storia (16 settembre 1949), in Opere scelte, Edizioni in lingue estere, Pechino, 1969-75, vol. 4, p. 467.
Karl Marx-Friedrich Engels, Werke, Dietz, Berlin 1955-89, vol. 9, p. 225 (Die künftigen Ergebnisse der britischen Herrschaft in Indien).
Per Jefferson, Hoover e Rostow cfr. Domenico Losurdo. Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma, 2008, pp. 196 e 288.
Franklin Delano Roosevelt, Four Freedoms Speech (6 gennaio 1941), in Richard Hofstadter-Beatrice Hofstadter, Great Issues in American History, Vintage Books, New York, 1982, pp. 386-91.
(pubblicato in lingua portoghese in «Alentejo popular» del 12 marzo 2009, pp. 8-11)
Oltre 14 miliardi di euro per il caccia F-35 mentre mancano i soldi per i terremotati
Di Manlio Dinucci
Per i terremotati dell’Abruzzo il governo ha messo a disposizione 100 milioni di euro, ma ce ne vorranno molti di più: solo per le esigenze del ministero dell'interno, si dovranno trovare 130 milioni nei prossimi sei mesi. E, se si vorrà veramente ricostruire, occorreranno stanziamenti ben maggiori. Dove trovare questi fondi, in una fase di crisi come quella attuale, senza dover con ciò tagliare ulteriormente le spese sociali (scuola, sanità, ecc.)? La risposta è più semplice di quanto sembri: basterebbe bloccare l’enorme stanziamento che sta per essere destinato all’acquisizione del caccia statunitense F-35 Lightning II (Joint Strike Fighter) della Lockeed Martin.
La commissione difesa della camera ha già dato parere favorevole all’acquisizione del caccia e quella del senato lo farà entro il 16 aprile. Nel budget 2009 del ministero della difesa è già previsto uno stanziamento di 47 milioni di euro per l’F-35. E’ solo un piccolo anticipo: per partecipare al programma, l’Italia si è impegnata a versare oltre un miliardo di euro. Ma sono ancora spiccioli, di fronte alla spesa che il parlamento sta per approvare: 12,9 miliardi di euro per l’acquisto di 131 caccia, più 605 milioni per le strutture di assemblaggio e manutenzione. Complessivamente, 14,5 miliardi di euro. Saranno pagati a rate di circa un miliardo l’anno tra il 2009 e il 2026. Ma, come avviene per tutti i sistemi d’arma, il caccia verrà a costare più del previsto e, una volta prodotto, dovrà essere ulteriormente ammodernato. E’ quindi certo che l’esborso totale (di denaro pubblico) sarà molto maggiore di quello preventivato. Va inoltre considerato che l’aeronautica sta acquistando 121 caccia Eurofighter Typhoon, il cui costo supera gli 8 miliardi di euro.
La partecipazione dell’Italia al programma del Joint Strike Fighter, ribattezzato F-35 Lightning (fulmine), costituisce un perfetto esempio di politica bipartisan. Il primo memorandum d’intesa è stato firmato al Pentagono, nel 1998, dal governo D’Alema; il secondo, nel 2002, dal governo Berlusconi; il terzo, nel 2007, dal governo Prodi. E nel 2009 è di nuovo un governo presieduto da Berlusconi a deliberare l’acquisto dei 131 caccia che, a onor del vero, era già stato deciso dal governo Prodi nel 2006 (v. il manifesto, 25-10-2006). Si capisce quindi perché, quando il governo ha annunciato l’acquisto di 131 F-35, l’«opposizione» (PD e IdV) non si sia opposta.
L’Italia partecipa al programma dell’F-35 come partner di secondo livello: ciò significa che contribuisce allo sviluppo e alla costruzione del caccia. Vi sono impegnate oltre 20 industrie, cioè la maggioranza di quelle del complesso militare, tra cui Alenia Aeronautica, Galileo Avionica, Selex Communications, Datamat e Otomelara di Finmeccanica e altre non-Finmeccanica, come Aerea e Piaggio. Negli stabilimenti Alenia in Campania e Puglia, e successivamente in quelli piemontesi, verranno prodotte oltre 1.200 ali dell’F-35. Presso l’aeroporto militare di Cameri (Novara) sarà realizzata una linea di assemblaggio e collaudo dei caccia destinati ai paesi europei, che verrà poi trasformata in centro di manutenzione, revisione, riparazione e modifica. Dalla catena di montaggio italiana usciranno probabilmente anche i 25 caccia acquistati da Israele, cui se ne potranno aggiungere altri 50. Il governo lo presenta come un grande affare per l’Italia: non dice però che, mentre i miliardi dei contratti per l’F-35 entrano nelle casse di aziende private, i miliardi per l’acquisto dei caccia escono dalle casse pubbliche. Questa attività, secondo il governo, creerà subito 600 posti di lavoro e una «spinta occupazionale» che potrebbe tradursi in 10mila posti di lavoro. Una bella prospettiva quella di puntare, per far crescere l’occupazione, su uno dei più micidiali sistemi d’arma.
L’F-35 è un caccia di quinta generazione, prodotto in tre varianti: a decollo/atterraggio convenzionale, per le portaerei, e a decollo corto/atterraggio verticale. L’Italia ne acquisterà 69 della prima variante e 62 della terza, che saranno usati anche per la portaerei Cavour. I caccia a decollo corto/atterraggio verticale, spiega la Lockheed, sono i più adatti a «essere dispiegati più vicino alla costa o al fronte, accorciando la distanza e il tempo per colpire l’obiettivo». Grazie alla capacità stealth, l’F-35 Lightning «come un fulmine colpirà il nemico con forza distruttiva e inaspettatamente». Un aereo, dunque, destinato alle guerre di aggressione, a provocare distruzioni peggiori di quelle del terremoto dell’Abruzzo. Ma per le vittime non ci saranno funerali di stato, né telecamere a mostrarli.
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SABATO 30 MAGGIO 2009 A NOVARA MANIFESTAZIONE NAZIONALE CONTRO GLI F-35
L'iter parlamentare per lapprovazione dellinsediamento, a Cameri (NO), della fabbrica della morte per lassemblaggio degli F-35 è ormai definito. A partire dal 2010 inizierà la costruzione del capannone da cui usciranno delle macchine che verranno consegnate a diversi stati che li utilizzeranno per bombardare ed uccidere.
Tale impresa industriale-militare viene condotta, con ampio dispendio di denaro pubblico, dalla multinazionale statunitense Lockheed Martin in associazione all'italiana Alenia Aeronautica (del gruppo Finmeccanica) e coinvolgerà una serie numerosa di fabbriche di armi e di morte collocate qua e là sul nostro territorio. Insomma, il riarmo come via duscita dalla crisi economica, come con la Grande Crisi degli anni 30 e con la Grande Depressione di fine 800. Peccato che in entrambi i casi questa strada abbia condotto a guerre mondiali. Di certo, limpiego dei nuovi bombardieri nelle missioni di pace produrrà distruzione, morte e sofferenza.
Di sicuro gli F-35 sono i perfetti strumenti operativi di una sorta di gendarmeria mondiale in via di perfezionamento: una volta costruiti non faranno certo la ruggine in qualche hangar italiano o olandese, bensì saranno presto adoperati per uccidere e distruggere in svariate guerre, sia attuali sia future.
Gli F-35 ci costeranno un sacco di soldi: circa 600 milioni di euro per costruire e attivare la fabbrica di Cameri, circa 13 miliardi di euro (a rate, fino al 2026) per l'acquisto dei 131 aerei che l'Italia vuole possedere. Del resto è stato già speso o impegnato quasi un miliardo di euro. E ciò risulta ancor più impressionante se si considera la grave crisi economica in corso. Nessuno può ignorare che, con una spesa di questa entità, si potrebbero senza alcun dubbio creare ben più dei miseri 600 posti di lavoro promessi all'interno dello stabilimento di Cameri. Si potrebbe altresì intervenire in vario modo per migliorare le condizioni di vita di tutti: per esempio ampliando e migliorando la qualità della spesa sociale, tutelando davvero territori e città (basti pensare agli effetti del terremoto abruzzese), investendo in fonti energetiche rinnovabili e ridistribuendo reddito.
E poi vogliono costruire gli F-35 proprio ai confini del parco naturale del Ticino, che dovrebbe quindi sopportare l'impatto dei collaudi di centinaia e centinaia di aerei rumorosissimi e certamente inquinanti, con le relative gravi conseguenze per la salute e la qualità della vita degli abitanti della zona, mentre si potrebbe riconvertire il sito militare ad uso civile.
In definitiva, siamo contro gli F-35 perché ci ostiniamo a pensare che sia possibile vivere in un altro modo: senza aggredire gli altri popoli, senza militarizzare il territorio ed i rapporti sociali, operando perché cessi davvero la terribile guerra permanente che l'occidente dei ricchi conduce contro i poveri del nord e del sud del mondo.
Tutti a Novara, quindi, il 30 maggio 2009 alle ore 15.00, davanti alla stazione ferroviaria in piazza Garibaldi. Da lì partiremo per percorrere le strade della città e per gridare forte la nostra opposizione all'ennesima impresa di morte.
Contro la militarizzazione dei territori, contro le fabbriche della morte, contro tutte le guerre, per la riconversione dei siti militari ad uso civile, per un diverso modello economico.
ASSEMBLEA PERMANENTE NO F-35
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http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=12883
Fallout of Serbia Bombing 'Continues to Kill'
By Vesna Peric Zimonjic
Global Research, March 27, 2009
Antiwar.com - 2009-03-24
Ten years after the NATO bombing of Serbia, concern is rising over a rise in the number of reported cases of cancer.
Some 15 tons of ammunition fortified with depleted uranium was dropped by way of more than 50,000 bombs and missiles in the 11 weeks of bombing of Serbia in 1999. The targets of the North Atlantic Treaty Organization (NATO) bombing were 116 locations, mostly in southern part of Serbia and the Kosovo region.
...
Depleted uranium (DU) is placed at the tip of bombs for piercing the armor of tanks and heavy military vehicles. Although weakened in the production process, the uranium remains highly toxic.
Experts disagree on the impact of depleted uranium on health. Some say that the aerosol produced on impact and combustion of DU ammunition can cause cancer and affect the kidneys, brain, liver, and heart. But some studies have found no significant impact on health or the environment.
The United Nations Environment Program (UNEP) sent a mission only in 2000, which focused on 11 spots in Kosovo and concluded that there was "no detectable widespread contamination of the ground surface by DU. A number of contamination points were identified by the mission but most of these were found to be only slightly contaminated."
A report by the World Health Organization (WHO) in 2001 came to a similar conclusion. However, British expert Keith Bavestock who was a part of the WHO team told Belgrade daily Politika that "not all data available to the WHO was included in the report." This, he said, "does not mean that the report is false; it is incomplete."
Local doctors have their own reports.
Nebojsa Srbljak, a physician from the Kosovan town Mitrovica, which still has a large Serb population, has spoken of a tenfold rise in leukemia cases. "Leukemia among children in Kosovo was at the rate of one per thousand before 1999," he told media representatives. "Since 1999, it rose to 1 percent."
Dr. Srbljak who is cooperating with an oncology clinic in the Kosovan capital Pristina, said that Albanian doctors too had told him there was "a significant rise" in the number of cancer patients since 1999. In the whole of Kosovo the cancer rate before 1999 was 10 among 300,000 people, and "today it stands at 20 among 60,000," he said.
"It's one tumor each day we're discovering now," radiologist Vlastimir Cvetkovic told IPS. "Prior to 1999 it was one in three months. And this is not just due to better diagnostics, as our working conditions were and remain modest. Besides, it's now younger and younger people, and children we're having as patients."
An alarming rise in cancer cases has been recorded also in neighboring Bosnia-Herzegovina, where DU was used by NATO against Bosnian Serb forces earlier in 1995. According to official figures, more than 300 people from the Sarajevo neighborhoods Hadzici and Han Pijesak in eastern Bosnia died of cancer from 1996 until 2000. Hadzici was inhabited and held by Bosnian Serbs during the war. It later came under the jurisdiction of the central Muslim-Croat government in Sarajevo.
"It's a pretty high number," local doctor Slavica Jovanovic told IPS. "But this seems to be a subject no one is willing to tackle. People from Hadzici have resettled elsewhere, and at the level of Bosnia-Herzegovina there's no will to go into it."
DU-related health problems have been reported among Italian soldiers who served as peacekeepers in Bosnia and in Kosovo. Several have died of cancer, and their families are now in a battle to prove that working and living next to DU-contaminated areas had proved fatal.
For Serbian authorities, DU problems seem as far away as Kosovo now, despite the fact that some 100,000 Serbs still live there, most of them near the divided town Mitrovica.
"Some 4,000 veterans have been under constant scrutiny as they were up to 50 meters from the point of impact of DU ammunition," Milan Misovic, head of the Working Medicine Department of the Military Medical Academy, told Serbian media. "So far, there is no increase in cancer among them. However, some changes can be expected in the next 10 to 15 years."
© Copyright Vesna Peric Zimonjic, Antiwar.com, 2009
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Les retombées du bombardement de la Serbie tuent toujours
Par Vesna Peric Zimonjic
Le 6 avril 2009
Antiwar.dom
Dix ans après les bombardements de l'OTAN sur la Serbie, l'appréhension monte devant l'accroissement du nombre de cas de cancer signalés.
Quelque 15 tonne d'uranium appauvri, renforçant plus de 50.000 bombes et missiles, ont été larguées durant les 11 semaines de bombardements de la Serbie en 1999. Les cibles des bombardements de l'Organisation du Traité Atlantique Nord (OTAN) consistaient en 116 sites, surtout au sud de la Serbie et dans la région du Kosovo.
L'uranium appauvri est mis au bout des bombes pour percer le blindage des chars et des véhicules militaires lourds. Bien que sa radioactivité soit affaiblie dans le procédé de production, l'uranium demeure hautement toxique.
Les experts sont en désaccord sur les impacts pour la santé de l'uranium appauvri. Quelques-uns disent que les aérosols produits par l'impact et la combustion de l'uranium appauvri des munitions peut provoquer le cancer et affecter les reins, le cerveau, le foie et le cur. Mais certaines études n'ont trouvé aucune impact significatif sur la santé ou l'environnement.
Le Programme Environnemental des Nations Unies (UNEP) a envoyé une mission seulement en 2000. Elle s'est focalisée sur 11 sites du Kosovo, et a conclu qu'il n'y avait « pas de contamination importante détectable de la surface du sol par de l'uranium appauvri. Un certain nombre de points de contamination ont été identifiés par la mission, mais la plupart d'entre eux n'ont été jugés que légèrement contaminés. »
En 2001, un rapport de l'Organisation Mondiale de la Santé (OMS) aboutissait à une conclusion similaire. Toutefois, l'expert britannique Keith Bavestock, qui faisait partie de l'équipe de l'OMS, a déclaré au quotidien de Belgrade Politika que « toutes les données dont disposait l'OMS n'avaient pas été incluses dans le rapport. Ça ne signifie pas que le rapport est faux ; il est incomplet. »
Les médecins locaux ont leurs propres données.
Nebojsa Srbljak, un médecin de la ville de Mitrovica au Kosovo, qui a toujours une grande population serbe, a parlé d'une multiplication par dix des cas de leucémie. Il a déclaré aux envoyés des médias : « Le taux des leucémies chez l'enfant au Kosovo était de un pour mille avant 1999. Depuis 1999, il est passé à un pour cent. »
Le Dr. Srbljak, qui aide dans une clinique de cancérologie de Pristina, la capitale du Kosovo, a déclaré que les médecins albanais lui ont dit aussi qu'il y avait « une augmentation importante » du nombre de patients atteints de cancers depuis 1999. Dans l'ensemble du Kosovo, a-t-il dit, le taux de cancer avant 1999 était de 10 pour 300.000, et « aujourd'hui, il s'élève à 20 pour 60.000. »
« C'est désormais une tumeur par jour que nous découvrons, » a dit le radiologue Vlastimir Cvetkovic à Inter Press Service. « Avant 1999, c'était une tous les trois mois. Et ce n'est pas juste dû à l'amélioration des diagnostics, car nos moyens de travail sont restés modestes. En outre, c'est maintenant chez les plus jeunes et les enfants que nous trouvons nos patients. »
Une augmentation alarmante des cas de cancer a aussi été enregistrée en Bosnie-Herzégovine voisine, où, en début 1995, de l'uranium appauvri a été utilisé par l'OTAN contre les forces serbes de Bosnie. Selon les chiffres officiels, plus de 300 personnes de Hadzici et Han Pijesak, dans le voisinage de Sarajevo à l'est de la Bosnie, sont mortes du cancer de 1996 à 2000. Hadzici était habitée et tenue par les Serbes de Bosnie pendant la guerre. Elle est passée plus tard sous la juridiction gouvernementale croato-musulmane centrale de Sarajevo.
« C'est un très grand nombre, » a déclaré à Inter Press Service le médecin local Slavica Jovanovic. « Mais il semble que ce soit un sujet que personne ne veuille aborder. La population de Hadzici devrait être réinstallée ailleurs, et, au niveau de la Bosnie-Herzégovine, il n'y a pas la volonté de s'embarquer là-dedans. »
Des problèmes de santé liés à l'uranium appauvri ont été signalés chez les soldats italiens qui ont servi au maintien de la paix en Bosnie et au Kosovo. Plusieurs sont morts du cancer et leurs familles se démènent aujourd'hui pour prouver que travailler et vivre à côté de zones contaminées par de l'uranium appauvri a été démontré fatal.
Pour les autorités serbes, les problèmes de l'uranium appauvri semblent aussi loin que le Kosovo, malgré le fait que quelque 100.000 Serbes vivent encore là-bas, près de la ville divisée de Mitrovica pour la plupart d'entre eux.
Milan Miovic;, chef du Département de la Médecine du Travail de l'Académie de Médecine Militaire, a déclaré à des médias serbes : « Quelque 4.000 anciens combattants font l'objet d'une surveillance constante car ils se sont trouvés à 50 mètres du point d'impact de munitions à l'uranium appauvri. Jusqu'à présent, le cancer ne progresse pas parmi eux. Mais on peut s'attendre à certains changements dans les prochains 10 à 15 ans. »
Article original en anglais : Fallout of Serbia Bombing 'Continues to Kill' , le 27 mars 2009.
http://www.globalresearch.ca/admin/rte/www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=12883
Traduction: Pétrus Lombard.
© Droits d'auteurs Vesna Peric Zimonjic, Antiwar.dom, 2009
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Contro il razzismo, il fascismo, l’imperialismo
controrevisionismo@...
http://controrevisionismo.attiviblog.com
COMUNICATO STAMPA – CON PREGHIERA DI PUBBLICAZIONE
Il Coordinamento nazionale contro il revisionismo per la verità, costituitosi come risultato del convegno “Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico” (Sesto S. Giovanni, 9 febbraio 2008) con lo scopo di contrastare la montante campagna di riscrittura della storia che mira ad instaurare una vera e propria egemonia politica e culturale nella società italiana, organizza il 18 e 19 aprile 2009 a Marina di Massa, presso l’ostello internazionale “Turimar” (via Bondano a Mare 4) il convegno “Trasformazioni dello Stato e della società: deriva autoritaria e mobilitazione reazionaria”. Il convegno vuole essere un contributo alla riappropriazione della nostra storia, di confronto della relatà attuale con il passato e uno strumento per affrontare più efficacemente il presente ed il futuro.
c/o la “Turimar ostello internazionale”, via Bondano a Mare 4
Convegno:
“Trasformazioni dello Stato e della società: deriva autoritaria e mobilitazione reazionaria"
SABATO 18 APRILE
ore 12.00: Saluti, comunicazioni e sistemazione
ore 13.00: Buffet
ore 14.00: Relazione introduttiva del Comitato nazionale contro il revisionismo storico per la verità
ore 14.20: Saluto dell'Anpi-Giovani di Massa
ore 14.30 Relazione: Il fascismo dallo squadrismo al ventennio; Nicola Tranfaglia
ore 15.00 Relazione: Dallo Stato liberale al regime fascista; dalle leggi razziali agli attuali decreti razzisti; Nicoletta Poidimani
Contributi:
ore 15.50: Associazione Duumchatu dei lavoratori del Bangladesh
ore 16.00: Comitato in Italia del JVP-SRI LANKA
ore 16.15: Pausa caffé;
ore 16.30: Relazione: L'imperialismo italiano: tra sogni di potenza, fallimenti militari e retorica della "brava gente"; Davide Conti
Contributi:
ore 17.00: intervento di un compagno palestinese
ore 17.15 Relazione: Controriforme istituzionali e costituzionali; Andrea Catone
ore 18.00 Dibattito
DOMENICA 19 APRILE
ore 9.30: Relazione: Revisionismo e mezzi di disinformazione; Alessandra Kersevan
Contributi:
ore 10.00: Collettivo Militant, Roma
ore 10.15: Relazione: Scuola di Razza: gli anni del razzismo fascista e quelli delle classi ponte; Gianluca Gabrielli
ore 11.00 Relazione: Lavoro: controriforme e processo di corporativizzazione; Primomaggio
Contributi:
ore 11.30 Assemblea Nazionale Ferrovieri
ore 11.45: Relazione: Il neofascismo oggi; Stefano Bartolini
ore 12.30: Intervento del Comitato nazionale contro i revisionismo storico per la verità
ore 12.45/13.45: Dibattito e conclusioni
Informazioni logistiche per il Convegno del 18-19 aprile a Marina di Massa (Ms)
Il Convegno si tiene alla “Turimar Ostello Internazionale” via Bondano a Mare 4.
Si arriva alla Turimar sia dal lungomare che dalla strada parallela interna (chiedere anche delle ex colonie Torino).
La Turimar, situata nella ex colonia Torino (costruita durante il ventennio), è stata ristrutturata da una quindicina di anni. Altre colonie del territorio erano colonie Fiat e Olivetti.
Trattamento completo (cena sabato, pernottamento, colazione e pranzo domenica):
singola 45 e., con bagno esterno 39 e., (mezza pensione 40 e. e 34 e.)
doppia 41 e., “ “ 36 e. “ “ 36 e. e 31 e.
tripla 39 e., “ “ 34 e. “ “ 34 e. e 29 e.
quadrupla 38 e., “ “ 33 e.
quintupla, sestupla a scendere di un e.
Per quanto riguarda il pranzo di sabato vediamo di organizzarci autonomamente con panini e bibite.
Sarebbe bene far pervenire quanto prima le presenze dei compagni in modo da avere un quadro più preciso di quali e quante sono le nostre necessità per le prenotazioni:
rivolgersi a controrevisionismo @ libero.it
Sabato 18 e domenica 19 aprile ‘09 a Marina di Massa
c/o la “Turimar ostello internazionale”, via Bondano a Mare 4
(per contatti e informazioni: controrevisionismo @ libero.it)
Convegno: “Trasformazioni dello Stato e della società: deriva autoritaria e mobilitazione reazionaria”
Il 9 febbraio ‘08, a Sesto S. Giovanni (Mi), abbiamo tenuto il Convegno “Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico” di cui abbiamo pubblicato gli Atti: “Foibe: revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica”. L’obiettivo del Convegno era:
- informare e denunciare i crimini del nazi-fascismo e di coloro che oggi hanno interesse a dimenticare e far dimenticare;
- difendere la memoria di chi si oppose e combatté nazisti e fascismo;
- respingere qualsiasi tipo di falsificazione della storia, di denigrazione del movimento partigiano, di cancellazione di quel periodo straordinario che fu la Resistenza 1943-45.
I risultati dei due “avvenimenti” (Convegno e Atti) sono le numerose adesioni e l’alta partecipazione al Convegno, le 1.000 copie del libro esaurite, una seconda ristampa di 600 copie e le numerose iniziative di presentazione promosse in questi mesi.
La storicizzazione degli Atti, attraverso la loro pubblicazione ha - a nostro avviso - assunto uno specifico significato nell’attuale contesto caratterizzato da un progressivo processo di “fascistizzazione” dello Stato e della società e si è rivelata un buon strumento nel tentativo di contrastare l’egemonia ideologica, politica e culturale incentrata sul revisionismo storico.
Perché il revisionismo deforma, falsifica e cancella la storia ? Un primo motivo, di carattere generale, è perché le classi reazionarie hanno bisogno, per tutelare i propri interessi e mantenersi al potere, di falsificare ogni cosa, ingannare le masse, propagandare ogni genere di assurdità. Finché esisteranno le classi, la lotta contro ogni genere di falsificazione e di intossicazione sarà all’ordine del giorno. Le classi reazionarie (e decadenti) temono la verità perché è a loro sfavorevole.
Un secondo motivo, di carattere particolare, è riferito all’attacco alla Resistenza 1943-45 iniziato immediatamente dopo guerra. Due teorie tentarono, fin da allora, di farsi strada: una fu quella dei responsabili del fascismo che, per cancellare i loro tradimenti e le loro infamie, sostennero che bisognava dimenticare il passato, che non si doveva più parlare di fascismo e di Resistenza, che fascisti e antifascisti avevano avuto le stesse colpe e gli stessi meriti ... ; l’altra fu quella di coloro che avversarono il fascismo ma che non mossero un dito per combatterlo. Costoro, oggi, tentano di creare la leggenda che gli italiani furono favorevoli alla Resistenza, che il movimento e le formazioni partigiane non vennero organizzate da nessuno, ma furono un fenomeno spontaneo.
Queste teorie si intrecciano e si condizionano reciprocamente. Ma è la seconda che legittima la prima. E’ la negazione dell’organizzazione, dei dirigenti, dei quadri, dei combattenti e la loro, successiva, denigrazione e criminalizzazione che opera un’azione nefasta contro le forze, protagoniste della Resistenza, per dividerle, disperderle, normalizzarle ... L’attacco alla Resistenza 1943-45 mostra oggi, ancor più di ieri, il connubio e la connivenza tra reazionari e revisionisti !
L’antifascismo ha il diritto (oltre al dovere) di opporsi a questa scellerata operazione ideologica, politica e culturale, contrastando ogni forma di revisionismo storico che offre il lasciapassare a vergognose proposte di legge come quella (ultima) di esponenti del PdL di istituire la legge 1360 su l’“Ordine del Tricolore” che vorrebbe riconoscere a fascisti e repubblichini, servi dei nazisti, onorificenze e vitalizi ... in quanto combattenti e patrioti (!) alla stregua dei partigiani.
L’operazione di equiparazione partigiani e fascisti ha assunto, oggi, maggiore vigore e forza. Come la stessa teoria di “italiani brava gente” che nasconde (e falsifica) la verità. Infatti, il fascismo si macchiò di efferati e indicibili crimini contro le popolazioni civili nella fase del colonialismo e delle aggressioni ad altri popoli. I fascisti, dopo l’8 settembre ’43, si misero al servizio dei nazisti collaborando attivamente con i criminali nelle stragi e negli eccidi, impuniti per oltre 60 anni in nome delle “ragioni di Stato”.
Si assiste, addirittura, alla rivalutazione di personaggi come Licio Gelli, venerabile della loggia P2 (Propaganda 2), che nel “Piano dirinascita democratica”, auspicava uno Stato ed una società sempre più autoritaria, reazionaria e presidenzialista. Se andiamo a rileggere quel programma possiamo constatare quanta parte sia stata realizzata e quante parti siano andate oltre lo stesso programma. Basti pensare alle c.d. riforme istituzionali e costituzionali, a quelle su scuola ed istruzione, pensioni, diritto di sciopero, precarietà e flessibilità della forza-lavoro, servizio militare, ecc.
Quel piano non poteva ancora prevedere una politica razzista come è stata esplicitata, dai vari governi succedutisi in questi anni, in quanto il fenomeno dell’immigrazione e la crisi generale (economica, politica, sociale e culturale) non erano così presenti edemergenti. Ma a colmare il vuoto vi hanno pensato i governi di questi anni (e di questi mesi) con leggi, decreti, provvedimenti e proposte, che niente hanno da invidiare alle leggi razziali del 1938 !
Attraverso una nuova forma di razzismo seminato quotidianamente nella società dai mass media e da leggi discriminatorie; attraverso la precarizzazione, la corporativizzazione e la frantumazione non più solo del lavoro, bensì della vita di milioni di persone.
E’ in corso una vera e propria campagna di mobilitazione reazionaria allo scopo di contrapporre l’uno contro l’altro: lavoratori, classi, categorie, ceti più deboli e immigrati. Dividi et impera con l’obiettivo di sostituire alla lotta di classe la lotta tra etnie e nazionalità !
In questo clima, bene, si inseriscono (e a tal fine vengono utilizzate) le scorribande dei gruppi neofascisti e della destra radicale per aggredire con il coltello e il fuoco immigrati, rom, i loro insediamenti e quanti sono schedati come “diversi”: dagli omosessuali ai giovani dei centri sociali, senza rinunciare a colpire compagni, antifascisti, giovani di sinistra, le loro sedi e ritrovi.
Come è avvenuto per il precedente Convegno del 9 febbraio 2008, si tratta di unire e combinare la politica con la storia: la militanza politica con la competenza storica. Cioè, costruire l’unità d’azione tra militanti politici e storici militanti. Altrettanto intendiamo fare in questo nuovo appuntamento.
Un Convegno che riproduca il lavoro collettivo ed organizzato, un’attività di denuncia e di controinformazione, di approfondimento, formazione ed orientamento, per contribuire a sviluppare gli indispensabili strumenti necessari a condurre la battaglia politica e la mobilitazione contro il revisionismo storico per la verità.
Un Convegno capace di ampliare l’orizzonte legando il vecchio al nuovo, il passato all’attualità. In sostanza, un lavoro complessivo e militante in difesa della nostra memoria storica e delle radici del nostro futuro.
Coordinamento nazionale contro il revisionismo storico per la verità
Contro il razzismo, il fascismo, l’imperialismo
Spenti i fuochi alla periferia di Strasburgo, la “grandeur” francese si misurerà da ora in poi all’interno di una alleanza che appare sin da subito poco incline a compiacere il piccolo De Gaulle di turno, Nicolas Sarkozy.
Lo scontro con gli Stati Uniti sull’ingresso della Turchia è solo una delle tante contraddizioni che rischiano di aumentare, anziché risolvere, i gravi problemi di gestione di una alleanza malata sempre di più di elefantiasi, incapace di risolvere sul campo il conflitto afgano, in empasse sul progetto di “scudo antimissile”, bloccata dalla Russia nell’offensiva georgiana contro l’Ossezia del Sud.
Il sofferto allargamento della NATO ad Est, il tentativo di integrazione con le strutture militari della UE, le ipotesi di proiezione di potenza ben oltre l’area eurasiatica e mediorientale indicano però una tendenza alla “soluzione militare” per affrontare la gravissima crisi economica attraversata dal sistema capitalistico.
Montare sul treno della guerra è di vitale importanza. Chi ne rimane escluso rischia di esserne schiacciato. Ecco quindi il feroce sgomitare di Stati e classi dirigenti: Tutti sui vagoni, possibilmente in prima classe, con il rischio di far deragliare l’intero convoglio. Al momento il contributo del movimento altermondialista all’auspicato incidente ferroviario è, alla luce dei fatti di Strasburgo, abbastanza debole.
I padroni di casa del vertice dovevano garantire, nel momento del “grande rientro” nell’alleanza, una assoluta calma nel cuore della City, intorno ai palazzi del potere militare occidentale. Così è stato.
Per tenere a debita distanza i militanti anti NATO dai luoghi di incontro dei “grandi” sono stati impiegati oltre 10.000 poliziotti, in cielo, in terra ed anche in acqua, con decine di motovedette e gommoni distribuiti intorno ai ponti che attraversano l’Ill.
Strasburgo si è trasformata in pochi giorni in una città sotto assedio, con i cittadini delle zone arancione e rossa ridotti ad una condizione di vigilati speciali. Ognuno con un pass del colore della zona di residenza, rivelatosi poi inutile nei momenti topici del vertice, la mattina ed il pomeriggio di sabato 4 aprile, quando neppure quello è servito per spostarsi da una zona all’altra.
Abbiamo assistito a proteste individuali di alcuni cittadini, ma nel complesso il corpo sociale di una città che prospera intorno alle istituzioni europee non si è organizzato contro lo stato d’assedio imposto dalla NATO. La “democrazia occidentale” ha i suoi costi, che i sudditi più fortunati sono evidentemente disposti a pagare.
Il variegato movimento contro la guerra affluito nella città francese non ha trovato mai un momento di vera sintesi politica, sia rispetto alle strategie attuali e future contro l’alleanza di guerra, che per la gestione della piazza negli stessi giorni del vertice.
Abbiamo osservato all’opera le molte anime del movimento, o di ciò che ne rimane, nelle forme storiche del Forum Sociale Europeo, attraverso le varie espressioni politiche, culturali, sindacali.
Durante il contro-summit di venerdì 3 aprile, svoltosi all’interno del centro sportivo di Illkirch Lixenbhul (all’estrema periferia della città), di fronte a circa 800 – 1.000 partecipanti si sono confrontati gli esponenti delle varie forze presenti, PCF, CGT francese, NPA (Nuovo Partito Anticapitalista francese), Socialist Workers (inglesi), la Linke tedesca, i greci del comitato internazionale per la pace (Greek Committee for International Détente and Peace - EEDYE), alcuni parlamentari del GUE, Attac France, donne in nero ed altri piccoli gruppi politici eminentemente tedeschi, polacchi, spagnoli. La presenza italiana è stata molto ridotta, con la presenza di circa 30 attivisti del Patto contro la guerra e delle donne in nero.
Il contro-summit organizzato dal Forum sociale è stato, a nostro giudizio, sostanzialmente edulcorato nei contenuti e debolissimo nei referenti politici.
Nessun riferimento diretto al ruolo imperialista dell’Europa, non una parola sulla guerra “costituente” della nuova NATO, ovvero il bombardamento sulla ex Jugoslavia, tema costato ai greci del EEDYE l’estromissione dal comitato organizzatore. Nonostante questo, è stato grazie a loro che l’aggressione nei Balcani è stata denunciata e discussa, attraverso una intera sessione del contro vertice.
Inviti a dir poco discutibili per i dibattiti finali (ai quali non abbiamo partecipato) del 5 aprile, con una rediviva Lidia Menapace tra i relatori. Si, proprio quella anziana signora che durante il governo Prodi, per giustificare il suo voto a favore dell'occupazione e dei bombardamenti della NATO sull’Afghanistan inventò l’agghiacciante teoria della “riduzione del danno”.
Una debolezza rivelatasi con ulteriore chiarezza durante la riunione organizzativa per la manifestazione anti NATO del 4 aprile, con gli esponenti francesi del Forum sociale a proporre l’accettazione dell’itinerario indicato all’ultimo momento dalle autorità: un percorso a 8 – 10 km dal centro storico, praticamente tra gli hangar della zona industriale e commerciale.
Il dibattito sul tema ha evidenziato una profonda e sostanziale divergenza nella gestione della piazza, tra chi accettava la rappresentazione in periferia e chi intendeva mantenere il tragitto iniziale dell’attraversamento del ponte d’Europa, verso la zona del summit.
Gli eventi di piazza determinatisi il giorno dopo evidenzieranno la sostanziale inconsistenza ed inutilità fattuale di quel confronto. Ma di questo accenneremo in seguito.
Nessuna sorpresa quindi se alcune espressioni più radicali del movimento contro la guerra si siano agglutinate in altri luoghi e con altre modalità, come il centro sociale “Molodoi”, in rue du Ban del la Roche ed il campeggio internazionale di Rue de Ganzau, nel quartiere di Neuhof, confinato a 7 chilometri dal centro storico. In questi luoghi altri i temi, altri gli interlocutori e gli obiettivi in discussione.
Sorprende invece che alcune forze politiche, espressione nei vari paesi di contenuti e lotte conseguenti contro il militarismo imperialista, continuino a frequentare ambiti oramai rivelatisi asfittici ed inadeguati ad affrontare le nuove sfide imposte all’umanità da un capitalismo in profonda crisi e per questo particolarmente aggressivo.
Sabato 4 aprile . Alla periferia di Strasburgo
Inutile descrivere la dinamica concreta degli avvenimenti della giornata clou del vertice e del contro vertice, degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine ( sugli eventi stiamo preparando un video molto circostanziato). Di questo hanno parlato abbondantemente le prezzolate agenzie di regime, con infiniti fermo immagine sugli incendi e sui redivivi e “feroci” black block.
La gestione della piazza da parte del sistema di controllo e di repressione degli Stati interessati (Francia e Germania in primis) è stata quasi impeccabile.
Dopo una intera giornata di scontri, un albergo di 8 piani dato completamente alle fiamme insieme alle grandi strutture che contenevano gli uffici frontalieri in prossimità del ponte d’Europa, i feriti e i fermati si contavano sulle dita di poche mani.
Osservando all’opera i poliziotti franco/tedeschi abbiamo capito ancora di più quanto sia l’odio che guida ed informa la mano dei “nostri”, così come egregiamente dimostrato a Genova nel 2001.
La manifestazione è stata incanalata dentro il recinto predefinito, all’estrema periferia di Strasburgo, abitata eminentemente da lavoratori, immigrati, precari, così come tante altre banlieue europee. Dalle case e dalle finestre di questo spicchio di città poche bandiere della pace e ancor meno espressioni di solidarietà e partecipazione al corteo. Alcune tensioni, invece, tra giovani simil banlieusards e settori di corteo poco propensi ad accettare una interlocuzione che possiamo eufemisticamente definire “rude”.
Nei fatti i vari tessuti sociali di questa metropoli di oltre 450.000 abitanti – dal centro alla periferia – sono apparsi sostanzialmente impermeabili alla mobilitazione contro la NATO.
Il diniego assoluto di attraversare il ponte d’Europa, così come era stato concordato nei giorni precedenti, la divisione della città in zone off limits e l’impressionante militarizzazione del territorio hanno evidenziato nel contempo il fallimento della cosiddetta “democrazia occidentale” e la sostanziale inutilità di contro /vertici che tentano in contemporanea di imporre un altro punto di vista politico rispetto alle determinanti prestabilite dai cosiddetti “grandi della terra”.
In queste condizioni accettare la logica del recinto – come proposto da alcuni leader del forum sociale - avrebbe significato divenire parte integrante del meccanismo “democratico”, funzionali alla sua legittimazione.
Ecco allora la legittima reazione all’impedimento fisico di un esercizio elementare come quello di manifestare. Alcune migliaia di manifestanti hanno ripetutamente - e legittimamente - tentato di forzare i blocchi della polizia. Tra essi i più organizzati sono stati quelli che vengono sbrigativamente definiti "black block", fenomeno giovanile ancora tutto da indagare, ma che poco ha a che vedere con una espressione politica definita. Moltissima tattica e mobilità para militare, nessuna idea oltre quella di distruggere tutti i simboli della civiltà, dalle cabine telefoniche agli alberghi.
Non siamo tra quelli che si stracciano le vesti di fronte ad incendi o devastazioni. Di ben altra natura e pesantezza sono le “operazioni chirurgiche “ dei bombardieri della NATO sui villaggi afgani.
Il problema, come sempre, è politico, ed attiene alla capacità dei futuri movimenti di rafforzare la propria presenza nel tessuto sociale delle metropoli. Se e quando le banlieu diverranno un retroterra strategico della lotta contro la guerra imperialista saremo in grado di risolvere anche la “contraddizione” black block.
La lezione di Strasburgo deve servire per affinare la riflessione sui metodi di azione nella nuova fase politica che abbiamo di fronte. Non è più tempo di contro vertici, ma di radicamento delle idee forza antimilitariste ed antimperialiste all’interno dell’impetuoso flusso di lotte che la crisi capitalistica determinerà in tutto il continente europeo e ancora più in là.
a cura della Rete "Disarmiamoli"
www.disarmiamoli.org
3384014989 3381028120
Mercredi 08 Avril 2009 |
Otan: le cercle vicieux de la violence |
Diana Johnstone |
6 avril 2009 Ce cycle était visible samedi le 4 avril à Strasbourg, où plusieurs milliers de policiers et un petit nombre de casseurs du Black Block ont volé la vedette à ce qui aurait dû être le début d’un nouveau mouvement de masse européen contre l’Otan. La manifestation pacifiste fut écrasée et désintégrée par la police en armes, pendant que des jeunes aux capuchons noirs jetaient des pierres, cassaient des vitres et mettaient le feu aux bâtiments. Provocateurs contre provocateursDans ce cycle de provocation, il n’y a aucun doute que c'est l'Otan qui a commencé. La célébration ostentatoire du 60ème anniversaire de l’Alliance tenue dans trois villes du Rhin, Strasbourg, Kehl et Baden Baden ce jour-là, constituait une insulte aux citoyens. Après tout, si les dirigeants de "l’Occident démocratique" sont tellement appréciés, pourquoi faut-il transformer les villes qui les reçoivent en forteresses assiégées pour les accueillir? Si les Européens bénéficient de la protection de l’Otan, pourquoi les tenir à distance de leur bienfaiteurs ? Mais bien sûr l’Otan n’est pas une force de défense. Depuis l’agression contre la Serbie il y dix ans jusqu’au bourbier afghan aujourd’hui, l’Otan se transforme progressivement en force expéditionnaire destinée aux interventions lointaines. Les mesures de sécurité draconiennes appliquées à trois villes européennes plutôt conservatrices, enfermant les habitants dans leurs domiciles, ressemblaient à une occupation étrangère. Malgré la grande – mais peut-être passagère – popularité d’Obama, le sommet de l’Otan a illustré l’écart qui se creuse entre les peuples et leurs dirigeants politiques. Grand « communicateur », le Président des Etats-Unis s’est efforcé de persuader les Européens qu’ils sont encore plus menacés par Osama bin Laden et Al Qaeda que les Américains, et doivent donc payer leur tribut en impôts et en soldats pour éliminer cette menace quelque part en Afghanistan, si ce n’est au Pakistan ou ailleurs. Les médias européens ont pu distraire le public de cette notion saugrenue en dirigeant l’attention vers la tenue vestimentaire de Michelle Obama. Mais, entre temps, des dizaines de milliers de citoyens européens se dirigeaient vers Strasbourg dans l’espoir de manifester leur désaccord. Ils avaient des arguments à faire entendre. Ils ont fini étouffés par des nuages de gaz lacrimogènes, et ont été traités comme des bêtes. La responsabilité du fiascoLa responsabilité de ce fiasco est partagée. De loin les plus responsables sont les forces de l'ordre qui ne cessent de durcir leurs modes de répression partout en Europe. Sous le regard des hélicoptères, les divers policiers, gendarmes et CRS pratiquent la technique d’origine anglaise de « kettling » qui consiste à diviser et à enfermer les manifestants à l’intérieur de petits espaces séparés, parfois entourés de barrières métalliques. Il s’agit de traiter les êtres humains comme du bétail. Plus de dix mille policiers ont employé un arsenal d’armes anti-personnelles contre un nombre comparable de manifestants sans défense. Des gaz lacrimogènes, des balles en caouchouc et des armes à « son et lumière » ont d’abord mis fin aux discours avant d’égarer les manifestant dispersés et désorientés. Tout cela a fini dans un chaos total. Ce fut le résultat recherché. Mais une part de responsabilité incombe aux organisateurs, si on peut utiliser ce mot pour un événement où l’organisation faisait à ce point défaut. La manifestation anti-Otan du 4 avril était organisée par un collectif de groupes de militants français dont aucun n’avait l’autorité pour imposer un plan cohérent. Ainsi, le doyen de ces groupes, le Mouvement de la Paix, a fini par exercer la plus grande influence sur les décisions, notamment celle d’accepter le choix du site pour le rassemblement offert par la Préfecture. Au lieu de pouvoir se rassembler sur une place publique et de défiler dans les rues de Strasbourg sous les fenêtres des habitants, avec leurs banderolles, leurs slogans et leur théâtre de rue, les manifestants furent exilés sur une île périphérique entre le Rhin et un grand canal dans une zone industrielle. Les deux seuls ponts permettant l’accès du côté français étaient faciles à bloquer pour les forces d’ordre. Il suffit de regarder un plan pour voir qu’il s’agissaitt d’un piège, et, sur le terrain, le dénivellement rendait celui-ci pire encore. Situé à quelques huit kilomètres de la gare, un jour où tout transport public était supprimé, le site était difficile à atteindre. De plus, le point de rassemblement et le parcours imposé était quasi invisible au public. Bref, les manifestants étaient coupés de toute communication avec le public. Et la souricière donnait l’avantage à la police pour exercer ses méthodes de répression. Pourtant les organisateurs ont accepté ce site inacceptable – sans même fournir un service d’ordre pour guider et essayer de protéger les manifestants. Il est vrai qu’en échange, la Préfecture avait fait certaines promesses – non tenues. Les ponts et les rues qui devaient rester ouverts pour permettre aux manifestants de joindre le rassemblement sur l’île se trouvaient bloqués de façon imprévisible par la police, provoquant les premières échauffourées. Curieusement, plusieurs milliers de manifestant pacifistes furent bloqués sur la rive allemande du Rhin, sans jamais pouvoir rejoindre le rassemblement, tandis que des Black Block allemands y parvenaient. En général, la police a traité les pacifistes comme l’ennemi dans une guerre civile, sans protéger les personnes ou les biens de la minorité violente. Le Black BlockLes pacifistes ne pouvaient concurrencer les casseurs du Black Block, pourtant beaucoup moins nombreux. Contrairement aux pacifistes, ils paraissent, sur les vidéos, comme étant maîtres de leur propre jeu, en combat avec la police. Il est probable qu’ils en éprouvent fierté et satisfaction. Errare humanum est. Les mauvaises intentions fleurissent, mais les erreurs sont encore plus courantes. Un mouvement intelligent contre l’Otan doit essayer d’appliquer l’alternative à la guerre – l’argumentation rationnelle – en toutes circonstances. Nous devons débattre avec les gens qui se trompent sur l’Otan, pour expliquer sa nocivité. Et nous devons débattre avec ceux du Black Block, pour signaler ce qui ne va pas dans leur forme de protestation. Comment entamer un tel dialogue n’est pas évident. En faisant l’hypothèse que les participants aux actions du Black Block ne sont pas tous des policiers déguisés, j’inviterais, si j’en avais les moyens, ceux qui sont sincères à prendre en considération plusieurs idées.
Que faire?L’année 2008 fut un vrai tournant, avec deux événements de très grande portée qui changent, petit à petit, la vision du monde que peuvent avoir la plupat des gens : l’effondrement financier, et l’attaque israélienne contre Gaza. Les répercussions s'en feront de plus en plus sentir. Elles préparent le terrain pour l’opposition massive des peuples aux puissances financières et militaires qui dirigent l’Occident et qui s’efforcent toujours, à travers l’Otan en particulier, d'imposer leur domination au monde entier. Il y a des indices que le pouvoir reconnaît le danger et prépare des technologies de répression pour contrer les révoltes à venir. Il est urgent de fournir des alternatives politiques en termes de programmes et d’organisation. Si les manifestations de masse sont vulnérables à la répression policière et aux casseurs, il faut inventer d’autres moyens plus variés et plus flexibles pour communiquer les uns avec les autres afin d' élargir un mouvement cohérent capable de combattre la militarisation de la société et de construire une économie centrée sur les véritables besoins des êtres humains. En tout cas, toute manifestion future contre l’Otan doit se doter de son propre service d’ordre. On ne peut pas mélanger des manifestants pacifiques avec les casseurs qui cherchent ce que cherche la police : les combats violents. |
http://www.michelcollon.info/index.php?view=article&catid=6%3Aarticles&id=1992%3Ala-mission-mondiale-nauseabonde-de-lotan&option=com_content&Itemid=11
Mercredi 08 Avril 2009
La mission tentaculaire de l’Otan embrasse la France |
Diana Johnstone |
L’OTAN, le bras principal à l’étranger du complexe militaro-industriel des Etats-Unis, ne fait que s’étendre. Sa raison d’être originelle, le bloc soviétique supposé menaçant, est morte depuis 20 ans. Mais à l’instar du complexe militaro-industriel lui-même, l’OTAN est maintenue en vie et continue de croître à cause d’une combinaison d’intérêts économiques bien établis, d’inertie institutionnelle et d’un état d’esprit officiel proche de la paranoïa, avec des boîtes à idées bien financées (les « think tanks ») qui cherchent désespérément des « menaces ». 29 mars 2009 Ce mastodonte s’apprête à célébrer son 60ème anniversaire en avril, sur le Rhin, à Strasbourg en France et à Kehl et Baden Baden en Allemagne. Le président français, Nicolas Sarkozy, dont la popularité s’effrite, lui offre un cadeau exceptionnel : le retour de la France dans le « commandement intégré » de l’OTAN. Cet événement bureaucratique, dont la signification pratique reste peu claire, fournit au chœur des fonctionnaires et des éditorialistes OTANolâtres de quoi s’enorgueillir. Voyez ! Ces idiots de Français ont reconnu leur erreur et sont rentrés au bercail. Sarkozy dit les choses autrement. Il affirme qu’en rejoignant le commandement de l’OTAN l’importance de la France s’accroîtra, en lui donnant de l’influence sur la stratégie et les opérations d’une Alliance qu’elle n’a jamais quittée et pour laquelle elle a continué de contribuer plus que sa part en terme de forces armées. Le défaut dans cet argument est que c’était en premier lieu le contrôle total et inébranlable des Etats-Unis sur le commandement intégré de l’OTAN qui persuada le Général Charles de Gaulle à le quitter, en mars 1966. De Gaulle ne le fit pas sur un coup de tête. Il avait essayé de changer le processus de prise de décision et avait constaté que c’était impossible. La menace soviétique avait diminué et de Gaulle ne voulait pas être entraîné dans des guerres qu’il pensait inutiles, comme les efforts étasuniens de gagner la guerre en Indochine que la France avait déjà perdue et qu’il considérait ingagnable. Il voulait que la France soit capable de poursuivre ses propres intérêts au Proche-Orient et en Afrique. D’autre part, la présence militaire des Etats-Unis en France stimulait les manifestations « Yankee go home ». Le transfert du commandement de l’OTAN en Belgique satisfaisait tout le monde. Le prédécesseur de Sarkozy, Jacques Chirac, étiqueté à tort par les médias étasuniens comme « anti-américain », était déjà prêt à rejoindre le commandement de l’OTAN s’il pouvait obtenir quelque chose de substantiel en retour, comme le commandement de l’OTAN en Méditerranée. Les Etats-Unis refusèrent platement. A la place de Chirac, Sarkozy accepte des miettes : l’affectation d’officiers supérieurs français à un commandement au Portugal et dans quelque base d’entraînement aux Etats-Unis. « Rien n’a été négocié. Deux ou trois officiers français supplémentaires en position de recevoir des ordres des Américains ne changeront rien », a observé l’ancien ministre français des affaires étrangères, Hubert Védrine, lors d’un récent colloque sur la France et l’Otan. Sarkozy a annoncé ce retour le 11 mars, six jours avant que cette question ne soit débattue par l’Assemblée Nationale. Les protestations de gauche comme de droite seront vaines. Il semble qu’il y ait deux causes principales à cette reddition inconditionnelle. L’une est la psychologie de Sarkozy lui-même, dont l’adoration pour les aspects les plus superficiels des Etats-Unis s’est exprimée dans son discours embarrassant devant le Congrès des Etats-Unis en novembre 2007. Sarkozy est peut-être le premier président français qui semble ne pas aimer la France. Ou, du moins, qui semble préférer les Etats-Unis (la version qu’il a vue à la télévision). Il peut donner l’impression d’avoir voulu être le président de la France, non pas par amour pour son pays, mais par vengeance sociale contre lui. Depuis le début, il s’est montré pressé de « normaliser » la France, c’est-à-dire, de la refaçonner en accord avec le modèle américain. L’autre cause, moins flagrante mais plus objective, est la récente expansion de l’Union Européenne. L’absorption rapide de tous les anciens satellites d’Europe de l’Est, ainsi que des anciennes républiques soviétiques d’Estonie, de Lettonie et de Lituanie, a radicalement changé l’équilibre du pouvoir au sein de l’UE elle-même. Les nations fondatrices, la France, l’Allemagne, l’Italie et les pays du Benelux, ne peuvent plus guider l’Union vers une politique étrangère et de sécurité unifiée. Après le refus de la France et de l’Allemagne d’accepter l’invasion de l’Irak, Donald Rumsfeld a discrédité ces deux pays comme faisant partie de la « vieille Europe » et il s’est gargarisé de la volonté de la « nouvelle Europe » de suivre l’exemple des Etats-Unis. La Grande-Bretagne à l’Ouest et les « nouveaux » satellites européens à l’Est sont plus attachés aux Etats-Unis, politiquement et émotionnellement, qu’ils ne le sont à l’Union Européenne qui les a accueillis et leur a apportés une considérable aide économique au développement et un droit de veto sur les questions politiques majeures. Le rêve européen briséCette expansion a enterré de fait le projet français de longue date de construire une force de défense européenne pouvant agir hors du commandement de l’OTAN. Les dirigeants de la Pologne et des Etats Baltes veulent une défense américaine, à travers l’Otan, point. Ils n’accepteraient jamais le projet français d’une défense européenne qui ne serait pas liée à l’OTAN et aux Etats-Unis. La France a son propre complexe militaro-industriel , un nain comparé au complexe militaro-industriel américain, mais le plus grand de l’Europe occidentale. Tout complexe de ce type a besoin de marchés à l’exportation pour son industrie d’armement. Le marché avec le plus grand potentiel aurait été des forces armées européennes indépendantes. Sans cette perspective, certains pouvaient espérer qu’en rejoignant le commandement intégré les marchés de l’OTAN s’ouvriraient à la production militaire française. Un espoir ténu, cependant. Les Etats-Unis protègent jalousement les acquisitions majeures de l’OTAN au bénéfice de leur propre industrie. La France n’aura probablement pas beaucoup d’influence au sein de l’OTAN pour la même raison qui fait qu’elle abandonne sa tentative de construire une armée européenne indépendante. Les Européens sont eux-mêmes profondément divisés. Avec une Europe divisée, les Etats-Unis règnent. De plus, avec la crise économique qui s’accentue, l’argent est de moins en moins disponible pour l’armement. Du point de vue de l’intérêt national français, ce faible espoir de commercialiser des équipements militaires lourds est plus que compromis par les conséquences politiques désastreuses de l’acte d’allégeance de Sarkozy. Il est vrai que même hors du commandement intégré de l’OTAN l’indépendance de la France n’était que relative. La France a suivi les Etats-Unis dans la première guerre du Golfe – le Président François Mitterrand espéra vainement gagner ainsi de l’influence à Washington, le mirage habituel qui attire les alliés dans les opérations étasuniennes douteuses. La France s’est jointe à l’OTAN en 1999 dans la guerre contre la Yougoslavie, malgré les doutes aux plus hauts niveaux. Mais en 2003, le Président Jacques Chirac et son ministre des affaires étrangères Dominique de Villepin ont réellement usé de leur indépendance en rejetant l’invasion de l’Irak. Il est généralement reconnu que la position française a permis à l’Allemagne de faire de même. La Belgique a suivi. Le discours de Villepin, le 14 février 2003, au Conseil de Sécurité des Nations-Unies, donnant la priorité au désarmement et à la paix sur la guerre, reçut une rare standing ovation. Le discours de Villepin fut immensément populaire dans le monde entier et a accru énormément le prestige de la France, en particulier dans le monde arabe. Mais, de retour à Paris, la haine personnelle entre Sarkozy et Villepin atteignit des sommets passionnels et l’on peut suspecter que le retour de Sarkozy dans l’obédience de l’OTAN est également un acte de vengeance personnelle. Le pire effet politique est beaucoup plus vaste. L’impression est à présent créée que « l’Occident » - l’Europe et l’Amérique du Nord - se barricadent contre le reste du monde par une alliance militaire. Rétrospectivement, la dissidence française a rendu service à l’ensemble du monde occidental en donnant l’impression - ou l’illusion - que la pensée et l’action indépendantes étaient toujours possibles et que quelqu’un en Europe pouvait écouter ce que d’autres parties du monde pensaient et disaient. Désormais, ce « resserrement des rangs », salué par les fervents défenseurs de l’OTAN comme « améliorant notre sécurité », sonnera l’alarme dans le reste du monde. L’empire semble resserrer ses rangs en vue de faire la loi dans le monde. Les Etats-Unis et ses alliés ne prétendent pas ouvertement diriger le monde, seulement le réguler. L’Ouest contrôle les institutions financières mondiale, le FMI et la Banque Mondiale. Il contrôle le judiciaire, la Cour Pénale Internationale, laquelle, en six années d’existence, a jugé seulementun obscur chef de guerre congolais et mis en accusation 12 autres personnes, toutes africaines – alors que, pendant ce temps, les Etats-Unis causent la mort de centaines de milliers, voire de millions de personnes en Irak et en Afghanistan et soutiennent l’agression continuelle d’Israël contre le peuple palestinien. Pour le reste du monde, l’OTAN n’est que la branche armée de cette entreprise de domination. Et cela à un moment où le système du capitalisme financier dominé par l’Ouest entraîne l’économie mondiale dans l’effondrement. Cette gesticulation, consistant à « montrer l’unité occidentale » pour « notre sécurité », ne peut que rendre le reste du monde inquiet pour l’avenir. Pendant ce temps, l’OTAN manœuvre chaque jour un peu plus pour encercler la Russie avec des bases militaires et des alliances hostiles, notamment en Géorgie. En dépit des sourires pendant les dîners avec son homologue russe, Sergueï Lavrov, Hillary Clinton répète le mantra étonnant selon lequel « les sphères d’influence ne sont pas acceptables » - voulant dire, bien sûr, que la sphère historique russe est inacceptable, tandis que les Etats-Unis l’incorporent vigoureusement dans leur propre sphère d’influence, qui s’appelle l’OTAN. Déjà, la Chine et la Russie accroissent leur coopération en matière de défense. Les intérêts économiques et l’inertie institutionnelle de l’OTAN poussent le monde vers un alignement préalable à la guerre bien plus dangereux que la Guerre Froide. La leçon que l’OTAN refuse d’apprendre est que sa recherche d’ennemis crée des ennemis. La guerre contre le terrorisme nourrit le terrorisme. Entourer la Russie avec des missiles soi-disant « défensifs » - lorsque tout stratège sait qu’un bouclier accompagné d’une épée est aussi une arme offensive – créera un ennemi russe. La recherche des menacesPour se prouver à elle-même qu’elle est réellement « défensive », l’OTAN continue de rechercher des menaces. Eh bien, le monde est un endroit agité, en grande partie grâce à la sorte de mondialisation économique imposée par les Etats-Unis au cours des décennies passées ! Cela pourrait être le moment d’entreprendre des efforts diplomatiques et politiques afin de mettre au point des moyens internationalement acceptés pour traiter les problèmes tels que la crise économique mondiale, le changement climatique, l’utilisation de l’énergie, les pirates informatiques (« la guerre cybernétique »). Les groupes de réflexion de l’OTAN se jettent sur ces problèmes pour y trouver de nouvelles « menaces » qui doivent être traitées par l’OTAN. Cela conduit à une militarisation des décisions, là où elles devraient être démilitarisées. Par exemple, que peut bien vouloir dire répondre à la menace supposée du changement climatique avec des moyens militaires ? La réponse semble évidente : la force militaire peut être utilisée d’une manière ou d’une autre contre les populations obligées de fuir de chez elles à cause des sécheresses ou des inondations. Peut-être, comme au Darfour, la sécheresse conduira-t-elle à des conflits entre groupes ethniques ou sociaux. Ensuite, l’OTAN peut décider quel est le « bon » camp et bombarder l’autre camp. Quelque chose de ce genre. Le monde semble en effet se diriger vers une période de troubles. L’Otan semble se préparer à affronter ces troubles en utilisant la force armée contre des populations indisciplinées. Cela sera évident lors de la célébration du soixantième anniversaire de l’OTAN, qui se déroulera les 3 et 4 avril prochains à Strasbourg et à Kehl. Ces villes seront transformées en camps armés. Les habitants de la ville tranquille de Strasbourg sont obligés demander des badges pour pouvoir quitter leurs propres habitations ou y entrer durant ce joyeux évènement. Aux moments cruciaux, ils ne seront pas autorisés du tout à quitter leur domicile, sauf en cas d’urgence. Le transport urbain sera stoppé. Ces villes seront aussi mortes que si elles avaient été bombardées, afin de permettre aux dignitaires de l’OTAN de simuler une démonstration de paix. Le point culminant sera une séance de photos de dix minutes, lorsque les dirigeants français et allemand se serreront la main sur le pont au-dessus du Rhin reliant Strasbourg à Kehl. Comme si Angela Merkel et Nicolas Sarkozy faisaient la paix entre la France et l’Allemagne pour la première fois ! Les gens du cru seront enfermés afin de ne pas déranger cette mascarade. |
Il monumento dedicato agli eroi di Vig, situato nella piazza centrale di Scutari è stato vigliaccamente e vergognosamente spostato in una discarica di immondizie. E' un fatto gravissimo, una grave offesa ai partigiani albanesi caduti per sconfiggere il nazifascismo.
Non solo, anche la lapide e la via dedicata all'eroico combattente partigiano italiano Terzilio Cardinali, Medaglia d'Oro, sono state rimosse!
Poichè entro marzo il Presidente della Repubblica effettuerà una visita ufficiale in l'Albania si è pensato, insieme alle figlie di Cardinali e a varie sezioni ANPI, di far pervenire una lettera in cui si esprima tutto lo sdegno delle forze sinceramente antifasciste.
Non possiamo restare indifferenti perchè è un insulto non solo ai partigiani albanesi ma anche ai tantissimi italiani che in quella terra seppero schierarsi dalla parte giusta costituendo il "Battaglione Antonio Gramsci" con atti di grande eroismo.
Penso che questo sia il minimo che si debba fare.
Piero Beldì
Segretario ANPI Ovest Ticino