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La marcia eroica dei 680 di Matic Poljana
Sono onorato dell'invito a partecipare a questo raduno di antifascisti e partigiani, in occasione del sessantesimo anniversario della vittoria sul fascismo, soprattutto per il fatto che ho aderito alla lotta armata prima del compimento del mio sedicesimo anno di età. In questa lotta mi ha coraggiosamente accompagnato mia madre Maria, che vi ha perso la vita l'11 agosto 1942, quale primo operatore sanitario della regione. Sono stato il più giovane tra le guardie di Tito, e ho trascorso al suo fianco otto mesi di guerra, impegnato nelle due più cruenti battaglie della nostra lotta. Riguardo a quest'esperienza ho pubblicato un libro intitolato "Al seguito di Tito" (U Titovoj pratnji).
Durante la seconda guerra mondiale, sotto la direzione del Partito comunista, con a capo Josip Broz Tito, in Jugoslavia è stata organizzata una guerra antifascista vittoriosa e di grandi proporzioni. In essa ha svolto un ruolo di rilievo anche la Croazia antifascista, che si è opposta alla dittatura di Pavelic; le è stato reso merito nella Costituzione dell'attuale Stato autonomo di Croazia, che in essa viene definito "un paese fondato sulle conquiste della lotta antifascista".
Purtroppo in questa stessa Croazia, dopo i cambiamenti sociali degli anni Novanta, sono pur sempre presenti, come in nessun'altra parte al mondo, idee e attività di estrema destra. Per illustrare quanto affermo citerò solo alcuni dati.
In Croazia, dopo i cambiamenti sociali degli anni Novanta sono stati demoliti o danneggiati 3.000 mila monumenti e lapidi dedicate alla lotta antifascista.
I diritti acquisiti dai combattenti antifascisti sono stati radicalmente limitati. Alcune vie sono state intitolate a politici fascisti (ustascia).
I libri di testo traboccano di errori storici relativi all'epoca recente, cosicché i giovani non hanno modo di trarre alcun insegnamento riguardo alla lotta antifascista. Sono stati eretti e successivamente smantellati anche dei monumenti dedicati a delinquenti fascisti. A Zara i neofascisti hanno organizzato una marcia indossando uniformi e recando insegne fasciste.
Il 27 dicembre [2004] è stato minato anche il monumento al maggiore e più noto combattente antifascista, Josip Broz Tito, nei pressi della sua casa natale a Kumrovec.
Poco tempo fa, sull'isola di Murter è stato minato ancora uno dei tanti monumenti partigiani.
La lotta antifascista nel litorale croato e nella regione del Gorski Kotar si è evoluta prima e in modo più massiccio rispetto alle altre regioni croate. Vi hanno contribuito il movimento operaio consolidato prima della guerra, la forte influenza del Partito Comunista della Croazia, l'orientamento antifascista della popolazione stessa ed altri fattori.
Per tali motivi, già nel 1941 venne creato un numero considerevole di accampamenti partigiani; sul finire dello stesso anno quello del Tuhobic contava ben 120 combattenti.
Parallelamente, evolvevano anche altre istituzioni ed organi del potere popolare legate al movimento di liberazione. Continuava ad aumentare il numero dei membri e delle organizzazioni del Partito comunista e della gioventù, venivano istituite le organizzazioni del Partito comunista e della gioventù, venivano istituite le organizzazioni del fronte antifascista delle donne e della gioventù, che avrebbero rivestito un ruolo importantissimo nel corso della guerra.
L'entità numerica delle unità partigiane andava aumentando di giorno in giorno. Il 10 marzo 1942 il Distaccamento litoraneo montano contava 608 combattenti. Le unità partigiane portavano a termine operazioni di successo in tutte le direzioni.
L'eco di queste gesta faceva accorrere un numero sempre più grande di nuovi partecipanti. Dalla cittadina di Delnice si unirono alla lotta ben 150 giovani.
Alla fine di marzo fu costituito ancora un battaglione. In meno di un mese il distaccamento aumentò di 700 nuovi combattenti, mentre il 10 aprile ne contava già 1136.
A quei tempi, in base alle esperienze positive delle prime brigate proletarie, il Comandante supremo Josip Broz Tito diede il via ad un'azione su vasta scala, tesa a fondare truppe e battaglioni proletari d'assalto e giovanili in tutte le regioni della Jugoslavia, in quanto aveva già una visione netta riguardo alla progressiva creazione di un esercito di liberazione popolare della Jugoslavia, poiché solo un organismo militare regolare avrebbe portato alla realizzazione dei fini strategici.
Alla fine del 1942 vennero pertanto formate 28 brigate partigiane e 85 distaccamenti. Nel corso del 1943 furono istituite 21 divisioni e 90 brigate. Si proseguì inoltre con la formazione di distaccamenti partigiani il cui compito era quello di coprire e difendere i territori e mobilitare nuovi combattenti.
L'Esercito di liberazione popolare contava allora 350 mila combattenti. Durante il 1944 vennero formati 15 corpi d'armata, 35 divisioni, 180 brigate e 142 distaccamenti.
Durante l'intero corso della guerra, in Jugoslavia vennero costituite 68 divisioni, 4 delle quali italiane, 367 brigate e 556 distaccamenti partigiani. L'Esercito di liberazione popolare e i distaccamenti partigiani della Jugoslavia contavano, alla fine della guerra, all'incirca 800.000 mila combattenti.
La creazione e l'evoluzione dell'Esercito di liberazione popolare della Jugoslavia è un esempio unico nella storia. Praticamente dal nulla, oltre ai 6.000 membri del Partito comunista e ai 12.000 membri della gioventù comunista (SKOJ), in un clima popolare antifascista, fu costituito un esercito sotto la guida di Tito, che alla fine della guerra fu in grado di combattere ad armi pari a fianco degli Alleati, per sbaragliare il nazismo, ossia il male più grande della storia umana.
L'Esercito di liberazione popolare della Jugoslavia s'impegnò, nelle operazioni finali, a difendere parte del fronte alleato dall'Ungheria al Mare Adriatico. Sfondando il fronte dello Srijem il 12 aprile 1945, continuò a procedere vittoriosamente verso occidente liberando il paese con le proprie forze. Il forte afflusso di combattenti nelle unità della regione di Brinj, portò alla costituzione del Quarto battaglione battezzato col nome della coraggiosa partigiana Ljubica Gerovac, caduta il 16 aprile.
Alla compagnia delle cittadine di Susak e Kastav si accodò in una quindicina di giorni un centinaio di nuovi combattenti per cui venne istituito anche il Quinto battaglione, che ebbe il nome del partigiano istriano Vladimir Gortan. È di particolare importanza il fatto che esso venne costituito nei pressi del confine italo - jugoslavo, col compito di penetrare con una parte delle sue forze in Istria, per sostenere lo sviluppo del movimento di liberazione popolare.
La situazione militare e politica nel territorio della Quinta zona operativa era molto favorevole. Le azioni militari erano frequenti e di successo. La mobilitazione dei combattenti nuovi procedeva molto bene. Il comando della zona istituì pertanto due nuovi distaccamenti verso la fine del 1942.
L'occupatore non riusciva ad arginare la situazione, terrorizzava e minacciava il popolo. Iniziò bruciare i villaggi e ad uccidere la popolazione inerme. Nel Castuano, il 5 giugno furono uccisi dodici giovani, mentre il 12 luglio del 1942 nel villaggio di Podhum furono fucilati oltre 100 uomini dai 16 ai 65 anni d'età; le case furono depredate e incendiate e le donne, i vecchi e i bambini furono deportati nei campi di concentramento.
L'occupatore italiano diede quindi il via all'offensiva denominata "Operazione Risnjak". Le forze impiegate erano di 20.000 uomini circa e furono dispiegate nel territorio controllato dal Secondo distaccamento. Venne però catturata nei boschi parte della popolazione che vi aveva trovato rifugio e che quindi venne deportata nei campi di concentramento.
Nel settembre 1942 l'occupatore italiano intraprese un'operazione ancor più massiccia, denominata "Velika Kapela", diretta nuovamente al territorio del Secondo distaccamento. L'occupatore ingaggiò 40.000 soldati, parte dei quali erano traditori del popolo. Il comandante della Quinta zona operativa aveva però eseguito la ritirata di tutte le forze partigiane per cui l'offensiva andò a vuoto. I villaggi abbandonati furono messi a ferro e fuoco. Otto battaglioni partigiani riuscirono ad attaccare l'occupatore alle spalle infliggendogli notevoli perdite.
Fallì ancora un tentativo dell'occupatore di distruggere le forze partigiane della zona litoraneo montana. Si verificò invece un loro sostanziale rafforzamento, cosicché subito dopo l'operazione "Velika Kapela" (nome della montagna), il 6 ottobre 1942 a Dreznica venne fondata la prima brigata litoraneo montana, cui fece seguito la seconda il 26 novembre. Queste due unità tattico - operative diedero molto filo da torcere all'occupatore nel periodo successivo. Verso la metà dell'aprile 1943 dalla loro fusione nacque la Tredicesima divisione litoraneo montana.
L'Italia fascista di Mussolini capitolò l'8 settembre. L'Esercito di liberazione popolare della Jugoslavia si preparava già a quest'evento. Le unità vennero indirizzate alle guarnigioni italiane per effettuarne il disarmo. Nel corso della capitolazione dell'Italia vennero requisiti grandi quantitativi di armi e materiale bellico. In tutte le regioni si manifestò un'insurrezione di massa. In Istria venne fondata la Prima brigata "Vladimir Gortan".
Un gran numero di militari italiani passò all'Esercito di liberazione popolare. Si costituirono anche delle unità italiane speciali, ovvero ben 14 brigate e 2 divisioni.
L'occupatore tedesco reagì tempestivamente e in modo energico, allo scopo di colmare il vuoto venutosi a creare con la capitolazione dell'Italia. Numerose unità dell'Esercito popolare, completate con gran numero di combattenti inesperti, vennero a trovarsi in una situazione difficile. Alcune di esse furono temporaneamente smembrate.
Era l'inizio dell'inverno 1943/1944, le unità della Tredicesima divisione continuavano la lotta nel territorio montano della Lika e del Gorski Kotar.
Dopo scontri cruenti con i tedeschi, circa 1.600 combattenti vennero sorpresi l'11 e il 12 di febbraio da una tremenda tormenta nella regione montana quasi del tutto disabitata, poiché la popolazione si era ritirata nei boschi.
Un simile raggruppamento di soldati e civili in una regione inospitale provocò tutta una serie di problemi sia per quanto riguardava il riparo che i rifornimenti.
La Seconda brigata si trovò nella situazione più difficile. Essa si riunì alla propria divisione dopo tre mesi di marce quotidiane e di scontri violenti e sfibranti, oramai ridotta allo stremo. Persero la vita, furono feriti o si ammalarono gravemente più di 200 dei suoi combattenti. Più della metà dei rimanenti giunse priva di calzature, vestita di indumenti nient'affatto idonei al rigore dell'inverno.
Prendendo in considerazione tutto ciò si fece strada l'idea di trasferire tutto il contingente in un altro territorio per evitare conseguenze tragiche.
Venne quindi approvata la proposta del comando della Seconda brigata di organizzare il trasferimento nel Gorski Kotar. Il 19 febbraio 1944, al mattino presto, dopo una frugale colazione, la Seconda brigata con 680 combattenti circa partì in marcia da Dreznica diretta a Mrkopalj attraverso Jasenak e la piana di Matic (Matic Poljana).
I combattenti e i loro ufficiali erano contenti di trasferirsi in una zona che avrebbe offerto loro condizioni di sopravvivenza migliori. Nessuno di essi immaginava ciò che sarebbe accaduto la tragica notte tra il 19 e il 20 febbraio. La giornata invernale era rigida ma serena. Dopo un paio di soste, la brigata giunse al villaggio di Jasenak, dove si sarebbe rifocillata e avrebbe pernottato. Qui però non trovò né cibo né rifugio, per cui i combattenti proseguirono la marcia.
Gli inverni della zona sono noti per loro rigidità e lunghezza. Alle ore 17 il freddo si fece più pungente. Nella neve alta e nel gelo i cavalli e i muli cominciarono dapprima a perdere il passo, poi a cadere ed infine a soccombere. Alcuni furono fatti tornare a Dreznica, per cui i combattenti si sobbarcarono il loro carico.
Il tempo cominciò a peggiorare. La neve, cadendo sempre più fitta, rallentava il passo e allungava la colonna dei combattenti. La stanchezza, la fame e lo sfinimento rendevano l'avanzata quasi impossibile. La tormenta non dava tregua, il vento schiantava i rami e addirittura gli alberi. La lunga colonna conduceva una battaglia impari con le forze della natura. Il freddo gelava il sangue nelle vene, sventrava gli alberi di faggio come nemmeno un'arma sarebbe riuscita a fare. Chi conosce quei luoghi dice che ciò accade a temperature inferiori ai 35° sotto zero.
La colonna procedeva ormai quasi impercettibilmente; i combattenti si trascinavano le gambe quasi fossero di piombo. Il comando cercava di alleviare la marcia alternando le unità alla testa della colonna, per aprire la pista nella neve alta due metri. Parte degli armamenti pesanti venne abbandonata e nascosta. Tornare era impossibile e proseguire sempre più difficile. La "morte bianca" (bijela smrt) affilava i suoi denti e prima ancora di giungere alla piana di Matic falciò i più esausti e affamati.
Ci fu chi sparò con i fucili automatici per strappare i compagni da quello strano sonno che portava direttamente alla morte. Alcuni morirono già lungo la salita. Il peggio però li aspettava nella piana di Matic dove la temperatura era ancora più bassa e la tormenta più forte.
Proprio qui, non molto lontano dal paese di Mrkopalj, designato come punto di arrivo, trovarono la morte ben 26 partigiani e circa 200 subirono pesanti conseguenze dovute all'assideramento.
Le 17 donne partigiane superarono tutte la tremenda marcia. Nessuna di esse morì per assideramento.
Antonija Dovecar era al settimo mese di gravidanza. Due mesi dopo partorì un maschietto dal peso di 5 kg destando la sorpresa di tutti. Il medico della divisione gli diede il nome di Ratimir (guerra e pace), come buon auspicio di una vita serena.
Il "partigiano" più piccolo di questa colonna ha oggi 61 anni, è professore alla Facoltà di marineria di Portorose (Slovenia) ed è qui tra noi, oggi.
Sua madre Antonija ha 90 anni e vive a Capodistria. Il padre, uno sloveno di nome Miroslav, combattente della prima ora, si è spento vent'anni fa.
Durante questa marcia la brigata riportò le perdite maggiori dal giorno della sua fondazione. Riuscì però a recuperare, arricchita di forze nuove e a reinserirsi nella divisione al suo posto di combattimento. C'era ancora tanto da combattere fino alla fine della guerra, per annientare la Germania nazista. La Seconda brigata diede il suo contributo sino alla fine del suo cammino, ossia alla liberazione del paese.
La marcia eccezionale della Seconda brigata è il tema centrale del mio libro intitolato "LA MORTE BIANCA".
Grazie.
Vitomir Grbac, giornalista e scrittore, master in Scienze storiche
Ringraziamo Ivan per la trascrizione dell'intervento.
LE ALTRE INIZIATIVE PER I DIECI ANNI DAI BOMBARDAMENTI: https://www.cnj.it/24MARZO99/2009/index.htm
Un sacerdote della setta riabilitata di recente da papa Ratzinger era in testa alla parata dei camerati messa in scena sabato pomeriggio. A fianco al prelato negazionista il segretario nazionale della formazione di estrema destra Roberto Fiore. Tra saluti romani e inni al duce. Protetti dalla polizia Il padre lefebvriano Giulio Tam ha sfilato a Bergamo insieme ai manifestanti di Forza Nuova, col braccio teso
Adesso salta fuori pure il prete che benedice (bene-duce?) i neofascisti. Sabato scorso a Bergamo, all'inaugurazione della loro nuova sede, nel quartiere più multietnico della città orobica, i forzanovisti non si sono fatti mancare proprio nulla.
Manco la benedizione divina. Protagonista della «santificazione» don Giulio Tam. Padre lefebvriano, è uno che ama definirsi «gesuita itinerante». I gesti che compie, le compagnie che frequenta (e non da poco tempo), le parole che dice, porterebbero «naturalmente» ad un'altra definizione, ma vabbé. È famoso per aver lanciato la «crociata del rosario» per la difesa della civiltà occidentale contro l'invasione islamica e per aver pregato pubblicamente contro la costruzione di una moschea. Per i suoi decisi attacchi contro la «deriva di sinistra» di Gianfranco Fini (una volta disse che «il fascismo fu portatore anche di modernità, Mussolini pur nel contesto di un regime diede messaggi di libertà e spiritualità che il vaticano dovrebbe ricordare» e che l'attuale presidente della Camera «si è venduto rinnegando la tradizione, la terza via che superava liberalismo e comunismo»). Indimenticabili suoi sermoni ai raduni dei vari gruppuscoli della destra estrema italiana (tanto da essersi meritato il nomignolo di «Tam-tam» dell'odio razziale).
Bene, con un così «meritevole» curriculum alle spalle, lo scorso sabato il «buon pastore d'anime» (famose le sue prediche in cui incita i fedeli a «buttarsi come lupi in mezzo agli agnelli, alla faccia della carità cristiana) ha aggiunto un «nuovo grano» al suo singolare rosario. Camicia nera (con colletto bianco come vuole la «divisa» talare ufficiale), braccio alzato a salutare romanamente i camerati che marciavano per le vie di Bergamo, don Giulio Tam ha sfilato in testa al corteo di Forza Nuova accanto al segretario nazionale Roberto Fiore, al coordinatore nazionale Paolo Caratossidis e al responsabile provinciale Dario «Astipalio» Macconi. E, a quanto pare, a suo perfetto agio. Quasi a dimostrare la veridicità di un vecchio detto anticlericale che recita che «l'abito scuro dei preti è solamente una camicia nera un po' più lunga, nulla più».
Anche perché, giusto per far sentire a casa un «nostalgicone» come il «gesuita itinerante» Giulio Tam, i forzanovisti sabato scorso ci hanno messo del loro. Accompagnati, meglio dire protetti, da un folto cordone di polizia che, dopo averli lasciati sfilare tranquillamente, non ha trovato niente di meglio da fare che andarsene in giro per la città a prendere a manganellate gli antifascisti che avevano organizzato un presidio per protestare contro l'apertura della sede di Forza Nuova e portandone una sessantina in questura e nella caserma dei carabinieri. L'olezzo di ventennio si diffondeva ovunque, grazie all'ammasso di paccottiglia neo-vetero-fascista che faceva bella mostra di sé: schierati come una perfetta falange romana, i circa duecento figuri arrivati da un po' tutto il nord Italia hanno marciato per le vie della città come in una vera parata militare. Con caschi, ben «adornati» da svastiche, croci celtiche e scritte «per l'onore dell'Italia», e bastoni in mano. Aizzati dai loro «capetti», i camerati hanno alzato più e più volte le loro braccia tese nel saluto romano, e lanciato «beneauguranti» «boia chi molla», intervallati da più teutonici «Sieg Heil». Tutto questo, per la gioia di don Giulio Tam. E nell'indifferenza del loro coordinatore provinciale Dario Macconi che ancora due giorni fa negava che durante la manifestazione del suo movimento ci fossero state braccia tese, inni fascisti e ciarpame vario. Anzi, i video e le fotografie che dimostravano l'accaduto erano senz'altro «fotomontaggi» o immagini prese ad arte da altri cortei e modificati per buttare discredito sui suoi «bravi» camerati. Che ora però dovranno rispondere alle denunce che verranno presentate nei loro confronti per aver sfilato con caschi e bastoni. Dario «Astipalio» Macconi si dovrà invece semplicemente difendere da una ben più leggera accusa, quella di non aver mai detto a suo padre, presidente provinciale di Alleanza nazionale, il suo «nomignolo» di battaglia. Tanto da metterlo in imbarazzo davanti ai giornalisti che gli chiedevano se fosse suo figlio. Lui, Macconi padre, prima ha negato, poi ha ammesso: «Non sapevo usasse quel nomignolo». Che, in ogni caso, dimostra «il suo animo romantico» (Astipales è un'isola dell'Egeo ndr). Proprio romantico girare per Bergamo con un mucchio di teste rasate che inneggiano al duce.
A sua discolpa si potrebbe portare il fatto di essere nipote di Angela Maria Tam, terziaria domenicana e ausiliaria della Repubblica di Salò, fucilata dai partigiani alla fine della guerra. Comunque, nonostante tutto, Giulio Maria continua a dir messa, preconciliare naturalmente, e a fare anche di peggio. Su di lui ci sono paginate di Google, che rimandano sia ad interessanti cronache di iniziative a cui il Tam ha partecipato che ad illuminanti video che circolano su You Tube. Il nostro viene immortalato mentre partecipa ai convegni di Forza Nuova, dice messa intonando "Il canto del legionario" in diverse occasioni - dalla commemorazione dei caduti della Repubblica sociale (Rometta, Messina, agosto 2007) alle cerimonie in ricordo della quarantina di militi fucilati a Rovetta dai partigiani nel 1945 - e arringa "il popolo" nei comizi elettorali sempre per Forza Nuova (Chieti, 29 marzo 2008).
Non è un negazionista, o almeno non tratta questo tipo di temi. La sua virulenta battaglia è tutta contro l'Islam e i liberal-comunisti, ossia i laici liberali e gli atei marxisti, che hanno distrutto i valori della civiltà cristiana, permettendo che leggi come quelle sul divorzio e sull'aborto minassero la famiglia naturale, composta da uomo e donna. Per non parlare dell'omosessualità e della pretesa dei gay di adottare bambini, una mostruosità concessa in Spagna dal centrosinistra e in Olanda dal centrodestra. Non c'è da stupirsi, dunque, se Giulio Maria Tam va a braccetto coi forzanovisti alle manifestazioni. Quello è il suo ambiente di riferimento, gli otto comandamenti di Forza Nuova - tra cui lotta all'aborto, lotta a favore della famiglia, lotta all'immigrazione, ristabilimento del cattolicesimo come religione di stato - sono diventati anche i suoi. Del resto, come dimostrano le recenti vicende legate non solo al vescovo Williamson ma anche a "don" Floriano Abrahamovicz, altro religioso che ha fatto scandalo con le sue dichiarazioni sulle camere a gas naziste, l'ambiente del tradizionalismo cattolico e dei suoi legami con l'estrema destra e, al Nord, anche con la Lega, è un mondo ancora in parte da scoprire. Il guaio è che, a parte i Tam di turno con i loro proclami al limite della legalità, dove amministra la Lega accade spesso che gli integralisti cattolici accedano a cospicui finanziamenti per iniziative di dubbio gusto e utilità. Per fare un esempio, a Verona succede per una manifestazione spacciata come storica, la rivisitazione delle Pasque Veronesi, sommossa antinapoleonica del 1797. Organizzata da gruppi tradizionalisti locali, l'iniziativa ha visto negli anni scorsi la presenza del fior fiore non solo dei nostalgici delle Crociate ma anche dei neonazisti. Con la pretesa di occupare le piazze il 25 aprile, giorno per loro dedicato a san Marco.
La critica di questo articolo e' rivolta contro il governo serbo con a capo Boris Tadic, che da mesi, prima e dopo il suo discorso alle NU del settembre scorso, illude l' opinione pubblica serba e mondiale su una presunta vittoria diplomatica, basata sulla solidarieta' della maggior parte degli Stati membri dell' ONU a favore della Serbia sulla questione della regione del Kosmet come parte integrante di essa e perche' il Tribunale internazionale si pronunci giuridicamente sullo status del Kosmet.
Nell'articolo si menziona il movimento progressista internazionale, rappresentato ad esempio da Ramsey Clark, ex ministro della Giustizia americano, che
condannò l' azione criminale della NATO contro la Jugoslavia, di cui ricorre ora il X Anniversario.
Mentre tali forze progressive internazionali condannavano e tuttora condannano l'aggressione alla Serbia, le marionette prooccidentali serbe, che sono arrivate al potere con l' aiuto delle forze imperialiste (ricordiamo i dollari consegnati dal Segretario USA, M. Albright, per destituire Milosevic), fanno di tutto perche' questo crimine venga dimenticato, il Kosovo abbandonato, e i serbi-kosovari rimasti siano abbandonati ad un amaro destino. A cura di Ivan per JUGOINFO)
»Pobeda srpske diplomatije«, ili providna laž i obmana srpske javnosti?
Srpska prozapadna marionetska vladajuća oligarhija, na čelu sa stateškim kormilarom Borisom Tadićem, preko medija mesecima, pre i posle septembarskog zasedanja Generalne Skupštine OUN,2008. kreštečim glasom obmanjuje srpsku i svetsku javnost o nekakvom »pobedonosnom- diplomatskom uspehu«, zasnovanom na podršči većine članica OUN srpskom predlogu,da Međunarodni sud oceni pravnu valjanost priznanja Kosova od strane grupe evropskih i još nekih država. Najviše o »pobedi« gromoglasno žutokljunski kukuriče »umetnik u diplomatiji«, ministar spoljnih poslova Vuk Jeremić. »Pobedonosno« kukurikanje bolno potseća na plotunsko »lagumanje« (pucanje iz puške kao znak pobede) naivnih, prevarenih vojnika tadašnje SRJ,koji su pobegli sa Kosmeta 1999.godine nakon NOTO-vog ultimatuma, sramno ostavljajući stotine hiljada sunarodnika u nemilosti šiptarskih terorista i agresorskih okupacijskih snaga NATO.
Prozapadne marionete uporno lansiraju tezu o »odlučnosti«, da obrane Kosovo »jedino ispravnim«, demokrats kim, miroljubivim (ko tebe kamenom ti njega hlebom),političko-pravnim sredstvima. Verovatno je danas svakom političkom analfabeti jasno da su Međunarodno pravo pa i Povelja OUN
podređeni volji velesila. Da nije tako, ne bi mogle velesile razbiti SFRJ niti izvršiti agresiju na SRJ 1999.godine. Isto važi za Irak,Avganistan i
druge.
Potsetimo na značajne progesivne međunarodne faktore,koji su javno osudili podređenost navedenih svetskih institucija volji velesila. Najodlućnije
osude su izrekli: Međunarodni društveni sud za zločine NATO u Jugoslaviji, počinjene za vreme agresije 1999. godine (Sud je ustanovljen 23.5.iste
godine, na vanrednim Kongresu Međunarodnog saveza društvenih udruženja »Sveslovenski Sabor«, a sudio je u sastavu 14 eminentnih pravnika:6 iz Rusije,2 iz Nemačke, po jedan iz Gruzije, Poljske,Avganistana ,Ukrajine, Meksika i Jugoslavije) . Sud je opštom presudom proglasio NATO agresiju na SRJ za ratni zločin protiv mira a vojnu organizaciju NATO za zločinačku. Naredbodavce agresije proglasio je za zaverenike i zločince i predložio da se optuže za vršenje genocida nad srpskim i drugim narodima. Među ostalim, sud je uputio zahtev OUN , da osudi agresiju na Jugoslaviju i da OUN pokrene postupak za smenjivanje generalnog sekretara Kofija Anana,koji je umesto osude agresije pristao na sporazum sa agresorima i agresiju opravdao. Drugi pravno značajni faktor, Međunarodni tribunal u Nju Jorku , pod vođstvom bivšeg američkog državnog tužioca, Remzi Klarka, dana 11.Juna 2000.osudio je vlade i šefove vlada zemalja koje su učestvovale u agresiji na SRJ,kao i čelnike NATO, za zločine protiv mira,ratne zločine i zločine protiv čovečnosti te za druge prestupe sa kojima su prekršili principe Nirnberškog suda,Haške propise temelječe na Ženevskim konvencijama, Povelje OUN i druge međunarodne i nacionalne zakone. Sud je zahtevao ukidanje sankcija protiv Jugoslavije, proglašenje istih za zločinačke, ukidanje nazakonitog Haškog tribunala za zločine u Jugoslaviji kao i kompenzaciju žrtvama agresije. Iako navedene presude nemaju pravnu, imaju snažnu moralnu snagu,jer kristalno objašnjavaju zločine izvršene nad suverenom članicom OUN,koji u veoma nesrazmernom odnosu oružanih snaga, nije mogla da se uspešno odbrani.
Nedavno je i Adolfo Perez Esquivel, norveški kipar, arhitekta i bivši univerzitetski profesor,koji je dobio Nobelovu nagradu za mir, inače poznati borac za ljudska prava, govorio o uticaju velesila na međunarodne pravne institucije (objavljeno u Delo 2.12.2008). Među ostalim, on smatra da su SAD potpuno marginizovale organizaciju OUN,koja ima 192 člana, a sa njom vlada 5 velikih država. Svi stavovi ostalih članica nemaju nikakve težine i ne utiču na obklikovanje odluka sa izvršnom snagom. Zato te članice ne mogu sprečavati krize, nego obično nastupaju POST FESTUM, (po svršenom činu), kao nemočni vatrogasci u plavim šlemovima. On takodjer smatra da su posle pada Berlinskog zida,sa pozicija apsolutne sile i kao odraz nestrpljenja stvoreni novi zidovi: između Palestine i Izraela te između SAD i Meksika. Velike sile, prvenstveno SAD,ignorišu međunarodno pravo i ljudska prava. Po njemu, Buš laže svom narodu i celom svetu: govori o terorizmu a ćuti o američkom državnom terorizmu; govori o slobodi a neprekidno je uništava; govori o bogu a istovremeno ga mrzi; govori o ljudskim pravima a sitematski ih krši ( u Bagdadskom zatvoru Abu Graib, Guantanamu i brojnim drugim tajnim zatvorima). Ustanovljava sudove za nekadašnjeg svog saveznika Sadama Huseina a ne priznaje Međunarodni kazneni sud. Nobelovac navodi duhovito- »Kada se Buš moli bogu, bog začepi-zatvori uši«. Adolfo Perez Esquivel je početkom rata u Iraku bio u Bagdadu i video,da su Amerikanci bombardovali sklonište i u njemu ubili 600 dece i majki, izgovarajući se ,da su u zabuni mislili da gađaju bunker. U vezi navedenog događaja pisao je Bušu i pitao ga, zašto mora ubijati decu da bi se rešio diktatora,koji je pre ( za vreme rata između Iraka i Irana-napomena autora) bio njegov odani saveznik? Naravno na pismo nije dobio odgovor.
Dok je napredna međunarodna javnost osuđivala i osuđuje agresiju na Jugoslaviju i otimanje Kosmeta od Srbije,prozapadne marionete u Srbiji, uz pomoć agresivnih imperijalističkih krugova, dokopale su se vlasti (potsetimo na primanje dolara od američke državne sekretarke Olbrajtove za obaranje Miloševićeve vlasti) i čine sve da se počinjeni zločini zaborave (ljudske žrtve, proterivanje naroda, razaranje privrednih i narodnih dobara i drugi). Mnogi od njih i javno govore,da je otimanje Kosmeta svršen čin,koji se »nije mogao sprečiti,niti se može promeniti«. Što je najsramnije, svom snagom rade na uključenju-integrisanju Srbije u političke i vojne organizacije agresorskih imperijalističkih država. Propagiraju »spasonosno« rešenje u krilu »vrhunske kapitalističke zapadne demokratije«.
Pokorno su prihvatili uslove za integracije- ultimatumi i obaveze postupaka i ponašanja; pravila o tome, što im je zabranjeno a što dovoljeno činiti.
Po tom osnovu, zabranjeno im je: govoriti o agresorskoj okupaciji Srbije i otimanju Kosova i o tome ,da je NATO izvršio agresiju. (NATO se je, po njihovom - »hvala bogu«, preformirao u »mirovnjačke« snage OUN, da bi popravio Miloševićev »greh«, počinjen odbranom dela srpske teritorije).
Zabranio je i tužiti vođe agresorskih država i država njihovih saučesnica, da se ne pogoršaju »prijateljski odnosi« sa narodima tih država. Na osnovu zabrane, srpski poslušnici povukli su tužbu koju je uložila SRJ protiv država agresora, nakon izvršene agresije.
Takodje jim je zabranjeno vršiti uticaj na izbor kadrova u okupacijske strukture vlasti na Kosovu. Na te funkcije postavljaju se potomci poraženih fašističkih država i njihovih saučesnica, koji se osvetnički ponašaju na štetu Srbije i srpskog naroda i čine sve da definitivno otmu Kosovo. Njih srpski poslušnici moraju primati u posete, čašćavati i sa njima »prijateljski« sarađivati. Kada diplomate iz navedenih zemelja u Beogradu izriču pretnje, ucene i vrše psihološki pritisak na srpsku javnost, zabranjen je njihov izgon (proglašenje za persone non grate). Zabranjen je i prekid diplomatskih odnosa sa sržavama koje su priznale nezavisno Kosovo, jer kako se integrisati bez diplomatskih odnosa? Tolerantan je samo nekakav manevar, privremeno poblačenje srpskih diplomata, u svrhe obmane srpske javnosti. Posebno, za Srbiju je opasna i ugrožavajuća zabrana izgradnje sopstvene vojne doktrine i odbrambenog sistema, limitiranje kontigenta oružanih snaga, naoružanja i opreme. Sve to mora biti u sklađeno sa potrebama NATO, kako se drugačije učlaniti u tu »miroljubivu« vojnu organizaciju?
Sinonimi zabrane su obaveze, koje poslušnici moraju ispunjavati, kako bi imali podršku gospodara i duže ostali na vlasti. Te su obaveze nametnute kao na stotine izričite uslova za integraciju, po sistemu – »uzmi ili ostavi«.
Najvažnije obaveze i uslovi su: Višepartijski sistem, ukidanje saveza komunistam rasprodaja prirodnih i privrednih dobara, likvidacija društvene imovine i samoupravljanja, promena samoupravljačke pozicije radničke klase u najamni odnos prema poslodavcima – kapitalistima, zavisnost od monopola banaka i fondova, uskraćuvanje socijalne i zdravstvene zaštite. Ukratko,ukidanje svega što je bilo u socijalističkom sistemu. Naročito važna obaveza je dozvola NATO snagama da koriste srpske teritorije za manvre i borbena dejstva (kopnene i vodne komunikacije, aerodrome, baze i druge objekte), a to znači likvidaciju suverenosti i samostalnosti Srbije.
Jedna među najtežim i najponižavajućim obavezama,koju su srpski lakeji ravnodušno prihvatili, je izručenje vodeće garniture branilaca Kosova u nemilost Haškom tribunalu- produženoj ruci imperijalista- agresora na SRJ. Tragična sudbina izručenih ili je već poznata ili je izvesna. Jedni su usmrćeni represivnim inkvizitorskim merama suda, drugim predstoji ista sudbina u kazematima imperijalističkih satelitskih država. Taj niskotni podvig ne bi se mogao pravdati i kada bi se radilo o kakvom obliku kompenzacije (povratak Kosova) ili komparacije (jednakih represivnih mera prema agresorima). Na žalost, opisana situacija može se uveliko usporediti sa stradanjem srpskih vitezova u obrani Kosova od Turske imperije, 1389, sa razlikom, što su tada vitezovi umrli na bojištu, a »vitezovi« branioci Kosova 1999. umiru i umrijet će u navedenim kazematima. Značajna razlika u kosovskoj tragediji je i ta, što je srpska legenda izmislila izdaju, da bi ublažila težinu poraza u Kosovskoj bitci, a izdaja i izručenje branilaca Kosova nakon 1999. je stvarna ne izmišljena. U vezi otimanja Kosova treba potsetiti i na još neka upoređenja: Turska imperija,1389. ,okupatori- fašisti,1941- imperijalisti- NATO agresori,1999. ,oteli su Kosovo sa istim ciljem i namerom- da ga zauvek oduzmu Srbiji. Razlike su u trajanju okupacije. Turska okupacija trajala je nešto više od 500 godina, fašistička oko 4 godine, a trajanje imperijalističke NATO okupacije je neizvesno. Sigurno je da neće trajati večno!
Nemoralnim ucenama oko izručenja njihovom sudu preostala dva srpska »zločinca« imperijalsiti sprčavaju Srbiji normalnu međunarodnu saradnju i razmenu dobara, čime kažnavaju nedužni srpski narod. Dok su, posle II.svetskog rata svestrano pomagali fašističke države, da se rapidno rekonstruišu u imperijalističke sile i njihove saveznike za osvajanja globalnih prostora. Nisu uslovljavali razvoj poraženih fašističkih država izručenjem preostalih ratnih zločinaca (uzgred, mnogi do danas nisu izručeni Međunarodnom sudu). Naprotiv, pojedinim ratnim zločincima-fašistima pomagali su, skrivali ih i postavljali na odgovorne funkcije u rekonstruisanim fašističkim državama. I sada njihov montirani Haški sud oslobađa odgovornosti ratne zločince, koji su zajedno sa njima i po njihovom nalogu izvršili zločine nad srpskim i drugim narodima bivše SFRJ.Naravno, i o tome srpske »mudre« marionete moraju ćutati.
Na Kosmetu prodato 331 društveno preduzeće
B. Mitrinović
FOIBE
Le responsabilità del fascismo
Sì, era necessario strappare all'oblio «le vittime delle foibe, dell'esodo giuliano e le vicende del confine orientale» come vuole la legge del marzo 2004 che istituì il Giorno del ricordo. Ma negli ultimi quattro anni quel giorno, il 10 febbraio, è diventato occasione per i nostalgici del fascismo di una massiccia operazione di revisionismo storico e di revanscismo, occasione di una poderosa campagna anti-slava e di manifestazione di un esasperato nazionalismo-irredentismo di frange politiche italiane, forti soprattutto a Trieste. Ha fatto bene dunque il presidente Napolitano, a denunciare ieri questi orientamenti.
Ha fatto benissimo, soprattutto, a denunciare la «dura esperienza del fascismo», le «responsabilità storiche del regime fascista», le sue «avventure di aggressione e di guerra», le «sofferenze inflitte alla minoranza slovena negli anni del fascismo e della guerra». Avrebbe potuto aggiungere anche le sofferenze subite nel tristo ventennio e nella guerra dalle popolazioni croate dell'Istria e della regione guarnerina, dalle isole alla Liburnia. Senza dimenticare lo sterminio di oltre 350 mila sloveni, croati, serbi, montenegrini e jugoslavi nelle regioni occupate e/o annesse dal 3 aprile 1941 al settembre 1943 (Montenegro, Dalmazia, larghe fette di Croazia e di Slovenia) ed altre 35 mila vittime uccise da fame e malattie in oltre 60 campi di internamento per civili sparsi dal nord al sud d'Italia.
Anche quest'anno però assistiamo al ripetersi di regie consolidate negli anni passati quando, dalle celebrazioni del Giorno del ricordo, sono stati esclusi gli storici democratici ed obiettivi per essere egemonizzate da fanatici astiosi e rancorosi che speculano sul dolore dei familiari degli infoibati, sul dolore degli esuli; da politici dell'estrema destra neofascista, da forze che si richiamano alla medesima ideologia, che in nome della guerra allo slavo-comunismo e della civiltà romana contro la «barbarie», portò l'Italia ad aggredire la Jugoslavia, ad espandersi all'est. Il risultato fu la catastrofe, la sconfitta, la perdita dei territori orientali annessi dopo la grande guerra; furono le vendette delle vittime di quell'aggressione e di quella guerra, e dopo la firma del trattato di pace del febbraio 1947, un esodo di 200-240 mila istriani fiumani e zarattini che lasciarono quelle terre optando per l'Italia, per continuare ad essere italiani, o perché insofferenti del regime di Tito, o per motivi economici, familiari ed altro. Questi esuli furono le vittime principali della catastrofe. Ma in quegli anni (15 anni durò l'esodo, per concludersi a fine anni '50) abbandonati e ignorati dalla sinistra, quei disgraziati divennero serbatoio di voti per del Msi e della Dc, mentre oggi continuano ad essere strumentalizzati dai figli e nipoti ideologici di Almirante.
Proprio in questi giorni un autorevolissimo «figlio di Almirante», Gianfranco Fini, ha inaspettatamente esaltato a La Spezia le imprese della divisione Decima Mas. È un modo indiretto per riabilitare i crimini di quei continuatori del fascismo che compirono i più orrendi delitti proprio nelle «terre del confine orientale», aggregati al terzo Reich come Adriatische Kunstenland litorale adriatico. Si tende così a riabilitare un regime che - dopo aver tentato di eliminare dalla Venezia Giulia le popolazioni slave con repressioni di ogni genere - dopo gli eccidi compiuti nella seconda guerra mondiale in quelle stesse e in altre regioni slave, dopo le foibe e l'esodo, sfruttano il Giorno del ricordo per seminare insofferenza e sospetti, verso gli italiani rimasti nelle terre istro-guarnerine e nuovo odio verso sloveni e croati. Stravolgendo la storia, usando nei loro testi e discorsi la medesima roboante e falsa terminologia mussoliniana.
Fino a quando il giorno del ricordo sarà il giorno del rancore e dell'odio verso croati e sloveni? Fino a quando l'Adriatico, nobilitato per secoli dall'osmosi di uomini e culture fino al tragico 900, potrà assorbire il veleno di quei predicatori? I quali dimenticano le tante Marzabotto chiamate kampor (isola di Arbe, 4000 morti in dieci mesi di lager), Pothum presso Fiume (100 fucilati in un solo giorno e 800 deportati), Gaiana presso Pola, Lipa presso Abbazia e tanti altri eccidi subiti da popolazioni «feroci» che dopo l'8 settembre vestirono, rifocillarono e nascosero ai tedeschi decine di migliaia di nostri soldati allo sbando. Certo, ci furono le foibe istriane del 9-30 settembre '43, ma c'erano state, non dimentichiamolo, decine di migliaia di vittime dell'occupazione italiana dal 1941 al 1943, e in quello stesso triste 1943, dal 4 ottobre in poi, ci furono le vendette dei fascisti. Che massacrarono 5000 civili e ne fecero deportare altri 17 mila, con le rappresaglie del reggimento «Istria» comandato da Italo Sauro e da Luigi Papo da Montona, della guardia nazionale repubblicana (poi milizia territoriale), della Decima Mas di Borghese operante con compagnie agli ordini di nazisti a Fiume, Pola, Laurana Brioni, Cherso, Portorose, della compagnia «mazza di ferro», comandata da Graziano Udovisi, della Brigata nera femminile «Norma Cossetto» presso Trieste, della VI brigata nera Asara e altri reparti. Si macchiarono di tali crimini che la loro ferocia fu denunciata persino dal Gauleiter Rainer, il quale chiese ufficialmente, con un telegramma al generale Wolff, il ritiro della Decima Mas dalla Venezia Giulia a fine gennaio 1945. Nel documento si parla di «una moltitudine di crimini, dal saccheggio allo stupro», dalle stragi di massa agli incendi di interi villaggi.
Oggi quegli assassini vengono esaltati per aver «difeso fino all'ultimo le terre orientali d'Italia contro le orde slave». I loro morti, caduti in battaglia all'inizio del maggio 1945, vengono inclusi fra gli infoibati! Basta, voltiamo pagina, guardiamo al futuro. Che sia di pace e di convivenza per i nostri figli.
STORIA E MEMORIA - 10 FEBBRAIO Il «giorno del ricordo» voluto dalla destra nel 2004
Napolitano ricorda le foibe
Nel pieno dello scontro istituzionale con la maggioranza e il presidente del Consiglio, il capo dello stato per la prima volta da quando è in carica parla delle violenze della Jugoslavia di Tito senza dimenticare le responsabilità del regime italiano e mette uno stop a «revisionismo e nazionalismo». Ricucitura con Slovenia e Croazia
In una cerimonia ingessata come quella del giorno del ricordo - un'oretta scarsa di discorsi al Quirinale, autorità in prima fila, segue "caleidoscopio musicale" per viola - l'attesa è solo per le parole del capo dello stato. Tanto più se quelle parole che in Italia la destra aspetta al guado ogni anno (sono stati quelli di An a volere per legge questa giornata, recuperando nel 2004 l'abitudine missina di legare la memoria delle foibe al nazionalismo, all'anticomunismo e al revisionismo storico) arrivano quest'anno a seguito delle polemiche della maggioranza contro il capo dello stato per la mancata firma al decreto su Eluana Englaro e nel pieno dello scontro istituzionale. E proprio ieri, per la prima volta, Giorgio Napolitano ha usato parole molto chiare sulle responsabilità italiane e fasciste a monte della tragedia delle foibe istriane. Risultato: nessun Gasparri quest'anno ha festeggiato «l'ammissione delle colpe della sinistra» (così commentò il discorso presidenziale del 10 febbraio 2007). Ma nessuno della maggioranza e del governo ha nemmeno polemizzato perché già troppo alta è la tensione con il Quirinale. Per apprezzare i sentimenti di Alleanza nazionale si deve così registrare il commento di un'assessora regionale del Veneto: «Napolitano rappresenta la sua storia personale ma non quella del popolo italiano». Il senatore Gasparri di certo condivide eppure adesso tace.
Proprio da un accenno alla vicenda Englaro è partito ieri il capo dello stato, parlando di «momento di dolore e turbamento nazionale che può divenire anche di sensibile e consapevole riflessione comune». Ma il cuore del suo discorso è stato ovviamente la rievocazione storica, pronunciata «come presidente della Repubblica italiana risorta in quanto stato alla vita democratica anche grazie al coraggio e al sacrificio dei civili e dei militari che si impegnarono nella Resistenza fino alla vittoria sul nazifascimo». Secondo Napolitano il giorno del ricordo «non ha nulla a che vedere col revisionismo storico, col revanscismo e col nazionalismo». «Innanzitutto» secondo il presidente «la memoria che coltiviamo è quella della dura esperienza del fascismo e delle responsabilità storiche del regime fascista, delle sua avventure di aggressione e di guerra. E non c'è espressione più alta di questa nostra consapevolezza - ha proseguito Napolitano - di quella che è segnata nell'articolo 11 della nostra Costituzione là dove è sancito il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli».
Difficile che questa chiara presa di posizione non abbia nulla a che vedere con le polemiche degli ultimi giorni, con gli attacchi di Silvio Berlusconi tanto al Quirinale quanto alla Costituzione «ispirata dalla costituzione sovietica». Difficile soprattutto perché nei suoi due interventi precedenti (dal 2006, dopo un primo anno in sordina, il giorno del ricordo si celebra al Quirinale come voluto da Carlo Azeglio Ciampi) Napolitano non aveva fatto alcun cenno al fascismo. Aveva invece insistito sul «disegno annessionistico slavo» come origine dell'esodo istriano e fiumano e della strage delle foibe istriane. Tanto che prima il presidente croato Mesic poi quelli sloveno Turk si erano risentiti accusando l'Italia di razzismo. L'incidente diplomatico è stato ricomposto con difficoltà e solo di recente (i chiarimenti di Turk sono di dieci giorni fa) e nel suo discorso di ieri il presidente italiano ha fatto un cenno alla «giovane personalità del presidente sloveno che ho avuto modo di apprezzare». «Con gli stati di nuova democrazia e indipendenza sorti ai confini dell'Italia vogliamo vivere in pace e in collaborazione» ha detto Napolitano. Ma soprattutto ha aggiunto che l'Italia «non dimentica e non cancella nulla, nemmeno le sofferenze inflitte alla minoranza slovena negli anni del fascismo e della guerra». Discorso chiaro ma non certo quello che la maggioranza oggi al governo si aspettava quando cinque anni fa, in due mesi e con il consenso dell'attuale partito democratico, inventò la data del 10 febbraio.
<< Istria, Fiume, Dalmazia: Italia!...
Un ingiusto confine separa l'Italia dall'Istria, da Fiume, dalla Dalmazia, terre romane, venete, italiche.
La Yugoslavia [con la Y, sic] muore dilaniata dalla guerra: gli ingiusti e vergognosi trattati di pace del 1947 e di Osimo del 1975 oggi non valgono piu'...
E' anche il nostro giuramento: "Istria, Fiume, Dalmazia: ritorneremo!" >>
"Nostra intenzione è riportare in terra d'Istria non il tricolore di Stato, ma il dialetto, la memoria patria, la cultura, senza spirito aggressivo (...) ricordando però che l'Istria è terra veneta, romana, dunque italiana."
"Occorre (...) combattere quelle piccole ma rumorose sacche di negazionismo o comunque di revisionismo che continuano a esserci, in uno spirito che deve essere quello della verità storica."
(fonte: il Piccolo del 22/02/2009, prima pagina, e ANSA)
Traduzione a cura della Rete nazionale Disarmiamoli! - www.disarmiamoli.org
Cinquecento persone provenienti da 19 paesi hanno partecipato all'incontro
del 14 e 15 febbraio 2009 presso la Marc Bloch University di Strasburgo,
organizzato dal Comitato di Coordinamento Internazionale "No alla guerra-no
alla NATO" e ospitati dal "Collettivo anti Nato di Strasburgo", il tutto in
preparazione delle attività dell'anti vertice per il 60° anniversario della
NATO che si terrà a Strasburgo 1-5 aprile.
60 anni sono troppi - questo il punto unificante tra i partecipanti
appartenenti ai movimenti pacifisti e no global, ai partiti e alle
organizzazioni di sinistra, ai sindacati e ai gruppi studenteschi. Sono
tutti contrari alla politica di guerra della NATO, sono contro le guerre in
corso, in Afghanistan e in Medio Oriente, contro la strategia di intervento
e ripetono con forza il loro "No alla NATO". Rifiutano di accettare i legami
dell'EU con la NATO e chiedono una drastica riduzione delle spese militari:
"non vogliamo pagare la vostra crisi, non per le vostre guerre".
Nel contesto delle celebrazioni ufficiali per il 50° anniversario della
NATO, che si terranno a Strasburgo e Baden-Baden il 3 e 4 aprile, i
partecipanti all'incontro hanno stilato un elenco di azioni e mobilitazioni:
1.. campo internazionale di resistenza 1-5 aprile a Strasburgo, con punti
di informazione a Kehl e Baden-Baden;
2.. manifestazione e azioni di disobbedienza civile il 3 aprile a
Baden-Baden in occasione dell'incontro dei Ministri degli Esteri e del
pranzo di gala dei Capi di Stato;
3.. convegno internazionale a Strasburgo il 3 e 5 aprile con plenarie,
gruppi di lavoro ed una "Peace Assembly" conclusiva;
4.. punto culminante sarà la manifestazione internazionale "No alla
guerra! No alla NATO" che si terrà nel centro di Strasburgo il 4 aprile;
5.. per il 4 aprile, sempre a Strasburgo, diverse organizzazioni stanno
preparando azioni di disubbidienza civile.
Nonostante le autorità di Strasburgo abbiano annunciato che non
autorizzeranno le azioni non violente nel centro della città, i partecipanti
hanno riaffermato il fondamentale diritto democratico di assemblea,
manifestazione e libertà di espressione. Hanno sottolineato che esprimeranno
la loro protesta e la loro richiesta di libertà, nel centro della città.
Hanno approvato una campagna internazionale di protesta per una Strasburgo
libera, città di pace e democrazia. Per il sostegno alla delegazione per i
negoziati, il Comitato di Coordinamento Internazionale ha costituito un
gruppo di supporto internazionale e un gruppo di appoggio.
I diritti democratici fondamentali potranno essere difesi grazie alla forza
dei movimenti extraparlamentari internazionali ed ai parlamentari dell'Unione
Europea.
Il seguente appello è stato approvato dai partecipanti alla conferenza.
Appello per sostenere il diritto democratico a manifestare contro la NATO
nel centro storico di Strasburgo il 4 aprile
La NATO celebrerà il suo 60° anniversario a Strasburgo alla presenza dei
Capi di Stato, compreso il nuovo Presidente degli Stati Uniti.
I firmatari rifiutano le politiche della NATO che significano guerre,
interventi militari, uso di basi militari e nuove installazioni
missilistiche, ampliamento di un armamento permanente. Lavoriamo sulla base
dell'appello "No alla NATO, No alla guerra".
Rifiutiamo:
- l'intervento militare della NATO in Afghanistan;
- la logica di guerra e iper-armamento, in particolare l'armamento
nucleare praticato dalla NATO;
- la reintegrazione della Francia nel comando militare NATO.
Vogliamo esprimere il nostro rifiuto nei confronti di queste politiche,
vogliamo dare, sia ai cittadini di Strasburgo sia ai movimenti sociali, la
possibilità di rendere pubblico il loro rifiuto.
Sono queste le richieste fatte alla prefettura che ha rifiutato la proposta
del Comitato di manifestare contro la NATO nel centro storico di Strasburgo
il 4 aprile.
Lo svolgimento del summit della NATO farà di Strasburgo una fortezza; questo
non è giusto né per i suoi cittadini né per le migliaia di manifestanti
pacifisti provenienti da tutto il mondo.
Saranno messe in atto misure straordinarie di sicurezza: sarà definita una
zona rossa, sarà stilato un elenco dei cittadini, sarà organizzato un nuovo
sistema di video sorveglianza.
Questa passerella di Capi di Stato nel centro storico di Strasburgo, e nelle
sue vicinanze, significherà per i suoi abitanti l'impossibilità di mantenere
la propria vita quotidiana, non avere libertà di movimento; tutto questo per
noi è intollerabile e ci impedisce di far conoscere il vero volto della
NATO. Mentre i cittadini pagheranno il summit e la glorificazione della
NATO, chi dissente sarà marginalizzato.
La mobilitazione contro il summit della NATO è partita a livello mondiale
con grande successo. Il 4 aprile i cittadini del mondo verranno a Strasburgo
ad esprimere, con spirito nonviolento, il loro "desiderio di Pace" e il loro
"No alla NATO".
La nostra mobilitazione chiede la redistribuzione dei mezzi finanziari,
spostandoli dalla guerra ad una politica che si occupi delle sfide che
devono affrontare i popoli del pianeta in campo sociale, economico,
democratico e ambientale.
Viene spontanea la domanda, quale sarà a livello globale l'immagine di
Strasburgo?
Una città trasformata in fortezza al servizio della NATO o una città che
celebra i valori di democrazia e pace?
Vogliamo il diritto di manifestare nel centro storico. La richiesta che
rivolgiamo al governo francese ed alle autorità locali è di garantire il
diritto democratico di una libera, indipendente e pacifica manifestazione.
International Activity Conference, composta da più di 500 partecipanti,
Strasburgo 14-15 febbraio.
La Conferenza ha significato un passo importante nella costruzione della
mobilitazione internazionale contro la NATO e il summit per il 60°
anniversario, mobilitazione iniziata 6 mesi fa con l'appello internazionale
di Stoccarda. Molte forze, da tutto il mondo, stanno convergendo per
esprimere il loro desiderio di un pianeta più giusto e pacifico. Dal 1 al 5
aprile facciamo di Strasburgo una capitale di pace!
.... Il mattino del 24 febbraio 1945, a due mesi dalla Liberazione, mentre si sta recando ad un appuntamento, Eugenio Curiel viene sorpreso in piazzale Baracca da una squadra di militi repubblichini guidati da un delatore; non tentano nemmeno di fermarlo: gli sparano una raffica quasi a bruciapelo. Il giovane - che nella motivazione della Medaglia d’oro viene definito "Capo ideale e glorioso esempio a tutta la gioventù italiana" - si rialza, si rifugia a fatica in un portone, ma qui viene raggiunto e finito dai fascisti. Il giorno dopo, sulla macchia rimasta, una donna spargerà dei garofani....