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Se vogliamo cercare di capire cos'è la politica di espansione che il fascismo realizza in direzione della penisola balcanica, dobbiamo tenere conto di una serie di fattori. Il primo è il presupposto storicoculturale del vecchio imperialismo nazionalista che ha nella penisola balcanica uno dei suoi obiettivi principali di espansione. Ricordiamo che la guerra di Libia ha solo come oggetto immediato la Libia: l'obiettivo principale è infliggere un serio colpo all'Impero ottomano e aprire la strada alla penetrazione italiana nei Balcani. Allora si pensava che l'Italia, nella fase del decollo industriale, avesse la capacità di espandersi, di realizzare le proprie ambizioni economiche in quell'area. Questo spiega l'ostilità manifestata, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, alla creazione dello Stato degli slavi del sud e l'ambizione a fare dell'Adriatico un mare interno italiano. Un secondo punto da tenere presente, quando si parla di questa problematica, è il rapporto tra la politica interna e la politica estera dell'Italia. Negli anni del fascismo - segnatamente a partire dalla seconda metà degli anni venti, indipendentemente da quello che era successo fino all'apparente chiusura della questione fiumana con i trattati di Nettuno del 1925 - l'Italia opera una costante politica di accerchiamento della Jugoslavia. Da nord attraverso l'aggiogamento alla politica del fascismo di Austria e Ungheria, da sud attraverso il favoreggiamento del terrorismo macedone. Successivamente l'Italia appoggerà il separatismo croato degli ustascia, che saranno ospitati e armati all'interno dello Stato italiano. Infine verrà l'occupazione dell'Albania, nell'aprile del 1939, come testa di ponte per continuare questa operazione di accerchiamento della Jugoslavia. Il terzo punto riguarda la problematica dei rapporti, in relazione all'area danubiano-balcanica, tra l'Italia e la Germania. Questi rapporti hanno visto fasi diverse, hanno avuto momenti di acuta crisi intorno alla questione austriaca, ma al momento dell'Anschluss (1938) l'Italia è già sulla strada della ritirata, non è più in grado di competere con la pressione germanica. Questo problema del rapporto con la Germania accompagna tutta la fase di avvicinamento alla guerra, e in guerra, per quanto riguarda l'Italia, la situazione balcanica attraverserà diverse fasi. Il 28 ottobre 1940 ha inizio l'aggressione, intrapresa con estrema leggerezza, alla Grecia. Il motto era «spezzeremo le reni alla Grecia», ma l'esercito italiano rischiò di essere rigettato in mare in Albania dalla resistenza che gli si oppose. Questa è la prima fase. La seconda fase si apre nell'aprile del 1941, quando l'invasione della Jugoslavia da parte delle forze della Wehrmacht e dell'esercito italiano apre definitivamente la via non solo alla sconfitta della Jugoslavia, ma anche, e soprattutto, della Grecia. In un primo momento la Grecia non riconosce di essere stata battuta dagli italiani e viene fatto ripetere l'armistizio, perché i greci vogliono firmarlo solo con i tedeschi, riconoscendo di essere stati sconfitti soltanto da loro. Questi sono i presupposti della complessa politica di occupazione che l'Italia praticherà in quell'area, distinguendo abbastanza nettamente fra il settore jugoslavo e quello greco. C'è da dire che il problema delle occupazioni balcaniche è, nella storiografia italiana, un argomento abbastanza marginale. Questo per varie ragioni: prima di tutto per una reticenza, credo tuttora inesplicabile, a occuparsi di questi problemi. Secondariamente - ma solo secondariamente - per il ritardo nell'acquisizione di fonti.
Bisogna distinguere, però, la Jugoslavia dalla Grecia, perché nel secondo caso il ritardo non è solo della storiografia italiana ma anche di quella ellenica, per motivi del tutto interni alla politica di quel paese. Qualcosa di più è stato fatto per quanto riguarda quella che possiamo chiamare, in riferimento al 1941, la ex Jugoslavia. Perché uso questa espressione? Perché la prima conseguenza della sconfitta militare della Jugoslavia ad opera delle potenze dell'Asse fu la totale disgregazione dello spazio jugoslavo: un vecchio obiettivo dell'imperialismo italiano e del fascismo, realizzato con l'appoggio della Wehrmacht. Questo vecchio obiettivo presentava per l'Italia anche notevoli implicazioni di carattere interno: non dobbiamo dimenticare che in tutta l'avventura balcanica vi sono una responsabilità e un peso della dinastia dei Savoia. Basta pensare alla collezione di corone, o di semicorone, che il sovrano italiano accumulò per sé e per la sua famiglia nella penisola balcanica per rendersi conto del significato dell'alleanza fra monarchia e regime. C'è la presenza di una principessa di casa Savoia in Bulgaria, la presenza del re d'Italia come re d'Italia e d'Albania, successivamente il tentativo di imporre un sovrano di casa Savoia - che per fortuna non prese mai possesso del suo trono - in Croazia. Il rapporto tra potere dinastico e regime fascista, poi, comportò anche l'appoggio di settori forti della politica italiana - nel caso specifico penso alle forze armate - ai disegni di dominazione balcanica da parte dell'Italia. Quindi risulta chiara l'influenza complessiva che lo scacchiere balcanico ha avuto rispetto alla posizione dell'Italia, ai caratteri dell'occupazione italiana in quei territori. Tuttora ci interroghiamo sugli obiettivi specifici di quell'occupazione, al di là della generica aspirazione a sottrarre spazio ai nemici, in particolare all'Inghilterra. Il problema del rapporto con l'Inghilterra in relazione alla penisola balcanica è molto importante, perché il patto di Pasqua del 1938 impegnava l'Italia a non modificare lo status quo nel Mediterraneo orientale. La conquista dell'Albania fu, quindi, un vulnus pesante, all'origine dell'accelerazione dell'Italia verso la guerra. Difficile, tuttora, è capire se ci fosse un disegno, un progetto nei confronti delle aree balcaniche, che andasse oltre la conquista territoriale diretta di certi territori. Questo discorso riguarda soprattutto le aree dell'ex Jugoslavia, e in parte anche la Grecia. L'Italia si annette alcuni territori - di fatto ma in parte anche di diritto, perché emana una serie di normative per quanto riguarda le isole ioniche -, operando una sottrazione a carico della Grecia. Fa molto più corpose sottrazioni di territorio a carico della Jugoslavia. Come con l'annessione - o meglio la cosiddetta annessione - della provincia di Lubiana. Agli sloveni promette la cittadinanza italiana senza mai accordarla, estende le occupazioni dalla Dalmazia alle isole dell'Alto Adriatico, stabilisce - e qui è un altro punto di interesse di casa Savoia - un protettorato sul Montenegro: si tratta di un protettorato di fatto, mentre si considera la possibilità di inserire un altro membro di casa Savoia in Montenegro. Inoltre l'Italia amplia il territorio albanese ai danni della Jugoslavia, con l'aggregazione all'Albania del Kosovo e di una parte della Macedonia, formando quella che poi viene definita «Grande Albania». La Macedonia viene divisa con la Bulgaria, quindi si disegna la disgregazione totale di quella che era la vecchia entità statale della Jugoslavia, e l'Italia tenta di allargare anche i confini dell'Albania in direzione dell'Epiro e della fascia costiera greca a sud dell'Albania, la Ciamuria. Più che un progetto di conquiste territoriali, c'è una pratica di conquiste territoriali che è uno dei risvolti della debolezza, non solo politica ma effettiva, della politica italiana. La politica italiana non ha minimamente la capacità di penetrazione e di tenuta della potenza concorrente tedesca, non è in grado di contestare l'egemonia della Germania. A loro volta i tedeschi avrebbero voluto tenere l'area balcanica fuori dal conflitto immediato: la Germania pensava alla penisola balcanica come grande retroterra di carattere economico, area di rifornimenti, oltre che di drenaggio di manodopera in previsione della guerra all'Est. L'Italia non ha nessuna capacità di penetrazione da questo punto di vista, lo si vedrà soprattutto nello scontro di interessi, non solo genericamente nell'area balcanica, ma in particolare in Croazia, dove il riconoscimento apparente di un'egemonia politica italiana viene contraddetto dall'influenza diretta, immediata, di carattere economico della Germania. Quindi ci troviamo di fronte alla problematica che nasce da questo conflitto di interessi e, in parte, dalla mancanza di obiettivi precisi dell'Italia, nonché dalla sua effettiva impreparazione a fare fronte a impegni di quelle dimensioni. Questa situazione è anche all'origine di altre caratteristiche della politica italiana in quei territori, come l'uso indiscriminato della violenza e della repressione nei confronti non solo dei movimenti di resistenza, ma anche, si potrebbe dire adottando un'espressione che oggi usiamo in altri contesti, in forma di guerra ai civili. E questo è un ennesimo risvolto dell'incapacità sia di avere una visione politica sia di dialogare con le popolazioni. Anche in questo caso, i discorsi che sono stati fatti sulla questione dell'«altro» calzano abbastanza bene, soprattutto per quanto riguarda le popolazioni slave, considerate come una sorta di nemico ereditario. Non vi è nessuno sforzo da parte italiana - almeno in base a quanto per ora possiamo documentare - di capire chi è l'«altro». Ne è testimone la pubblicistica che attraversa la stampa italiana dell'epoca e, più specificamente, la stampa diffusa tra i soldati. La propaganda per i soldati doveva cercare di dare loro la forza e il coraggio di operare e di ambientarsi in quel territorio. Perlopiù i militari non sapevano neanche perché erano stati mandati a morire in quelle zone, e per spronarli si dipingeva loro il nemico come appartenente a una civiltà inferiore, si spacciava l'immagine della Balcania tenebrosa. Quest'immagine - che andrebbe studiata attentamente, forse più dal punto di vista antropologico che da quello storico - delinea una Balcania sconosciuta che diventa per le forze italiane un vero e proprio incubo. L'uso indiscriminato della violenza è di sicuro - oltre che determinato dalla consapevolezza dell'inferiorità e incapacità militare italiana - anche il risvolto di questa totale cecità e incomprensione delle popolazioni con le quali l'Italia aveva a che fare. Vi sono alcune ipotesi interpretative che meriterebbero di essere approfondite; ricordo in particolare gli spunti di Sala sul carattere coloniale della presenza italiana nella penisola balcanica. Molti militari e anche funzionari dell'amministrazione italiana vengono mandati in queste terre dopo aver fatto esperienza militare o di amministrazione in Africa orientale o in Libia. Uno dei comandanti italiani con maggiori responsabilità quanto a repressioni, il generale Alessandro Pirzio-Biroli che operava in Montenegro, era stato governatore dell'Amhara. Il punto, qui, non è la carriera di queste persone, ma la loro cultura e il loro modo di guardare ai loro amministrati. Nella migliore delle ipotesi, questi amministrati non sono considerati degni di un rapporto come deve esservi tra popolazioni civili, ma solo sudditi da reprimere. Lo dico in termini spicci, forse brutali, ma la sostanza del discorso è questa, e sarebbe interessante continuare ad approfondire questo tema, perché alle spalle di certi comportamenti vi era una vecchia cultura italiana che aveva sempre guardato agli slavi come a nemici, comunque un popolo barbaro. E' chiaro che in questo contesto, soprattutto nel territorio jugoslavo, la guerra cieca delle forze italiane contro il dispiegamento delle forze partigiane comportò un coinvolgimento molto esteso in operazioni di rappresaglia - anzi, in operazioni che non erano solo di rappresaglia ma anche di feroce contrapposizione alla popolazione civile - e la trasformazione del conflitto in una grande operazione di polizia. Quindi, anche nel confronto tra potere politico - penso alla provincia di Lubiana - e potere militare, l'espropriazione di qualsiasi forma di autorità civile e la trasformazione di ogni operazione in azione di carattere poliziesco o militare diedero alla presenza italiana un carattere di militarizzazione estrema, e di altrettanto estrema violenza. Uno degli esempi più forti di disposizioni per la repressione delle attività partigiane - ma con ampie implicazioni nei confronti della popolazione civile - è rappresentato dalla famosa circolare 3C del marzo 1942, diramata dal generale Mario Roatta, comandante della II armata, che fu degno successore del generale Ambrosio, poi passato allo Stato Maggiore. Quest'ultimo aveva dichiarato a tutte lettere che la guerra che si combatteva in Jugoslavia era una guerra nella quale non si facevano prigionieri. Affermazioni di questa natura ne potremmo riportare molte, non soltanto grazie alle indagini - e alle relative documentazioni - di Tone Ferenc, uno storico sloveno purtroppo deceduto, ma anche grazie a uno dei pochi studi che l'Ufficio storico militare dello Stato Maggiore dell'Esercito è riuscito a produrre su questi temi, L'occupazione italiana della Slovenia (1941-1943) di Marco Cuzzi.
Stralcio dal saggio di Enzo Collotti "Le occupazioni italiane nei Balcani" in "Dall'Impero austro-ungarico alle foibe" (Bollati-Boringhieri, pp. 304, euro 24,00), in libreria dal 12 febbraio
03. 02. 2009. | 23:00 |
EKSKLUZIVNO Jablaničko, Ramsko i Buško jezero nakon rata postali tajna odlagališta |
U hercegovačka jezera SFOR bacao opasan otpad |
Autor Valentina Rupčić,
Velimir Begić, Frano Matić |
Od radioaktivne boje, koja je godinama prije rata bila smještena u zgradi sadašnjeg Parlamenta BiH, do radioaktivnih lokacija u Han Pijesku i Hadžićima koje su posljedica bombi s osiromašenim uranom koje je bacao NATO, do pojedinačnih lokacija otkrivenih sasvim slučajno u Zenici i drugim mjestima. No postoje veći incidenti.
Francuski “izvoz”
Po potpisivanju Daytonskog sporazuma Hercegovina je potpala u sektor multinacionalne divizije jugoistok pod zapovjedništvom francuske vojske. Francuska je imala problema s odlaganjem velikih količina radioaktivnog otpada koji svake godine proizvodi i inače je poznata kao zemlja koja je spremna “na crno” odložiti radioaktivni otpad. Mediji su više puta pisali i upozoravali o ovom problemu.
Poznat je dugogodišnji spor između Španjolske i Francuske zbog francuskog odlaganja radioaktivnog otpada u pećine ispod Pirineja čiji je ulaz na francuskoj strani, a koje duboko ulaze ispod španjolskog područja. U francuskoj vojsci postoji i specijalna postrojba za odlaganje i rukovanje radioaktivnim otpadom, koju isključivo čine Maori podrijetlom iz Francuske Polinezije i Novog Zelanda.
Od dolaska IFOR-a u BiH pa idućih nekoliko godina specijalna postrojba sastavljena od Maora bila je aktivna na području Hercegovine. Kako nam je detaljno opisao jedan bivši pripadnik SIS-a (Sigurnosno-informativna služba), a kasnije FOSS-a (Federalne obavještajne službe sigurnosti), radilo se o velikoj operaciji tajnog odlaganja radioaktivnog otpada u hercegovačka jezera.
Obavještajne službe otkrile su ovu operaciju, ali je na pokušaje pojedinih političara da se to spriječi međunarodna zajednica isto proglasila ilegalnim i protuzakonitim praćenjem IFOR-a, odnosno SFOR-a. No, kako nam opisuje ovaj bivši obavještajac, operacija je kontinuirano tekla na sljedeći način:
- Brodovi s radioaktivnim otpadom uplovljavali su u crnogorsku luku Bar gdje je teret pod maksimalnim i nevjerovatnim osiguranjem francuski kontingent vojnih snaga, bez ikakvih kontrola eskortirao do Stoca. U Stocu su kontejneri s otpadom zalivani betonom i više tona teški betonski blokovi prilagođeni su helikopterskom transportu, odnosno kačenjem za helikopterske sajle.
Meta su bila tri hercegovačka jezera - Buško, Ramsko i Jablaničko. U ta jezera su godinama francuski helikopteri IFOR-a i SFOR-a u noćnim satima nad najdubljim dijelovima jezera bacali velike betonske blokove s radioaktivnim otpadom, stotine blokova. O tome svjedoče i stanovnici koji žive u neposrednoj blizini jezera koje su noćima budili helikopteri u niskim preletima s okačenim teretom.
Birane duboke jame
Odlično izabrana mjesta s velikim dubinama, neposjedovanje adekvatne opreme, poratno stanje, u ratu porušena i prognana mjesta, nezainteresiranost i strah domaćih vlasti od međunarodnih posljedica doveli su do toga da u ova tri hercegovačka jezera leži smrtonosni otpad. Kako je strah opravdan, govore nam i ribiči koji, kako su izjavili, znaju ove priče i izbjegavaju ići u ribolov na ova tri jezera.
Priča o radioaktivnom materijalu u BiH smatra se svojevrsnom “državnom tajnom”. Pojedinci poput ovoga bivšeg obavještajca pokušali su na ovakav način upozoriti na postojanje ovog problema, no sve je završavalo zataškavanjem. Stotine tona streljiva s osiromašenim uranom i sada su ukopane u zemlju u BiH, što su međunarodne agencije i potvrdile. Posljedice odlaganja opasnih materijala nikada se u BiH nisu ozbiljnije istraživale.
Intervista in esclusiva al prof. Aldo Bernardini, di Milica Ostojic corrispondente da Roma, per
“PECAT” rivista politica, n.ro 40, novembre/o8, Belgrado
La Croazia è uno stato illegale
Nell’ intervista esclusiva per “Pecat” il prof. Aldo Bernardini, l’ unico italiano al quale il Tribunale dell’ Aia ha permesso l’ incontro con l’ ex presidente Slobodan Milosevic, per 2 volte nel carcere di Scheveningen, parla della trasgressione del diritto internazionale nella distruzione della RSF di Jugoslavia, del bombardamento del nostro paese, del riconoscimento del Kosovo indipendente, sottolineando che il riconoscimento della Croazia nelle attuali frontiere è completamente illegale.
Intervista di Milica Ostojic, corrispondente da Roma per “Pecat”
Aldo Bernardini, professore di Diritto internazionale alla Facoltà di Scienze Politiche presso l’ Università di Teramo, ex rettore dell’ Università di Chieti e membro del Comitato internazionale per la difesa di Slobodan Milosevic, Comitato che è stato fondato su iniziativa di una decina di intellettuali mondiali, pronti a lottare contro il processo ingiusto del Tribunale “speciale” delle NU all’ Aia contro i già “riconosciuti” ed “indicati” accusati, in prevalenza serbi. Per questo professore italiano – presso il quale nessuno studente può superare l’ esame se non ha superato la materia del suo libro “ La Jugoslavia assassinata” pubblicato già nel marzo del 2005 – “il Tribunale dell’ Aia che pratica una giustizia selettiva, è un tribunale marionetta nelle mani della NATO”.
Aldo Bernardini parla raramente ai media. Preferisce esporre i suoi pensieri negli incontri scientifici e pubblici. Per “Pecat” il professore ha accettato di rispondere a molte domande che riguardano la violazione del Diritto internazionale nella distruzione della Jugoslavia Federativa e Socialista, i bombardamenti NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia, il riconoscimento del Kosovo e Metohija, ed il suo incontro con Slobodan Milosevic, sottolineando innanzitutto il proprio parere positivo riguardo le affermazioni di Milorad Vucelic, direttore e capo redattore di questo settimanale politico circa quanto gli ha detto telefonicamente l’ ex presidente della RF di Jugoslavia, 5 giorni prima della sua morte: “Non mi spezzeranno, riuscirò a contrastarli e vincerli”.
Gli studenti dicono che è un professore severo e, quello che per noi è particolarmente interessante, che proprio il suo libro “ La Jugoslavia assassinata” è materia inevitabile all’ esame di diritto internazionale...
Certamente, io l’ 8 aprile del 1999, constatando che con l’ intervento militare della NATO era stato revocato e abolito il diritto internazionale, fatto prigioniero dal gendarme del mondo, ho inviato un telegramma all’ allora presidente del governo italiano Massimo D’ Alema e al ministro dell’ Istruzione universitaria Zecchino, nel quale esprimo che con ciò mi è ostacolato l’ insegnamento nelle lezioni e perciò di aver il diritto di opporre resistenza contro questa violazione, contraria alla Costituzione italiana e al la Carta delle NU. Se vogliamo oggi sintetizzare tutto sul caso della distruzione della Jugoslavia, il bombardamento del 1999 e le conseguenze di questo – dobbiamo concludere che questo è stato un attacco del capitalismo occidentale al mondo socialista, attacco al quale purtroppo i paesi socialisti non hanno saputo reagire come si doveva.
Nella Jugoslavia però iniziò molto prima: il debito, l’ impoverimento, le ricette del Fondo monetario internazionale, mortali per un paese con gran debito. Cosi il mondo occidentale ha lavorato per la distruzione del socialismo. Inoltre nel paese c’ erano tali forze, in verità in minoranza, che erano state tenute sotto controllo, ma che costantemente esercitavano pressione, stimolate e sostenute dall’ estero. Sono uscite infine alla luce del giorno continuando nel processo della secessione. Nel contempo anche l’ autonomia delle Repubbliche era accentuata contro il Governo centrale. E quando viene indebolito il potere centrale, allora è più facile disperdere tutto!
A questo punto dovrei citare uno stralcio del suo libro nel quale ricorda l’ anno 1980, il periodo immediato dopo la morte di Josip Broz Tito. Fa un’analisi delle riforme economiche e politiche, dell’ accumulazione del debito, la svalutazione del dinaro e l’ impoverimento dei cittadini. E tutto ciò ha contribuito all’ indebolimento delle istituzioni federali il che ha avuto conseguenze sulle maggiori divergenze tra la politica di Belgrado, i governi repubblicani e quelli delle regioni autonome. In poche parole, l’ economia jugoslava è entrata nel coma, si è arrivati all’ implosione sostenuta dalle forze esterne che trovavano sempre più consensi insieme ad alcune interne.
Nel libro cito osservazioni e conclusioni di certi autori (Chossudovsky e Parenti) e le relazioni causali-consequenzi ali nella distruzione della Jugoslavia con le “macchinazioni americane”, ciò trova origine in un “documento riservato e segreto” dell’ amministrazione Reaganiana intitolato “La politica degli USA verso la Jugoslavia ”, il quale prevedeva “lo sforzo nell’ aiuto di una rivoluzione silenziosa nel distruggere il Governo e il Partito comunista”. Dunque, come vi ho detto, tutto è stato pianificato per distruggere il mondo socialista. E' necessario aggiungere che questa operazione, la secessione, in gran parte è stata sostenuta da alcuni paesi europei, come per esempio la Germania , l’ Austria, il Vaticano, con la volontà di staccare le Repubbliche in prevalenza cattoliche. Perciò esse hanno per prime riconosciuto l’illegale autoproclamazione dell’ indipendenza di queste repubbliche (sottolineo che allora ancora esisteva la RFSJ ), dando così un fortissimo contributo alla conseguente guerra civile. I miei studenti devono apprendere bene queste cose, in particolare gli studenti che lavorano già. Specialmente se come impiegati statali, appartenenti alle forze dell’ ordine, polizia. Ci tengo molto che essi sappiano dove non devono sbagliare.
Dunque secondo il suo parere il concetto dell’ autodeterminazione nel caso delle ex repubbliche jugoslave è sbagliato, e con ciò è stato trasgredito il Diritto internazionale.
Dobbiamo sapere che nel caso di uno Stato costituito non dovrebbe esistere un diritto all’ autodeterminazione, non potrebbe esser operativo. Non esiste il diritto che assicuri ad alcune parti dello Stato di separarsi. Eccetto che in quelle parti vi sia discriminazione assoluta a vantaggio della popolazione dominante. Soltanto in queste situazioni si può presentare il problema e chiedere l’ indipendenza, al contrario al massimo si può chiedere lo status di autonomia. Ma se i diritti in tutte le parti sono uguali, il diritto alla secessione non esiste. Nell’ ex Jugoslavia regnava l’ unità nei diritti di tutti i suoi popoli. Tra l’ altro lo Stato era una Federazione con le Regioni autonome (due). La distruzione della Jugoslavia è un singolare fenomeno storico, un esempio drastico d’ingerenza della comunità internazionale negli affari interni di un paese. Inoltre in Jugoslavia non c’ era nessuna discriminazione. Sappiamo delle tragiche conseguenze della distruzione della Jugoslavia – quelli che si sono immischiati, hanno trasformato una guerra interna in una internazionale. Belgrado, cioè il Governo della RSF di Jugoslavia aveva il diritto assoluto di difendere la Federazione , secondo la Costituzione doveva inoltre difendere l’ integrità e l’ unità del paese, e ciò che ha fatto è stato definito come aggressione!
Il governo della RSFJ, aveva tutto il diritto di
difendere la Federazione , secondo la Costituzione
inoltre difendeva l’ integrità e l’ unità del paese,
mentre ciò è stato definito come aggressione!
In questo caso sembra che il Diritto internazionale sia stato doppiamente trasgredito, perche nei nuovi Stati costituiti vivono popoli (popoli costitutivi, n.d.t.) che non hanno interesse di appartenere ad un altro Stato, ma volevano rimanere in Jugoslavia, oppure essere indipendenti.
Quando uno Stato infine intraprende la strada verso la disgregazione, la distruzione, la fine dell’ esistenza , e quando sorgono nuovi Stati, allora non esiste nessun diritto di sostenere le frontiere interne (amministrative, n.d.t.). Non esiste alcun principio generale per cui le nuove entità avessero il diritto alle vecchie frontiere in quelle dello Stato estinto, perchè esse esistevano soltanto nella precedente Costituzione. Il nuovo Stato “indipendente” non nasce immediatamente ma si va formando. Si tratta di un processo costituente. Siccome non esiste uno Stato costituito, i popoli che vogliono rimanere nel vecchio Stato, o diventare autonomi, ne hanno il pieno diritto; essi lo possono realizzare. Vi darò un esempio. Se si dovesse realizzare l’ idea della secessione del nord Italia, della Padania, si sa che tradizionalmente esistono delle regioni che si vorrebbe che facessero parte di un possibile nuovo Stato, ma ci sono anche regioni e provincie che vorrebbero rimanere a far parte dell’ Italia; dunque la secessione non ha diritto alle frontiere regionali. Cosi la Krajina e la Repubblica Srpska (di Bosnia) avevano lo stesso diritto, ma sono state costrette a rimanere nella formazione dei nuovi Stati, malgrado le loro frontiere amministrative fossero definite nella Costituzione dello Stato al quale appartenevano, la Jugoslavia. Cosi nel caso della Jugoslavia abbiamo la trasgressione duplice del diritto internazionale.
Cosa allora si dovrebbe dire per il Kosovo e Metohija? Secondo quale Diritto esso può diventare Stato indipendente?
Nel caso del Kosovo e Metohija si è arrivati a criteri assurdi ed illegali. Il Kosovo è parte integrale di uno Stato, della Serbia. Nel seno della quale aveva un’ autonomia interna e non c’ era nessuna discriminazione verso i cittadini. Si è venuti ad una rivolta interna sostenuta e finanziata dall’ estero. Non aveva nessun diritto alla secessione, questo lo ammette anche Antonio Cassese, professore di Giurisprudenza e già presidente del Tribunale dell’ Aia, che sicuramente non è orientato in senso pro serbo.
Che cosa allora significa la Risoluzione 1244 nella quale si prevede una larga autonomia del Kosovo, ma nell’ ambito della Repubblica Federale di Jugoslavia, cioè Serbia?
L’ attuale situazione nel Kosovo testimonia che nella regione sud della Serbia è stato violato un altro accordo in questo caso specifico, cioè è stata effettuata una più grave violazione del diritto. In proposito non possiamo sorvolare sul fatto che nel Kosovo è stata costruita la più grande base militare americana. Ciò sicuramente spiega tutto quello che fino oggi è successo nel Kosovo. In questione è una profonda penetrazione imperialista nei Balkani, con l’intento di formare Stati sempre più piccoli, per poterli controllare, alcuni indirettamente, ed alcuni direttamente come il Kosovo. Il Kosovo non è uno Stato reale indipendente. Si tratta di uno Stato mafioso, di criminali. D’ altronde, il Kosovo, chissà per quanto tempo ancora, rimarrà sotto l’ amministrazione internazionale. Perciò esso è una finzione, l’ invenzione di qualcuno che va in favore alle forze separatiste interne e di quelle esterne. Ora una missione delle NU viene sostituita da una europea, l’ EULEKS – che non ha nessuna base legale. Sul Kosovo ne abbiamo talmente tante di violazioni del diritto internazionale che non saprei più come definirle.
Ritiene che questo sia la fine della scissione della Serbia?
Ho paura di no. Si tratta di una politica che è stata voluta dall’ esterno, ben pianificata e portata ai limiti estremi. In gioco sono naturalmente anche fattori interni stimolati ed incoraggiati dalle potenze internazionali. Il governo centrale inoltre teme di fronte ad una tale politica estera di poter essere accusato della violazione dei diritti umani in questa o nell’ altra provincia o regione.
E' una situazione di ricatto oggettivo – le forze esterne si intromettono negli affari interni di uno Stato sovrano. Ragionando così, quelli che hanno in mente la secessione dalla Serbia saranno sempre sostenuti dall’ estero: se lo potevano quelli prima di voi, lo potete fare anche voi. Naturalmente in gioco c'è anche l’intermediazione finanziaria. Ma l’ errore si è commesso molti anni e decenni prima, si è data alle autonomie l’ illusione e troppa libertà, che è poi stata utilizzata in modo negativo. La Serbia è rimasta troppo piccola ed è necessario che le forze politiche creino una politica la quale incoraggi e stimoli alla coerenza nella vita comune tra le varie etnie di appartenenza che da sole non potrebbero fare niente ma vengono aiutate da forze esterne. Penso alla Vojvodina ed al Sangiaccato. Non so quali strumenti si possano usare e come altrimenti agire perchè si fermino o si rendano impossibili questi processi distruttivi. Bisogna ricreare quello spirito che aveva una volta la Jugoslavia.
Milosevic è stato un politico umanista.
Di Slobodan Milosevic parlo con molta commozione. Lui non è stato quello dipinto dalla stampa che era al servizio di quelli che di ciò avevano bisogno. Milosevic è stato un uomo dignitoso, un politico lucido, ricco di cultura umanistica.
Milosevic è stato un politico lucido,
pieno di cultura umanistica. Lui non voleva
la grande Serbia, ma difendeva la Jugoslavia
e tutti quelli che volevano rimanere in essa.
Lui ha semplicemente difeso la Jugoslavia e quelli che volevano rimanere in essa. Si scriveva che voleva la “grande Serbia”. Non è vero! Io ricordo il suo colpo con la stilografica al tavolo alla conferenza di Brioni nel 1991, quando ha detto di non comprendere come possa la Jugoslavia esser cancellata con un tratto di penna. Lui non era un nazionalista che difendeva la Serbia ma un umanista, che difendeva quelli che volevano la Jugoslavia. Mi parlava dell’ incontro a Corfù nel 1997 e della posizione che auspicava l’ unione dei popoli balcanici... Alla conferenza ha partecipato anche il premier albanese Fatos Nano il quale ha riconosciuto che il Kosovo apparteneva alla Jugoslavia. Sono stato due volte al carcere di Scheveningen da Slobodan Milosevic e ho parlato lungamente con lui, e due volte alle manifestazioni davanti al carcere contro l’ ingiusto processo presso il Tribunale dell’ Aia. Ho partecipato al funerale di questo leader che ha soltanto difeso il suo popolo e la sovranità del paese, perciò ritengo che la sua drammatica fine deve richiamare l’ attenzione sull’ orribile comportamento del cosiddetto mondo occidentale civilizzato che non ha limiti ne' scrupoli ai fini della salvezza dell’ imperialismo monopolistico per il quale molti popoli pagano un prezzo troppo alto.
Nelle carceri si muore soltanto per assassinio! Queste parole le scrisse Miriam Pellegrini, presidente della Sezione italiana del Comitato Internazionale per la Difesa di Slobodan Milosevic, l’ 11 marzo 2006, alla notizia della sua morte.
Come egli disse telefonicamente al direttore della rivista “Pecat”: “Non mi spezzeranno”. Aveva ragione, in verità non l’ hanno spezzato, lo hanno soltanto portato alla morte. Lui è stato il leader che ha dato il contributo decisivo per gli accordi di Dayton, per la Costituzione della Serbia e della Jugoslavia, e non è stato ispirato da criteri etnici a differenza di quelli prevalenti in altre repubbliche secessioniste.
Dunque secondo il suo giudizio Milosevic lo stavano uccidendo indirettamente e lo hanno poi ucciso in prigione. Sappiamo che non è stato curato adeguatamente, non è stato consentito di trasportarlo in una clinica a Mosca. Ma le sembra normale che qualcuno si metta a leggere circa 5 milioni di pagine di documentazione per difendersi? Inoltre sorge il dubbio anche perchè “se ne è andato” quando mancavano ancora soltanto 37 ore al dibattito, e il Tribunale non è arrivato alle testimonianze reali della sua colpevolezza...
Sarebbe stato molto facile, per così dire, simbolico, consegnare le armi, ammainare la bandiera e finirla con tutto.
Lui però ha sostenuto eroicamente da solo la sua posizione in difesa di una storia, un ideale, uno Stato, contro le forze al servizio di qualcuno, dello straniero, del capitale straniero, e lui lo sapeva.
Conduceva questa dura battaglia che lo ha portato alla morte.
Sette giorni prima della sua morte mi è stato chiesto di scrivere una lettera all’ allora presidente del Tribunale all’ Aia (Pocar, professore all’ Università di Milano) perchè permettesse a Milosevic, innanzi tutto su richiesta dei medici russi, di essere trasportato in Russia per le cure necessarie. La lettera non ha avuto nessuna risposta e... fine. Se dovessi stampare la seconda edizione del libro publicherò in esso anche questa lettera. Ritengo questo esito una incancellabile macchia sul Tribunale dell’ Aia. Milosevic forse non è stato ucciso direttamente, questo non era nell’ interesse del Tribunale, forse era stata già scritta la sua sentenza. Ma i carcerati possono morire anche altrimenti: trascurando le loro cure o nella non somministrazione delle medicine necessarie, di ciò che è dovuto ad ogni essere umano, tanto più a un presidente che rappresenta una figura storica! Ed io voglio raccomandare al popolo serbo, come anche a quello jugoslavo, di continuare o ricominciare a rispettarlo e considerarlo in modo positivo, e non nel modo in cui è stato descritto dalla stampa in malafede. Ho sentito come nel carcere lo rispettavano anche i carcerati delle altre ex repubbliche jugoslave, i croati, i musulmani, chiamandolo “Presidente”.
Traduzione di Ivan Pavicevac
Sulla pista delle curiosita' e degli episodi al confine con
l'inverosimile, il Kosovo e' una miniera. Oggi si parla apertamente di
emergenza criminale nel triangolo Kosovo, Albania e Montenegro. Si
sapeva da tempo, ma era considerato allora, a guerra appena finita,
politicamente poco elegante parlarne in pubblico. Cose per polizie e
analisti, ma nel chiuso questure e delle accademie. Anche dei Balcani
nel loro complesso si discuteva riservatamente, per capire cosa aveva
realmente prodotto quella guerra, senza creare eccessivi imbarazzi
governativi.
Nel novembre del 1999 i ministeri degli Esteri italiano e francese
riuniscono alla fondazione Cini di Venezia un gruppo di studiosi ed
esperti internazionali di quell'area. Fra di loro
c'e' il francese Xavier Raufer, direttore di ricerca sulle
«minacce criminali contemporanee» all'Universita di Parigi. Il
professor Raufer ci propone il frutto delle sue ricerche e un
ammonimento: «Nella societa dell'informazione, il rischio e' quello
dell'autoaccecamento, di voler ignorare quello che da fastidio».
Per riscuoterci da questa tentazione, Xavier Raufer racconta un
episodio difficile da dimenticare, e rimasto da allora bloccato dal
vincolo della riservatezza di quella occasione di confronto e di
studio. Credo sia giunto il momento di violare la consegna del
silenzio, almeno per sorriderne.
II racconto del professor Raufer ci riporta a Rambouillet, ed al
problematico arrivo della delegazione UCK. Nessuno sa chi e come abbia
scelto quei rappresentanti, ma comunque occorre farli arrivare a
Parigi. I personaggi sono ricercati dalla polizia serba, e sono privi
di passaporto. Si muove la diplomazia mondiale, e i 5 guerriglieri sono
prelevati all'aeroporto di Pristina da un velivolo milltare francese e
accompagnati in pompa magna al castello di Rambouillet, alle porte di
Parigi, scenario magico per I' auspicata «pace francese» per il Kosovo,
che Jacques Chirac sperava di celebrare alIa fine del semestre della
sua presidenza dell'Unione europea.
Gli ospiti illustri sono accolti con tutti gli onori, mentre gli
addetti provvedono a far arrivare nelle rispettive camere i bagagli
personali. Immaginiamo lo stupore dell'uomo della Sûreté francese
quando, nel dare la dovuta occhiata al bagaglio di uno dei delegati
Uck, trova una grossa quantita' di polvere bianca, sigillata in
sacchetti di plastica, che non era farina o borotalco.
Il professor Raufer nel suo racconto non e' entrato nei dettagli, salvo
accennarci dell'imbarazzo ai vertici della Sûreté e del ministero degli
Esteri francese, di fronte a quella scoperta.
Scrivo, e continuo a sorriderne. Rivivo la situazione e, immaginando,
sghignazzo. L'aviazione militare francese che fa da corriere della
droga, il presidente Chirac, padrone di casa, ridotto al ruolo di
«basista», la Sûreté e i servizi segreti d'oltralpe schierati a
garantire la protezione del «carico». Immagino la severa Madeleine
Albright a colloquio col "pusher" kosovaro, e immagino la cortesia da
gentiluomo di quest'ultimo. «Here you are, Mies?» Gradisce, signora?
Fantasie maligne.
Non sono, sino a oggi, riuscito a strappare a Raufer il nome del
delegato-trafficante. La mia curiosita' ovviamente riguarda il dopo.
Quale sara' stato il seguito della sua carriera politica, dopo
queIl'avvio diplomatico fulminante a livello mondiale? Almeno
presidente di qualcosa, o forse ministro? Data la sua particolare
esperienza, potrebbe essere un efficiente capo della polizia. Per la
storia, il negoziato di Rambouillet dovrebbe finire sepolto sotto una
nuvola di «neve».
da: Ennio Remondino, "LA TELEVISIONE VA ALLA GUERRA",
Ed. Sperling&Kupfer / ERI Rai, Milano 2002, pp. 175-177
Das Bomben-Versprechen
Zehn Jahre »Rambouillet« – eine Friedenskonferenz, die den Krieg gegen Jugoslawien brachte
Kurt Köpruner
Aus Anlaß des zehnjährigen »Jubiläums« der Konferenz von Rambouillet, die den Weg für die NATO-Aggression gegen Jugoslawien ebnete, veröffentlichen wir einen Auszug aus dem leider vergriffenen Buch von Kurt Köpruner »Reisen in das Land der Kriege. Erlebnisse eines Fremden in Jugoslawien« (Heinrich Hugendubel Verlag, München 2003). Der Autor reiste als Geschäftsmann zwischen 1990 und 2000 viele Male in die zerfallende Republik. Sein Erlebnisbericht liefert ein differenziertes Bild des damaligen Geschehens – jenseits von dem, was in den Mainstreammedien vermittelt wurde und wird. Wir danken dem Autor für die freundliche Genehmigung zum Nachdruck.
Der 24. März 1999, der sich demnächst zum zehnten Male jährt, war der Tag, an dem das Faustrecht wieder eingeführt wurde. An diesem Tag begann das 78 Tage andauernde Bombardement der damals 19 NATO-Staaten auf Jugoslawien, das für Tausende Menschen den Tod bringen sollte und für Millionen die Zerstörung ihrer Lebensgrundlagen auf Jahrzehnte hinaus. Kein halbwegs neutraler Beobachter zweifelte daran, daß diese Bombenaktion allein eine »Rechtsgrundlage« hatte – das Recht des Stärkeren, vulgo: das Faustrecht. Ein ungeheuerlicher Vorgang. Ein Vorgang, der von einer friedensbewegten Öffentlichkeit nicht ohne Protest zur Kenntnis genommen werden konnte. Sollte man meinen. Doch nirgendwo in den westlichen Metropolen war nennenswerter Protest zu vernehmen. Forderten beim Irak-Krieg 1991 noch Millionen »Kein Blut für Öl«, so war es diesmal ganz ruhig auf unseren Straßen; sieht man von den paar frustrierten Exil-Serben und einigen wenigen notorischen Unruhestiftern ab. Was war passiert? Klar, Bomben auf Belgrad waren seit Jahren von vielen gefordert worden. An forderster Front zuletzt selbst die »größten Humanisten« der Politik, von Joschka Fischer, über Tony Blair bis zu Bill Clinton. Dazu FAZ, Spiegel und zahllose »Extras« und »Specials« auf allen Kanälen. Und doch wurde die Aktion ein ums andere Mal verschoben. In gleich 19 Staaten Krieg zu beschließen, war offenbar nicht so einfach. Am Ende ist es aber dann doch noch gelungen: Eine Friedenskonferenz brachte den Krieg.
Kurt Köpruner
Am 6. Februar 1999, genau drei Wochen nach dem Massaker von Racak1, begann im Jagdschloß von Rambouillet, einem Ort nahe Paris, die Veranstaltung, die man allgemein »Friedenskonferenz« nannte. Die Konferenz wurde am 23. Februar unterbrochen, am 15. März in Paris wieder aufgenommen und schließlich am 18. März abgeschlossen. Sechs Tage später begann das NATO-Bombardement. Die entscheidende Frage zu »Rambouillet« lautet: War diese Friedenskonferenz so angelegt, daß sie wenigstens eine halbwegs realistische Chance für den Frieden darstellte – oder war sie von den Veranstaltern von vornherein so konzipiert, daß sie scheitern mußte? Es besteht für mich kein Zweifel, daß letzteres der Fall ist.
Diese schwerwiegende Feststellung gilt es, sorgfältig zu begründen. Dabei werde ich mich in erster Linie an den Aufzeichnungen von Wolfgang Petritsch orientieren, die dieser in seinem erfreulich ausführlichen Bericht zur Konferenz festgehalten hat.2 Petritsch war gemeinsam mit dem Amerikaner Chris Hill sowie dem Russen Boris Majorski einer der drei Chefverhandler von Rambouillet.
Die Einladung zur Konferenz
Dazu Petritsch in seinem Bericht: »Daß NATO-Angriffe aber nur für eine Seite eine Drohung darstellten und der anderen unter Umständen sogar ins Kalkül passen könnten, machte dieses Friedensultimatum zu einer strittigen und viel diskutierten Entscheidung.« Als Petritsch dieses »Dilemma«, wie er es heute nennt, zu Papier brachte, war das NATO-Bombardement längst vorüber. Vor und während der Konferenz war so viel »Sensibilität« nicht feststellbar. Nachgerade martialisch gab Petritsch wenige Tage vor Beginn der Konferenz in einem Spiegel-Interview zu Protokoll: »Aber eines garantiere ich: Vor Ende April wird der Kosovo-Konflikt entweder formal gelöst sein oder die NATO bombardiert.« (Der Spiegel, 8.2.1999) Eine bemerkenswerte Formulierung am Beginn von Friedensverhandlungen!
Ein Terrorist als Delegationsleiter
Hashim Thaci wurde von Wolfgang Petritsch persönlich »entdeckt« und zum Verhandlungspartner aufgebaut. Wir lesen in seinem Buch: »Nachdem die amerikanischen Versuche, die für den weiteren politischen Prozeß entscheidenden Personen der UCK zu identifizieren und mit ihnen Verhandlungen aufzunehmen, gescheitert waren, wurden unter der Ägide von Petritsch seit Sommer 1998 inoffizielle Erkundigungen über die relevanten politischen Führungspersönlichkeiten der Untergrundarmee durchgeführt. Nach einer längeren Phase der Recherche wurde die Gruppe um Hashim Thaci als der geeignete zukünftige Ansprechpartner identifiziert. Sowohl die EU als auch die Kontaktgruppe3 haben die Initiative Petritschs schließlich akzeptiert und die Notwendigkeit der Einbeziehung der UCK in den Verhandlungsprozeß als unumgänglich anerkannt.«4
Petritsch und sein Mentor
Petritsch ist Österreicher, zweisprachig, deutsch und slowenisch, in Südkärnten aufgewachsen, politisch großgeworden unter Bruno Kreisky, von September 1997 bis Juli 1999 österreichischer Botschafter in Belgrad und in der entscheidenden Phase, von Oktober 1998 bis Juli 1999, Sonderbeauftragter der Europäischen Union für den Kosovo.
Am Rande sei hier daran erinnert, daß Österreich in der zweiten Jahreshälfte 1998 den EU-Vorsitz führte, der Anfang 1999 nahtlos an Deutschland überging. Kann es Zufall sein, daß die vorläufige Entscheidung auf dem Balkan genau in die Zeit fiel, da die beiden alten Erzfeinde Serbiens, Österreich und Deutschland, in Europa ein ganzes Jahr lang den Vorsitz führten? Genau jene zwei Staaten, die Serbien im gleichen Jahrhundert schon zweimal überfallen, beide Male Millionen Leichen und ein verwüstetes Land hinterlassen hatten, die zudem Anfang der neunziger Jahre mit der Forcierung der Anerkennung Kroatiens maßgeblich an der Auslösung der blutigen Balkan-Kettenreaktion mitgewirkt hatten?
Wie auch immer, Wolfgang Petritsch genoß das Vertrauen des deutschen Außenministers Joschka Fischer. Das war notwendig, denn Engländer und Franzosen wollten Petritsch zunächst nicht alleine für die EU in Rambouillet verhandeln lassen. Doch Joschka Fischer setzte sich durch. Aus Sicht der NATO war dies eine weise Entscheidung, denn wer Petritschs Aufzeichnungen zu Rambouillet aufmerksam liest, findet deutliche Hinweise dafür, daß das NATO-Bombardement ohne die deutsch-österreichische Regie an der Spitze der EU nicht stattgefunden hätte; jedenfalls nicht so, wie es schließlich kam, als unbefristetes Dauerbombardement ganz Jugoslawiens.
Wolfgang Petritsch kennt Jugoslawien sehr viel besser als alle, die sonst in und um Rambouillet mitgewirkt haben. Da hatte er schon von Geburt an einen Startvorteil. Zudem erwarb er seinen Doktortitel mit einer Arbeit über die südosteuropäische Geschichte, und er war Botschafter in Belgrad. Außerdem hatte er gute serbische Freunde, wie ich zuverlässig von Leuten weiß, die ihn kennen. Was, im Vergleich zu ihm, konnte etwa der Amerikaner Chris Hill, der gemeinsam mit Petritsch die Verhandlungen in Rambouillet führte, über die weit verzweigten Wurzeln des Balkankonflikts wissen, über die Sichtweise der Streitparteien, über mögliche Spielräume für Kompromisse, über unüberwindbare »Knackpunkte«, kurzum, wo die Schmerzgrenze der Serben, wo jene der Albaner lag? Vergleichsweise nur wenig, wenngleich Hill seit Jahren im Auftrag der USA auf dem Balkan tätig gewesen war.
Petritsch hätte sein Wissen und seine Erfahrung dafür einsetzen können, seinen serbischen Freunden, und nicht nur diesen, viel Leid zu ersparen. Er hat das nicht getan. Im Gegenteil, er hat mitgewirkt an der Maximierung des Leides, und da er die ganze Materie am besten kannte, trägt er auch ein hohes Maß an Verantwortung dafür.
Denn Petritsch wußte nicht nur, daß die NATO im Falle eines Scheiterns der Konferenz bombardieren würde, er muß auch gewußt haben, daß die serbische Seite dem vorliegenden, in seinen wesentlichen Punkten nicht verhandelbaren Vertragstext nie und nimmer zustimmen würde. Mit anderen Worten: Petritsch – und mit ihm sein Mentor Joschka Fischer – wußte (!) schon vor Beginn der Konferenz, daß die NATO spätestens Ende April bombardieren würde. Das legt nahe, daß die Konferenz nichts als ein Spektakel war, um der Welt vorzumachen, man hätte auch noch das letzte versucht, das Bombardement abzuwenden.
Man kann natürlich fragen, was denn der arme Petritsch dafür kann, daß die NATO zum Bomben entschlossen war. Die Frage muß so gestellt werden: Was hat Petritsch dazu beigetragen? Die Antwort darauf gibt er selbst in seinem Buch.
Die Zielsetzung der USA – und damit der NATO – für Rambouillet hat US-Ministerin Madeleine Albright in ihrer unvergleichlich charmanten Art mehrfach unmißverständlich formuliert: Der den Streitparteien im Rambouillet vorgelegte Vertragstext sei nicht verhandelbar, allenfalls könnten ein paar Kommata versetzt werden. Die einzige Frage sei, ob er akzeptiert würde, und wenn ja, von wem: Unterschreiben alle, Serben und Albaner, dann marschiert die NATO mit dreißigtausend Mann und schwerem Gerät im Kosovo ein. Unterschreiben nur die Serben, dann sollen diese mit den Kosovaren machen, was sie wollen. Unterschreiben nur die Albaner, dann wird Jugoslawien bombardiert, bis es pariert. Unterschreibt keine der beiden Seiten, dann, so Albright, »können wir gar nichts mehr tun«. Ob charmant oder nicht, jedenfalls klare Worte.
Der Vertrag und seine Knackpunkte
Darüber bestand in ganz Serbien völliger Konsens. Von Milosevic über Draskovic bis zu Djin djic, von Seselj nicht zu reden: »Das Ultimatum für die Zulassung von NATO-Friedenstruppen ist in dieser Form unannehmbar«, zitiert Petritsch die oppositionelle »Allianz für den Wechsel«, in der Dutzende serbische Parteien und andere Gruppierungen vereint waren. Das galt nicht nur für die serbischen Politiker: »Jeder in Serbien war davon überzeugt, daß die Internationale Gemeinschaft von den Serben etwas verlangte, was sie nach der Auflösung Jugoslawiens von den Kroaten nicht gefordert hätte. Ein Großteil der Bevölkerung stand, was die Kosovofrage betraf, hinter der Regierung«, konstatiert Petritsch.
Und für die Albaner war ebenso unverrückbar, daß jede Lösung, die den Kosovo langfristig bei Serbien belassen würde, nicht akzeptiert werden könnte. Das war der unauflösbare Gegensatz, den alle kannten, die sich mit der Materie befaßten. Wolfgang Petritsch und sein Mentor zumal. Was also stand im Vertragstext, wie versuchte man, diesem Gegensatz zu begegnen? Zusammengefaßt so, daß keine der beiden Seiten zustimmen konnte. Das sieht auf den ersten Blick ausgewogen neutral aus, salomonisch, wenn man so will; doch der erste Blick trügt, denn am Ende fand man doch noch einen Weg, eine der beiden Seiten, die albanische, zur Unterschrift zu bewegen. Wie es dazu kam, ist ein richtiger Krimi, und Wolfgang Petritsch spielt darin die Schlüsselrolle.
Auf serbischer Seite waren es insbesondere zwei konkrete Gründe, die eine Unterschrift definitiv ausschlossen: Zum einen hätte eine Zustimmung zum Vertrag die Stationierung von NATO-Soldaten im Kosovo bedeutet, also die jugoslawische Souveränität aufgehoben, zumal ohne UNO-Beschluß; zum anderen wurde der künftige völkerrechtliche Status des Kosovo im Vertrag »bewußt zweideutig« gelassen, wie Petritsch in seinem Buch ausdrücklich betont. Deshalb mußten die Serben befürchten, daß die nach Ablauf von drei Jahren vorgesehene Konferenz die faktische Trennung von Serbien beschließen würde. Der Rambouillet-Vertrag trug bekanntlich den Namen »Interimsabkommen«.
Das waren die harten Punkte für die Serben. Alles andere war für sie verhandelbar, mehr noch, allem anderen hatten sie im Prinzip schon im Holbrooke-Abkommen6 zugestimmt.
Was waren die konkreten Knackpunkte auf albanischer Seite? Unverhandelbare Forderung der albanischen Delegation war die Ausübung des Selbstbestimmungsrechtes, konkret die Durchführung eines Unabhängigkeitsreferendums nach Ablauf von drei Jahren. Da der Ausgang dieses Referendums angesichts der albanischen Mehrheit von vornherein feststand, lief diese Forderung auf die völlige Unabhängigkeit des Kosovo von Serbien hinaus. Darin jedoch sahen die Westmächte die Gefahr einer weiteren Ausweitung des Konfliktes: Ein unabhängiger Staat Kosovo wäre allein kaum überlebensfähig und würde jedenfalls den Ruf nach einer Vereinigung mit Albanien enorm verstärken. Das wiederum hätte zwangsläufig unkontrollierbare Folgen für den Freiheitsdrang der diversen Minderheiten in Mazedonien, Bulgarien, Rumänien und Griechenland gehabt und damit den Balkan noch mehr destabilisiert.
Was der Westen den Albanern anbot, war ein formaler Verbleib des Kosovo innerhalb der jugoslawischen Grenzen, wenngleich mit einer Autonomie, die sogar über den Status einer innerjugoslawischen Republik hinausgehen könnte. Man wollte Zeit gewinnen und den endgültigen Status des Kosovo nach drei Jahren nicht durch ein Referendum, sondern im Rahmen einer internationalen Konferenz festlegen.
Man könnte dies durchaus als klugen Kompromiß bezeichnen. Er hatte nur den Schönheitsfehler, daß er für beide Seiten absolut unannehmbar war. Zu schwer lastete der Fluch des Selbstbestimmungsrechtes der Völker, das man Slowenen und Kroaten zugestanden hatte, auf Rambouillet.
Von Ibrahim Rugova hätte man für diesen Kompromiß vielleicht noch eine – allerdings wertlose – Unterschrift bekommen können, von der UCK jedoch nicht. Die ließ zahllose Male die ganze Welt wissen, daß sie solange kämpfen werde, bis der Kosovo völlig unabhängig sei. Schon lange vor der Konferenz (...), aber auch während der Verhandlungen. Via Internet verkündete man unverschlüsselt: »Das Endziel unseres fortgesetzten Kampfes ist und wird sein: Freiheit, Unabhängigkeit und Demokratie.«
Nein, mit dieser Truppe war ein Verbleib des Kosovo innerhalb der Grenzen Jugoslawiens nicht machbar. Zumal der Vertrag die völlige Entwaffnung der UCK vorsah, was zu keinem Zeitpunkt mehr war als ein frommer Wunsch. Auch nach dreißig Jahren Bürgerkrieg sind in Nordirland noch immer viele Waffen im Untergrund, und in Spanien bombt die ETA wie eh und je. Daran orientierte sich die UCK.
Der Konferenzverlauf
Andere haben es anders erlebt: »Die Serben verhandelten klug und geschickt, kabelte Botschafter Christian Pauls an seine Bonner Vorgesetzten, Präsident Milosevic halte in Belgrad die Fäden in der Hand. Die 16 Kosovo-Albaner dagegen blieben mangels klarer Weisungen aus der Heimat zerstritten.« (Der Spiegel, 1.3.1999)
Erst am Abend des zwölften Verhandlungstages übergaben die Chefverhandler Petritsch und Hill das sogenannte »Militärische Kapitel« des Vertragstextes. Dieses stellte nicht nur für die Serben eine böse Überraschung dar, sondern auch für die russische Konferenzdelegation: »Zu meiner Überraschung präsentierte Hill zwei zusätzliche Dokumente (...) mit Anhängen. Die beiden zusätzlichen Dokumente sind nie mit uns diskutiert worden. Es war klar, daß es mehrere Monate gedauert hatte, um sie zu formulieren. (...) General Clark hat vor dem Kongreß zugegeben, daß die Vorbereitungen für die militärischen Operationen im Juni 1998 begonnen hatten. Daher ist dieser Schritt in Rambouillet hinter unserem Rücken geschehen.«7
Die Serben reagierten auf die Übergabe des militärischen Kapitels, wie zu erwarten war: »Die serbisch-jugoslawische Delegation verweigerte die offizielle Kenntnisnahme und damit auch die Verhandlungsbereitschaft«, hält Petritsch fest. Und auch die kosovarische Seite wies eine Unterschrift unter das Vertragswerk zu diesem Zeitpunkt »entschieden zurück«.
Die Konferenz, ursprünglich auf sieben Tage angesetzt – geplanter Abschluß am 12. Februar, eine Verlängerung um weitere sieben Tage war für den Fall einer positiven Entwicklung vorgesehen –‚ stand am 18. Februar, nach dreizehn Verhandlungstagen, dort, wo sie auch schon am Beginn gestanden war. Keine der beiden Seiten war auch nur im entferntesten bereit, den gesamten Vertragstext zu unterschreiben.
Die Serben waren beim politischen Teil des Interimsabkommens nahe an einer Unterschrift, sie bemängelten hier vor allem, daß wesentlich präziser formuliert werden müßte, was die Kosovo-Autonomie in der Praxis bedeutete, lehnten jedoch Gespräche über den militärischen Teil vollständig ab, machten sich nicht einmal die Mühe, die seltsamen Bestimmungen des »Annex B« der Presse zuzuspielen. Dort war vorgesehen, daß die NATO nicht nur im Kosovo, sondern in ganz Jugoslawien einmarschieren und im Schutz völliger Immunität agieren dürfte.
Die Kosovaren wiederum hätten den militärischen Teil sofort unterschrieben, wenn ihnen im politischen Teil die Möglichkeit eines Referendums nach Ablauf von drei Jahren zugestanden worden wäre. Für den Westen jedoch galt, daß beide Teile unterschrieben werden müßten. Kurzum, unvereinbare Standpunkte, die Konferenz stand vor dem Scheitern.
Jetzt fuhr der Westen mit politischen Schwergewichten auf: »Kurz vor Ablauf des Ultimatums schwebten die Außenminister der Kontaktgruppe-Staaten ein. Im ›Beichtstuhlverfahren‹, so Joschka Fischer, nahmen sie die Kontrahenten einzeln ins Gebet. ›Setzen Sie sich nicht selbst ins Unrecht‹, beschwor Fischer den Albaner-Führer Thaci, ›ergreifen Sie den Mantel der Geschichte‹« (zit. n. Der Spiegel v. 1.3.1999). Doch der griff nicht zu. Und auch Frau Secretary of State gab vergeblich ihr Bestes: »Madeleine Al bright kniete förmlich vor den UCK-Kommandeuren, es war ein unwürdiger Anblick«, zitierte Der Spiegel (10.1.2000) höhnisch einen, der dabei war. Selbst Albrights stärkste Trumpfkarte – »If you don’t say ›Yes‹ now, there won’t be any NATO ever to help you!« – stach nicht.
Die entscheidende Nacht
Es sah ganz danach aus – doch dann kam die Wende. Sie kam über Nacht. Petritsch dokumentiert den überraschenden Umschwung, den er selbst herbeiführte, mit bemerkenswertem Understatement:
»Am Morgen des 23. Februar, um 9.30 Uhr, wurde den Delegationen die endgültige Textfassung des ›Interim Agreement for Peace and Selfgovernment in Kosovo‹ ausgehändigt. In einem Begleitschreiben wurden die Delegationen aufgefordert, ihre Stellungnahmen bis 13 Uhr abzugeben. Nach einem nächtlichen Vier-Augen-Gespräch zwischen Petritsch und Thaci wurde dieser von der Notwendigkeit überzeugt, das Abkommen im Prinzip anzunehmen und die definitive Zustimmung erst nach einer Befragung ›des kosovarischen Volkes‹ zu geben.«
Eine wahrlich sensationelle Wende, nach so vielen vergeblichen Verhandlungstagen, nachdem noch am Vorabend jede Zustimmung zum Interimsabkommen abgelehnt worden war. Was ist da gesprochen worden in diesem Vier-Augen-Gespräch zwischen dem Österreicher Petritsch und dem Anführer der Rebellenarmee? Das werden die beiden wohl für sich behalten. Aber wir dürfen raten, wie es gelaufen sein könnte. So vielleicht:
Petritsch zu Thaci: »Wenn Sie nicht unterschreiben, kann Ihnen die NATO nicht helfen, dann putzt euch Milosevic in zwei Wochen weg. Dann könnt ihr den Kosovo für immer vergessen.« Thaci: »Ich weiß, aber wenn wir unterschreiben, löst ihr die UCK auf und der Kosovo bleibt auf ewig bei Jugoslawien. Das akzeptieren meine Leute niemals. Es gab schon zu viele Tote.« Petritsch: »Das ist Ihr Problem! Sagen Sie Ihren Leuten, daß sie ohne NATO heute schon so gut wie tot sind, daß sie mit der NATO jedoch das ganze Land gewinnen werden.« Thaci: »Die NATO hat schon so oft mit Bomben gedroht, alles leere Worte. Wer garantiert uns, daß die NATO wirklich bombardiert, wenn wir unterschreiben?« Petritsch: »Wenn ihr unterschreibt, wird gebombt! Ich habe das öffentlich garantiert. Und der Westen kann unmöglich zurückstecken, das hat doch Frau Albright in aller Öffentlichkeit gesagt. Kein Land der Welt, niemand würde mehr Respekt vor der NATO haben, wenn sie jetzt nicht ernst machte.« Thaci: »Sicher, aber was ist, wenn die Serben im letzten Moment doch noch unterschreiben? Man kennt ja diese feige Bagage!« Petritsch: »Ich kenne die Serben besser als Sie. Überlegen Sie mal: Wenn die den Vertrag unterschreiben, hätte die NATO das Recht, morgen in ganz Jugoslawien einzumarschieren. Darüber wird nicht mehr verhandelt, die Latte liegt zu hoch. Bevor Milosevic das unterschreibt, gibt er sich selbst die Kugel, das muß Ihnen doch einleuchten. Sehen Sie sich den ›Annex B‹ an, den können die Serben nicht unterschreiben, sie verhandeln ja auch nicht einmal darüber!« Thaci: »Ja, Sie haben Recht, ich bin auch davon überzeugt, aber meine Leute in den Schützengräben akzeptieren keine Unterschrift, da kann ich mir gleich die Kugel geben.« Petritsch: »Sie haben keine Wahl. Das Problem müssen Sie lösen. Gelingt es Ihnen, dann steht Ihnen eine große Zukunft bevor. Ich habe Sie zu dem gemacht, was Sie heute sind, und ich werde es nicht vergessen, wenn Sie morgen früh erklären, daß Sie prinzipiell zustimmen. Wir bieten Ihnen als Äußerstes eine Vertagung der Konferenz an, damit Sie Ihre Leute überzeugen können.« Thaci: »Ich habe keine Wahl, und ich werde es so machen, Sie haben mein Wort.«
Reine Spekulation. Aber auch wenn es nicht so war, dann lief es doch darauf hinaus: Das Rennen war nach diesem nächtlichen Vier-Augen-Gespräch gelaufen. Was Madeleine Albright und Joschka Fischer nicht geschafft haben – Wolfgang Petritsch hat es vollbracht, den Westen gerettet.
Bei diesem Stand der Dinge wurde die Konferenz vertagt. Es folgten hektische diplomatische Aktivitäten, die man sich allerdings hätte sparen können. Am Abend des 18. März unterschrieben Thaci und Rugova das Vertragswerk, die Serben blieben bei ihrem Nein. Wolfgang Petritsch konnte sein Bomben-Versprechen einlösen, Frau Al bright, und mit ihr die NATO und der gesamte Westen, das Gesicht wahren. Fünf Tage später reiste Richard Holbrooke ein letztes Mal nach Belgrad. Holbrooke zu Milosevic: »Sie müssen sich im klaren sein, die Luftschläge werden schnell kommen, sie werden schwer und andauernd sein.« Milosevic antwortete: »Es gibt nichts mehr zu verhandeln. Sie werden uns bombardieren. Sie sind ein mächtiges Land. Wir können nichts dagegen tun.« Damit war das Bombardement endgültig freigegeben.
1 Am Morgen des 16.1.1999 wurden in der kosovarischen Ortschaft Racak 45 aufeinanderliegende Leichen gefunden. Nach Darstellung der UCK handelte es sich bei den Toten um Zivilisten, die von serbischen Einheiten kaltblütig ermordet worden waren. Nach serbischer Darstellung waren die Toten Gefechtsopfer, die später von der UCK mediengerecht aufeinander geworfen wurden, um den Eindruck eines Massakers zu vermitteln. Der Vorfall, obwohl nie restlos aufgeklärt, bildete den wichtigsten Vorwand für die NATO-Angriffe – d. Red.
2 Petritsch, W. u. a., Kosovo-Kosova, Klagenfurt 1999
3 die Außenminister der USA, Englands, Frankreichs, Deutschlands, Italiens und Rußlands
4 Petritsch, a.a. O., S. 251
5 z. B. bei Petritsch, a. a. O.
6 Der US-Diplomat Richard Holbrooke handelte am 13.10.1998 mit Slobodan Milosevic ein Abkommen aus, das u.a. den serbischen Truppenabzug, eine OSZE-Mission und Autonomie im Kosovo vorsah – d. Red.
7 der russische Außenminister Igor Iwanow in Newsweek, 26.7.1999
USO POLITICO DELLA STORIA, AMNESIE DELLA REPUBBLICA
uno dei fondatori del Movimento Sociale, che allora era senatore.
Pisanò mi si è rivolto dicendo: “Lei sa quanto me
che avevamo degli ideali tutti e due. Diversi, certo.
Ma la patria era un valore per lei e per me”.
Io gli ho risposto “Senta, sarà pure come dice Lei.
Però se vinceva Lei io sarei ancora in prigione.
Avendo vinto io, Lei è senatore della Repubblica e parla qui con me”.
Vittorio Foa, Il paradigma antifascista
Il 12 novembre è iniziata, nella Commissione Difesa, la discussione dei ddl 628 (Disposizioni per il riconoscimento della qualifica di ex combattente agli appartenenti alla Guardia Civica di Trieste) e 1360 (Istituzione dell'Ordine del Tricolore e adeguamento dei trattamenti pensionistici di guerra), che rappresentano un ulteriore, e forse definitivo, passo verso la totale equiparazione tra partigiani e repubblichini, tra coloro che combatterono per la libertà e coloro che scelsero di sostenere gli invasori nazisti. Il ddl 628 si propone di riconoscere come “ex combattenti” i membri della Guardia civica di Trieste, corpo collaborazionista che giurava fedeltà ad Hitler con giuramento bilingue. Il ddl 1360, invece, propone la creazione di una nuova onorificenza, l’Ordine del Tricolore, riservato a tutti coloro che hanno prestato servizio militare nelle Forze armate italiane durante la guerra 1940-1945 e che siano invalidi, a tutti coloro che hanno fatto parte delle formazioni armate partigiane o gappiste, regolarmente inquadrate nelle formazioni dipendenti dal Corpo volontari della libertà, oppure delle formazioni che facevano riferimento alla Repubblica sociale italiana: agli insigniti dell’Ordine del Tricolore dovrebbe infine essere riconosciuto un assegno vitalizio di 200 euro annui. Come si legge nella presentazione del ddl 1360, “l’istituzione dell’«Ordine del Tricolore» deve essere considerata un atto dovuto, da parte del nostro Paese, verso tutti coloro che, oltre sessanta anni fa, impugnarono le armi e operarono una scelta di schieramento convinti della bontà della loro lotta per la rinascita della Patria. Non s’intende proponendo l’istituzione di questo Ordine sacrificare la verità storica di una feroce guerra civile sull’altare della memoria comune, ma riconoscere, con animo oramai pacificato, la pari dignità di una partecipazione al conflitto avvenuta in uno dei momenti più drammatici e difficili da interpretare della storia d’Italia; nello smarrimento generale, anche per omissioni di responsabilità ad ogni livello istituzionale, molti combattenti, giovani o meno giovani, cresciuti nella temperie culturale guerriera e «imperiale» del ventennio, ritennero onorevole la scelta a difesa del regime, ferito e languente; altri, maturati dalla tragedia in atto o culturalmente consapevoli dello scontro in atto a livello planetario, si schierarono con la parte avversa, «liberatrice», pensando di contribuire a una rinascita democratica, non lontana, della loro Patria. Solo partendo da considerazioni contingenti e realistiche è finalmente possibile quella rimozione collettiva della memoria ingrata di uno scontro che fu militare e ideale, oramai lontano, eredità amara di un passato doloroso, consegnato per sempre alla storia patria”. Le intenzioni dei proponenti non potrebbero essere più esplicite.
Questi due ddl si inseriscono in quel processo di pacificazione e di creazione di una innaturale memoria condivisa che ha lo scopo di minare le fondamenta antifasciste della Repubblica Italiana per poter cambiare la Costituzione che ne è alla base. Costituzione che, con il suo portato sociale, rappresenta un ostacolo per quella riorganizzazione dei rapporti economici e sociali in chiave sempre più selvaggiamente capitalista e liberista, se non autoritaria, che è in atto in Italia da oltre venti anni. E, come il capitalismo italiano ha sempre dimostrato anche nel passato, non esita a ricorrere al fascismo (nella sua forma originale, “neo” o “post”), o ad una riabilitazione di esso, per raggiungere i suoi scopi.
Se da un lato si cerca di sfumare l’incommensurabile differenza tra le scelte degli uni e quelle degli altri per indebolire la base antifascista della Repubblica, dall’altro la parte politica che a queste basi si è sempre mostrata avversa cerca di autolegittimarsi, concentrando l’attenzione pubblica sul lato umano dei repubblichini e sui crimini (veri o presunti) commessi dai partigiani comunisti, le cui azioni vengono descritte con toni sempre più truculenti.
Non si tratta di un’operazione recente. Già alla fine degli anni ‘80, infatti, Renzo De Felice e Giuliano Ferrara si confrontarono in due interviste su quella che consideravano la fine dell’antifascismo mentre, in pieno “craxismo”, si faceva un gran rumore parlando di “Grande Riforma”, “Seconda Repubblica”, “Nuova Costituzione”. Le reazioni che queste interviste scatenarono travalicarono ben presto il campo del dibattito storiografico per entrare in quello della polemica politica: si è così oltrepassato il confine che separa un giusto, ed auspicabile, “uso pubblico della storia”, che non deve assolutamente rimanere confinata nelle aule accademiche, dal suo “uso politico”, che consiste in un’operazione di sistematica “riscrittura”, in modo più o meno mistificatorio e decontestualizzato, per screditare una forza (o un’area) politica o accreditarne un’altra.
La “storia”, e in specie il ciclo fascismo/antifascismo/guerra mondiale/resistenze, è sfuggita dalle mani degli storici ed è diventa una prateria dove ciascuno può compiere impunemente le proprie scorrerie, senza cautela alcuna, senza serietà, né onestà intellettuale.
Questa operazione “culturale” portata avanti dal mondo politico è a tutti gli effetti “bipartisan”, come dimostrato dal fatto che il ddl 1360 è stato firmata anche da tre deputati del Pd. Nel 1996 fu il diessino Violante, presidente della Camera, ad esprimersi sulla necessità di comprendere “i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà”, pronunciandosi comunque contro quella che definiva un’“inaccettabile parificazione tra le parti”. La tendenza verso la parificazione è stata, invece, rafforzata da un discorso tenuto dal presidente della Repubblica Ciampi nel 2001, in cui ha affermato: “Abbiamo sempre presente, nel nostro operare quotidiano, l’importanza del valore dell’unità dell’Italia. Questa unità che sentiamo essenziale per noi, quell’unità che, in fondo oggi, a mezzo secolo di distanza, dobbiamo pur dirlo, era il sentimento che animò molti dei giovani che allora fecero scelte diverse; che le fecero credendo di servire ugualmente l’onore della propria Patria”. Si tratta esattamente degli stessi concetti espressi dal ddl 1360, legittimati dalla più alta carica dello Stato.
In questa temperie politica e culturale si è generata una gara a relativizzare il fascismo, a concentrare l’attenzione su “zone buie” della Resistenza e “triangoli rossi”, a insistere sulle Foibe (dando numeri ridicoli, moltiplicando per fattore 100 o 1000 i morti), dimenticando genesi e contesto di quei fatti: un esempio su tutti sono i romanzi storici di Giampaolo Pansa, letti da migliaia di italiani che li hanno considerati come unici saggi “finalmente” attendibili sull’argomento, oppure l’istituzione del Giorno del Ricordo delle foibe o, ancora, la fiction “Il cuore nel pozzo”. Si tratta di quella che lo storico Angelo D’Orsi ha definito come una chiara operazione di “«rovescismo», che può essere definito come la fase suprema del revisionismo stesso», laddove con “revisionismo” intende «l’ideologia e la pratica della revisione programmatica»: «basta prendere un fatto noto, almeno nelle sue grandi linee, un personaggio importante, un episodio che ha costituito un momento variamente epocale... Poi si afferma che tutto quello che sappiamo in merito è una menzogna, o perché fondata sulla falsità, o perché basata sull’occultamento; di solito, responsabili delle menzogne e dei nascondimenti della verità, sono “i comunisti”. […] E più si spara in alto più si allarga il bacino d’utenza».
Sulla scena pubblica, intanto, alcuni amministratori locali si sono dati da fare con la toponomastica per recuperare alle glorie patrie vecchi arnesi del Fascio, fino al punto di togliere la titolazione dell’aeroporto di Comiso a Pio La Torre, parlamentare comunista ucciso dalla mafia, per riattribuirla a Vincenzo Magliocco, generale nella guerra fascista di Etiopia. E così, giungiamo agli eventi più recenti: “il fascismo non è un male assoluto” sostiene l’ormai sindaco post(?)-fascista di Roma Gianni Alemanno. E il suo compagno di partito Ignazio La Russa, Ministro della Difesa, afferma con nonchalance che farebbe un torto alla sua coscienza se non ricordasse «che altri militari in divisa, come quelli della Nembo [reparto militarmente organizzato della Repubblica di Salò, inserito organicamente nei quadri della Wehrmacht, ndR] dell'esercito della Rsi, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d'Italia».
Sono questi i motivi per cui oggi è sempre più difficile ricordare ed affermare che, parafrasando Calvino, il repubblichino più onesto, più in buona fede, più idealista, si batteva per una causa sbagliata, mentre anche il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, combatteva per una società più giusta. Ed è tenendo ben salda questa considerazione, ormai scomparsa dall’orizzonte culturale dell’opinione pubblica, che abbiamo deciso di organizzare un’iniziativa in cui poter discutere e riaffermare l’antifascismo e l’opposizione più netta verso ogni forma di revisionismo che miri a sovvertire i valori fondanti della consapevolezza storica e sociale, che miri a pacificare e confondere in una differenza indifferente oppressi ed oppressori.
Resistenza Universitaria (La Sapienza) - Militant -
Collettivi Universitari Roma3 - Collettivo Lavori in Corso (Tor Vergata)
Cinque anni fa fu istituita la solennità civile del “giorno del ricordo delle foibe, dell\'esodo e della più complessiva vicenda del confine orientale”, da commemorare il 10 febbraio. Intendiamo oggi parlare della genesi di tutto questo.
La legge che è stata approvata è frutto di un accordo tra diverse proposte presentate da vari parlamentari. A questo proposito riportiamo qui alcuni appunti tratti da una conferenza stampa svoltasi a Trieste il 6/2/04, nel corso della quale i parlamentari DS Fassino, Violante e Maran spiegarono l’iter dell’accordo tra le parti su questa proposta di legge.
Fassino ha ribadito la necessità di ricordare il 50° anniversario dell’esodo e di superare ogni forma di ambiguità e reticenza dopo la rimozione di una pagina di storia italiana, tragedia della sofferenza di centinaia di migliaia di italiani, e di rendere un omaggio doveroso alla vicenda dell’esodo da troppo tempo misconosciuta e rimossa.
Questa rimozione, ha spiegato, trova radici nella guerra fredda quando prevalsero le ragioni dell’ideologia sulle ragioni della storia, ed è doveroso ristabilire la verità storica ed assumersi le proprie responsabilità. Il PCI sbagliò a tacere, l’aggressione fascista alla Jugoslavia non poté giustificare né la perdita dei territori né l’esodo. Il PCI sbagliò nel vedere queste vicende come lotta tra destra e sinistra, va invece letta come manifestazione di quel nazionalismo pericoloso che fu prodotto in questa parte dell’Europa e che torna a risorgere, come dimostra la guerra nei Balcani.
Riguardo alla data, Fassino ha spiegato che loro avevano pensato al 20 marzo (data dell’ultimo viaggio del Tuscania, la nave che trasportò gli esuli dall’Istria in Italia), mentre le federazioni degli esuli avevano proposto il 10 febbraio (data della firma del trattato di pace del 1947); loro accolgono questa proposta di “giorno della memoria dell’esodo” perché l’enormità delle sofferenza patite dagli italiani non permette una disputa tra le date, la storia del paese deve essere patrimonio comune, in quanto “siamo tutti figli della storia”.
Violante ha aggiunto che bisogna riconnettere alla storia della Repubblica italiana la storia del confine orientale, vicende fino allora occultate, per ricompensare dall’oblio e dalla dimenticanza; questo il motivo delle proposte di legge sia di Menia (AN) che di Maran (DS) di una giornata della memoria in cui si chiede la più ampia collaborazione da parte di tutti.
A domanda in cosa si differenzino le due proposte di legge, Violante rispose che i DS hanno accolto la data del 10 febbraio perché “non si può imporre una volontà di ricordo”. Secondo Menia è necessario apparentare le foibe con l’esodo, secondo i DS l’esodo nasce dallo scontro fra stati e totalitarismi, quindi su queste cose si sarebbe discusso perché loro non volevano imposizioni di visioni di parte.
Maran aggiunse che i DS erano disposti a discutere sulle proposte, ma con la clausola che rimanessero distinte la giornata della memoria dell’esodo ed il riconoscimento agli infoibati.
Già in queste posizioni dei DS possiamo vedere come la loro interpretazione dei fatti storici si sia adattata a quella portata avanti dalle federazioni degli esuli ed in genere della destra irredentista, che vide nel trattato di pace non l’atto che portò a concludere un contenzioso iniziato dall’Italia con la sua politica di conquista dell’area balcanica, quanto il diktat che privò l’Italia di una parte consistente del suo territorio, senza considerare che le “terre perdute” erano state comunque annesse all’Italia in seguito ad una conquista militare (dopo la Prima guerra mondiale) e non comprendevano aree ad etnia totalmente italiana. E che la sconfitta dell’Italia nella Seconda guerra mondiale era dovuta come prima cosa al fatto che era stata l’Italia ad aggredire altri paesi; non si considera che non fu la Jugoslavia a dichiarare guerra all’Italia, ma l’Italia ad annettersi la cosiddetta “provincia di Lubiana”, e non si può, come ha dichiarato anche Fassino, liquidare questo fatto come se non avesse importanza per quello che è accaduto dopo e quindi non ammettere che la politica di espansionismo fascista fu un crimine, del quale pagarono le conseguenza non solo gli “esuli” dopo la fine della guerra, ma tutte le vittime (non solo slovene e croate, anche italiane) della Seconda guerra mondiale. Inoltre, nonostante i buoni propositi di Maran, alla fine anche i DS (e buona parte dell’area del “centrosinistra”) si sono allineati su quelle posizioni che non distinguono “memoria dell’esodo” e “riconoscimenti agli infoibati”, visto che il “giorno del ricordo” è divenuto di fatto una ricorrenza in cui si riabilitano anche criminali di guerra, fascisti, collaborazionisti, solo per il fatto che hanno trovato la morte “per mano jugoslava”.
Parliamo di posizioni cui si sono allineati esponenti del centrosinistra, a cominciare dal presidente della Repubblica Napolitano che nel suo discorso del 10/2/07 provocò le proteste del presidente croato Stipe Mesic asserendo:
“Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una \"pulizia etnica\"”.
Concetti del genere li troviamo anche nella presentazione di un’altra proposta di legge per una “giornata della memoria delle foibe e dell’esodo”, firmata dal parlamentare Willer Bordon (colui il quale, dopo essere vissuto di politica per 35 anni ha recentemente dato alle stampe un libro nel quale spiega perché sarebbe “uscito dalla casta”):
“La presente iniziativa però intende contribuire a recuperare alla memoria nazionale ed europea le dolorose e drammatiche vicende dell’esodo di istriani, fiumani e dalmati a seguito della vittoria militare della Jugoslavia di Tito, che, oltre i caratteri di reazione post bellica, assunse anche i caratteri di una vera pulizia etnica”.
Tornando alla legge del “giorno del ricordo” il punto più discutibile (a parer nostro) è quello che prevede un “riconoscimento” (una “insegna metallica in acciaio brunito e smalto”, con la scritta “La Repubblica italiana ricorda”) per i “congiunti fino al sesto grado di coloro che, dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia o nelle province dell’attuale confine orientale, sono stati soppressi e infoibati” e degli “assimilati, a tutti gli effetti” e cioè “gli scomparsi e quanti, nello stesso periodo e nelle stesse zone, sono stati soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati”.
Da questo riconoscimento sono esclusi “coloro che sono morti in combattimento” e “coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia”.
Ora, bisogna considerare che la zona determinata da “Istria, Dalmazia e province dell’attuale confine orientale”, come recita la legge, dopo l’8 settembre 1943 era state annesse al Reich, denominata Adriatisches Küstenland e sottoposta al diretto comando germanico. Così le forze armate del Küstenland erano agli ordini dell’esercito nazista, nessun militare era “a servizio dell’Italia”, neppure dell’Italia della golpista Repubblica di Salò: e come l’esercito erano agli ordini del Reich la polizia (Pubblica Sicurezza che all’epoca non era corpo civile ma militare), la Guardia di Finanza (della quale solo negli ultimi giorni di guerra alcuni reparti furono posti a disposizione del CLN triestino), e la Guardia Civica costituita in epoca nazista. L’arma dei Carabinieri ha una storia a parte: fu sciolta per ordine del Reich con decorrenza 25/7/44, ed i militi furono messi di fronte alla scelta di aderire ad uno dei corpi collaborazionisti o essere deportati in qualche lager germanico (molti furono coloro che, pur di non essere incorporati nelle forze armate germaniche, preferirono la deportazione e pagarono con la vita questa loro fedeltà all’Italia). Di fatto, quindi, chi era rimasto in zona dopo lo scioglimento dell’Arma poteva essere solo un ex carabiniere inquadrato in qualche altra formazione militare.
La legge precisa che sono esclusi coloro che “volontariamente” avevano fatto parte di queste formazioni, però qui va detto che è vero che il richiamo alle armi era obbligatorio, ma è vero anche che molti sceglievano in quale corpo entrare, piuttosto che accettare di essere inseriti nella Todt, il servizio del lavoro. Così come uno di coloro che rientrano nell’elenco dei “premiati”, Marco Sorge (padre dell’ex prefetto di Trieste, Anna Maria Sorge, che ritirò la targa), era sì stato carabiniere ma poi era entrato nella PS (come risulta anche dall’Albo d’Oro di Luigi Papo).
Osserviamo inoltre che nell’ambito degli “scomparsi e quanti, nello stesso periodo e nelle stesse zone, sono stati soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati” possono essere inserite anche alcune vittime del nazifascismo, i morti in Risiera e delle rappresaglie (come ad esempio i 71 ostaggi fucilati ad Opicina nel marzo 1944; ma non i 51 impiccati – non fucilati – in via Ghega nell’aprile 1944).
La cosa più strana però è che non vi sono elenchi ufficiali di chi riceve questo riconoscimento (a differenza delle medaglie al valore, questi nomi non vengono pubblicati né sulla Gazzetta Ufficiale né sul sito della Presidenza della Repubblica) e che mentre il primo anno (2006) la stampa ha pubblicato un elenco di 26 nomi di “premiati”, nel 2007 abbiamo potuto leggere solo che furono attribuiti 350 riconoscimenti, dei quali siamo riusciti a reperire solo un centinaio di nomi tramite ricerche in Internet nei siti delle Prefetture (e va detto che per lo stesso nominativo sono stati a volte conferiti più riconoscimenti, come nel caso del finanziere Scialpi Gregorio i cui parenti ricevettero la targa una volta nel 2006 e due volte nel 2007). Invece quello che ci pare assurdo è che i parenti che avevano chiesto il riconoscimento alla Prefettura di Udine chiesero anche (ed ottennero!) non fossero resi noti i nomi loro e dei loro congiunti (come se, invece di essere onorati di ricevere tale encomio se ne vergognassero?). Nel 2008, infine, sull’identità dei riconoscimenti è calato il silenzio più totale, ed anche le nostre ricerche nei siti internet delle Prefetture non sono servite a molto.
Sul motivo di tale “clandestinità” sui riconoscimenti che dovrebbero essere (a logica) pubblicizzati il più possibile possiamo soltanto fare delle ipotesi. Forse i nominativi sono troppo pochi per giustificare tutta la pregressa propaganda sulle “migliaia di infoibati sol perché italiani”? questo ci riporta all’appello del Presidente Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati, Renzo Codarin, che leggiamo sulla “Voce giuliana” del 16/12/08: “nel 2008 sono state presentate circa settanta domande, per il 2009 si teme che il numero diminuisca ancora”; perciò invita “i nostri dirigenti a prendere diretto contatto con gli aventi diritto, mettendo magari a disposizione il proprio personale impegno e buona volontà per la compilazione della domanda”). Tornando indietro nel tempo, un comunicato governativo del febbraio 2006 rende noto che i 26 nominativi premiati nell’anno costituiscono l’80% del totale delle istanze presentate nel 2004 e l’80% di quelle presentate nel 2005: di conseguenza il totale delle domande presentate fino allora dovrebbe essere meno di cinquanta.
O forse questo “silenzio stampa” serve ad evitare quello che è accaduto nel 2006 e nel 2007, quando sono stati stigmatizzati alcuni nominativi che (a sensi di legge) non avrebbero avuto diritto al riconoscimento (perché uccisi in combattimento, oppure volontari), ed ha fatto un certo scalpore quantomeno nell’ambito universitario che un riconoscimento sia stata attribuito ai parenti di Vincenzo Serrentino, “ultimo prefetto di Zara italiana” e condannato a morte a Sebenico. Serrentino, che fu giudice del Tribunale speciale per la Dalmazia, fu denunciato alle Nazioni unite come criminale di guerra; arrestato a Trieste nel maggio 1945, fu condotto a Sebenico dove fu processato per l’attività compiuta dal Tribunale da lui presieduto e condannato a morte. Ci chiediamo quale eco internazionale avrebbe avuto una decorazione attribuita a qualcuno dei condannati a morte al processo di Norimberga.
Un’anteprima di chi dovrebbe ricevere la targa il prossimo 10 febbraio ci viene da una dichiarazione dell’avvocato Paolo Sardos Albertini, presidente della Lega Nazionale: si tratta della sorella di Dario Pitacco, il “ragazzo ucciso dalle truppe slovene il 1° maggio 1945 per avere issato la bandiera italiana” (sul “Piccolo” del 17/12/08).
In realtà, come scrive anche Papo, Pitacco faceva parte di quel gruppo di guardie civiche che al momento dell’insurrezione si trovavano al Municipio come corpo di guardia del podestà Pagnini; fu arrestato il 2 maggio, assieme alle altre guardie e condotto in prigionia in Jugoslavia, dove di lui si persero le tracce. Quanto all’esposizione della bandiera italiana sul municipio di Trieste, ricordiamo la testimonianza di Vasco Guardiani, il commissario politico della Brigata Frausin del CVL, che si trovava in municipio assieme ad altri esponenti del CLN triestino (tra cui don Marzari ed il colonnello Fonda Savio) al momento dell’arrivo dell’esercito jugoslavo il 2 maggio 1945. Guardiani voleva impedire ad un militare jugoslavo di ritirare il tricolore italiano che era stato esposto al balcone del municipio, ma fu minacciato di morte e desistette (sul “Piccolo” del 22/3/04). Questo racconto pone quantomeno dei dubbi sulle modalità dell’uccisione di Pitacco così come esposte da Sardos Albertini.
Del resto la coerenza non sembra essere una delle caratteristiche della Lega nazionale di Trieste, dato che nel maggio 2005 inviarono una lettera al Capo dello Stato per chiedere fosse conferita la medaglia al valore alla memoria ai “cinque cittadini di Trieste, caduti il 5 maggio 1945, sotto il piombo jugoslavo: Claudio Burla, Giovanna Drassich, Carlo Murra, Graziano Novelli e Mirano Sancin”, ciò nonostante lo storico Roberto Spazzali avesse pubblicato sul “ Piccolo” del 4 maggio 2005 uno studio sulla vicenda di questi caduti dove si legge “sulla lapide posta in via Imbriani nel 1947 compare pure il nominativo di Giovanna Drassich, ma è frutto di un’errata trascrizione, in quanto la signora spirò alle 5 di mattina del 5 maggio”.
I due testi (la lettera al Presidente della Repubblica, firmata da Sardos Albertini, e lo studio di Spazzali) sono ambedue disponibili sul sito della Lega nazionale, i cui curatori evidentemente non si prendono la briga di leggere attentamente quanto inseriscono. Quanto al modello culturale di questi signori, si veda la presentazione del testo di Giorgio Rustia “Contro operazione foibe”, scaricabile in PDF: “la risposta completa e dettagliata a tutte le teorie negazioniste di sedicenti storici e trinariciuti divulgatori che imperversano su internet, nelle librerie, ai convegni e nelle scuole”.
Tutto ciò non avrebbe molta importanza e si potrebbe archiviare nella categoria “il mondo è bello perché è vario”, se non fosse che alla Lega nazionale, non si sa per quale recondito motivo (il Museo della Risiera di San Sabba è gestito dai Civici musei del Comune di Trieste e le guide sono persone preparate in materia) è stata affidata la gestione delle “visite guidate” al museo della foiba di Basovizza. Quale tipo di informazione potranno ottenere le scolaresche e tutti gli altri visitatori che, ignari ed in perfetta buona fede, verranno “istruiti” da persone di cotanta cultura e serenità nell’affrontare lo studio di argomenti storici?
In calce un breve cenno sulla proposta di legge di istituzione di un “ordine del tricolore”. Nel 1999 era stata presentata (dal centrosinistra, infatti una delle relatrici fu Celeste Nardini del PRC) una proposta di legge sulla traccia di quella per l’Ordine di Vittorio Veneto (la legge 18 marzo 1968, n. 263 istituì l’Ordine di Vittorio Veneto, “in occasione del cinquantennale della fine della prima guerra mondiale. Si tratta, a suo avviso, di un progetto di legge coerente con la cultura di pace e di pacificazione dell’Italia post-bellica, che attribuisce pari dignità a coloro che hanno partecipato al conflitto in uno dei momenti più drammatici della storia italiana, che riconosceva lo status di ex combattenti a tutti coloro che avevano prestato servizio militare nella Prima guerra mondiale”, come disse l’onorevole Ciriello in seduta 12/11/08).
In http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/stampati/sk3000/articola/26810a.htm, leggiamo lo scopo di questa prima proposta di legge:
1. L\'onorificenza è conferita a coloro che prestarono servizio militare, per almeno tre mesi, in zona di operazioni, anche a più riprese, nelle Forze armate italiane durante la guerra 1940-1945, o nelle formazioni armate partigiane o gappiste, regolarmente inquadrate nelle formazioni dipendenti dal Corpo volontari della libertà, ed ai combattenti della guerra 1940-1945, ai mutilati ed invalidi della guerra 1940-1945 fruenti di pensione di guerra ed agli ex prigionieri o internati nei campi di concentramento o di prigionia.
La proposta di legge presentata nel 2008 riprende l’articolo 1 della precedente, con alcune differenze che evidenzieremo in grassetto (in http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/apriTelecomando_wai.asp?codice=16PDL0011740).
1. L\'onorificenza è conferita a coloro che hanno prestato servizio militare, per almeno sei mesi, in zona di operazioni, anche a più riprese, nelle Forze armate italiane durante la guerra 1940-1945 e invalidi, o nelle formazioni armate partigiane o gappiste, regolarmente inquadrate nelle formazioni dipendenti dal Corpo volontari della libertà, ai combattenti della guerra 1940-1945, ai mutilati e invalidi della guerra 1940-1945 titolari di pensione di guerra e agli ex prigionieri o internati nei campi di concentramento o di prigionia, nonché ai combattenti nelle formazioni dell\'esercito nazionale repubblicano durante il biennio 1943-1945.
Ecco la dimostrazione di come bastino poche parole aggiunte ad un articolo di legge a cambiare completamente il senso della storia.
febbraio 2009
A PROPOSITO DI 'ODIO DEGLI SLAVI'...
Nel sito del Ponte della Lombardia abbiamo trovato un articolo che ci propone l’ennesima “bufala” storica.(L’indirizzo è http://www.ilponte.it/foibedep.html)
Gian Luigi Falabrino (che ci risulta essere esperto di pubblicità e di comunicazione piuttosto che di storia e letteratura slovene) nel suo “Il punto sulle foibe e sulle deportazioni nelle regioni orientali (1943-45)” scrive così:
< l’odio etnico e la voglia di rivalsa sui “padroni” agricoli erano profondamente radicati in Slovenia fin
dall’Ottocento, quando il massimo poeta sloveno, Frane Preseren (1800-1849) invocava “Fa che il Soča (Isonzo) diventi rosso/di rosso sangue italiano”. L’odio dei contadini contro i ricchi italiani delle città, orchestrato sia dai vescovi cattolici contro gli italiani (ebrei, massoni e miscredenti) sia dalle autorità austriache (“divide et impera”), un secolo dopo trovò nel comunismo lo strumento per realizzarsi >.
Lasciando da parte le conclusioni, diciamo solo che il poeta sloveno che ha scritto una poesia all’Isonzo non era France (e non Frane) Prešeren, ma Simon Gregorčič (1844-1906), che nel 1879 scrisse “Soči” (“All’Isonzo”), una lirica che precognizzava la tragedia della prima guerra mondiale, e l’attacco dell’Italia al confine orientale. Nella traduzione di Giovanna Iva Ferjanis Vadnal questi sono alcuni versi che potrebbero forse riferirsi a quanto scritto da Falabrino:
Ma su te, misero, ahimè, s’addensa
un tremendo uragano, una bufera immensa,
dal caldo meridione infuriando verrà
e strage alla pianura ferace recherà
(...)
ma intorno grandine di piombo cadrà
e sangue a fiotti e di lacrime un torrente
(...)
Qui all’urto delle spade affilate,
le tue acque di rosso saranno colorate:
il nostro sangue a te scorrerà,
quello nemico ti intorbiderà!
(...)
Non ridurti entri i limiti delle sponde,
balza dagli argini tuoi furibondo
e lo stranier della nostra terra avido
nel fondo dei tuoi gorghi travolgi impavido!
In sostanza in questa lirica Gregorčič ha una visione quasi preveggente delle battaglie che avrebbero insanguinato l’Isonzo quarant’anni dopo in seguito ad un attacco venuto da Sud (l’Italia), ed invoca il fiume a difendere il popolo sloveno dalle invasioni straniere. Nulla a che fare quindi con le parole citate da Falabrino, né con le conclusioni cui lui arriva: perché è chiaro che il poeta parla di difesa delle proprie terre e non di espansione verso quelle degli altri.
Tra l’altro le elucubrazioni di Falabrino non dovrebbero essere una creazione sua ma una delle varie “leggende metropolitane” inerenti il presunto “odio degli slavi” verso gli italiani, scritte una volta da qualcuno e ripetute da altri all’infinito, senza che alcuno dei “citanti” si ponesse il problema di verificarne la veridicità. Tanto, quanti in Italia conoscono la letteratura slovena, Prešeren, Gregorčič, le loro poesie (rarissime quelle tradotte in italiano), al punto da capire che la storia dell’Isonzo rosso di sangue italiano è solo una mistificazione e una fandonia?
ottobre 2008
il numero delle vittime salito a quota 45
http://www.uruknet.de/?p=49183
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/57423
Le gouvernement allemand, lobby des armes à l’uranium. Toutes les recherches et prises de position critiques à propos des armes à l’uranium sont négligées
http://www.voltairenet.org/article157080.html
http://www.truthout.org/docs_2006/042007B.shtml
l'Agence internationale pour Energie Atomique ( AIEA ) va ouvrir
une enquête sur les accusations selon lesquelles Israel a employé des
munitions à l'uranium appauvri (OU) lors de son offensive sur Gaza.La
radio "Europe libre" a annoncé" que la plainte au nom des pays arabes a
été déposée par l'Arabie Saoudite et qu'elle "a divisée les pays membres
de l'AIEA ".
En même temps, les médias ont écrit que le Ministère de la Défense
italien , sur la base d'un jugement d'un tribunal de Rome va payer des
dédommagements d'un demi million d'euros un soldat italien qui après
avoir participé pendant 8 mois à une mission militaire en Somalie,il y a
15 ans, était tombé malade d'un cancer.
A la fin de l'année dernière,a été publié à Belgrade un livre, "les
cadeaux de l'ange de la Miséricorde" du Dr Mirjana Andeljkovic- Lukic,
expert en explosifs,travailla nt à l'Institut technique militaire de
Belgrade et au Centre technique de l'Armée yougoslave, qui est en
retraite depuis 7 ans. Aujourd'hui elle est expert judiciaire pour les
matériaux explosifs. Déjà sur la page de garde, on note des faits
inquiétants : son époux, le colonel Dr Mirko Lukic, le colonel Mr.Dragan
Vasiljevic, directeur de l'Institut de l'Aviation, et Mr Milos Vujacic,
chef du Service de Pyrotechnie de l'institut technique militaire de
Belgrade _*sont morts*_ après avoir effectués ensemble une mission ,
car sur le terrain, ils avaient trouvés et observés une quantité de
matériaux contaminés par l_*es bombardements de l'OTAN en 1999*_. Les
trois avaient travaillés sur la recherche de conséquences, notamment
celles résultant de l'utilisation de munitions avec_* OU*_. Le colonel
Mirko Lukic est arrivé à VMA (Institut médical militaire) pendant l'été
2002 avec pour diagnostic un cancer des poumons. Il est mort le 9 avril
de l'année suivante.
L'uranium appauvri avec lequel les forces de l'OTAN ont bombardés le
Kosovo pendant 78 jours en 1999, est la principale raison de
l'augmentation alarmante du nombre des tumeurs malignes et les
controles de la radioactivité menés depuis 2000 jusqu'à présent dans 112
endroits qui ont été soumis aux effets "des déchets nucléaires" montrent
que le niveau des radiations gammas et betas sont deux fois plus élevé
que celles permises.La plus grande quantité d'uranium a été jetée dans
les régions de Pec, Djakovica, Prizren puis Urosevac, Podujevo et bien
que les cartes de l'oTAN affirment qu'au nord du Kosovo,il n'y a pas un
seul endroit qui ait été touché par des projectiles à l'uranium
appauvri,il a été trouvé que là aussi des cibles ont été visées autour
de Bajgore et de Mokra Gora.
Selon les conclusions de l'enquête de l'équipe d'enquêteurs du Centre
médical de Kosovska Mitrovica commencée en 2000 avec à sa tête le Dr
Nebojsa Srbljak interniste-cardiolo gue et de plus président de l'ONG
"L'ange de Miséricorde" , sur le territoire de la région de Kosovka
Mitrovica,, on a constaté " une énorme augmentation des cancers allant
jusqu'à 200% par rapport à la période d'avant guerre". Les derniers
renseignements de 2007 montrent que dans la région de Kosovska Mitrovica
il y a une épidémie de carcinomes.Sur la base des recherches éffectuées
de 1998 à 2002, on a noté une augmentation de trois.Jusqu'à la
guerre,pour 300.000 habitants,on trouvait 10 malades du cancer alors que
maintenant sur 60.000 habitants, on en trouve 20.Des contacts ont été
pris avec l'OMS ,car ils réclamaient des résultats.Nous leur avons tout
communiqué, mais nous n'avons eu aucune aide ni d'eux ni de personne
,ni même de notre état a déclaré le Dr Srbljak qui juge que les
autorités de Belgrade ne prennent pas au sérieux cet énorme probléme qui
traine derriére lui de nombreux problémes sociaux.Il a ajouté que les
hommes sont plus atteints et particuliéremnt ceux qui ont été en
contact avec ces produits et plus particuliérement ceux qui étaient à la
frontiére avec l'Albanie.
Depuis la guerre et jusqu'à maintenant,12 membres des forces armées de
l'Armée yougoslave sur le territoire de Kosovska Mitrovica et tous les
membres du poste frontiére de Kosare, sont morts.Nous n'avons pas des
données de base en ce qui concerne tout le territoire du Kosovo, mais ce
qui est sur, c'est que depuis la guerre partout le nombre des cas de
cancer a augmenté d'une façon drastique , et notamment chez les
enfants.Mais, ce qui est le plus difficile a vivre,c' est
l'irresponsabilité du gouvernement envers les gens qui ont défendu le
pays dit le Dr Strbljak qui indique que selon les derniéres
statistiques, durant les 6 premiers mois de l'an dernier, plus de 2.000
cas ont été diagnostiqués. Il est amer de constater qu'ils n'ont aucun
contact avec VMA à Belgrade qui est le seul institut de référence qui
pourait travailler sur l'uranium appauvri et n'a aucune illusion sur la
possibilité que les pays occidentaux s'intéressent au probléme.En juin,
il doit faire des conférences en Suisse sur la question, mais ajoute que
la Serbie doit s'y intéresser et faire un programme national qui
pourrait agir préventivement.
Le nord du Kosovo n'a pas été une exception quant aux projectiles jetés
des avions A-1O de l'OTAN quand on pense que plus de 9 tonnes de telles
munitions ( s'il est question seulement du calibre 30mm) ont été
utilisées affirme le radiologue Dr Vlastimir Cvetkovic ,qui constate
avoir chaque jour, au moins un patient atteint de cancer. Comme il le
dit, la frontiére entre tumeur benigne et maligne change et surtout chez
les jeunes."Auparavant, nous avions une tumeur tous les trois mois et
maintenant, chaque jour. Récemment j'ai eu un enfant de 12 ans avec une
tumeur à la glande tyroidienne .Il n'y a pas de jour où je ne découvre
pas cette malade terrible.Nous sommes un petit Hiroshima dit le Dr
Cvetkovic radiologue-diagnost icien chef du service de Radiologie à la
Polyclinique de Zvecan qui chaque jour rencontre de tels malades qui
viennent de tout le territoire du Kosovo. Il constate que les
conséquences de ces irradiations à l'uranium appauvri concernent surtout
les glandes et chez les femmes et chez les hommes, mais aussi les
organes internes .
Bilijana Radomirovic
Politika du 2 février 2009
Perché il topo dal Borovac ha una coda che assomiglia a quella di uno scoiattolo
http://www.politika .rs/rubrike/ tema-dana/ Zashto-mish- iz-Borovca- ima-rep-slichan- veverici. lt.html
La consapevolezza delle conseguenze dell’utilizzo di munizioni ad uranio impoverito, confermerà la maturità della società serba, nonché il rinforzamento delle istituzioni democratiche della Serbia
Già dalla copertina emergono i fatti tragici: il suo marito, colonnello Mirko Lukić, colonnello mr Dragan Vasiljević, direttore dell’Istituto tecnico-militare a Belgrado, e mr Miloš Vujačić , direttori del reparto esplosivi presso lo stesso Istituto, sono deceduti dopo aver realizzato il compito comune di rilevare e valutare la quantità e tipologia di inquinamento provocati da bombardamento della NATO nel 1999. Tutti lavoravano all’eliminazione delle conseguenze e dell’impiego delle munizioni con DU.
[…] L’opinione pubblica mondiale ed europea, riguardo alle munizioni con DU, ormai da tempo si trovano in burrascose discussioni. Grazie allo sforzo di Mirjana Anđelković-Lukić ed al suo libro sconcertante, è probabile che anche in Serbia si avvierà un confronto con questo problema.
[…] Nuovi casi di tumori rilevati nelle contee della Serbia
Nella Serbia, dopo dieci anni trascorsi dal bombardamento, non è ancora stata realizzata alcuna completa e pubblica ricerca a riguardo delle conseguenze degli effetti del DU sull’ambiente, sulla popolazione, sulle forze militari e di polizia dispiegate nel Kosovo e Metohija e nella Serbia del sud, durante l’aggressione NATO.
La pressione della cittadinanza sul governo e tutte le istituzioni competenti, affinché un’analisi di questo genere venisse definitivamente alla luce del sole, confermerebbe, a tutti gli effetti, la maturità democratica della società serba, nonché delle istituzioni democratiche della Serbia.
Solo dopo una tale ricerca, alla cittadinanza si sarebbe reso noto che nei dintorni di Vladičin Han distate di incirca 40 chilometri da
Bujanovac, le mandrie nascono con le modifiche degenerative, che innanzitutto le pecore sono anemiche, perché il topo dal villaggio di Borovaca ha la coda assomigliante a quella di uno scoiattolo, perché a Preševo una pecora ha dato alla luce, con taglio cesareo, un agnello di otto gambe e due paia delle orecchie, oppure che è nato il vitellino con due teste.
Il Dott. Adnan Salihu, il medico dell’Azienda sanitaria di Bujanovac, di cui i rilevamenti sono citati da parte di Mirjana Anđelković-Lukić, afferma che tra 1999 e 2005, il numero dei pazienti ammalatisi dai tumori è cresciuto di 50 percento.
Gli ultimi dati verificabili si riferiscono all’anno 2005. Di 110 nuovi pazienti, sono morti in 59. Quattro anni prima (2001) c’erano stati 4 morti su 36 nuovi pazienti.
Slobodan Kljakić
[02/02/2009]
Sumnje u izveštaj SZO o uranijumu na Kosmetu
SALA CONSILIARE DELLA CIRCOSCRIZIONE 3
ORE 20,30
VIA G. D’ANNUNZIO 35 (San Rocco) - MONZA
I CRIMINI DI GUERRA DEL FASCISMO: UNA STORIA DIMENTICATA
PROIEZIONE DI “FASCIST LEGACY”
“L’eredità del fascismo”
DOCUMENTARIO DELLA BBC, ACQUISTATO E MAI TRASMESSO DALLA RAI
partecipa
ALESSANDRA KERSEVAN
AUTRICE DI “LAGER ITALIANI PULIZIA ETNICA E
CAMPI DI CONCENTRAMENTO FASCISTI PER CIVILI JUGOSLAVI 1941-1943”
ORGANIZZA
COMITATO UNITARIO ANTIFASCISTA DI MONZA (Anpi – Aned – Anei)
Oggetto: contromanifestazione sulle foibe 10-2-2009 a Parma
Data: 01 febbraio 2009 21:00:00 GMT+01:00
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