Informazione


L'arma del silenzio mediatico

1) L'Unione Europea è talmente democratica che impedisce la pubblica fruizione delle trasmissioni della TV siriana
2) L'arma del silenzio mediatico (Manlio Dinucci)


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L'UNIONE EUROPA OSCURA LA TV SIRIANA         

Spiacevole sorpresa lunedi' per tutte le persone che seguono in Europa la tv siriana. Per ordine dell' Unione Europea il satellite Hotbird ha interrotto le trasmissioni di vari canali siriani nella cornice delle sanzioni contro la Siria. Quindi le persone di origine siriana che vivono nei paesi europei non possono piu' avere informazioni dirette su quanto avviene nel loro paese se non da qualche sito o telefonando. L' alternativa e' ascoltare la propaganda di Al Jazeera e Al Arabya o comprare una parabola speciale per ricevere i canali russi. Una cattiveria unica non tanto verso lo stato siriano, ma soprattutto verso i siriani in Europa che oltre ad essere lontani dal loro paese sono in ansia per i loro familiari in Siria e vorrebbero seguire quanto sta avvenendo nel loro paese. Ora temono anche che questo "simpatico" stratagemma venga esteso ad altre forme di comunicazione come Skype o altri server siriani. Non e' la prima interruzione per i canali di questo paese. Lo scorso giugno la Lega Áraba ha chiesto ai proprietari dei satelliti Arabsat y Nilesat la sospensione delle trasmissioni siriane via satellite in tutto il mondo.
Il 15 ottobre inoltre il satellite Eutelsat ha interrotto i servizi a 19 canali e stazioni radio trasmessi dall' Iran; un' altra decisione dell' UE presa insieme ad altre misure nel settore finanziario, commerciale, energetico e dei trasporti. In questa occasione sono stati oscurati PressTV e altri canali televisivi oltre a varie stazioni radio.

(fonte: Siria, le notizie della settimana dal 21 al 28 ottobre 2012
a cura di Marco Palombo
http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=1060 )


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Il Manifesto 30/10/2012

L'ARTE DELLA GUERRA

L'arma del silenzio mediatico

Si dice che il silenzio è d'oro. Lo è indubbiamente, ma non solo nel senso del proverbio. È prezioso soprattutto come strumento di manipolazione dell'opinione pubblica: se sui giornali, nei Tg e nei talk show non si parla di un atto di guerra, esso non esiste nella mente di chi è stato convinto che esista solo ciò di cui parlano i media. Ad esempio, quanti sanno che una settimana fa è stata bombardata la capitale del Sudan Khartum? L'attacco è stato effettuato da cacciabombardieri, che hanno colpito di notte una fabbrica di munizioni. Quella che, secondo Tel Aviv, rifornirebbe i palestinesi di Gaza. Solo Israele possiede nella regione aerei capaci di colpire a 1900 km di distanza, di sfuggire ai radar e provocare il blackout delle telecomunicazioni, capaci di lanciare missili e bombe a guida di precisione da decine di km dall'obiettivo. Foto satellitari mostrano, in un raggio di 700 metri dall'epicentro, sei enormi crateri aperti da potentissime testate esplosive, che hanno provocato morti e feriti. Il governo israeliano mantiene il silenzio ufficiale, limitandosi a ribadire che il Sudan è «un pericoloso stato terrorista, sostenuto dall'Iran». Parlano invece gli analisti di strategia, che danno per scontata la matrice dell'attacco, sottolineando che potrebbe essere una prova di quello agli impianti nucleari iraniani. La richiesta sudanese che l'Onu condanni l'attacco israeliano e la dichiarazione del Parlamento arabo, che accusa Israele di violazione della sovranità sudanese e del diritto internazionale, sono state ignorate dai grandi media. Il bombardamento israeliano di Khartum è così sparito sotto la cappa del silenzio mediatico. Come la strage di Bani Walid, la città libica attaccata dalle milizie «governative» di Misurata. Video e foto, diffusi via Internet, mostrano impressionanti immagini della strage di civili, bambini compresi. In una drammatica testimonianza video dall'ospedale di Bani Walid sotto assedio, il Dr. Meleshe Shandoly parla dei sintomi che presentano i feriti, tipici degli effetti del fosforo bianco e dei gas asfissianti. Subito dopo è giunta notizia che il medico è stato sgozzato. Vi sono però altre testimonianze, come quella dell'avvocato Afaf Yusef, che molti sono morti senza essere colpiti da proiettili o esplosioni. Corpi intatti, come mummificati, simili a quelli di Falluja, la città irachena attaccata nel 2004 dalle forze Usa con proiettili al fosforo bianco e nuove armi all'uranio. Altri testimoni riferiscono di una nave con armi e munizioni, giunta a Misurata poco prima dell'attacco a Bani Walid. Altri ancora parlano di bombardamenti aerei, di assassinii e stupri, di case demolite con i bulldozer. Ma anche le loro voci sono state soffocate sotto la cappa del silenzio mediatico. Così la notizia che gli Stati uniti, durante l'assedio a Bani Walid, hanno bloccato al Consiglio di sicurezza dell'Onu la proposta russa di risolvere il conflitto con mezzi pacifici. Notizie che non arrivano, e sempre meno arriveranno, nelle nostre case. La rete satellitare globale Intelsat, il cui quartier generale è a Washington, ha appena bloccato le trasmissioni iraniane in Europa, e lo stesso ha fatto la rete satellitare europea Eutelsat. Nell'epoca dell'«informazione globale», dobbiamo ascoltare solo la Voce del Padrone.

Manlio Dinucci






MARCELLO SPACCINI, AGENTE DEL SIM

Marcello Spaccini, sindaco democristiano di Trieste negli anni 70, è stato recentemente ricordato a Trieste in un convegno cui hanno partecipato storici ed esponenti politici, convegno probabilmente propedeutico (stando al fatto che successivamente sulla stampa locale si sono succeduti alcuni interventi in merito) ad un riconoscimento pubblico della sua figura (un monumento o l’intitolazione di una via).

Nel corso del convegno sopra citato (svoltosi l’8 ottobre scorso) sia il giornalista Guido Botteri (che di Spaccini ha ricordato il ruolo avuto nella Resistenza), sia lo storico Roberto Spazzali (che ha trattato dell’attività dell’esponente democristiano nel periodo in cui Trieste era amministrata da un Governo militare alleato), hanno evidenziato il fatto che Spaccini non ha lasciato detto o scritto granché del suo operato nei periodi da loro descritti.

In effetti, la ricostruzione da parte dei due relatori dell’attività politica di Spaccini nel decennio 1943-1954, non ha considerato un particolare fondamentale: il fatto che il futuro sindaco nel 1945 avesse lavorato per il Servizio Informazioni Militari (SIM) badogliano, e più specificamente, fosse stato assunto, sia pure temporaneamente, nella Sezione Calderini, la branca “offensiva” del ricostituito servizio segreto militare (buona parte degli ufficiali che avevano prestato servizio nella Calderini diedero poi vita alla struttura Gladio). Leggiamo infatti nella sentenza ordinanza redatta dal dottor Carlo Mastelloni, giudice istruttore nel processo su Argo 16 (Sentenza ordinanza n. 318/87 A. G.I., Procura di Venezia, d’ora in poi Argo 16) che alla fine degli anni ’40 l’attività di Spaccini era “tenuta in notevole considerazione dall’Ufficio Zone di Confine” (dipendente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri), in quanto era stato “impiegato quale agente collaboratore, con compiti d’informatore, da parte di una missione operativa della Sezione Calderini del SIM attiva all’epoca della lotta di Liberazione e “fu anche munito, per interessamento della Presidenza del Consiglio”, di “un’autovettura di supporto alla sua attività”, dal SIM attraverso il C.S. di Venezia (Argo 16, p. 1.870).

Facciamo ora un passo indietro per tracciare la biografia dell’ingegner Marcello Spaccini, che dal Lazio era giunto a Trieste come dirigente delle Ferrovie. Quanto segue è tratto da “l’Italia chiamò” di Roberto Spazzali, Leg 2004, dal capitolo “La liberazione di don Marzari” dello stesso Spaccini ne “I cattolici triestini nella Resistenza, Del Bianco 1960 e da altri documenti che citeremo di volta in volta.

Secondo i suoi biografi Spaccini sarebbe stato l’animatore della Brigata Ferrovieri del non ancora costituito Corpo volontari della libertà subito dopo l’8 settembre 1943 (ma, da quanto ci consta, i ferrovieri antifascisti si erano organizzati per sabotaggi ed attentati alle linee ferroviarie in collaborazione con l’Osvobodilna Fronta, il Fronte di Liberazione da prima che Spaccini si attivasse). Va detto per inciso che il comandante della Ferrovieri al momento dell’insurrezione di Trieste fu Antonino Cella, che compare nell’elenco “ufficiale” dei “gladiatori” reso noto da Andreotti nel 1991, assieme ad altri dirigenti del CVL triestino, Giuliano Dell’Antonio, Ernesto Carra, Vasco Guardiani.

In ogni caso Spaccini fu ufficiale di collegamento con la Divisione Osoppo friulana, e nel febbraio del 1945 subentrò, quale rappresentante democristiano all’interno del CLN giuliano, a Paolo Reti (arrestato e rinchiuso a San Sabba, dove fu ucciso nell’aprile successivo). Fu poi artefice della fusione tra la Brigata Ferrovieri e la Brigata Venezia Giulia, che formarono la Divisione Rossetti, collegata alla Osoppo, e comandata da Carra (nome di battaglia Monti).

Spaccini fu autore del noto colpo di mano che portò alla liberazione dal carcere del Coroneo del presidente del CLN, il sacerdote Edoardo Marzari che era stato tratto in arresto l’8 febbraio precedente, pochi giorni prima di Reti, azione che narrerà egli stesso nel citato capitolo “La liberazione di don Marzari” (“I cattolici, cit, p. 134 e seguenti). La sera del 29/4/45 si recò, con “quattro gatti” alla sede dell’Ispettorato Speciale di via Cologna (il famigerato corpo di polizia collaborazionista di cui faceva parte la Squadra speciale diretta dal commissario torturatore Gaetano Collotti) e prese possesso della struttura assieme al commissario Ottorino Palumbo Vargas, dirigente della Polizia ferroviaria (ma risulta anche in forza alla Brigata Timavo del CVL), che il CLN nominò questore di Trieste al momento dell’insurrezione. I due chiesero di parlare con i funzionari rimasti in sede (Collotti era scappato due giorni prima assieme ad alcuni membri della sua squadra, ed era stato catturato e giustiziato da partigiani trevigiani) Gustavo Scocchera (funzionario medico) e Mariano Perris (dirigente la squadra giudiziaria), il quale affermò nel corso del processo contro il dirigente dell’ispettorato (l’ispettore generale Giuseppe Gueli) che “la squadra giudiziaria nulla ha a che vedere con la squadra politica”; ma va detto che un altro testimone affermò che la macchina per la tortura elettrica “passava qualche volta” anche nell’ufficio di Perris (le citazioni sono tratte dal Carteggio processuale Gueli, in archivio Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste n. 914). Nel corso dell’occupazione della sede dell’Ispettorato Spaccini e Palumbo Vargas presero in consegna le armi e l’archivio, disarmarono tutti gli agenti tranne quelli dipendenti dalla squadra giudiziaria (che probabilmente parteciparono poi all’insurrezione assieme agli armati del CVL) e poi Spaccini e Perris andarono al Coroneo a liberare don Marzari.

Mariano Perris non fu epurato perché il CVL triestino lo inserì tra i propri collaboratori  e nel dopoguerra proseguì la carriera in polizia: diresse la Squadra politica a Milano e a Torino (il suo nome comparve nell’elenco dei funzionari di PS pagati da Agnelli per controllare i “politici” all’interno della fabbrica); fu questore di Pisa nel 1972, quando agenti di polizia picchiarono a morte un ragazzo di vent’anni, Franco Serantini, durante una manifestazione antifascista.

Tra i documenti raccolti da Mastelloni (Argo 16, p. 1.725, 1726) troviamo i ringraziamenti a Spaccini da parte del “vice capo ufficio” dello SMRE, per “la volontaria, disinteressata collaborazione che Ella ha voluto offrire” ad una missione del SIM composta, tra gli altri, dal capitano Giuliano Girardelli, dal tenente dei Carabinieri Armando Lauri (che negli anni ‘60 fu comandante del Centro di controspionaggio di Milano e risulta al n. 588 dell’elenco degli aderenti alla Loggia P2), dal colonnello del Genio Mario Ponzo e dal capo furiere della Marina Arturo Bergera (questi ultimi due furono arrestati dagli Jugoslavi assieme all’emissario del SIM Luigi Podestà nel maggio ‘45, perché si erano appropriati della cassa del comando Marina).

Ponzo risulta ufficialmente scomparso dopo l’arresto (Bergera e Podestà rientrarono a Trieste nel 1947), ma sempre in Argo 16 leggiamo che Armando Lauri “nell’estate del 1945 fungeva da collaboratore della sezione Calderini del SIM unitamente al colonnello Genio navale Ponzo Mario” (p. 204), come se Ponzo nell’estate del 1945 fosse vivo e a piede libero.

Torniamo a Spaccini che il 7/5/45 partì clandestinamente a bordo di un furgone funebre della “Legnano”, con una delegazione (composta da don Marzari, dagli azionisti Isidoro Marass e Giovanni Paladin ed all’indipendente Antonio de Berti, successivamente “organizzatore dell’esodo da Pola”) che si recò dapprima a Venezia (per incontri con i servizi di informazione italiani, con ufficiali angloamericani e con il CLN del Veneto, assieme al quale fu costituito il Comitato giuliano di Venezia, in Argo 16, p. 1.725, 1.726) e poi a Roma. Qui la delegazione fu ricevuta dal Presidente del consiglio Bonomi e da altri ministri, ma dei risultati dei colloqui di Spaccini a Roma parleremo più avanti. Il 12/6/45 la 2^ Sezione dell’Ufficio Informazioni dello SMRE (cioè la Calderini) richiese al Quartier generale dell’aeronautica alleata un trasporto aereo da Roma a Milano per Spaccini, “in servizio temporaneo per la 2^ Sezione”, motivando come “rientro per ultimata “missione” (In Archivio Ufficio Stato Maggiore Esercito, busta 314 n. 179163).

Spaccini risulta tra i firmatari di una lettera, pubblicata l’1/8/45 su “Libera Stampa” ed indirizzata alle autorità alleate, assieme ad altri “componenti del CLN in rappresentanza di tutti i partiti antifascisti: prof. Savio Fonda, Ercole Miani, Spaccini, prof. Paladin, Michele Miani, prof. Schiffrer e dott. Bartoli”, nella quale si denunciava che “nelle giornate del 2-3-4-5- maggio numerose centinaia di cittadini vennero trasportati nel cosiddetto Pozzo della miniera in località prossima a Basovizza e fatti precipitare nell’abisso profondo circa 240 metri”, lettera che chiudeva chiedendo al comando Interalleato di provvedere al recupero delle salme. Alcuni giorni dopo, però, tre dei componenti del CLN (Ercole e Michele Miani e Carlo Schiffrer) scrissero negando l’autenticità della loro firma sul documento.

Dunque Spaccini fu tra i membri del CLN giuliano che diedero il via alla creazione della mistificazione sullafoiba di Basovizza (coinvolgendo anche altre personalità estranee alla manovra) comunicando notizie false alle autorità alleate, che, dopo avere proceduto alle ispezioni per diversi mesi, nel febbraio 1946 ordinarono la sospensione delle ricerche perché non avevano trovato alcun resto umano, ma con l’indicazione di addurre motivi tecnici per questa sospensione, dato che non si doveva smentire quanto asserito dal CLN (in Archivio NARA Washington, anche in Pokrajini arhiv Koper, ae 648).

Nel suo intervento dell’8/10 Spazzali spiega l’oggetto dei colloqui di Spaccini con l’allora ministro degli Esteri Alcide De Gasperi: egli ottenne l’autorizzazione ed i finanziamenti per un’emittente radiofonica “clandestina” che avrebbe trasmesso da Venezia verso Trieste diffondendo notizie diverse da quelle ufficiali e, così chiosa Spazzali, “siamo nell’ambito di una guerra di propaganda e di un agguerrito fronte contro il comunismo jugoslavo, mentre i comunisti italiani erano ancora al governo, che sembrano anticipare i futuri scenari della guerra fredda”.

La sicurezza dell’emittente, il cui trasmettitore fu sistemato in una struttura della Marina militare fu garantita dall’allora Capo di stato maggiore della marina, Raffele De Courten.

Tale emittente perse importanza, spiega Spazzali, dopo la firma del trattato di pace del 10/2/47, così Spaccini ricevette dei finanziamenti per un’altra iniziativa, l’agenzia giornalistica Astra, da lui diretta (strano ruolo per un ingegnere), dove per i servizi economici il dirigente era il Giuliano Dell’Antonio precedentemente citato. L’Astra fu immediatamente finanziata con un importo di 40 milioni di lire (altri 25 furono stanziati per l’ammodernamento dell’emittente radiofonica, e Spazzali afferma che in totale il costo dell’Astra fu di 128 milioni e 800mila lire fino al giugno 1949; in Argo 16 risulta che la Presidenza del Consiglio tramite l’Ufficio per le Zone di Confine erogò, tra il 1948 ed il 1949, rispettivamente 33 e 27 milioni di lire a Spaccini ed alla Astra.

Non possiamo fare a meno di considerare l’entità di questa spesa in anni in cui l’Italia era ancora economicamente in ginocchio.

Spazzali descrive l’Agenzia Astra, che aveva a disposizione mezzi tecnici all’avanguardia, traduttori da una decina di lingue, collegamenti giornalieri con agenzie di stampa statunitensi e britanniche e la possibilità di rinviare il notiziario della Press Wireless di New York; fu pertanto vista come punto di riferimento per l’informazione di tutto il sud est europeo all’epoca in cui operò. Spazzali aggiunge che lo scopo di questa operazione non sarebbe stato il “solo fatto di sostenere la causa italiana sul confine orientale l’indomani del Trattato di pace”, ma anche “l’imminente appuntamento con le elezioni politiche italiane previste il 18 aprile 1948”, in quanto si “profilava uno scontro politico tra i partiti democratici occidentali e quelle del blocco social comunista”. Ed ancora che era essenziale per il governo italiano avere un’agenzia di stampa fuori dalla sovranità temporanea che avrebbe potuto operare l’informazione in situazione di stay behind (cioè oltre le linee “nemiche”), ma dopo il 1950 non furono più necessarie le funzioni dell’agenzia né della radio, il cui scopo era l’italianità di Trieste, prima da difendere contro lo jugoslavismo, poi contro il comunismo e poi contro l’indipendentismo. Infine Spazzali ci spiega che il referente diretto di Spaccini era Giulio Andreotti.

Il dottor Mastelloni, da parte sua, ipotizza una “funzione di copertura” dell’Astra per i finanziamenti versati dalla Presidenza del Consiglio “per conto della quale l’ingegnere fungeva da elemento operativo nella città di Trieste” (Argo 16, p. 1.875) ed in quanto “impiegato come elemento di riferimento per le attività dell’Ufficio Zone di Confine nella Venezia Giulia quale organizzatore colà delle strutture clandestine anticomuniste (Argo 16, p. 1.725). Vediamo alcune testimonianze raccolte dal magistrato.

Diego de Castro, rappresentante diplomatico italiano a Trieste sotto il GMA, dichiarò di essere stato “avvicinato da un gruppo di persone aderenti ai vari partiti politici”, e fa il nome del comunista Vidali, dei democristiani Spaccini e Redento Romano, e del liberale Forti che “in relazione all’addensarsi sulla linea di confine di truppe dell’Esercito jugoslavo che minacciavano di occupare Trieste, mi rappresentarono l’opportunità di armare un gruppo di uomini controllati dai citati esponenti dei partiti al fine di difendere la città qualora si fosse verificata l’invasione” (Argo 16, p. 1.871).

Renzo Di Ragogna, che partecipò alle esercitazioni delle squadre armate a Trieste negli anni del GMA (denominate Gruppi di difesa triestini), testimoniò di essere stato avvicinato da Ernesto Carra nel 1947 per “riunioni nelle quali venivano istruiti all’uso di armi e sulle tecniche di guerriglia”, mentre nel 1953 Carra lo “informava che bisognava creare vari depositi di armamento, bene celati e nascosti da impiegarsi in caso di necessità dettata dall’invasione di Trieste da parte delle truppe jugoslave”, così Di Ragogna si occupò di costruire 6 nascondigli (Argo 16, p. 1.859).

Nell’estate del 1954 fu rinvenuto in un locale della Stazione centrale di Trieste un deposito di armi e “come si rileva dal rapporto della Polizia Civile di Trieste lo Spaccini fu immediatamente sospettato come intraneo alla vicenda del deposito stesso” (Argo 16, p. 1.875), in quanto impiegato alle Ferrovie. E Galliano Fogar così rese testimonianza a Mastelloni: “Ritengo che competente per quella zona della città fosse l’ing. Marcello Spaccini che faceva parte dell’Organizzazione” (Argo 16, p. 1.866).

Infine un cenno a Renzo Apollonio, in forza al SIM tra il 1945 ed il 1946 (negli elenchi della P2 consegnati nel 1976 alla magistratura) il quale ha dichiarato che il suo incarico all’Ufficio Stampa del Ministero era una copertura in quanto in realtà si occupava “del problema della Venezia Giulia con incarico di sollevare l’attenzione dell’opinione pubblica italiana sul problema del territorio libero” (Argo 16, p. 1.859).

Questa in brevissima sintesi la struttura alla quale collaborò Spaccini fino al 1954. Il resto è un’altra storia.

Claudia CERNIGOI

ottobre 2012





Monument for Sinti and Roma victims of Nazis highlights German government hypocrisy


By Bernd Reinhardt 
29 October 2012


On October 24, a central memorial for the 500,000 Sinti and Roma murdered by the Nazis was unveiled in Berlin. The monument is sited immediately next to the Bundestag (parliament) building. It is also close to the Holocaust memorial for the Jews murdered during Nazi rule.

The ceremony to unveil the monument was attended by representatives of the Sinti and Roma communities, a representative of the Central Council of Jews in Germany, and the vice president of the International Auschwitz Committee. Top representatives of the German political establishment were present, including Federal President Joachim Gauck, Chancellor Angela Merkel, Culture Minister Bernd Neumann and Bundestag President Nobert Lammert.

Also in attendance were various party representatives such as Gregor Gysi and Petra Pau (Left Party), Renate Künast (Greens), Berlin Mayor Klaus Wowereit (Social Democratic Party), and former federal president Richard von Weizsäcker. The ceremony was transmitted live on television.

Israeli artist Dani Karavan created the monument in accordance with guidelines provided by the Sinti and Roma communities designed to point to their common history of persecution. The monument consists of a circular black basin filled with water, twelve metres in diameter, with a triangle-shaped column at its centre representing the piece of fabric that Sinti and Roma were forced to wear in the concentration camps.

Every evening, the column will retract, appearing again the following day bearing a fresh flower. This stands for recurring sorrow, recurring life and a constant reminder to keep alive the memory of the crimes committed against the Sinti and Roma.

The poem “Auschwitz” by the Italian Roma musician and poet Santino Spinelli is worked into the edge of the basin. A glass wall near the basin provides information about the history of the Nazi persecution of the Sinti and Roma in Europe.

The chair of the Central Council of German Sinti and Roma, Romani Rose, and the Dutch Sinto Zoni Weisz delivered moving speeches. Last year, Weisz was the first Sinto to address the German Bundestag, where he called upon deputies to make public the “forgotten Holocaust”. As a child he escaped deportation to the camps but lost his entire family.

Romani Rose, who lost 13 family members in the camps, has long been active in the Sinti and Roma civil rights movement in Germany. He held a hunger strike at the Dachau concentration camp in 1980 to draw attention to the genocide against the Sinti and Roma.

Both speakers visibly struggled with their emotions. Many of the Sinti and Roma present cried when Weisz recounted the history of his family. Practically every family has lost members. The memory of the nightmare of the Third Reich and the fear of its repetition remain tangible today.

In the background but very present at the ceremony was a sense of the hypocrisy of unveiling a memorial over half a century after the crimes were committed, compounded by the escalating persecution of Sinti and Roma today in Germany and throughout Europe.

Following the speech by Chancellor Merkel, one angry audience member demanded to know what was happening to the Sinti currently being deported from Germany to Eastern Europe. A speaker on the platform simply talked over the objection, declaring, “That is not the issue here today.”

This arrogant response underscores the fact that the German government has no interest in documenting and exposing the crimes of the Nazis against the Sinti and Roma, providing restitution for these crimes, or looking honestly and objectively at Germany’s postwar history.

Following the Second World War, old Nazis were able to continue their careers. Practically the entire judicial and civil service apparatus of the Third Reich was taken over by the “democratic” Federal Republic of Germany.

The size of the pensions received after the war by such officials and judges included their service under the Nazis, while their victims were often treated as outcasts. The documentary film Django’s Song by Tom Franke and Kuno Richter depicts a Sinto from Oldenburg, who describes how Sinti visiting the doctor’s surgery after the war were often confronted with the very medics who had sent them to the concentration camp.

In 1956, just seven years after the establishment of the Federal Republic of Germany, the Supreme Court rejected a compensation case benefiting Sinti and Roma, declaring that they had not been persecuted in the Third Reich on racist grounds, but because they displayed criminal tendencies. “They often lack the moral instinct to respect the property of others, and like primitives are driven by an unbridled cupidity”, the verdict read.

The Sinti and Roma fought up to the 1980s without success for moral and financial compensation for the crimes committed against them by the Nazis.

There are many hair-raising stories. The above-mentioned hunger strike in 1980 was directed against the Bavarian state Interior Ministry, which refused to allow Sinti to view the files of the “Landfahrerzentrale” (Central Agency for Vagrants), the immediate successor to the fascist “Reichszentrale zur Bekämpfung des Zigeunerunwesens” (Reich Headquarters to Combat the Gypsy Pest). The Landfahrerzentrale had relied on files created by the Nazis. Some of those working in the agency had been so-called “Gypsy specialists” in the Third Reich.

In the 1920s, the crisis-ridden Weimar Republic, with its many unemployed and homeless, had already set up “Zigeunerzentralen” (Police Gypsy Bureaus), which gathered intelligence on Sinti, Roma and “other Gypsy-like itinerant persons”. Bavaria was the pioneer with its 1926 law to “combat Gypsies, vagrants and the work-shy”. In Hesse, following the Bavarian model, the Social Democratic state interior minister and trade union leader Wilhelm Leuschner introduced the “law to combat the Gypsy menace”, which was passed in 1929.

It was only in 1982, more than thirty years after the establishment of the Federal Republic of Germany, that Sinti and Roma were recognised to have been persecuted by the Nazi regime on racist grounds, and their mass elimination recognized as genocide. But this was not made public.

The German Democratic Republic (East Germany) also condescended merely to erect an unobtrusive monument at the Marzahn Cemetery on the outskirts of East Berlin. Sinti and Roma were never recognised as national minorities in either of the postwar German states.

It took another ten years, at the behest of the Sinti and Roma communities, before the Bundestag relented and agreed to erect a central memorial. It then took a further twenty years before it was actually unveiled. During this entire time, Sinti and Roma have been confronted with the claim that their persecution could not be compared to the Holocaust of the Jews. In the meantime, many victims have died.

Despite their expressions of gratitude to Chancellor Merkel, the bitter tone of the two Sinti speakers could not be missed. The oft-used word “hope” could only partially hide their disappointment.

In his speech, Rose warned of the growth of racism in Europe and Germany, which was not restricted to far-right groups, but was increasingly found in the midst of society. According to Rose, the political and judicial response to the right-wing ideology of violence is a touchstone as to whether lessons are drawn from the war and the Holocaust.

Rose mentioned the victims of the neo-Nazi terrorist group from Zwickau, which for all those present brought to mind recent press reports on the involvement of the secret service in the far-right scene. He greeted from the podium the representatives of Berlin’s Muslim community, who are also increasingly confronted with racist attacks.

In her long-winded speech, Chancellor Merkel did not have much to say other than to repeat a few platitudes about human dignity and civil courage. She spoke of the “incomprehensible” that had knocked Germany off its course and from which one had to learn. How one can learn from something that is incomprehensible, she did not say. Merkel then promised that Germany would continue to pursue the rights of the Sinti and Roma in the European Union.

The opposite is the case. Immediately following the unveiling, Merkel’s interior minister, Hans-Peter Friedrich (Christian Social Union—CSU), gave out with a tirade in the media against refugees from Serbia and Macedonia, whence come the majority of Roma, who are fleeing from unbearable living conditions and racist persecution. One day following the unveiling, he proposed that benefits paid to these refugees be cut. The human rights organisation Pro Asyl accused him of launching a “populist campaign against Roma from the Balkan states.”

Sinti and Roma are also systematically persecuted in Italy and France. The French government has dispersed them from their camps and deported them en masse to Romania and Bulgaria.

In Eastern Europe, the terror faced by Roma and Sinti recalls the Nazi era. In the Czech Republic and Hungary, uniformed fascist gangs organise regular marches in Roma neighbourhoods, encouraged and tolerated by the authorities. Attending school and getting access to medical care have become increasingly difficult.

The Merkel government, which is mercilessly driving forward austerity measures throughout Europe, bears the main responsibility. German calls for financially drained governments to protect the “human rights” of the Roma are hypocritical to the core.

Friedrich’s predecessor as interior minister had also proceeded against Sinti and Roma. In 2002, Otto Schily (Social Democratic Party—SPD) negotiated a so-called readmission treaty with Albania and Yugoslavia, which included “combating illegal migration from the Balkan region.”

Many of those affected had fled to Germany in the 1990s as a result of the civil war in Yugoslavia. In April 2010, Thomas de Maiziere (Christian Democratic Union—CDU) signed an agreement that obliged Kosovo to take back 14,000 refugees. Some 10,000 were Roma who had fled the terror being carried out by the German-supported Kosovo Liberation Army (KLA).

Recently, if one listened carefully, the long plaintiff sounds of a violin could be heard coming from a small park near the Brandenburg Gate. Refugees had set up a camp and begun a hunger strike protesting their persecution and demanding the right to stay and work in Germany. On the eve of the unveiling of the monument, police forcibly dismantled and closed down the camp.





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(E' appena uscita l'edizione in lingua tedesca del libro-inchiesta di Giuseppe Ciulla e Vittorio Romano:
Lupi nella nebbia
Editore Jaca Book - 2010 - Pagine 160 - € 14,00 - EAN 9788816409620.

Un articolo di sintesi su L'Espresso:
la Recensione di T.d.F. su Il Manifesto:
Il VIDEO di presentazione degli autori, a cura della redazione del blog di Beppe Grillo:


Neuerscheinung:

Giuseppe Ciulla, Vittorio Romano

KOSOVO
Die UNO als Geisel der Mafia und der USA
  
224 Seiten - ISBN 978-3-88975-203-1 - 12 Euro
 
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Giuseppe Ciulla und Vittorio Romano beschreiben unbefangen das Land, wie sie es vorfinden. Ihre Unbefangenheit mag sie auch zu einer manchmal etwas naiven Sichtweise führen, deren Ursprung sicher in der einseitigen Beeinflussung durch die italienischen Medien liegt, die vollkommen einseitig als Hofberichterstatter der NATO arbeiten. Z. B. unterstellen Ciulla und Romano Milošević, dass er Kosovaren vertrieb. Albaner wollten nur vor dem NATO Bombenteppich flüchten, manche nach Süden (Albanien) andere gingen dagegen nach Norden (Serbien) und stellten sich somit unter Miloševićs Schutz, da sie als Flüchtlinge einfach den kürzesten Weg zur Rettung suchten, wie es üblicherweise Menschen auf der Flucht machen. 
Alle Interviewten haben ihre persönliche Sichtweise, oft um ihre Interessen zu verteidigen. Wir meinen, dass besonders jene Einschätzungen der historischen Wahrheit am Nächsten kommen, die selbstkritisch und ohne eigenes Interesse die Widersprüche und Konflikte im Interview darstellen. Z. B. tun dies die italienischen Funktionäre, die selbstkritisch feststellen, dass sie sich im Kosovo wohl „am falschen Ort“ befinden.
Giuseppe Ciulla und Vittorio Romano gelingt es auf diese Art und Weise einen differenzierten Blick auf einen Kosovo zu werfen.
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Im Vielvölkerstaat Jugoslawien lebten die unterschiedlichen Ethnien meist friedlich mit- und auch nebeneinander. Natürlich machte ein Serbe seine groben Scherze über einen Albaner und umgekehrt sowie ein Bayer über einen Preußen. Ein Kroate reiste ohne Probleme nach Montenegro, ein Bosnier nach Novisad. Ich fuhr von Ljubljana über Zagreb, Belgrad, Skopje nach Griechenland. Ich arbeitete für eine US-amerikanische Firma in Zagreb, Belgrad, Dubrovnik und Sarajewo. Wir planten die Winterolympiade in Sarajewo. Wir arbeiteten friedlich mit Kroaten, Slowenen, Kosovaren, Serben etc. Und alle waren voller Stolz, dass ihr Land, dass Jugoslawien in Sarajewo die Winterolympiade durchführen konnte. Es gab keinen Hass, keine Gehässigkeit. Ein derber Scherz eines katholischen Kroaten über einen Moslem in Sarajewo, ja oder umgekehrt ein Flachs eines Bosniers über einen serbischen Popen. Aber Krieg, Völkermord, wer hätte jemals auf diesen Gedanken kommen können.
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Der Kosovo erinnert eher an ein Bild nach dem 30jährigen Krieg denn an eine europäische Region zu Beginn des 21. Jahrhunderts. Nach dem Sturz von Slobodan Milosevic sind nun alle Republiken des ehemaligen Jugoslawien zum Tummelplatz ausländischer Militärs, Politiker und NGO-Vertreter geworden. Den geopolitischen Interessen der USA stehen die wirtschaftlichen Begierden des deutsch geführten EU-Europa gegenüber


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22.10.2012 / Politisches Buch / Seite 15

»Wir haben die Falschen bombardiert«
Ein Band zum Kosovo

Buchrezension

Von Gerd Bedszent
 
Das Buch »Kosovo. Die UNO als Geisel der Mafia und der USA« ist nur indirekt eine Abrechnung mit dem NATO-Krieg von 1999 gegen Jugoslawien. Die beiden italienischen Journalisten Giuseppe Ciulla und Vittorio Romano haben die Region mehrfach bereist, Kosovaren, Serben, italienische Beamte und Militärs interviewt. Die so entstandenen Artikel und Reportagen haben sie hier zusammengefaßt.
 
Die Beiträge sind von unterschiedlicher Qualität. Die Autoren gingen zunächst von einer Kriegsschuld serbischer Nationalisten aus, die die angestammte albanische Bevölkerung aus dem Land vertreiben wollten. Je tiefer sie in das Gewirr politischer Kämpfe, Familienfehden und krimineller Bandenkriege eintauchten, die bis heute die kosovarische Gesellschaft entscheidend prägen, wich dies einer differenzierten Einschätzung.
 
Ciulla und Romano dokumentieren zahlreiche Fälle von Folter und Mord von seiten ehemaliger UCK-Kämpfer, denen auch zahlreiche Anhänger des damaligen kosovarischen Präsidenten Ibrahim Rugova zum Opfer fielen. Das Buch enthält viele Belege wie z.B. Auszüge aus dem Bericht eines UN-Zweigbüros, in dem UCK-Leuten Entführung und Mord zum Zwecke illegalen Organhandels nachgewiesen wurde. Zunächst diente dieser Kannibalismus der Finanzierung eines »Befreiungskrieges«, wurde dann aber zur persönlichen Bereicherung weitergeführt. Andere Dokumente belegen Verwicklungen einer erheblichen Zahl kosovarischer Politiker in kriminelle Aktivitäten, z.B. Schmuggel, Rauschgift- und Frauenhandel sowie in Auftragsmorde an ermittelnden Polizeibeamten.
 
Eine Ursache für die Eskalation der Kriminalität sehen die Autoren in den fortdauernden Auseinandersetzungen zwischen der albanischen Bevölkerungsmehrheit und den Einwohnern der serbischen Enklaven. Da jede Festnahme von Kriminellen jeweils als Parteinahme zugunsten der »feindlichen« Bevölkerung interpretiert werde, rufe sie sofort einen Aufstand hervor. Die westlichen Besatzungstruppen blieben weitgehend untätig. Auf diese Weise wurde die in eine serbische und eine albanische Hälfte gespaltene Stadt Mitrovica zum wichtigsten Umschlagplatz für Drogen, Waffen, Organe und Medikamente auf dem Balkan.
 
Das Buch enthält nur wenige Aussagen zur wirtschaftlichen Situation. Klar wird allerdings, daß die (ohnehin nur schwache) Industrie des Kosovo seit der Sezession von 1999 brachliegt. Die von UNO und EU ins Land gepumpten Mittel verschwinden komplett in den Taschen der Mafia. Kriminelle Unternehmungen sind für große Teile der Bevölkerung einziger Erwerbszweig. Da kein kapitalistisches Unternehmen dieser Welt freiwillig in ein Paradies des organisierten Verbrechens ohne nennenswerte Infrastruktur investiert, wird sich daran schwerlich etwas ändern. Die Autoren zitieren einen namentlich nicht genannten italienischen Beamten in Priština: » (Die UNO) hat die Voraussetzungen dafür geschaffen, daß dieses Land seine Unabhängigkeit ausrufen konnte. Sie hat es in einen Mafiastaat verwandelt. Wir haben die Falschen bombardiert.«
 
Die Bilanz der Autoren ist desillusionierend: Eine funktionierende Justiz gibt es im Kosovo nicht. Die Führungsriege der Mafia ist mit der aus der UCK hervorgegangenen politischen Elite weitgehend identisch und wird von UN und EU gedeckt. Anklageschriften verstauben in den Archiven, Ermittlungen verlaufen im Sande. »Welchen Zweck hat es, ein Fleckchen Erde als ›friedlich‹ zu definieren, während die Mafiosi mit gelben Lamborghinis die Straßen von Priština auf- und abfahren?«

 
Giuseppe Ciulla/Vittorio Romano: Kosovo - Die UNO als Geisel der Mafia und der USA. Zambon Verlag, Frankfurt am Main 2012, 228 Seiten, 12 Euro