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Stefan Simić: BAJKA O JEDNOJ IZGUBLJENOJ ZEMLJI  / FIABA DI UN PAESE PERDUTO


=== italiano ===


FIABA DI UN PAESE PERDUTO


Che io sia nato troppo tardi o che lei si sia dissolta troppo presto, in ogni caso sto studiando la geografia della vecchia Jugoslavia in ritardo... Navigo nell'Adriatico, mi arrampico sulla Kozara, a Tuzla ho incontrato per la prima volta l'Islam e la feredja, con una ragazza macedone ho corso lungo la riva e per le vie di Spalato; poi sono giunto a Cattaro, nella Città Vecchia. Molto lentamente compongo il mosaico in una catena di ricordi, mettendo in ordine un ricordo dietro all'altro.

Era un paese bellissimo, dico cosi, perchè tutte le fiabe durano poco. Anche questa nostra, la fiaba jugoslava. Sarebbe molto difficile riuscire ad abbracciare tutto ciò in una vita intera, come farlo nel racconto di un ventenne qualsiasi? Come domare quello spirito nobile, come renderlo chiaro in poche frasi senza rimembrare tutte le persone, tutte le città e tutti i paesi, come toccare quel fiore di un tempo in cui ancora inalava passione e non sciupare proprio nulla della sua bellezza, né del suo significato?

In breve, mi sono voluto informare su Krleža, ho ascoltato i canti di sevdah - le sevdalinke, ho riso per le allegre musiche e danze del beciaraz, ho provato a mangiare con gusto quelle specialità dalmate dai nomi impronunciabili, mi sono divertito con giuochi folkloristici, mi sono lasciato cullare della bellezza incantevole di tutte quelle donne e ho litigato con me stesso su quale di loro sia la più bella...

Ho sentito parlare dello Stradun, della Baš Čaršija, di Piazza Ban Jelačić; ma almeno l'ho sentito, e qualche cosa di tutto ciò l'ho pure vista con i miei occhi, ho trascorso lì i fine settimana, e qualcuno di quei posti si è rallegrato per la mia venuta cosicché custodisco molti ricordi lieti - ma che cosa ne sarà di questi nuovi bambini, dei bambini che verranno? Bambini che prima di tutto impareranno ad odiare e a rifiutare, bambini che possono elencare i posti dove vorrebbero andare e quelli dove non si va. E alla fine non vanno da nessuna parte... Per loro sono più importanti certi personaggi inesistenti che non la loro storia, sono più importanti le ricerche su Miami, sui robot, sugli abitanti di Marte, più importanti di quei posti dove sono cresciute generazioni intere, le generazioni dei loro padri e dei loro nonni. Per loro è più importante la Lady Gaga della loro stessa nonna.

Visto che gli jugoslavi sono sempre di meno, i postjugoslavi sono sempre di più. Sono affezionato a quella gente che mi fa ricordare la fratellanza e l'unità, i campi estivi della gioventù dove si lavorava, la passione per la ricostruzione di una società, la fede nella gente, la fede nell'uomo... Mi fanno ricordare la vita di quando non era vergognoso essere albanese a Belgrado, quando era un onore innamorarsi di una ragazza di Spalato, quando per farsi i complimenti si onorava quello che non è tuo. Molto lentamente vado mettendo insieme una «mia» vecchia Jugoslavia in miniatura, e, almeno in modo fittizio, ne sto diventando un abitante...

Dapprima i miei racconti sono giunti in tutte quelle città, e poi sono arrivato io, in ritardo. Ne evinco che tutti noi leggiamo gli stessi autori, che ci innamoriamo nella stessa maniera, che ci piace la stessa musica, che combattiamo contro le stesse identiche cose, e il con sorriso sulle labbra cerchiamo di imitare gli stessi dialetti. Ho capito che anche laggiù i fiori hanno lo stesso odore di qui, che si cantano le stesse canzoni, che si vanno a vedere gli stessi film, ma che nonostante tutto questo, nel nostro profondo, rimangono nascosti certi malintesi, che non sono per colpa nostra, di noi, generazioni recenti, che purtroppo li stiamo scontando, eccome! E in futuro sarà anche peggio...

Anche se mille volte ho detto ai miei amici che non mi sono sentito mai straniero a Osijek, né a Podgorica, né a Zagabria, né a Vukovar... Ho mentito. La paura si avverte nell'aria. Il subcosciente è una strana palude che lascia emergere tutto in superficie. Allora vedi anche quello che non c'è. I confini sono artificiali, ma i confini proprio perché sono confini confinano, limitano...

I miei, qui, mi hanno seppellito preventivamente, quando mi sono diretto in Croazia, mi hanno accompagnato impauriti come se partissi per chi sa dove... Anche se la guerra è finita da tempo, la guerra dura ancora nelle teste della gente...

Delle volte mi chiedo: per chi hanno perso la vita tutti quegli eroi caduti sognando una società davvero umana e la libertà? Immagina soltanto le gare, i giochi degli operai, la possibilità di dormire dove vuoi, la facilità di transitare in questo spazio, l'amore verso l'altro, verso il diverso. E che cosa abbiamo oggi? Masnade di degenerati spersonalizzati, il profitto come principio supremo, l'interesse come segno di riconoscimento, il dubbio in tutto ciò che ci circonda, la paura, gli eccessi, l'ingordigia, l'invidia. Abbiamo orde di cretini drogati, che camminano sulla terra come su un deposito d'immondizia, cercando le cose da utilizzare ancora e le cose da buttare e rottamare.

Fu difficile costruire tutto ciò che si fece, pacificare il non pacificabile, e fu molto facile romperlo, distruggerlo, usare coltelli ben affilati e tramutare uno dei paesi più civili in uno dei più barbari.

Quante celebrità sono state distrutte e quanti personaggi di fama internazionale ridotti al livello locale. Parliamo del culto degli attori Ljuba Tadić, Bekim Fehmiu, Šovagović, Šerbedžija, di Mija e di Čkalja, di Bata e di Boris Dvornik. Della fama di musicisti come Ivo Robić, Ibrica Jusić, Đordže Marijanović, o del gruppo Korni, degli Indexi, del Bijelo dugme (Bottone bianco). Di celebri scrittori, a partire da Andrić, Selimović, Kiš, Pekić... Della fama di sportivi come Duči Simonović, Mirza, Ćosić, Džaja. Esisteva a quel tempo la fama ed il culto per i lavoratori, per l’onestà, per la lotta per il bene comune, il culto dell’uomo, dell’umanità...

La Jugoslavia evidentemente non ha potuto resistere, come non può resistere alcun grande sogno.

La saggezza di una generazione è stata distrutta dall’altra e la terza generazione ha infranto e rotto tutto, riducendolo in piccole parti, e dopo le ha svendute sottocosto, come se fosse roba altrui, come se mai fosse esistito nulla... Già da anni si affilano i coltelli, l'uno odia l’altro... A guardare da questa distanza, sembra proprio irreale che questa gente sia vissuta in pace, sotto lo stesso tetto, e che abbia conquistato il mondo unita. Oggi ci stiamo svendendo un po’ per volta a questo stesso mondo! Uno vende le isole, l'altro vende le fabbriche, uno la ricchezza mineraria e tutti in eguale misura ci vendiamo reciprocamente. Ciascuno con orgoglio porta al tavolo tutto ciò che possiede, rinunciando all’elementare dignità umana...

Abbiamo creduto di lottare per noi in tutti questi anni, mentre in realtà lottavamo per loro. Quando abbiamo pensato di diventare più forti, in realtà diventavamo sempre più deboli, e quando eravamo più vicini alla vittoria, in realtà perdevamo sempre di più, le perdite diventavano sempre più gravi, mentre non abbiamo avuto alcun presentimento della sconfitta che ci aspettava...

Lo spirito dei collaborazionisti, dei cetnizi e degli ustascia, sta di nuovo venendo a galla. Invece di cercare di costruire il futuro, cerchiamo i particolari più oscuri del passato, enumeriamo gli odii degli altri, dimenticando le amicizie proprie. Invece di cercare il più bello, cerchiamo il più brutto. Invece di cercare l’amore, cerchiamo le cause per odiare. Se non riusciamo a trovare nulla, allora inventiamo, aggiungiamo, aumentiamo...

Capita così, quando ciascuno pensa di se di aver ragione: allora significa che nessuno in verità ha ragione, né mai avrà ragione, visto che in sostanza gli altri non lo interessano...

Si elencano i crimini del cosiddetto comunismo, senza avere alcuna percezione dei delitti del capitalismo, che sono di gran lunga maggiori, ed appestano ogni particella della società e ogni poro dell'essere umano. Chi potrebbe spiegargli che, a parte i loro appetiti ingordi e le loro menti limitate, al mondo esiste anche qualcos’altro? Chi potrebbe raccontare loro della Jugoslavia, di tutti quei miraggi, chi potrebbe insegnare loro il rispetto per se stessi e per tutto ciò che li circonda? Abituati come sono a pensare che tutti debbono a loro qualche cosa, che cosa loro hanno dato al mondo? Che cosa, fuorché l'ingordigia e l'egoismo?

Tutti oggi ridacchiano, dalle loro buche da topi, quando ricordano i tempi in cui si poteva vivere. Quanta vanità, quanta ignoranza, quanta malvagità! Quanto niente in una palude illimitata di tutto, anzi di tutto l'immaginabile, che inghiotte ogni cosa dinanzi a se... Invece della giornata del lavoro si è iniziato a celebrare la giornata delle streghe, invece del giorno della liberazione si è iniziato a celebrare la giornata che ci ha reso schiavi. Per giunta le nuove leve degli storici ci insegnano che sarebbe stato meglio se avessimo collaborato con i nazisti...

Il fascismo di allora è stato vinto, e il nemico allora era noto; ma chi vincerà il fascismo di oggigiorno, che sembra invisibile eppure distrugge ogni cosa davanti a se partendo dall’aria, dal cibo, dall’essere biologico e culturale dell’uomo? Sempre più numerosi sono i fascisti che non sanno nemmeno di essere fascisti, visto che con la loro presenza distruggono tutto quello che toccano. Dove è la passione, dove sono le idee, dove è il sacrificio, dove si sono nascoste la speranza e la felicità? Ciascuno magnifica la propria storia, nascondendo il resto. Chi potrà unire di nuovo questa gente e convincerla che sono esseri umani e non bestie?

Stefan Simić


(trad. JT, rev. AM)


=== srpskohrvatski ===

- BAJKA O JEDNOJ IZGUBLJENOJ ZEMLJI -

Ili sam se rodio prekasno, ili se ona rasturila prerano, uglavnom učim geografiju stare Jugoslavije naknadno... Plovim Jadranom, pentram se po Kozari, susreo sam se po prvi put sa Islamom i feredžama u Tuzli, potrčao sam za jedno
m Makedonkom na splićanskoj rivi i stigao je nešto kasnije u Kotoru, u Starom gradu. Sastavljam lagano razbijeni mozaik i ređam uspomenu za uspomenom.

Prelepa je to zemlja bila, kažem bila jer sve bajke traju kratko. Tako i ova naša, Jugoslovenska. Teško je obuhvatiti sve to i u jednom životu a kamoli u jednoj priči nekog tamo dvadesettrogodišnjaka?! Kako ukrotiti taj plemeniti duh i objasniti ga u nekoliko rečenica a ne pomenuti sve te ljude, gradove i sela. Kako dočarati taj cvet dok je još bio u punom zanosu a ne narušiti ništa od njegove lepote i značaja?!

Uglavnom, saznao sam za Krležu, slušao sevdalinke, smejao se uz bećarce, probao dalmatinske specijalitete čija imena ne umem ni da izgovorim, uživao u narodnim igrama, prepuštao se zanosnoj lepoti svih tih žena koje su prolazile i svađao se sa samim sobom koja je od koje lepša...

Čuo sam za Stradun, Baš Čaršiju, trg Bana Jelašića, no ja sam bar čuo, nešto od toga i video, proveo vikende, neko mi se tamo obradovao i nosim puno lepih uspomena a šta je sa nekom novom decom koja dolaze? Decom koja prvo nauče da mrze i odbace, decom koja nabrajaju gde ne bi išli a ne gde bi išli. I na kraju, uglavnom, ne odu nigde... Važniji su im neki nepostojeći likovi od njihove istorije, važniji su im istražitelji Majamija, roboti, marsovci od svih onih mesta gde su stasavale generacije i generacije njihovih dedova, očeva. Važnija im je Lejdi Gaga od rođene babe...

Sve je manje Jugoslovena, ali je zato sve više postjugoslovena. Volim te ljude jer me podsećaju na bratsvo i jedinstvo, radne akcije, zanos izgradnje jednog društva i veru u ljude, u čoveka... Podsećaju me na život gde nije sramota biti Albanac u Beogradu, gde je čast zaljubiti se u Splićanku, gde je kompliment poštovati i ono što nije tvoje. Sastavljam polako svoju staru Jugoslaviju u malom i bar fiktivno postajem njen stanovnik...

Prvo su moje priče stigle u sve te gradove pa sam onda ja, naknadno. Zaključio sam da svi mi citiramo iste pisce, da se isto zaljubljujemo, volimo istu muziku, borimo se protiv istih stvari, kroz osmeh oponašamo dijalekte. Shvatio sam da i tamo cveće isto miriše, da se pevaju iste pesme, gledaju isti filmovi, ali da su ipak, duboko u nama, skriveni neki davni nesporazumi za koje nismo krivi mi, nove generacije ali ih i te kako ispaštamo. I tek ćemo....

Iako sam hiljadu puta rekao svojim prijateljima da se nikada nisam osećao kao stranac u Osijeku, niti u Podgorici, niti u Zagrebu, Vukovaru. Lagao sam... Strah se oseća u vazduhu. Podsvest je močvara iz koje sve ispliva. A najčešće ono najgore. Tada vidiš i ono što ne postoji. Granice jesu veštačke, ali su ipak granice a samim tim i ograničenja...

Unapred su me sahranili moji odavde kada sam krenuo za Hrvatsku, ispratili su me preplašeni kao da idem ne znam gde. Iako se rat odavno završio, rat i dalje traje u glavama ljudi...

Ponekad se pitam za koga su ginuli svi ti heroji sanjajući o humanom društvu i slobodi?! Zamisli samo radničke igre, mogućnost da spavaš gde hoćeš, lakoću prelaženja prostora, ljubav prema drugom, drugačijem?! A šta imamo danas?! Horde obezličenih degenerika, profit kao vrhunsko načelo u svemu, interes kao znak prepoznavanja, sumnju u sve što nas okružuje, strah, iživljavanje, nezasitost, zavist. Imamo gomile drogiranih idiota koji hodaju po zemlji kao po deponiji gledajući šta mogu da iskoriste i bace?!

Teško je bilo napraviti sve to, osmisliti, pomiriti nepomirljvo a lako srušiti, upotrebiti naoštrene noževe i od jedne od najcivilizovanijih država napraviti najvarvarskiju. Koliko je samo ljudskih kultova uništeno i od internacionalnih svedeno na lokalni karakter. Recimo kult glumaca od Ljube Tadića, Bekima Fehmiua, Šovagovića, Šerbedžije pa do Mije i Čkalje, Bate i Borisa Dvornika. Kult muzičara i muzičkih grupa od Ive Robića, Ibrice Jusića, Đorđa Marjanovića pa do Korni grupe, Indeksa, Bijelog dugmeta. Kult pisaca od Andrića, Selimovića, Kiša, Pekića... Kult sportista od Ducija Simonovća, Mirze, Ćose, Džaje. Kult radnika, kult poštenja, kult borbe za opšte dobro, kult čoveka, kult ljudskosti....

Jugoslavija očigledno nije mogla da opstane kao što ne može da opstane ni jedan veliki san. Mudrost jedne generacije upropastila je druga a treća je sve to razbila u paramparčad i rasprodala budzašto kao da je tuđe, kao da nikada ništa nije ni postojalo... Već godinama svi oštre noževe, mrze jedni druge... Sa ove distance prosto je nerealno da su svi ti ljudi živeli u miru, pod istim krovom i osvajali svet zajedno?! Sada se polako prodajemo tom istom svetu! Neko prodaje ostrva, neko fabrike i rude a svi podjednako prodaju jedni druge. Svako ponosno iznosi na trpezu ono što ima odričući se elementarnog ljudskog dostojanstva...

Verovali smo da smo se borili za nas svih ovih godina, dok smo se, u stvari, borili za njih. Što smo mislili da smo jači bili smo sve slabiji, što smo bili bliži pobedi mi smo, u stvari, sve više gubili i gubili, ni ne sluteći kakav nas kolektivni poraz očekuje...

Upravo doživljavamo taj poraz...

Duh četništva, ustaštva ponovo provejava. Umesto da gradimo budućnost mi tražimo najmračnije detalje prošlosti, brojimo tuđe mržnje zaboravljajući vlastita prijateljstva. Umesto najlepšeg tražimo ono najgore. Umesto za ljubav prikupljamo činjenice za mržnju. Ukoliko ništa ne pronađemo onda izmišljamo, dodajemo, preuveličavamo...

A i tako to obično biva, čim svako za sebe misli da je u pravu, znači da niko nije u pravu, niti će ikada biti jer ga ne zanima onaj drugi...

Nabrajaju se zločini tzv. komunizma ne sluteći zločine kapitalizma koji su mnogo veći, koji zagađuju svaku poru društva i čoveka. Ko će da im objasni da osim njihovih nezasitih stomaka i ograničenih umova postoji i nešto drugo? Ko će da im priča o staroj Jugoslaviji, svim tim čudima, ko će da ih nauči da poštuju sebe i sve oko sebe?! Naviknuti su da sve neko treba da im daje a šta su oni dali ovom svetu? Šta osim pohlepe i sebičluka?!

Svi se sada podsemavaju iz svojih mišijih rupa prisećajući se vremena kada se živelo. Koliko samo sujete, primitivizma, pakosti?! Koliko samo ničega u beskrajnoj močvari svega i svačega koja guta sve pred sobom... Umesto dana rada počinje da se slavi noć veštica, umesto dana oslobođenja počinju da se slave dani porobljenja. Još nas generacije novih istoričara uče da je bolje da smo sarađivali sa nacistima...

Tadašnji fašizam je pobeđen, neprijatelj je bio poznat a ko će da pobedi ovaj današnji, naizgled nevidljivi, koji razara sve pred sobom od vazduha, hrane, biološkog i kulturnog bića čoveka? Sve je više fašista koji ni ne znaju da su fašisti, uništavaju svojim prisustvom sve što dotaknu? Gde je zanos, gde su ideje, gde je žrtvovanje, gde su se sakrile nada i sreća?! Svako veliča svoju ličnu priču skrivajući sve drugo. Ko će ponovo da objedini sve ljude i da ih ubedi da su ljudi a ne zveri?!

STEFAN SIMIĆ




(english / italiano)

Perfetta sintonia nazi-fascista tra Italia e Germania

1) SS massacre in Sant’Anna di Stazzema goes unpunished
Elizabeth Zimmermann - WSWS
2) Assoluzione delle SS per la strage di civili a Sant’Anna di Stazzema. C'è più che mai bisogno di antifascismo
Coordinamento antifascista antirazzista toscano
3) Affile, Grazianilandia. L’eredità razzista e il mausoleo delle sfighe
Wu Ming 1


N.B. A due mesi dall'inaugurazione del monumento al criminale nazifascista Graziani ad Affile (Roma), si protrae ineffabile il silenzio del Presidente della Repubblica Italiana su questo tema.


INIZIATIVE SVOLTE E IN CALENDARIO:


A) Bologna 13/10/2012: I vespasiani di #Bologna salutano #Graziani. A noi!

B) Firenze 19/10: Chiudere Casapound e tutte le sedi fasciste

Venerdì 19 ottobre 2012 ore 20.00
presso Archivio 68, via Orsini 44, Firenze

In un periodo di crisi economica, politica e morale come questo dobbiamo respingere il tentativo neofascista di alimentare le forme di razzismo ed egoismo – sfociate a Firenze con l’assassinio di due lavoratori senegalesi –. 
I gruppi neofascisti - sdoganati e tollerati anche da “intellettuali” e “persone di cultura” di pseudo sinistra e che godono di sempre maggiori finanziamenti e coperture politiche – sviluppano un’infame demagogia per penetrare negli strati popolari.
Il pericolo fascista è reale. 
È stato e continua ad essere il braccio violento del capitalismo. 
Impediamo che si radicalizzi con l’impegno e la mobilitazione.

alle 20 apericena
alle 21 incontro su destra sociale e suoi collegamenti
ne parliamo con: CLAUDIA CERNIGOI

FUORI I FASCISTI DA FIRENZE
promuove: Caat Firenze
evento FB: http://www.facebook.com/events/430873486970986


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SS massacre in Sant’Anna di Stazzema goes unpunished

By Elizabeth Zimmermann 
11 October 2012

On October 1, 2012, the Stuttgart attorney’s office announced it would not pursue charges against the surviving participants of the massacre carried out by German SS troops in Sant’Anna di Stazzema in northern Italy and was ending its decade-long investigation. The public prosecutor declared it was not possible to prove that the accused were involved in crimes that were not time-barred.

The judgement means that one of the most brutal war crimes committed by German troops in Italy at the end of World War II remains unpunished. Five hundred sixty women, children and men were killed by German troops in a bestial manner within a few hours.


On August 12, 1944, the armoured reconnaissance battalion 16 of the SS Panzer Division “Reichsführer SS” led by officer Walter Reder invaded the municipality of Stazzema in the province of Lucca as part of a so-called cleansing offensive. The squad left behind a trail of destruction and death.

On the way to Sant’Anna, the German army (Wehrmacht), assisted by both German and Italian SS troops, carried out a series of massacres of civilians. They moved into the town from four different directions in order to ensure that no one could escape.

In his book German War Crimes in Italy—Culprits, Victims, Prosecution,military historian Gerhard Schreiber indicates the cruelty and brutality of the Wehrmacht and SS troops:

“In Sant’Anna itself, Himmler’s armoured infantry rounded up the inhabitants and those that had fled there in the square before the church, which was enclosed by a wall.” Schreiber then describes what followed: “Since there was only one entrance to the square, the people were in a perfect trap. The murderers now began their work; afterwards, the mortal remains of 132 men, women, children and infants formed a mountain of corpses. Then the flamethrowers were deployed, which is why so many of the dead could never be identified. As the troops finally left, moving down the valley to Valdicastello, the SS men, who then killed 14 in Mulino Rosso and 6 in Capezzano di Pietrasanta, left some 560 bodies behind. The authorities were only able to establish the identities of 390 of the dead, including 75 children aged 10 years or less. The youngest victim was aged three months, the oldest 86 years.”

The massacre took place just days after British troops liberated the city of Florence from the German occupation. It takes its place among a series of German war crimes in Italy that became increasingly cruel and ruthless as German troops encountered mounting opposition from allied troops and the partisan resistance. The stated aim of the Nazi leadership was a scorched earth policy, and this order was subsequently passed on to the Wehrmacht and the SS.

At the end of the war, the crimes committed by the Wehrmacht and the SS in Italy were largely hushed up. Hardly any of the people responsible were brought to justice, including those involved in the massacre at Sant’Anna di Stazzema.

One reason was the Cold War against the Soviet Union. The allied powers decided that the investigation of German war crimes should not stand in the way of the rearmament and integration of the Federal Republic into the NATO alliance. The Italian judiciary quickly dropped its own investigations while German courts failed to express any interest.

It was only several decades later that the events at the end of the war found a wider public. In 1994 and 1996, two historians, Friedrich Andrae and Gerhard Schreiber, published independent studies based on the analysis of military archives, war diaries and accounts of witnesses, documenting German war crimes in detail. Since then, a number of journalists and survivors of the atrocities have carried out research in order to bring to justice those responsible.

Sixty years after the massacre at Sant’Anna di Stazzema, on April 20, 2004, a military tribunal in La Spezia opened proceedings against three former members of the Waffen-SS—Gerhard Sommer, Ludwig Sonntag and Alfred Schönberg. The elderly defendants did not appear in court, however. They lived and continue to live unmolested in Germany.

In June 2005, the military tribunal in La Spezia convicted 10 former Nazi officers and sentenced them to life imprisonment due to their involvement in the massacre. The court judged that the brutal crime had been committed intentionally.

In Germany, the Stuttgart public prosecutor initiated its own investigation in 2000 against 17 persons. The prosecutor refused to name any of the accused, of whom 9 are now deceased. Amongst the 8 survivors is the now 91-year-old Gerhard Sommer, who has resided since 2005 in a housing facility for seniors in Hamburg.

In a press release, the prosecutor justified closing its case with the argument that there was insufficient evidence to demonstrate that the massacre was a “deliberately planned and commanded extermination campaign against the civilian population”. There remained the possibility “that the original aim of the intervention was to fight partisans and capture able-bodied men for the purpose of deportation to Germany, and the shooting of civilians was only ordered when it was clear that this goal could not be achieved.”

According to the argumentation of the prosecutors’ office, under the above premise, “the shooting of civilians” in Stazzema by a unit of the Waffen SS could not be designated murder, and therefore charges against the former Nazi officers were to be dropped.

The judgement by the Stuttgart court is a major affront to the families and survivors of this horrendous war crime, but is entirely consistent with the practice of the west German judiciary, which in the entire period since the Second World War has refrained from the systematic prosecution and condemnation of Nazi war crimes.



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Assoluzione delle SS.
C'è ancora bisogno di antifascismo
  
04/10/20120
 
Lo Stato italiano e quello tedesco sono in perfetta sintonia anche sui crimini nazifascisti.
 
La procura di Stoccarda assolve per "insufficienza di prove" i responsabili (di cui alcuni rei confessi) della strage di Sant'Anna di Stazzema (Lu) dove il 12 agosto '44 furono trucidate 560 persone in gran parte anziani e donne, tra cui 116 ragazze e bambini (il più piccolo di 20 giorni).
 
La procura di Stoccarda ha deciso, così, di non chiedere l'imputazione degli 8 militari della 16ma divisione granatieri corazzati "Reichsfuehrer Ss" ancora viventi e dopo 68 anni di archiviare il massacro e cancellare la memoria e la storia.
 
Il comune di Affile, in provincia di Roma, ha recentemente inaugurato un mausoleo al maresciallo Rodolfo Graziani, il fascista che deportò nei lager 100mila libici. Questo Comune celebra, con i soldi della regione Lazio (prima della disfatta e delle dimissioni), Graziani, il più sanguinario assassino del colonialismo italiano.
 
Affile è lo stesso Comune che il 26 maggio scorso ha reso omaggio a Giorgio Almirante (nell'omonima piazza), fucilatore di partigiani ed estensore del manifesto sulla "razza".
 
Anche Pietrasanta ha il suo monumento all'aviatore, ispirato a Mussolini. E tante altre sono le "testimonianze" in varie città del passato fascista.
 
E le istituzioni, "tanto" democratiche e antifasciste a chiacchiere, dove sono imboscate? La storia, la realtà e l'esperienza mostrano che i responsabili di tali crimini sono indispensabili agli imperialisti e alla borghesia. Per questo è sempre più necessario organizzarsi per affermare l'antifascismo.
 
Coordinamento antifascista antirazzista toscano


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di Wu Ming 1

E’ accaduto il mese scorso. Ad Affile, piccolo comune a est di Roma, la giunta di «centrodestra» – chissà quando ci libereremo di quest’eufemismo! – ha inaugurato un sacrario dedicato a Rodolfo Graziani (1882 – 1955).
Graziani – che è sepolto nel locale cimitero – fu governatore della Cirenaica durante la «riconquista» fascista della Libia (1930-31), comandante del fronte sud durante l’invasione dell’Etiopia (1935-36), viceré d’Etiopia nel biennio 1936-37 e comandante delle forze armate della Repubblica di Salò durante la guerra civile del 1943-45.
L’edificio – di una bruttezza e mediocrità da rimanere soffocati – è costato 130.000 euro sborsati dai contribuenti, fondi che la Regione Lazio aveva stanziato per altro uso. Il Comune li aveva chiesti per la riqualifica del parco di Radimonte e per un generico sacrario “al Soldato”, progetto senz’altro discutibile ma non equivalente alla commemorazione di Graziani, che pare non fosse menzionato in nessun documento.
Il podestà Il sindaco Ercole Viri si è difeso dicendo che «ad Affile quando si dice “il Soldato” si intende solo Graziani». Ah, beh, non fa una piega.
Tutto questo in tempi di Spending Review – altro eufemismo narcotizzante – e lagne sul fatto che “non ci sono i soldi” per fare nulla.

All’inaugurazione, l’11 agosto, era presente un centinaio di persone, con tutto l’armamentario di camicie nere, simboli della X Mas, bandiere di gruppi di ultradestra e di correnti del PdL.
L’episodio ha causato proteste, interrogazioni parlamentari e un esposto alla Corte dei conti per distrazione di soldi pubblici. La stampa romana ha dedicato molto spazio alla controversia, un po’ meno quella nazionale. Sono usciti articoli su giornali e siti d’informazione britannici, spagnoli, francesi, tedeschi, svedesi, venezuelani, messicani, turchi, e una lunga corrispondenza da Affile è apparsa sulNew York Times.

Stranamente, in nessuno di questi articoli (italiani o di altri paesi) abbiamo trovato riferimenti a una nota diceria, un’imbarazzante nomea che ebbe origine ad Addis Abeba e fluttua intorno a Graziani fin dal 1937. Per un’illusione prospettica rafforzata da vari scherzi della sorte, la leggenda abissina sembra trovare conferma in ogni episodio della sua biografia a partire da quell’anno.
Poiché questa parte della storia non l’ha ricordata nessuno, abbiamo deciso di farlo noi, cogliendo la palla al balzo per dire la nostra su tutta la vicenda.

1. O Norimberga… o Affile

Graziani era cresciuto ad Affile – dove il padre era medico condotto – e tornò a viverci nel dopoguerra, dopo essere uscito di prigione. Al fresco non c’era rimasto a lungo: lo avevano condannato a diciannove anni di galera per collaborazionismo coi nazisti, ma aveva scontato soltanto quattro mesi.
Il sindaco Viri ha detto di aver voluto onorare Graziani soprattutto «in quanto affilano». Nei comunicati della giunta, l’ex-Viceré d’Etiopia è definito «uno dei personaggi più illustri di Affile»,  e senz’altro quello del Maresciallo/Macellaio d’Italia è il nome più celebre che il piccolo comune della Valle dell’Aniene possa vantare (si fa per dire).

Porre l’attenzione sulla celebrità può far capire una cosa importante: non si tratta solo di apologia del fascismo – che è esplicita ed evidente, basta dare un’occhiata al sito del Comune – o di tarda nostalgia delle colonie (nel dopoguerra persino molti nostalgici si tennero alla larga da Graziani, per i motivi che spiegheremo tra poco). No, c’è anche dell’altro, ossia la tipica ideologia da reality: l’importante è che uno diventi famoso, non importa per quale motivo. Graziani «illustre concittadino» vale allora Fabrizio Corona, vale l’ultimo cantantucolo da talent show, ma vale anche Erika e Omar, Olindo e Rosa, Anna Maria Franzoni e altre «star» della cronaca di questi anni, tutta gente che in galera riceve posta da ammiratori.
Ecco, forse Olindo e Rosa sono quelli che più rendono l’idea. Con la differenza che Graziani operò su ben altra scala.

Nel tentativo di giustificare il tributo a Graziani, il sindaco Viri ha donato al mondo diverse altre “perle”. Per esempio, ha dichiarato:

«Graziani non fu un criminale di guerra, tanto è vero che non fu condannato a Norimberga.»

Viri finge di non sapere – o forse non lo sa davvero? – che a Norimberga si tennero i processi ai criminali di guerra tedeschi per atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale. Nessuno degli imputati era un nostro connazionale, Graziani non comparve davanti a quella corte e l’istruttoria non riguardava le aggressioni fasciste a Libia, Somalia ed Etiopia.
Il fatto che Graziani non sia stato condannato a Norimberga è dunque un non-argomento, una supercazzola con scappellamento a centrodestra come si fosse ariani.
E’ come dire che Donato Bilancia non era un serial killer perché non fu condannato al processo contro il mostro di Milwaukee.

Una Norimberga italiana non vi fu mai, nonostante i paesi aggrediti dall’Italia fascista avessero presentato all’ONU una lista dei nostri massacratori e genocidi (in tutto 1200, attivi sui vari teatri di guerra).
Per motivi legati alla realpolitik post-bellica i vari Graziani, Badoglio, Roatta, Pirzio Biroli (che non avevano nulla da invidiare ai cugini germanici Himmler, Goering, Kappler, Ohlendorf) la passarono liscia.

Diversi storici si sono occupati di questo tema. In calce all’articolo forniamo una bibliografia scelta e proponiamo alla visione un noto documentario della BBC,Fascist Legacy (*).

2. Il laboratorio di Graziani


In Cirenaica e in Etiopia, l’uomo oggi celebrato dal Comune di Affile ordinò enormi stragi di civili e deportazioni di massa che coinvolsero donne, vecchi e bambini.
Già in Cirenaica si fece la reputazione di macellaio: per isolare i guerriglieri dalla popolazione aprì campi di concentramento nel deserto – sedici in tutto – e ci mandò a morire decine di migliaia di civili. Sterminò le mandrie e bruciò i raccolti. Represse la resistenza usando aggressivi chimici e innalzando un tale numero di forche da far scrivere a Ugo Pini: «Di impiccatori ce ne furono dappertutto ed in nome di tutte le patrie o quasi, ma Graziani ne divenne modello inappuntabile.»
Il colpo più spettacolare lo mise a segno nel settembre 1931, quando catturò e, dopo un processo sommario, fece impiccare il più importante capo della guerriglia senussita, il settantenne Omar al-Mukhtar. L’esecuzione avvenne nel campo di concentramento di Soluch, di fronte a ventimila internati.

Tuttavia, l’apice – o l’abisso – della sua carriera di aguzzino Graziani lo toccò nel biennio che trascorse in Etiopia (all’epoca chiamata Abissinia).

La conquista dell’Abissinia, anche se il Duce la spacciò agli italiani come totale e definitiva, fu sempre precaria e non riguardò mai più di un terzo del Paese. Al principio del suo viceregno, Graziani era praticamente bloccato ad Addis Abeba e assediato dagli Arbegnuoc, i partigiani etiopi.
L’uomo del mausoleo di Affile ricorse alla repressione in modo forsennato, facendo bombardare i territori non sottomessi con armi chimiche come l’iprite (che causa orrende piaghe su tutta la pelle), il fosgene (che blocca le vie respiratorie) e le arsine (che distruggono i globuli rossi).
Nel mentre, i plotoni di esecuzione lavoravano senza sosta. Tutta la classe dirigente dei Giovani Etiopi (l’unico movimento che in Etiopia si avvicinasse a un moderno partito politico) fu sterminata. Al fine di terrorizzare la chiesa copta, pilastro della comunità locale, venne condannato a morte l’abuna Petros, il giovane vescovo di Addis Abeba, che cadde sotto il fuoco di otto carabinieri. Graziani fece rapporto a Mussolini con un telegramma:

«La fucilazione dell’abuna Petros ha terrorizzato capi e popolazione… Continua l’opera di repressione degli armati dispersi nei boschi. Sono stati passati per le armi tutti i prigionieri. Sono state effettuate repressioni inesorabili su tutte le popolazioni colpevoli se non di connivenza di mancata reazione».

Il 19 febbraio 1937, i partigiani tentarono di uccidere il Viceré. Per festeggiare la nascita del Principe di Napoli (sì che lo conoscete, è lui), Graziani aveva deciso di distribuire un’elemosina ai poveri e agli invalidi della città. La scena doveva svolgersi nel cortile del suo palazzo. Nella folla di mendicanti si infilarono Abraham Deboch e Mogus Asghedom, due giovani venuti dall’Eritrea per unirsi alla resistenza anticoloniale.
Da sotto i mantelli, Deboch e Asgedom trassero alcune bombe a mano, le scagliarono contro il futuro idolo del sindaco di Affile e approfittarono del caos generale per fuggire.

Graziani fu investito da una pioggia di schegge, ma sopravvisse. All’attentato seguì una rappresaglia violentissima contro la popolazione locale, un linciaggio indiscriminato. Addis Abeba fu messa a ferro e fuoco da orde di italiani e le vittime furono migliaia. I morti ammazzati non avevano a che fare con l’attentato, si trattava semplicemente di dare una lezione ai negri. Ecco la testimonianza dell’inviato del “Corriere della Sera” Ciro Poggiali, contenuta nel suo diario segreto pubblicato solo dopo la sua morte:

«Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba, in mancanza di una organizzazione militare o poliziesca, hanno assunto il compito della vendetta condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. Vengon fatti arresti in massa; mandrie di negri sono spinti a tremendi colpi di curbascio [frusta di nervo di bue, n.d.r.] come un gregge. In breve le strade intorno al tucul sono seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara ed innocente». (Diario AOI 15 giugno 1936 – 4 ottobre 1937, Milano, 1971, pp.179-185.)

In seguito, il più illustre dei cittadini di Affile si convinse, sull’unica base di una diceria, che gli attentatori si fossero rifugiati nel monastero copto di Debra Libanos, e diede forse il più terribile dei suoi ordini: sterminare chiunque si trovasse in loco. Monaci, pellegrini e giovani seminaristi (ragazzini anche di tredici-quattordici anni) furono massacrati a colpi di mitragliatrice. I morti furono duemila. Le vittime, portate a gruppi di venti-trenta sull’orlo di un dirupo a Laga Wolde, venivano incappucciate e fatte inginocchiare l’una accanto all’altra.

Proviamo a immaginare la scena: bambini terrorizzati, tremano, piangono, gridano, perdono il controllo di sfinteri e vescica… Non capiscono perché i bianchi stiano facendo questo. I monaci e i diaconi più grandi non possono nemmeno abbracciarli, perché sono legati. Da sotto il cappuccio, mormorano parole di conforto, invitano i più piccoli a pregare ma i ragazzini singhiozzano, non ce la fanno, poi la raffica di piombo rovente brucia la carne e spegne pianto e preghiera.

Le mitragliatrici spararono per cinque ore, quasi senza sosta. I corpi furono gettati nel dirupo. Al comando delle truppe che commisero la strage c’era il generale Pietro Maletti.
Le stragi perpetrate in Italia dalle SS, come Marzabotto o le Fosse Ardeatine, al confronto quasi impallidiscono.
L’eroe degli affilani fece rapporto a Mussolini rivendicando «la completa responsabilità» di quella «tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia». Nel suo dispaccio, si disse fiero di

«aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti».

Come ha scritto Angelo Del Boca, in quei mesi «l’Italia fascista [fece] un salto di qualità [...] Se non altro, l’impero d’Etiopia si [rivelò] uno straordinario laboratorio, dove un popolo cosiddetto civile sperimentava i suoi istinti più bassi e le tecniche del genocidio.»

Agli occhi della popolazione etiope, Graziani si dimostrò uomo senza onore a tutti i livelli: garantì sul proprio nome al Ras Cassa Haile Darge che avrebbe graziato i suoi due figli – divenuti capi della resistenza – se si fossero arresi e avessero fatto atto di sottomissione, ma dopo essersi impegnato in tal senso, una volta catturati li fece fucilare.

3. La maledizione abissina


Non contento di tutto questo sparger di viscere, Graziani ordinò di sterminare cantastorie, indovini e guaritori, senza eccezioni, a cominciare da Addis Abeba. Sospettava che predicassero contro l’occupazione italiana (e ne avrebbero avuto ben donde!). Non era necessaria alcuna accusa formale, bastava che qualcuno avesse l’aspetto di un indovino o di una fattucchiera, o fosse sorpreso a cantare in pubblico.
Nel corso del 1937 i carabinieri fucilarono migliaia di persone. L’uomo del sacrario di Affile teneva il conto dei trucidati e, con toni di grande soddisfazione, aggiornava via telegrafo il Ministero dell’Africa Italiana. Il 19 marzo 1937 diede notizia del suo provvedimento, aggiungendo che gli eliminati erano già una settantina. Da quel momento in avanti, “telecronacò” a Roma una petulante, ragionieristica escalation: il 21 marzo le esecuzioni sommarie erano salite a 324, il 30 aprile a 710, il 5 luglio a 1686, il 25 luglio a 1878 e il 3 agosto a 1918. Ribadiamo che queste cifre le forniva Graziani di proprio pugno.

Secondo una tradizione popolare locale, ordinando quella mattanza a cielo aperto, Graziani si tirò addosso una gragnuola di maledizioni, cosa che lo trasformò in uno iettatore di prim’ordine, il classico «Re Mida al contrario». Veniva da una sequela di successi ma, da quel momento in avanti, tutto quel che toccò si disgregò come merda secca.

Noi siamo materialisti storici e non crediamo a simili superstizioni. Tuttavia, se per pura ipotesi ci credessimo, non potremmo che trarre una conclusione:l’influsso iettatorio dell’uomo celebrato nel mausoleo di Affile si trasmetterà al mausoleo stesso.
Sì, perché un conto è avere Graziani tumulato al locale camposanto, altra faccenda è dedicargli un sacrario in pompa magna, con tanto di fanfare, dubbio uso di fondi pubblici e polemiche mondiali. Ciò equivale a ravvivarne l’influsso. Chi muore giace e chi vive si dà pace, ma non si sveglia il can che dorme. Soprattutto quando si dice portasse iella (ai suoi).
Insomma, se la leggenda abissina fosse vera, su Affile e su chi ha speso in quel modo i soldi dei cittadini non tarderebbe ad abbattersi ogni sorta di disgrazia e sventura.

Per amore di completezza, va detto che Graziani dava già il nome a un parco di Filettino (FR), il suo paese natìo.
Sicuramente sono coincidenze, ma da quando ad Affile hanno inaugurato il sacrario, a Filettino è successo di tutto: come ad annunciare tempi nuovi, è arrivata una lieve scossa di terremoto, dopodiché  si sono rotti i collettori fognari (con sversamento di liquami nel fiume Aniene) e sono andati in cenere quindici ettari di bosco
[Aggiornamenti nei commenti sotto questo post, N.d.R. del 15/09/2012]

4. Una sequela di figuracce e fallimenti

La rabbia e il disgusto per i crimini di Graziani spinsero sempre più etiopi a unirsi agli Arbegnuoc. Per tutta la durata dell’impero di cartone di Mussolini (1936-1941), la guerriglia mantenne il controllo di ampie porzioni del Paese e godette di un vastissimo consenso. In pubblico questa verità era taciuta, ma quando comunicavano tra loro, le autorità se la dicevano senza peli sulla lingua. Nel maggio 1940, ben quattro anni dopo la proclamazione dell’Impero, il generale della milizia fascista Arconovaldo Bonaccorsi scrisse in un suo rapporto:

«Se in un punto qualsiasi del nostro Impero un distaccamento di inglesi e francesi stesse per entrare con una bandiera spiegata, avrebbe bisogno di ben pochi uomini poiché potrebbe contare sull’appoggio della maggior parte della popolazione abissina che si unirebbe a loro nella battaglia per combattere e scacciare le nostre forze».

Nel biennio 1936-37, durante il viceregno di Graziani, il dominio italiano fu ben lungi dal consolidarsi, anzi, si fece sempre più instabile. Il consenso per i nuovi padroni era scarsissimo e il Viceré iniziò a dare segni di squilibrio. A Roma se ne accorsero, anche in seguito a un bizzarro exploit «senza veli». Alla fine del 1937 lo rimossero dall’incarico, inviando ad Addis Abeba un viceré più moderato e molto diverso per carattere e reputazione, Amedeo di Savoia-Aosta. Ma questa è già un’altra storia.

Nel 1940, dopo la sfigatissima morte di Italo Balbo (abbattuto a Tobruk dal “fuoco amico” della contraerea italiana), Graziani gli succedette come governatore della Libia. Da lì, fu protagonista di una sfigatissima invasione dell’Egitto, terminata con un’umiliante sfilza di sconfitte per mano inglese. Dopo aver ripiegato sulla Libia, in pochi giorni perse l’intera Cirenaica e parte della Sirtica. Come già ai tempi dell’Etiopia, Mussolini andò su tutte le furie, lo destituì e fece aprire un’inchiesta sul suo operato.

Tornato in patria, Graziani rimase «parcheggiato» per due anni. In quel periodo dovette anche sopportare l’accusa di vigliaccheria, per aver diretto le operazioni da una tomba greca di Cirene, profonda trenta metri e lontana dal fronte centinaia di chilometri.
Accusa ingenerosa, a ben pensarci. Anche Mussolini, dopo aver deciso la Marcia su Roma al congresso fascista di Napoli, per dirigerla si era precipitato… a Milano. Più distante dalla zona d’operazioni, certo, ma più vicino al confine svizzero, perché non si sa mai.
Per non dire di Badoglio, che aveva diretto la Battaglia di Mai Ceu dal quartier generale di Endà Iesùs, quattrocento chilometri nelle retrovie, mentre l’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié era sul campo e per ore aveva manovrato di persona un cannoncino antiaereo Hoerlikon.
Graziani, imbucandosi a Cirene, si era solo attenuto a un principio-cardine della scienza militare fascista: quando la pelle si rischia davvero e non solo per modo di dire, gli ordini è meglio darli da molto lontano (**).

Dopo l’Armistizio del settembre 1943, nel Nord Italia occupato dai tedeschi nacque uno stato-fantoccio collaborazionista, la Repubblica Sociale Italiana. A Graziani venne offerto il comando delle forze armate. Ebbe molti dubbi se accettare l’incarico. Verosimilmente, gli veniva offerto col criterio del cerino acceso rimasto in mano: era l’unico grosso nome dell’esercito che non fosse passato dall’altra parte (come i paraculi maximi Pietro Badoglio e Mario Roatta) o non fosse prigioniero di guerra in Africa (come Guglielmo Nasi, che comunque, fosse stato in Italia, probabilmente avrebbe seguito Badoglio).
Graziani era un rattoppo e lo sapeva; ormai lo calcolavano un minchia, e sapeva pure questo. Troppo brucianti le sconfitte e troppo note le sue mattane, gli scatti d’ira, l’evidente complesso di persecuzione, per non dire delle foto in cui ballava nudo o mostrava la verga per dimostrare al Partito che ancora ce l’aveva. Non doveva essere ignota nemmeno la sua nomea da Mida all’inverso, ma davvero non c’era nessun altro.
Lo stesso Hitler lo accolse a Berlino dicendogli: «Sono spiacente che proprio a voi sia toccato un compito tanto ingrato».

Graziani, in quanto comandante in capo e autore dei bandi di chiamata alle armi, va ritenuto responsabile della fucilazione di ogni singolo renitente alla leva durante Salò. Fu uno dei più esecrandi protagonisti della guerra civile. Quel che aveva fatto ai partigiani senussiti in Libia e – con minori risultati – a quelli etiopi, cercò di farlo a quelli italiani. E’ più che evidente la continuità della sua condotta nelle diverse fasi della carriera. Pochi comandanti si sono trovati a dover reprimere le guerriglie di tre paesi diversi, una in fila all’altra.

Il 29 aprile 1945 Graziani si arrese agli Alleati, che lo fecero prigioniero e lo spedirono prima a Procida, poi in Algeria. Durante quella prima detenzione, scrisse tre memoriali auto-apologetici e auto-assolutori sul suo operato in colonia e nel corso dell’ultima guerra. Altri due li aveva scritti appena tornato dall’Etiopia, nella sua casa di Arcinazzo Romano. Sono testi zeppi di omissioni e panzane (tutte smontate dai documenti ufficiali scritti e firmati di suo pugno, come i dispacci inviati dall’Etiopia), ricostruzioni che – come ha scritto giustamente Del Boca – “lo coprono di ridicolo”.

Scontata la pena-lampo di cui si diceva, nel dopoguerra Graziani divenne presidente onorario del MSI, dove i più romantici lo consideravano una sorta di “zio eccentrico” e i più realisti una vecchia gloria un po’ patetica e molto d’intralcio, da lasciar parlare come si lasciano parlare i matti, senza prenderlo in considerazione per alcunché di pratico. Dopo due anni di omelie inascoltate, si ritirò a vita privata. Ecco come descrive quella fase un sito agiografico:

Nei primi giorni del gennaio del 1954 si svolse a Viareggio il IV congresso nazionale del M.S.I. ed il Maresciallo [...] inviò un suo messaggio che tracciava quella che sarebbe dovuta essere la linea politica generale da seguire e gli obiettivi su cui puntare al fine di rilanciare il movimento. «Purtroppo il nobile messaggio, a lungo studiato, che conteneva la sintesi della sua lunga esperienza, destò pochissima impressione fra i congressisti, preoccupati solo della imminente elezione per il comitato centrale del partito. In sintesi, Graziani indicava, come scopo supremo da conseguire, la profonda modifica della Costituzione ciellenista, la quale, con il suo regime di partiti, rendeva penosa e artificiosa la vita politica dell’Italia. Ma molti si trovavano ottimamente nel regime della partitocrazia che concedeva ad essi, come deputati e senatori, una condizione assolutamente eccezionale sia economicamente, sia giuridicamente, quali privilegiati posti al di sopra di ogni legge [...] Il Maresciallo, resosi conto dello stato d’animo del partito, così differente dal suo, si ritrasse dalla vita del movimento e, in generale, dalla vita cosiddetta politica».

Morì nel 1955, nel suo letto. In giro per l’Europa, molti come lui avevano trovato ben altra fine.

5. “Normalità” di Graziani

Va precisato che gli abusi appena descritti non furono soltanto eccessi personali. Non c’è capo militare italiano che in Africa non si sia macchiato di gravi crimini. Per molti versi Badoglio fu una figura anche peggiore, non a caso era in cima alla lista dei criminali di guerra italiani che l’Etiopia consegnò alle Nazioni Unite.
Il massimo responsabile politico e morale delle carneficine avvenute per mano fascista in Africa – e in Jugoslavia, Albania, Grecia e, dulcis in fundo, Italia – fu ovviamente Mussolini.
Con il suo boss, Graziani intratteneva un fitto scambio di telegrammi, leggendo i quali si vede come i due si «caricassero la molla» a vicenda, in una spirale di eccessi sempre più ubriaca di sangue. Ecco un telegramma di Mussolini a Graziani, datato 8 luglio 1936:

«Autorizzo ancora una volta V.E. a iniziare e a condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. Senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma».

Ed ecco un telegramma del ministro delle colonie Lessona al viceré, datato 12 settembre 1937:

«Il Duce raccomanda che, non appena avrai forze riunite sufficienti, tu agisca con la massima energia contro i ribelli usando ogni mezzo, ivi compresi i gas».

Repressioni e atrocità furono connaturate alla guerra fascista e derivarono in modo logico e ovvio dalla decisione di aggredire l’Etiopia. La guerra del 1935-36 fu un’impresa spregevole, imbevuta di odio razziale come s’imbeve d’acqua sporca un rotolo di carta igienica caduto nel water. Tutta la popolazione italiana fu martellata da una propaganda abietta. I bambini divennero il target di operazioni come Topolino in Abissinia, uno dei 78 giri più venduti del Ventennio. [ http://www.youtube.com/watch?v=f0gazWouG4o ]



Succede in Croazia

1) Governo revoca contratti dipendenti pubblici (17/9)
2) La Chiesa esige 35 milioni di euro (1/10)
3) Bob Dylan ricorda lo sterminio ustascia e la pulizia etnica di Krajine e Slavonia Occidentale (1/10)


=== 1 ===

Croazia, governo revoca contratti dipendenti pubblici

Dopo il fallimento dei negoziati con i sindacati, il governo croato ha oggi unilateralmente revocato il contratto collettivo del lavoro per circa 180 mila dipendenti pubblici, aprendo la strada a tagli e risparmi necessari per mantenere la stabilità delle finanze pubbliche e di conseguenza il rating creditizio del Paese. Lo ha riferito il governo presieduto dal socialdemocratico Zoran Milanovic in un comunicato diffuso oggi a Zagabria.
A un referendum sindacale conclusosi ieri, il 90 per cento dei lavoratori nel settore pubblico (insegnanti, docenti universitari, medici, personale ospedaliero, operatori culturali) ha respinto l'offerta del governo di mantenere i salari base e tutti i posti di lavoro, ma di rinunciare alla tredicesima e a una serie di vari altri benefici che avrebbero ridotto i le loro buste paga del circa 10-15 per cento. La proposta era stata invece accettata tre mesi fa dai sindacati dei dipendenti statali (polizia, esercito, dogana, amministrazione pubblica) ed è già in vigore.
La rinuncia unilaterale a un contratto di lavoro nel settore pubblico è inaudita, e fino ad oggi impensabile, in Croazia, ma il governo sostiene di non aver avuto alta scelta. In passato, se le parti sociali non avessero riuscito a giungere a un accordo, i vecchi contratti, seppur formalmente scaduti, restavano in vigore indefinitamente. A fine anno il governo tenterà di rinegoziare i contratti, e in caso di fallimento, come è stato annunciato, ridurrà gli stipendi per risparmiare circa 100 milioni di euro e chiudere l'anno senza manovre finanziarie.
Negli ultimi mesi il tenore di vita in Croazia ha visto una notevole flessione dopo l'aumento dell'Iva (dal 23 al 25 per cento), dell'elettricità e del gas (del 20 per cento) e dei prezzi della benzina. Ad agosto, l'inflazione su base annuale ha raggiunto il 5 per cento, la crescita più forte dal 2009. Ora si teme una altro ciclo di carovita dovuto alla crescita dei prezzi dei generi alimentari a causa della devastante siccità che quest'anno ha colpito l'agricoltura del Paese e dei costi del riscaldamento.

(fonte AnsaMed 17 settembre 2012)


=== 2 ===

La Chiesa esige 35 milioni dalla Croazia

Mauro Manzin
da Il Piccolo del 1 ottobre 2012

La Chiesa cattolica croata presenta il conto al governo di Zagabria. Un credito di 35 milioni di euro di cui ora chiede il saldo. E lo ha fatto in modo esplicito durante un incontro con il ministro delle Finanze Slavko Linic. Poche parole ma incisive: «La Chiesa vanta un debito nei confronti dello Stato croato, vogliamo i nostri 35 milioni di euro». Il contenzioso risale agli inizi dello scorso decennio a causa di alcune interpretazioni discordanti tra le parti relativamente ai finanziamenti dello Stato croato alla Chiesa. Alla fine la Croazia ha riconosciuto l’esistenza del debito a favore della Chiesa e questa ha rinunciato agli interessi di mora.
La soluzione definitiva del problema si è trascinata per anni, ma ora le autorità ecclesiali hanno presentato il conto. Perché proprio adesso Kaptol (la collina su cui sorge la cattedrale di Zagabria) chiede la liquidazione del debito? La crisi economica è globale e quindi tocca anche le finanze della Chiesa in Croazia. La quale, peraltro, deve sopportare le spese milionarie accese per la ristrutturazione della sede dell’arcidiocesi della capitale, spese che sono state oggetto di pesanti critiche da parte degli stessi fedeli di Santa romana ecclesia del Paese ex jugoslavo, e poi ci sono da ripianare i conti relativi alla recente visita di Papa Benedetto XVI in Croazia. Ma c’è di più.
Il prossimo mese di novembre il premier croato Zoran Milanovic (centrosinistra) sarà ricevuto in udienza dal Pontefice a Roma ed è chiaro che presentarsi al Santo Padre, o meglio, al segretario di Stato cardinale Tarciso Bertone, senza aver prima staccato l’assegno a favore dell’arcidiocesi di Zagabria, sarebbe alquanto imbarazzante. Il governo, come era da aspettarsi, ha espresso la volontà di ripagare il proprio debito e le modalità del pagamento saranno discusse in una prossima riunione tra le parti. Il ministro Linic e il capo della tesoreria di Stato, Miljenko Ficor hanno però spiegato al presidente della Conferenza episcopale croata, monsignor Marin Srakic e al cardinale Josip Božanic che la situazione delle casse dello Stato croato è tragica. In effetti la Chiesa dal 2009 a oggi, sempre a causa della crisi, ha rinunciato a 7 milioni di euro all’anno sui 43 milioni che lo Stato sempre annualmente deve versare nelle casse ecclesiali in base agli accordi vigenti tra Stato croato e Chiesa (leggi Vaticano). Un altro tema scottante, questo, che sarà sul tavolo della discussione tra Milanovic e Bertone. Un tavolo che vedrà quale convitato di pietra la questione del monastero di Daila in Istria.
 

=== 3 ===

Zagabria offesa “scomunica” Bob Dylan

Stefano Giantin
da Il Piccolo del 1 ottobre 2012

Saranno state forse parole poco ponderate, trasportate come da un soffio di vento a migliaia di chilometri di distanza. Sono volate rapidamente sopra l’Oceano, dagli Usa alla Croazia, aprendo un “casus belli” che sta facendo discutere. Il “colpevole”, uno dei più grandi cantautori americani, Bob Dylan. La “vittima”, un’intera nazione, la Croazia. 
La vicenda prende il via con l’uscita nelle edicole, il 27 settembre, dell’edizione Usa del mensile “Rolling Stone”, la bibbia della musica americana. In copertina, un primo piano di Dylan. Una foto che annuncia un’intervista esclusiva, in cui il cantante parla di tutto, a ruota libera. Riferimenti all’ultimo disco, “Tempest”, elucubrazioni sul potere delle note, espressioni di rimpianto per «i più semplici» anni Cinquanta, l’amore fraterno per Bruce Springsteen. E poi, da pagina 48, l’inizio di una tortuosa divagazione storica. 
Dylan parte dalla Guerra civile, «quattro anni di saccheggi e omicidi alla maniera americana», per arrivare al tema della schiavitù, che ancora oggi avrebbe un’influenza pesante sulla società Usa. C’è ancora gente che si odia «per il differente colore della pelle», spiega il cantante. Che sale poi di tono. «I neri – si legge nell’intervista – sanno che alcuni bianchi non avrebbero voluto abbandonare la schiavitù». «Se uno ha del sangue schiavista o del Ku Klux Klan, i neri lo sentono», ha poi assicurato Dylan. Come i neri, anche gli «ebrei percepiscono il sangue nazista», ha aggiunto il cantante. 
Ma non è solo un fatto circoscritto a neri ed ebrei. Pure «i serbi possono avvertire il sangue croato», ha assicurato Dylan, senza specificare a che cosa esattamente si riferisse, se ai crimini compiuti dal regime ustascia o ad altri fatti. Comunque possa venir letto il paragone tra croati, nazisti e Ku Klux Klan, il Paese balcanico non l’ha presa bene. Il famoso cantante croato Miso Kovac si è chiesto perché Dylan «deve filosofeggiare su fatti che non conosce». «Non sei una leggenda, Elvis Presley lo era», lo ha poi attaccato. 
Radio Split ha invece replicato all’infelice uscita del cantautore cancellando dalla sua programmazione il singolo “Duquesne Whistle”, come ha annunciato la stampa nazionale. Per ora, da Oltreoceano, Dylan non ha reagito alla protesta registrata in Croazia. Ma di certo, se non arriveranno le scuse, difficile aspettarsi un bis del grande concerto di Bob a Zagabria, due anni fa.
 



Nobel un corno

Nell'articolo che segue, Vladimiro Giacché giustamente stigmatizza la paradossale assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2012 alla Unione Europea (sic). Premio che, peraltro, negli ultimi anni è stato assegnato a cani e porci ed è pertanto oramai del tutto screditato. 
Va aggiunto a quanto scrive Giacché che la responsabilità europea nello sfascio e nella carneficina jugoslava è proprio alla radice della vicenda, ed è ancora più grave: 
<< "L’accordo di Maastricht viene siglato pochi giorni prima che la Germania, violando le regole del gioco, imponga ai suoi partner il riconoscimento accelerato di Slovenia e Croazia. (...) La riunione decisiva si svolge a Bruxelles nella notte del 13 dicembre 1991, cioè due giorni dopo la firma del Trattato. Genscher annuncia che la Germania riconoscerà in ogni caso entro Natale Slovenia e Croazia, come annunciato pubblicamente da Kohl qualche giorno prima. Avendo partecipato a quella riunione, ricordo che la mia impressione è che francesi e tedeschi siano d’accordo a essere in disaccordo. Genscher e Dumas fanno il gioco delle parti, ma in realtà i francesi non hanno nessuna intenzione di bloccare i tedeschi. Devono mantenere una posizione di facciata (...) Van den Broek, presidente di turno, e io a nome dell’Italia cerchiamo di rabberciare una posizione comune, per evitare che l’Europa alla prima grande prova si spacchi. E ci riusciamo (...) rinviando di quattro settimane il riconoscimento europeo di Slovenia e Croazia (...) Che cosa sarebbe successo infatti, in caso di disaccordo? La Germania, il Belgio, la Danimarca e forse l’Italia avrebbero riconosciuto le due repubbliche, mentre gli altri sarebbero rimasti alla finestra, sancendo una spaccatura verticale fra i Dodici e permettendo alle varie parti ex jugoslave di giocarci gli uni contro gli altri. Maastricht sarebbe morto a due giorni dalla nascita." (Gianni De Michelis, La vera storia di Maastricht, in Limes n.3/1996). Il documento UE numero 1342, seconda parte, del 6/11/1992 indica al di là di ogni dubbio che a Maastricht l'unità europea era stata raggiunta proprio a scapito della Jugoslavia >>, in base al ricatto tedesco. 
Detto in maniera ancora più chiara: la Germania esplicitamente impose a Maastricht il riconoscimento della "indipendenza" slovena e croata come condizione per la sua rinuncia al marco ovvero per la trasformazione del marco tedesco in moneta unica continentale. 

(a cura di Andrea Martocchia. Sul tema di UE e Jugoslavia si rilegga anche l'intero articolo:
Nessuna Europa senza la Jugoslavia - articolo apparso su Marx21 / L'Ernesto n.3-4/2011

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Un premio per l’Unione che dimentica l’ex-Jugoslavia

Pubblicato da: Vladimiro Giacchè il 12 ottobre 2012 alle 01:52


Qualcuno, leggendo le notizie di agenzia sull’assegnazione del Premio Nobel per la Pace, deve aver pensato a un pesce d’aprile fuori stagione. Ma la notizia era vera: quest’anno il Premio Nobel per la Pace è stato assegnato all’Unione Europea.

Con questa motivazione: il ruolo giocato per oltre 6 decenni per la pace e la riconciliazione in Europa tra paesi che avevano combattuto le più sanguinose guerre tra loro. I più critici lo interpreteranno come un premio alla memoria, visto lo stato di progressiva disgregazione dell’Unione, a cominciare dall’Eurozona. Più probabilmente, si tratta di un premio d’incoraggiamento, viste le tensioni crescenti tra paesi europei. Come dire: cercatevi di comportarvi bene anche in futuro. Certo che parlare oggi di “fraternità tra le nazioni” a proposito dell’Unione Europea suona un po’ ironico.

Inteso come premio d’incoraggiamento, quello di quest’anno si porrebbe in continuità con il Nobel per la Pace attribuito anni fa – nella sorpresa generale – a Barack Obama. In quel caso, però, non funzionò molto bene: infatti il presidente degli Stati Uniti pochi mesi dopo l’assegnazione del premio pensò bene di raddoppiare gli effettivi dell’esercito statunitense in Afghanistan.

Ma al di là delle intenzioni c’è qualcos’altro, in questo premio, che lascia perplessi. Qualcosa che ha a che fare sia con la storia che con la geografia. In effetti, è difficile dimenticare le guerre sanguinose che hanno devastato negli anni Novanta la ex-Jugoslavia, paese – salvo errore – a tutti gli effetti europeo. E il fatto che l’Unione Europea giocò un ruolo tutt’altro che positivo in quella vicenda. Prima, col riconoscimento tedesco dell’autonomia della Croazia, che diede un contributo decisivo alla disgregazione della Jugoslavia e all’esplosione della polveriera balcanica. Poi, con le ripetute divisioni tra paesi europei nel corso delle trattative di pace (vedi Rambouillet). Infine, con i bombardamenti NATO (perdipiù in assenza di autorizzazione Onu), effettuati soprattutto su obiettivi civili, a Belgrado e in altre città.

Di tutto questo, nelle motivazioni del premio, ovviamente non c’è traccia.

Si salutano invece come aspetti positivi la prossima ammissione della Croazia nell’Unione, l’apertura di negoziati col Montenegro, e la concessione dello status di candidata all’ammissione per la Serbia, ritenendo che tutto ciò “rafforzi il processo di riconciliazione nei Balcani”. Processo che a dire il vero, sinora, in Kosovo e altrove, ben difficilmente può essere considerato un caso di successo. Ma a Oslo, evidentemente, la pensano in modo diverso.