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*** sul NO al rifinanziamento delle missioni di guerra si vedano
anche gli appelli a sostegno dei senatori "ribelli", al sito:

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=53&did=392 ***


http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=10165

Partito Rifondazione Comunista:
CPN del 17 giugno - Intervento di ANDREA CATONE


La scadenza di fine giugno pone il PRC – per la prima volta
organicamente in un governo di coalizione - di fronte alla questione
del rifinanziamento delle missioni italiane all’estero nei principali
teatri di guerra. Queste sono parte di un problema più ampio: quello
della definizione delle linee fondamentali della politica estera del
governo italiano, in particolare nei suoi rapporti con la
superpotenza USA, la quale, nella fase attuale di crisi e
rimodulazione degli assetti mondiali, è, per ragioni economiche (a
causa dell’enorme indebitamento USA, il dollaro si sostiene come
valuta mondiale solo grazie alla proiezione politico-militare
statunitense, mirante a contenere la concorrenza della altre aree
valutarie, in particolare l’euro) e ideologiche (la “missione
americana” nel mondo) il fattore principale dello scatenamento di
guerre imperialistiche.

La valutazione dell’impiego delle missioni militari italiane nel
mondo va fatta anche alla luce di questo particolare ruolo aggressivo
della più imponente superpotenza militare di tutti i tempi, che
produce guerra nel duplice senso che la spesa pubblica militare è uno
dei principali volani dell’economia USA e che questi possono
mantenere il primato del dollaro solo grazie alle guerre.

Per quanto riguarda la più recente di queste guerre, quella contro
l’Iraq, cominciata nel 2003 e non ancora terminata - grazie alla
tenace resistenza, politica e militare, degli “insurgents” (come lo
stesso Bush li chiama) contro l’occupazione anglo-americana e i suoi
governi-fantoccio - va salutato come un successo significativo dei
movimenti contro la guerra, della sinistra di alternativa e del PRC
l’annunciato ritiro dell’intero contingente militare italiano entro
tempi brevi (anche se meno brevi di quelli che avremmo auspicato e
con un percorso meno lineare e diretto di quello della Spagna di
Zapatero) e definiti (sulla cui effettiva attuazione occorrerà però
mantenere un alto livello di attenzione e mobilitazione per
scongiurare qualsiasi manovra dilatoria).

Il successo ottenuto col ritiro dall’avventura irachena è stato anche
favorito e reso possibile - oltre che dalle mobilitazioni di massa e
dalla grande attenzione che i media sono stati costretti a
concentrare sul teatro iracheno dall’attività crescente della
guerriglia che ha colpito pesantemente gli eserciti occupanti, in
primis gli USA, ma anche inglesi e italiani - dal contrasto, per la
prima volta apparso in modo palese ed esplicito, tra le principali
potenze dell’area UE (Francia e Germania) e gli USA. È stato più
facile presentare all’interno dell’Unione la guerra irachena come
estranea – se non contrapposta - agli interessi europei e il ritiro
da essa come un ritorno dell’Italia nel seno dell’Europa, da cui la
politica filo-Bush del governo Berlusconi l’aveva allontanata.
Infatti, al centro della politica estera italiana tracciata nel
programma dell’Unione viene posto, con grande enfasi e
sottolineature, il rapporto organico con la UE e il rilancio di
quest’ultima.

Ma i militari italiani sono impegnati altresì in buon numero in
Afghanistan. Questa missione militare NON è, come si vuol far
credere, sotto l’egida dell’ONU, ma è una missione NATO sotto il
comando diretto degli USA. Infatti (cfr. il recente articolo di
Manlio Dinucci sul Manifesto del 13 giugno 2006), «l'11 agosto 2003,
la Nato annuncia di aver “assunto il ruolo di leadership dell'Isaf,
forza con mandato Onu”. E' un vero e proprio colpo di mano: nessuna
risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere
il comando dell'Isaf. Nella risoluzione del 13 ottobre 2003, che
autorizza l'Isaf a operare “in aree esterne a Kabul e dintorni”, e
nelle successive, la Nato non viene mai nominata. Eppure a guidare la
missione, da questo momento, non è più l'Onu ma la Nato: il quartier
generale Isaf viene inserito nella catena di comando della Nato, che
sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell'Isaf. E
poiché il “comandante supremo alleato” è (per diritto ereditario)
sempre un generale Usa, la missione Isaf viene di fatto inserita
nella catena di comando del Pentagono». NON è dunque una missione di
pacificazione o di interposizione tra fazioni in lotta, ma si tratta
dell’occupazione militare dell’Afghanistan operata da USA e Gran
Bretagna alla fine del 2001 e preparata ben prima del fatidico
attentato dell’11 settembre alle “2 torri”, che è servito da ottima
giustificazione per l’invasione di un paese collocato strategicamente
nel cuore dell’Eurasia, tra Russia, India e Cina, Iran, dove non
erano mai giunte truppe USA e che ora pullula di basi americane che
minacciano da vicino il paese che Samuel Huntington indicava già 10
anni fa nel suo “Scontro di civiltà” come il nemico strategico: la Cina.

La presenza di militari italiani sotto comando USA in un teatro di
guerra per sostenere militarmente un governo filoUSA è un’azione di
guerra contraria alla costituzione italiana. Sostanzialmente non è
diversa dalla presenza militare italiana in Iraq: funge da supporto
alla politica aggressiva degli USA (che usano il terrorismo come
passepartout per le loro guerre) ed è un presupposto per nuove
avventure militari.

Qui, tuttavia, a differenza che in Iraq, USA ed UE agiscono
apparentemente di comune accordo e anche Zapatero invia le sue
truppe. Ma, anche qui, gli interessi delle potenze europee in
Afghanistan e in Eurasia sono concorrenti con quelli degli USA: gli
europei cercano di ritagliarsi, con la presenza militare e gli
investimenti per la “ricostruzione civile”, un loro spazio di
penetrazione. È del tutto evidente, perciò, che all’interno
dell’Unione, che ha nel suo leader Prodi uno dei maggiori esponenti
della borghesia europeista, la battaglia per il ritiro
dall’Afghanistan sarà molto più dura.

Ma qui la posta in gioco è altissima. Infatti, la questione della
pace e della guerra, a differenza di altre di carattere economico-
sociale, su cui si può trattare sulla base dei rapporti di forza (ad
es. entità e modalità della manovra economica, tempi e modi di
attuazione di una nuova scala mobile), inerisce alla natura stessa,
all’identità di un partito comunista. Il comunismo novecentesco nasce
nel 1914 rompendo con le socialdemocrazie che votarono i crediti
della guerra imperialista: tra i primi atti del governo bolscevico
nato dalla rivoluzione di ottobre 1917 è la stipula immediata della
pace con la Germania. Questa grande eredità del comunismo
novecentesco rimane - mi auguro - patrimonio condiviso di tutto il
partito, della “sinistra alternativa”, dei movimenti contro la
guerra. E ciò è ancora più rilevante oggi, nell’epoca del capitale
globale. La lotta contro la guerra imperialista è strategica,
fondamentale, imprescindibile.

Su questa questione il partito tutto deve riprendere con forza la
mobilitazione e i compagni che sono nel parlamento e nelle
istituzioni devono battersi per il ritiro dall’Afghanistan agendo
conseguentemente in tutte le sedi istituzionali e politiche. Il
messaggio che va mandato agli alleati della coalizione è che su
questa questione non sono possibili escamotage, tatticismi o
aggiustamenti di facciata, ma solo un effettivo e radicale mutamento
della politica estera italiana, che va riportata alla sostanza
dell’articolo 11 della Costituzione. Solo su questa base si può
trattare, costruendo lo schieramento più ampio di forze contrarie
all’avventura militare in Afghanistan (e che in parlamento votarono,
come del resto il PRC, contro il suo finanziamento), per definire
modalità e tempi certi e brevi del completo ritiro delle truppe
italiane.

Se vogliamo effettivamente ritornare alla sostanza dell’articolo 11
della Costituzione bisogna sviluppare anche un’azione culturale di
critica della guerra in netta contrapposizione con le posizioni
predominanti nel futuro “partito democratico”, sostenitore della tesi
che la guerra contro l’Iraq del 2003 è sbagliata perché decisa
unilateralmente dagli USA, mentre, come si può leggere tra le righe
del programma dell’Unione (cfr. pp. 97-102), gli interventi militari
multilaterali avallati da organismi sopranazionali – tra cui si
elenca non solo l’ONU, ma anche la UE e la NATO -, sarebbero
legittimi, di “polizia internazionale” (cfr. p. 98), cui il programma
auspica che l’Italia dia un consistente apporto. È con questo tipo di
discorso che si giustifica il mantenimento e l’ampliamento della
missione in Afghanistan.

È sulla base di questo discorso, sostenuto dalla più complessa
costruzione ideologica della “guerra umanitaria”, che si promosse
l’aggressione militare della primavera 1999 contro la Jugoslavia,
rispetto alla quale né il presidente del consiglio Prodi, né
l’attuale ministro degli esteri, e nel ’99 presidente del consiglio,
Massimo d’Alema, hanno manifestato la sia pur minima autocritica,
rivendicando anzi con pervicacia la giustezza di quella devastante
guerra.

Sulle cui conseguenze vi è un colpevole silenzio e disattenzione
anche da parte della sinistra alternativa. In particolare – salvo
qualche eccezione - sulla situazione in Kosovo si tace: eppure si
tratta della vita di centinaia di migliaia di persone che subiscono
oggi condizioni infami. Alla presenza delle forze militari della KFOR
(prevalentemente paesi NATO) e dell’UNMIK, il Kosovo sotto
protettorato ONU si è trasformato in una gabbia a cielo aperto per le
poche decine di migliaia di serbi e rom rimasti. Oltre 300.000 hanno
dovuto abbandonare, sotto la violenza del nazionalismo estremista
albanese espresso dall’UCK, la terra che abitavano. I serbi sono
costretti a vivere in condizioni di estrema insicurezza, sono
continuamente oggetto di attacchi e violenze, sono discriminati
nell’accesso al lavoro e alle cure mediche, sono privati dell’uso
della propria lingua negli uffici pubblici, nei tribunali, nelle
istituzioni. Il pogrom antiserbo del marzo 2004 ha provocato decine
di morti e migliaia di feriti, costretto alla fuga altre migliaia di
serbi, bruciato e saccheggiato le loro case e i luoghi della memoria
e della cultura come i preziosi monasteri medievali. Dove sono finiti
i difensori dei “diritti umani”?

In violazione della risoluzione 1244/99 dell’ONU, le potenze che nel
1999 scatenarono la guerra contro la Jugoslavia (e tra esse ebbe un
ruolo decisivo il nostro paese allora guidato dal governo D’Alema),
si apprestano a dare origine ad un nuovo microstato etnicamente puro.
La formalizzazione internazionale dell’indipendenza del Kosovo
significherà con ogni probabilità l’espulsione massiccia di tutti i
serbi rimasti: l’Onu, in previsione di ciò che potrebbe accadere non
appena tagliato definitivamente il cordone ombelicale che lega il
Kosovo alla Serbia ha già preparato un piano di evacuazione per
70.000 persone. L’ulteriore spezzettamento di quella che fu la
Jugoslavia – con la recentissima secessione del Montenegro e
l’annunciata formazione di uno stato monoetnico del Kosovo - non
favorisce i processi di pace.

Il PRC che – unico sulla scena italiana – si oppose alla “guerra
umanitaria” del 1999, non può oggi chiudere gli occhi sulla
drammatica situazione dei Balcani. Vanno avviate campagne di
sensibilizzazione di massa sul silenzioso etnocidio in corso in
Kosovo e, attraverso i nostri rappresentanti nelle istituzioni – in
particolare nel parlamento e governo nazionali e nelle regioni – va
sviluppata una politica che contrasti ulteriori processi di
frantumazione della ex Jugoslavia e tuteli i diritti delle minoranze
del Kosovo a ritornare nella loro terra e a vivere una vita dignitosa
e sicura in una regione effettivamente multietnica.

http://www.resistenze.org/sito/te/po/se/pose6f18.htm
www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 18-06-06

Giugno 2006 : Cronache di ordinaria violenza nel Kosovo degli
“standard europei”raggiunti.



Questo è il resoconto di una normale giornata ( intesa come eventi
quotidiani), verificatasi in quella regione, per la cui “liberazione“
e “democratizzazione”, la Repubblica Federale jugoslava fu bombardata
e aggredita per 78 giorni dai civilizzatori occidentali.
A sette anni da allora, questa è la situazione sul campo
quotidianamente.


Dal 7 giugno ero in Serbia nell’ambito dei Progetti di solidarietà
della nostra Associazione SOS Yugoslavia, nello specifico per il
Progetto SOS Kosovo Metohija; insieme alla delegazione del Sindacato
Samostalni della Zastava di Kragujevac (Rajka, Milja, Delke, Rajko,
Jasmina, Dragan), dopo un'attesa e rinvii vari durati un mese e
mezzo, avevamo finalmente avuto la conferma della scorta militare
della Kfor, per recarci nell’enclave di Gorazdevac, con un camion di
aiuti specifici, raccolti mediante i contributi avuti da tutta Italia
e comprati in Serbia, in seguito all’appello ricevuto dalla comunità
dell’enclave.

Il 7 giugno ci dicono che la scorta era rinviata, ma che nel
pomeriggio ci sarebbe stata ridata; dopo aver passato il
“confine” (come se per andare in Alto Adige o Valle d’Aosta, un
cittadino italiano dovesse chiedere il permesso e superare controlli
minuziosi, esibendo documenti e passaporti vari); mentre eravamo a
Kosovska Mitrovica (nella parte serba, a nord del fiume Ibar, dove vi
è ancora asserragliata, la più consistente concentrazione della
popolazione serba del Kosmet, alcune decine di migliaia di abitanti),
al mattino cominciano a giungere notizie di incidenti e dimostrazioni
di separatisti albanesi in alcune zone della regione, mano a mano che
passa il tempo le notizie si accavallano e cresce anche la percezione
che la tensione stia aumentando anche intorno a noi; insieme con il
nostro referente Ilija Spiric presidente dell’Associazione Sclerosi
Multipla del Kosmet e nostro referente per i Progetti in comune, mi
reco al quartier generale delle forze internazionali di K. Mitrovica
(Kfor, Unmik e OSCE, oltre al presidio della Polizia serba del
Kosovo), qui incontriamo prima un responsabile Kfor che ci aggiorna
sulla situazione di crescente tensione nell’area, poi un funzionario
dell’Unmik ci spiega che la situazione è molto delicata, perché la
stessa loro missione è ormai obiettivo quotidiano di attacchi e
pressioni, invitandoci a desistere; nel frattempo il responsabile
della polizia serba, un ufficiale corretto e assolutamente
disponibile a cercare una soluzione, ci aggiorna sulla situazione
definendola di ora in ora sempre più difficile, invitandoci ad
aspettare le tre del pomeriggio per capire se qualcosa si modifica
sul campo.

Di fatto la situazione era questa, come ci è stata spiegata negli
incontri: il movimento per l’indipendenza del Kosovo: “Vetevendosja,
autodeterminazione” che fa capo a Albin Kurti, di cui fanno parte i
veterani dell’UCK, aveva indetto a partire dall’8 giugno, una serie
di dimostrazioni, aprendo di fatto la campagna “politica” del
processo secessionista (quella militare dura dal 1999…), su due
questioni centrali: una quella dell’accelerazione senza trattative
del processo immediato di indipendenza e l’altra la cacciata della
missione Unmik, e il ridimensionamento del ruolo della Kfor, sotto la
direzione della dirigenza separatista albanese.

In questa ottica, la giornata dell’8 giugno è andata oltre lo
stillicidio delle violenze quotidiane contro i serbi e negli ultimi
mesi, sempre più anche contro la presenza ONU; di fatto è cominciato
un piano preparato a tavolino di dimostrazione di forza, con
tentativi di assalti a enclavi e assedio delle stesse; attacchi a
mezzi ONU e alla popolazione civile serba nel territorio; improvvisi
blocchi di strade provinciali e pestaggi di serbi se individuati come
tali; assaltato l’ufficio di Pristina della legazione Unmik con
conseguente assedio degli stessi uffici, di militanti secessionisti
accampati con tende che impediscono di entrare e uscire dagli stessi;
scontri con civili serbi che hanno reagito alle violenze e
intimidazioni; posti di blocco illegali con tende ai lati delle
strade provinciali.

In questa situazione arriviamo al tardo pomeriggio, dove ci dicono
che l’autobus con le effigi delle Nazioni Unite, quello a cui avremmo
dovuto accodarci come convoglio, che ogni giovedì porta i civili
serbi a fare compere dei beni di assoluta necessità a Mitrovica da
alcune enclavi, era stato attaccato a Rudnik da un gruppo di albanesi
che dopo avergli teso un imboscata, l’hanno assaltato e distrutto con
spranghe, bastoni e pietre (da rilevare che questi bus hanno vetri
antisfondamento, perché continuamente attaccati), terrorizzando i 50
passeggeri, tra cui molte donne e bambini, dileguandosi poi
all’arrivo delle forze Kfor. L’autista D. Perunicic ha raccontato che
l’attacco è avvenuto approfittando del fatto che negli ultimi mesi le
scorte Kfor sono collocate non vicino ai mezzi, ma in punti del
percorso, per dimostrare che la situazione si sta “normalizzando”;
egli ha detto che solo nel mese scorso, era stato attaccato due
volte: il 2 e il 12 maggio, per questo era stata rimessa la scorta,
ma l’8 giugno nuovamente era stata levata, con questi risultati; ha
anche detto che stavolta la violenza dell’assalto era stata molto
alta e determinata.

La KPS (Corpo di Protezione del Kosovo, di fatto una polizia locale,
tranne che nelle enclavi, interamente albanesi) è giunta sul posto
solo due ore dopo i fatti. Frattanto dall’enclave di Gorazdevac, dove
tutta la comunità era in attesa per la distribuzione degli aiuti e
per un momento di festa fraterna e solidale (per loro, soprattutto
per i bambini e ragazzi, un evento rarissimo), ci viene chiesto con
il cuore in mano di cercare di andare in qualsiasi modo, che essi ci
aspettano e ci ospiteranno a qualsiasi costo; lo sconcerto e la
tensione, insieme ad un senso di impotenza, crescono in noi di minuto
in minuto. Dagli uffici intanto le notizie che ci danno sono che gli
assalti all’enclave sono stati respinti, ma tutte le aree intorno
alle enclavi sono presidiate dalle forze militari perché la tensione
è altissima, ed è evidente che la giornata è pianificata dalla
dirigenza separatista e che è un piano a scacchiera, come ci spiega
un funzionario serbo, per cui in qualsiasi parte può scatenarsi una
conflittualità improvvisa.

Le ore di tensione crescente non hanno scalfito la nostra volontà e
determinazione di cercare di provare ad andare, alle 5 del pomeriggio
in un clima del nostro furgone, decisamente pesante e cupo per la
situazione, avviene un ennesima consultazione tra di noi per prendere
una decisione non certo facile o leggera, decidiamo (un solo voto
contrario) di tentare l’ultima possibilità, quella di accodarci ad un
altro autobus che alle 6 di sera partiva da Mitrovica o di lasciare
il nostro furgone e salire sull’autobus; consultiamo ancora il
responsabile della polizia serba, che in modo fraterno ma deciso ci
“consiglia” fermamente di non muoverci da dove siamo e di tornare
indietro; il rischio più probabile è quello di restare accerchiati in
aree di tensione e di violenza, in balia di chiunque, e ci dichiara
che non potrebbe fare nulla per salvarci o proteggerci neanche
volesse, in quanto loro non possono oltrepassare il ponte sul fiume
Ibar, che divide il nord dal territorio controllato dagli albanesi,
per cui lui da militare ci ribadisce che la sicurezza delle nostre
vite è in gioco. Ci comunica inoltre che si stanno facendo convergere
su Mitrovica altre truppe e mezzi militari, perché la situazione di
tensione sta crescendo e si preannunciano scenari di conflittualità
crescente, gli stessi palazzi della parte nord di Mitrovica dove
vivono famiglie albanesi, vengono presidiati da mezzi della Kfor per
evitare incidenti, anche perché il timore è che lo strano silenzio
che regna nella parte sud della città (solitamente un punto caldo
delle tensioni nel Kosovo), non lascia tranquilli e si teme che da un
momento all’altro scoppino incidenti. Intorno a noi comincia un via
vai di jeep, mezzi militari, dall’altra parte del fiume dove sono
stanziati carri armati e blindati militari della Kfor, si notano
movimenti, la stessa popolazione di Mitrovica, essendo abituata ad
uno stato di mobilitazione permanente, si muove con più fretta e
rapidità verso le proprie case, ma anche pronta a mobilitarsi in
pochi minuti, come sempre è successo finora, se dalla parte sud ci
sono segnali di attacchi; si preannunciano altri giorni duri per i
serbo kosovari e le altre minoranze che sono con loro, tra cui il
popolo rom.

Dopo l’ultimo colloquio con l’ufficiale serbo, in un silenzio
surreale e carico di sconforto, guardandoci negli occhi, perlopiù
colmi di lacrime represse e rabbia, decidiamo ciò che la situazione
ha di fatto deciso: si torna indietro, non c’è altra realistica e
sensata possibilità, siamo tutti d’accordo. Ora il momento più
difficile è comunicare all’enclave che non andiamo, come dire loro…
siete soli, ancora una volta, ma non ci sono altre possibilità
realistiche. L’unica notizia positiva è che il camion della Croce
Rossa Serba con i nostri aiuti, è riuscito nella notte, prima che
cominciassero le violenze, a raggiungere l’enclave, per cui la gran
parte degli aiuti ha raggiunto la comunità. Dopo la telefonata ai
nostri amici e fratelli di Gorazdevac, un senso di sconfitta, di
amarezza, di tristezza infinita ci avvolgono, il silenzio pesante
come un macigno cala nel furgone; mentre andiamo verso nord, lungo la
strada, incrociamo mezzi militari, ambulanze, truppe che si dirigono
verso quella terra martoriata che è il Kosovo di oggi, violentata da
interessi stranieri e da forze criminali che si sono messe al loro
servizio.

Ancora lo scorso mese, Soeren Jessen-Petersen, rappresentante
dell’ONU in Kosovo (dimissionario dal 12 giugno), aveva dichiarato
insieme ad altri esponenti internazionali occidentali, che la
situazione nella regione stava progredendo e che si stavano
raggiungendo i requisiti (di democrazia e libertà civili) per avere i
cosiddetti Standard minimi di democrazia richiesti dalla Comunità
Internazionale. Io penso che per rendere l’idea di qual è la
situazione reale in Kosovo sia sufficiente scorrere gli avvenimenti
degli ultimi mesi, partendo dal dato che tutta la popolazione serba
vive in veri e propri ghetti in una condizione di apartheid, come
documentato nel Video “Kosovo 2005, viaggio nell’apartheid” prodotto
dall’Associazione SOS Yugoslavia.

Ma ecco come si svolge la vita quotidiana nel Kosovo Methoija di oggi:


10-06-2006: Dragas, oltre 25 albanesi appartenenti alla polizia del
Kosovo (KPS) hanno attaccato e distrutto la casa del Presidente di
Iniziativa Civica dei Gorani (minoranza slava musulmana) D. Cemir,
che vive rifugiato a Belgrado.

8-06-06: il commissario della polizia dell’Unmik K. Vittrup, ha
annunciato oggi il rafforzamento delle forze militari nel nord del
Kosovo abitato dai serbi (oltre 500 uomini della polizia
internazionale e altri del KPS), a causa di un continuo aumento di
episodi di violenza nella zona.

8-06-06: Staro Gracko, scoperta mina collocata dentro il cimitero
ortodosso del villaggio. Disattivata dalla Kfor senza esplosione.

4-06-06: Priluzje, assassinata una donna serba da sconosciuti.


31-05-06: secondo un documento riservato dell’ONU datato 1 aprile,
venuto in possesso di giornalisti a Belgrado, le agenzie delle
Nazioni Unite hanno già predisposto un piano di evacuazione per
l’esodo di altri 70.000 serbi kosovari, che si stima scapperanno nei
prossimi mesi, alla proclamazione dell’indipendenza.

30-05-06: minato il ponte che unisce i due villaggi di Grabac e Bica,
dove vivono circa 300 serbi; l’esplosione ha gravemente danneggiato
ma non distrutto completamente il ponte.

28-05-06: Zvecan, assassinato in serata, un uomo serbo da tre
sconosciuti mentre camminava. L’uccisione rivendicata dall’ANA
(Armata Nazionale Albanese).

25-05-2006: Mala Krusa, Prizren, la polizia dell’Unmik ha dovuto
usare i gas lacrimogeni per disperdere un gruppo di albanesi che ha
cercato di fermare e lanciava pietre contro un convoglio di serbi che
si spostavano dall’enclave. Feriti alcuni poliziotti ONU e
danneggiati due bus ONU.

23-5-06: i leader della comunità serba ancora presente in Kosovo,
hanno dichiarato lo “stato di emergenza” in tutte le enclavi, dato
l’intensificarsi delle violenze contro i civili da parte dei
separatisti albanesi.
18-05-06: Kosovska Mitrovica, scontri tra serbi e albanesi nel
quartiere di Bosnjaka Mahala, dopo che un albanese aveva sparato
colpi di pistola contro un poliziotto serbo in servizio di sicurezza
locale. L’autore della sparatoria, Bastri Hajdari è già noto come
appartenente all’ex UCK, e già più volte arrestato per episodi di
violenza e aggressioni, in questi anni. In seguito agli scontri
decine di persone sono state fermate.

11-05-06: K. Mitrovica, due ragazzi serbi di 19 e 21, sono stati anni
assassinati alle tre della notte ad un distributore di benzina, non è
stato rubato o rapinato nulla, quindi l’obiettivo era di colpire i
due ragazzi.

10-05-06: Podujevo, attaccata e devastata la chiesa ortodossa di S.
Elijah, nel 2004 era stata distrutta dai separatisti e si stavano
facendo dei lavori per ricostruirla; gli assalitori dopo aver
sfondato il portone hanno devastato l’interno ricostruito e tutte la
finestre.

9-05-06: Rudnik, attaccato e distrutti i vetri dell’autobus che
trasportava a Mitrovica per le visite mediche e l’approvigionamento
alimentare settimanale, gli abitanti dell’enclave serba di Osojane,
circa 60 persone tra cui molte donne e bambini.

8-05-06: Bica, rubato un trattore e distrutte le apparecchiature per
la fornitura dell’energia elettrica alle case.

7-05-06: Suvi Lukavac, nella notte uccisi i cani da guardia
dell’enclave e poi la notte seguente rubati alcuni trattori.
6-05-06: Rudare, due sconosciuti che bloccavano la strada con una
Golf nera senza targa, hanno sparato colpi di fucile contro la
macchina della Diocesi Ortodossa della regione, con sopra Padre
Srdjan, che tornava da una visita all’enclave; alcuni proiettili sono
rimasti conficcati nella vettura.Il padre è riuscito a scappare.
5-05-06: Pristina, nove poliziotti dell’Unmik feriti durante scontri
alla manifestazione indetta per l’indipendenza del Kosovo, mentre
cercavano di assaltare un edificio dell’ONU.

30-04-06: Bica, sconosciuti hanno aperto il fuoco contro fedeli serbi
che stavano celebrando la pasqua ortodossa.
23-04-06: K. Mitrovica, attaccata a colpi di pietra e distrutti i
vetri della casa di un profugo da Prizren, nella periferia della
città, da sconosciuti.
23-04-06: Suvi Do, attaccata con pietre una macchina guidata da un
serbo, lungo la strada provinciale, danneggiata la vettura.
22-04-06: Tucep, un gruppo di uomini armati ha attaccato con colpi di
fucile la casa di una famiglia serba del posto; la moglie che era in
casa è rimasta indenne dall’attacco.
16-04-06: Gojbulja, attaccata e danneggiata la chiesa ortodossa di
Sveta Petka nell’enclave serba, completamente circondata dalla
popolazione albanese.
15-04-06: K. Mitrovica, attaccata con bombe e bottiglie Molotov la
casa di un profugo di Istok, che vive nella periferia della città, la
momento dell’assalto vi erano sette membri della famiglia, tra cui i
bambini: Non ci sono stati feriti.
9-04-06: Suvi Lukavac e Tucep, attaccate nella notte alcune case
serbe e portati via quattro trattori e sette mucche.
4-04-06: Straza, attaccata nella notte con fucili automatici la casa
della famiglia serba di C. Ivkovic, ucciso il cane da guardia che
aveva dato l’allarme, i sei membri della famiglia sono rimasti illesi.

27-03-06: K. Mitrovica, un ragazzo serbo di 19 anni è stato picchiato
e pugnalato da un gruppo di giovani albanesi proveniente dall’altra
parte del ponte sul fiume Ibar, mentre passeggiava con la sua fidanzata.
26-03-06: Klina, lanciate due bombe contro la casa di un serbo
rientrato in Kosovo, gravi danni materiali ma nessun ferito nella
famiglia.

…..Questo è il Kosovo “liberato” per cui si è bombardato e devastato
il popolo jugoslavo, queste sono la democrazia e la libertà portate.



Enrico Vigna ( Associazione SOS Yugoslavia, Italia), 14 giugno 2006

“S’ALZO’ DI KOSOVO UNA FANCIULLA”
…Ella va di Kosovo sulla piana.
E scende sul campo la giovane donna…E rivolta nel sangue i guerrieri.
Qual guerriero in vita ella trova, lo leva da quel molto sangue, lo
lava con fresc’acqua.
E conforta con vino vermiglio… E ristora con pane bianco…”
(Antico poema epico del Kosovo)



Per contatti e info: sosyugoslavia@...

(Due interessanti stralci dalla stampa enverista dell'Albania a
cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta dimostrano come, nonostante
le differenze ideologiche ed il diverso atteggiamento rispetto alla
questione nazionale nei Balcani, Enver Hoxha anteponesse comunque la
difesa dell'indipendenza degli Stati balcanici, nati dalla comune
lotta contro il nazifascismo, alla polemica verso la Jugoslavia. Una
linea di solidarietà internazionalista dimenticata e cancellata
dall'odierno sciovinismo - nazionalista, filooccidentale e
neofascista - dei revanscisti pan-albanesi...)


http://www.revolutionarydemocracy.org/rdv7n2/albyugo.htm

The Albanian People Will Stand By the Yugoslav Peoples Enver Hoxha

How did the Party of Labour of Albania under the leadership of
Enver Hoxha look upon its role in the event of an imperialist attack
upon Yugoslavia? The following excerpt from a ‘Zeri i Popullit’
Editorial of 1980 and which was broadcast by Radio Tirana on January
19th 1980 reminds us that in such an event Enver Hoxha had argued
that the Albanian people would stand by the Yugoslav peoples.

No. 1

The Albanian people, who know the past of the Yugoslavian people
well, have the unflinching conviction that they are not intimidated
by any threat or blackmail, that if the necessity arises they will
know how to fight with courage and bravery against any attack of the
enemies no matter where it comes from: the Yugoslav peoples are not
the sort who back down in the face of threats. They know how to fight
with self-sacrifice to defend their freedom, won with so much
bloodshed and sacrifice.
We Albanians have had and still have irreconcilable ideological
differences with the Yugoslav leadership. We have always and will
continue to criticize the anti-Marxist system of self-administration;
we have fought and will fight determinedly against the Yugoslav and
modern revisionism, for the defence of the purity of Marxism-
Leninism; we have and will continue to interest ourselves in the
rights which the Albanians of Kosova, Macedonia, Montenegro, should
enjoy on the basis of the Yugoslav constitution.
World opinion knows and is clear on this stand of ours.
The foreign policy of our country in the stand towards our
neighbours, continues Zeri i Popullit, has never and will never
change. Our republic has made and will make all-round efforts for the
normal development of trading, cultural and other relations with
them. We have publicly stated that Albania will never permit
foreigners to use its territory as a base against Yugoslavia or
Greece, that we will support the Yugoslav and Greek peoples in the
struggle for national freedom, independence and sovereignty. Hence
not only will nothing bad come to them from Albania, but they will be
aided. The peoples of the Balkans do not threaten anyone, but neither
do they fear threats just as they do not fear aggressive war, which
others may launch and which they know how to cope with successfully...
In the face of the threats of the Soviet, American and other
imperialist aggressors against Yugoslavia, the Albanian people adhere
to what comrade Enver Hoxha said at the Seventh Congress of the Party
of Labour of Albania, that in the case of an eventual attack by the
Soviet Union or any power against Yugoslavia, the Albanian people
will stand by the Yugoslav peoples.
Thus everyone can rest assured that if the question arises of the
defence of freedom and independence from imperialist aggressors of no
matter what kind, the Albanians and Yugoslavs will once more fight
together against the common enemies as they fought in the past.
Historical facts prove this. Our divisions went and fought in
Yugoslavia in the same trenches as the Yugoslav partisans, against
German fascism and triumphed. We Albanians fight for freedom and
justice and like brave fighters Albanians are cool-headed. But when
anyone tries to trample them underfoot, then the rifle speaks.

From: ‘Socialist Albania’, journal of the India-Albania Friendship
Association, July 1980, No. 14, pp. 3-5.

No. 2

Our policy towards Yugoslavia has not changed and will not change,
provided that the Yugoslav government, too, is correct towards us.
The declaration of the Party of Labour of Albania, that in case of
any eventual aggression against Yugoslavia by the Soviet Union or
some other power the Albanian people will stand by the Yugoslav
peoples, will always hold good. But the Yugoslav side must respond to
this stand of Albania with just and correct actions towards us.

From: Enver Hoxha ‘Report on the Activity of the C.C. of the Party
of Labour of Albania’ submitted to the 7th Congress of the Party of
Labour of Albania, November 1, 1976,Tirana, 1977, pp. 202-203.


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Message Sent by John Paul Cupp.
SOURCE: http://groups.yahoo.com/group/gmlyu/