Informazione

[ riceviamo e volentieri giriamo la seguente segnalazione a proposito
di una iniziativa organizzata in Germania : ]

https://www.cnj.it/INIZIATIVE/KosmetHeidelberg.jpg

Wir laden herzlich ein zum Abend über

KOSOVO und METOHIJA

Von und mit:
Jelena Bojovic
Vojislav Petrovic
aus Belgrad


Samstag
18. September 2004
"Badischer Hof"
Schwetzingerstr. 27
HEIDELBERG - Kirchheim


PROGRAMM

Begrüssungswort

Vera Krstic
Kriegsopfer-Kinderfürsorge e.V. Viernheim

Kosovo und Metohija aus historischer Sicht

Vortrag von Kurt Wolff

Dokumentarfilme
(Kamera: Jelena Bojovic)

"Die Festung Garic" (1999)

"Es war einmal die Festung Garic" (2000)

"Weder da noch dort" (2003)

"Das 21. Jahrhundert" (2004)

Kurze Pause

Performance

"Serbischer Tango"

mit Jelena Bojovic
und Vojislav Petrovic

Offene Diskussion

https://www.cnj.it/INIZIATIVE/KosmetHeidelberg.jpg

http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.view1&NewsID=3362


Croazia: che tempo fa a Sveti Rok?

Un tempo era parte dell’autoproclamata repubblica serba di Krajna. Ora
è roccaforte del nazionalismo croato. Viaggio estivo tra lapidi
commemorative e fotografie di criminali di guerra.

(14/09/2004)

Di Leonardo Barattin *

Con due articoli pubblicati il 17 e il 30 agosto dall’Osservatorio sui
Balcani, Drago Hedl – redattore del settimanale croato Feral Tribune –
ha portato alla ribalta il villaggio di Sveti Rok e la sua vicenda
recentissima.

Situato nel cuore della Lika, all’interno di quella che dal ‘91 al ‘95
fu l’autoproclamata repubblica serba di Krajina guidata da Milan
Martić, questo piccolo centro abitato si trova poco discosto dalla
strada statale che attraversa da nord a sud i territori “liberati”
nell’agosto 1995 con l’Operazione Tempesta.

Sveti Rok è balzato agli onori delle cronache per l’intitolazione di
una lapide commemorativa al suo concittadino Mile Budak (1889-1945) -
scrittore e Ministro della Cultura e della Religione nel Governo NDH,
promotore di leggi e politiche volte ad azzerare la presenza del gruppo
etnico serbo in Croazia - e per il blitz con il quale essa è stata
prontamente rimossa per decisione del governo Sanader.

L’omaggio a questo protagonista del governo ustascia di Ante Pavelić ha
provocato accese polemiche, dichiarazioni ambigue e divisioni di campo
all’interno dei confini della Croazia, portando ancora una volta alla
superficie i temi più cari del nazionalismo e ultranazionalismo croato
in opposizione alle ragioni di chi vede la Croazia proiettata verso una
dimensione europea. Per la sua valenza il fatto ha dunque trasceso la
ristretta dimensione locale per occupare intere pagine di cronaca e
commento di quotidiani e settimanali nazionali e non: Jutarnji e
Večernji List, Slobodna Dalmacija, Feral Tribune, Zadarski Regional, ...

La lapide commemorativa, incastonata nel muro che delimita l’area di
rispetto della chiesa parrocchiale di Sveti Rok e sormontata dalla
Croce, definiva Budak “patriota croato” morto assassinato “per la causa
del popolo croato” (la condanna a morte comminatagli dall’autorità
jugoslava comunista fu eseguita il 7 giugno 1945) ed era stata posta
dai “patrioti croati dell’emigrazione e della terra croata”. La lapide
al letterato Budak (la motivazione addotta dai sostenitori
dell’intitolazione del monumento era infatti la celebrazione dello
scrittore e non dell’uomo politico), decorata con simboli grafici della
tradizione artistica e religiosa croata, poneva poi a fianco del
ritratto di Budak la significativa immagine di un fuoco ardente.

“Dio, patria e famiglia”, elementi fondanti della cultura nazionale e
nazionalista croata, vengono così ricomposti in questo quadro,
all’interno del quale la componente famigliare è rappresentata dal
duraturo, solido e rinnovato legame tra la comunità degli emigrati e la
comunità dei rimasti. A Sveti Rok si assiste infatti alla riunione
della famiglia, ossia all’abbraccio tra i membri della cosiddetta
diaspora (i fuggitivi e gli esuli filo-NDH al termine del Secondo
conflitto mondiale) e la comunità di coloro che, rimanendo, hanno
presidiato il territorio negli anni della Jugoslavia comunista. La
presenza viva e forte dell’emigrazione è segnalata anche da altri
elementi, come la costruzione da parte dell’associazione
croato-canadese “Sveto brdo” di un monumento intitolato ai caduti “per
la patria croata” - posto lungo la strada statale all’altezza della
svolta per il villaggio.

La vicenda di Sveti Rok si inserisce in un contesto più ampio. Situata
tra la città di Gospić e la cosiddetta “sacca di Medak” – entrambe note
per i fatti di sangue contro la popolazione serba locale che hanno
portato all’incriminazione dei generali Norac e Ademi – ed i centri
etnicamente ripuliti di Gračac e Knin, Sveti Rok (assieme al caso di
Slunj, anch’esso menzionato da Hedl) pare rappresentare la punta
avanzata ed emersa di un ben più vasto clima di ferma ed orgogliosa
rivendicazione dei fatti della guerra patriottica nella Croazia
occidentale e di legame spirituale con il passato ustascia. Se la
simbologia ustascia si limita generalmente alla presenza sui muri di
numerose “U” sormontate dalla croce cattolica, più forte è il messaggio
pubblico legato agli eventi della guerra ‘91-’95: la fitta presenza di
bandiere nazionali ricorda con determinazione ossessiva il pieno
possesso del territorio da parte croata e costituisce un chiaro monito
agli “altri”; messaggi dell’HSP (partito dell’estrema Destra croata
guidato da Anto Đapić, estremamente attivo in quest’area) affissi a
Gospić chiedono “la Croazia ai Croati”, mentre manifesti di sostegno ai
generali Norac (“E’ colpevole perché ha difeso la patria”) e Gotovina
(ricercato dal TPI per crimini contro l’umanità commessi nel corso
dell’Operazione Tempesta) compaiono in vari centri abitati sulle
vetrate di bar, farmacie ed altri esercizi commerciali. A Knin, poi,
l’addetto alla vendita dei biglietti per la visita della fortezza alla
domanda su chi sia la persona ritratta nel quadretto in vendita tra i
souvenirs afferma che si tratta del generale Ante Gotovina, il quale “è
un eroe e un problema. Un eroe per noi e un problema per il mondo”.

Ma se la volontà di affermare la croaticità dei luoghi e di celebrare
le forme e gli effetti della guerra patriottica fanno ancora vibrare
l’aria di queste terre fatte di catene montuose, pietra, altipiani e
gole, manifestazioni simili giungono fin sulla costa, nella turistica
Zara, dove vacanzieri in cerca di una posa fotografica possono
imbattersi nell’immagine esibita con orgoglio di Mirko Norac: una sua
gigantografia campeggia sul muro esterno del bar Tiffany, ai margini
del centro storico, mentre un manifesto che proclama Gotovina “eroe e
non criminale” è affisso in vista all’interno di un negozio di
elettrodomestici presso la Chiesa di San Simeone.

Atteggiamenti, questi, che nella tormentata città di Zara rievocano
l’attribuzione della cittadinanza onoraria allo stesso Gotovina
nell’inverno del 2002 e le tensioni politiche che a Zara e da Zara da
tempo si sprigionano.


* Leonardo Barattin è uno di quei molti italiani che girano i Balcani
per lavoro. E’ responsabile esteri di un’azienda del nord est

» Fonte: © Osservatorio sui Balcani

[ Sulla questione della lingua e letteratura serbocroate e della loro
"abolizione per legge" negli staterelli etnici sorti dallo squartamento
della Jugoslavia, vedi anche, nel nostro archivio
http://groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/messages :
*** Il croato creato e la frattura delle lingue - Un commento di Babsi
Jones, da http://www.exju.org/comments/590_0_1_0_C/ - JUGOINFO 6 Gen
2004
*** Koliko trebas jezika? Srpski, Maternji, Crnogosrski,
Montenegrinski... - JUGOINFO 7 Set 2004
e l'articolo di Luka Bogdanic “Serbo o croato? L’uso geopolitico della
lingua”, apparso su Limes a gennaio 2004 ("Il nostro oriente. I Balcani
alle porte") ]


http://komunist.free.fr/arhiva/sep2004/glisic.html
Arhiva : : Septembar 2004.

Jezičko pitanje

Jezik je jedno od bitnih spoljnih obeležja u definisanju nacije, iako
su poznati značajni primeri kada više nacija govori istim jezikom.
Najpoznatiji takvi slučajevi su, nesumnjivo, na engleskom i nemačkom
govornom području. Nešto slično se događalo i na prostorima bivše SFRJ,
gde je do "deobe" istog jezika došlo između četiri priznate nacije:
Srbima, Hrvatima, Muslimanima (sada Bošnjaci) i Crnogorcima. Postoje i
nacije čiji pripadnici govore različitim jezicima, poput Švajcaraca,
Belgijanaca ili Indijaca.

Iako su postojale nužne razlike u lokalnim varijantama
srpsko-hrvatskog, bilo je nesporno da se radi o istom jeziku, jer
razlike postoje i u drugim jezicima i te razlike su često uslovljene
specifičnim razvojem određene zajednice na određenom geografskom
području. Opšte su poznati primeri, opet iz nemačkog jezika, u okviru
koga postoji čak šest lokalnih varijanti, ali samo jedan književni,
priznati jezik koji je zajednički svima. Dobar i poučan primer
predstavljaju i Kinezi čiji se govorni jezik u lokalnim varijantama
može da bude potpuno nerazumljiv nekome iz drugog dela te velike
zemlje, ali se svuda isto piše, a za zvaničnu, književnu varijantu
izabran je tzv. kantonalni kineski. U poređenju sa nemačkim i kineskim
jezikom (iako to nisu jedini primeri, ali su dovoljno reprezentativni),
razlike koje postoje između hrvatske i srpske varijente
srpsko-hrvatskog (ili hrvatsko-srpskog) su potpuno zanemarljive.

Nabujali nacionalizam, tačnije njegovi ideolozi i nosioci insistirali
su na potpunom i trajnom razdvajanju svega što je zajedničko među
narodima koji su činili rastočenu državu. Jedna od tih stvari je i
jezik. Neverovatnom brzinom je prihvaćen stav o tome da su srpski i
hrvatski posebni jezici i ta podela je ozvaničena u zakonima, školskim
programima i diktiranom javnom mnjenju. Na čemu se, zapravo, temelji ta
podela? Ni na čemu, izuzev na činjenici da su Srbi – Srbi, a Hrvati –
Hrvati! U Hrvatskoj je, u prvom periodu državotvoračkog romantizma
dolazilo do komičnih pokušaja stvaranja novih reči (tzv novogovor)
kojim bi se uvećala razlika u odnosu na srpsku varijantu istog jezika,
ali su ti pokušaji doživeli zasluženi krah. Podela je ostala zakonska,
tačnije politička, ili još bolje – veštačka. Na ovom mestu nameću se
neka pitanja: Na osnovu kojih elemenata se može zaključiti da Hrvati u
Vojvodini npr. govore baš hrvatskim jezikom?

Kao što to obično biva, društveni procesi nastavljaju svojim tokovima
do logičnog kraja, pa se i ovde situacija dalje komplikovala. U Bosni i
Hercegovini je proglašen bošnjački jezik po državnom osamostaljenju, a
u Crnoj Gori postoji tendencija da se proglasi crnogorski kao poseban
jezik. Ova dva primera zaslužuju posebnu pažnju, iako ne donose ništa
novo, što se već u Srbiji i Hrvatskoj nije dogodilo.

Kada je proglašeno (ozvaničeno, ozakonjeno) postojanje bošnjačkog
jezika, to je bio jezik, uslovno rečeno, koji su "prihvatili" samo
bosanski Muslimani-Bošnjaci, dok su se Srbi i Hrvati držali svojih
"matičnih" naziva istog jezika. Bošnjački jezik je srpsko-hrvatski
obogaćen turcizmima. Ali, bilo je bitno nazvati ga drugačije, jer, po
nečijoj logici, bez "ekskluzivnog" naziva jezika nema ni države. I tek
onda nastaju muke: Muslimani-Bošnjaci iz Sandžaka prihvataju novi naziv
jezika jer BiH smatraju svojom maticom, bez obzira na to što je njihov
govor bliži srpskom nego bosanskom. Od ovog silnog bogatstva različitih
jezika obogaćene su samo zbirke anegdota. Poput pojedinih novih reči
koje su nametane u Hrvatskoj (kao što su zoroklik, svesmjer ili
zrakomlat), tako je i preterano ijekaviziranje u Sandžaku umelo da
stvori situacije za viceve. Poznata je anegdota u kojoj jedna visoka
opštinska službenica u Novom Pazaru šaljući svog vozača da joj nešto
kupi dodala: ... i uzmi sjebi šta hoćeš.

Pitanje crnogorskog jezika kao posebnog predstavlja kulminaciju
narečenog procesa. Čitava konstrukcija o crnogorskom jeziku kao
posebnom se zasniva na tzv. "mlađem jotovanju", tj. na glasovima koji
su specifični za crnogorsku varijantu jezika (šj, žj). Temeljenje teze
o posebnom jeziku na osnovu jedne tako male gramatičke razlike (da ne
kažem anomalije) od književnog jezika je upravo smešno. Kada bi ovaj
kriterijum bio dovoljan, skoro svaki region u Srbiji i Hrvatskoj bi
mogao da proglasi svoj jezik, pa bismo se suočili sa niškim,
leskovačkim, šumadijskim, zagorskim, dalmatinskim itd. jezicima. Stvar
je, međutim, u tome da se lokalni govor često razlikuje od književne
varijante jezika, ali ta razlika nije dovoljna da se proglasi poseban
jezik, pa čak ni u slučaju da se u čitav izbor umeša nacionalna
komponenta. Jer, poseban jezik jeste jedno od obeležja nacionalnosti,
ali nije nužno obeležje, a još manje jedino. Stoga je bitno da se
shvati da sama činjenica da Srbi, Hrvati, Bošnjaci (ili Muslimani) i
Crnogorci govore istim jezikom ne znači da te nacije kao takve ne
postoje – naprotiv. One imaju dovoljno drugih elemenata koji ih čine
nacijama (kultura, teritorija, zajednička istorija itd) da ih "deoba"
jezika u tome ni najmanje ne ometa. Pri svemu tome treba imati na umu i
činjenicu da se u definisanju nacije ne mogu taksativno nabrojati svi
njeni elementi. Ono što je zaista bitno, to je subjektivni osećaj
pripadnosti jednog broja ljudi jednoj etničkoj grupi. Za taj osećaj
posebno ime jezika nije preterano bitno.

Ipak, ovo do sada navedeno nasilje nad jezikom se ne završava samim
njegovim proglašenjem. Svaki od ovih novokomponovanih jezika se u
stvarnosti suošava sa nizom problema, a najveći je taj da se ove
promene prosto "ne primaju" u narodu. To je slučaj sa novoskovanim
rečima u Hrvatskoj i Bosni, ali i sa pokušajem u Srbiji da se oduzme
jedna od osnovnih karakteristika jezika kojim govorimo – njegova
dvopismenost. Srpskohrvatski jezik ima dva pisma – ćirilično i
latinično i svi pokušaji da se to promeni se, za sada, razbijaju u
stvarnosti kao talasi o hridi. Na ovom primeru se vidi koliko je
nacionalistima malo stalo do bogatstva svog jezika, jer je ta
dvopismenost jedinstvena u svetu i stvar kojom bi trebalo da se
ponosimo.

Poslednjih godina se u Srbiji razvila polemika na tu temu, ali su
argumenti koje koriste obe strane tragično pogrešni. "Ćiriličari"
zastupaju tezu da se ćirilica potiskuje, a njihovi oponenti da latinicu
treba učiti zarad "povratka u svet". Ćirilica je pismo koje deca u
Srbiji prvo nauče, ona je, dakle njihovo prvo pismo, pa, samim tim, ne
može biti zaboravljena. Srpsko-hrvatska latinica je pismo koje je
potpuno analogno ćirilici, nastala je na istim principima i mnogo više
ima zajedničkih stvari sa ćirilicom, nego sa latinicom koja se koristi
u zapadnim (germanskim, romanskim, pa i slovenskim jezicima), tako da
ona nema nikakve veze sa "povratkom u svet" i učenjem engleskog ili
bilo kog drugog jezika npr. Zapravo, vidljivo je izbegavanje i jedne i
druge strane da priznaju ono što svi znaju: srpsko-hrvatski jezik još
uvek postoji, uprkos svim naporima da se zvanično ukine. Čak i kada bi
sve jezikoslovne mere (tačnije: nasilje) uspevale iz prve i bile
oduševljeno prihvaćene, bilo bi potrebno bar sto godina da postojeći
jezik "umre". U datom slučaju bi se mogla parafrazirati poznata
latinska izreka na sledeći način: Lingua longa, vita brevis!

Srpsko-hrvatski (hrvatsko-srpski) jezik je, dakle, žrtva politike, i to
nacionalističke politike. Ali ipak, mnogo manja žrtva od miliona ljudi
koji govore tim istim jezikom. Za utehu, ostao im je on i celokupna
kultura zabeležena uz pomoć tog jezika na koju jeste nabacana prašina,
ali nije uništena.

Nenad Glišić

Desaparecidos & terrorismo di Stato

NOI ACCUSIAMO


Il sequestro dei volontari del “Ponte per” aggiunge un ulteriore
drammatico tassello all’escalation della sporca guerra in Iraq. Il
Ponte è una delle organizzazioni non governative presenti in Iraq da
più tempo. Si sempre adoperata contro l’embargo che ha decimato per più
di un decennio la popolazione irachena, ha in campo da anni progetti di
solidarietà, si è sempre schierata apertamente contro la guerra ed è
stata il motore di numerosi convogli di aiuti umanitari diretti alle
città irachene bombardate e assediate dalle truppe statunitensi e del
governo fantoccio iracheno. Quest’ultimo ruolo sembra essere quello che
ha portato prima il giornalista italiano Baldoni e poi le due Simone e
i cooperanti iracheni del “Ponte per” nel mirino degli squadroni della
morte.

 
Chi ha voluto colpire i testimoni scomodi dell’occupazione in Iraq?

Chi, dunque, ha guidato ed organizzato il commando che è penetrato
direttamente e non casualmente nella sede del Ponte a Bagdad e ne ha
sequestrato gli attivisti? Questo sequestro, come quelli appena
precedenti del giornalista pacifista Baldoni – barbaramente ucciso
insieme al suo interprete palestinese ma di cui ancora non è stato
trovato né si sta cercando il cadavere – insieme a quello di due
giornalisti francesi - cioè di un paese apertamente non belligerante in
Iraq -sono sequestri diversi da quelli precedenti. Lo sono negli
obiettivi e nella pratica.

Il modello operativo dei sequestri appare infatti più simile al modello
degli squadroni della morte latinoamericani che conducono la guerra
sporca al fianco di quella convenzionale condotta dagli eserciti. Il
loro obiettivo è di fare la terra bruciata intorno alle ragioni della
resistenza colpendo giornalisti, attivisti umanitari, schierati contro
la guerra e testimoni scomodi. Queste cose non le insegnano nelle
moschee ma nelle scuole antiguerriglia negli Stati Uniti.
L’ambasciatore statunitense in Iraq, John Negroponte, è un’esperto
della materia essendo stato il plenipotenziario statunitense in
Centro-America negli anni ottanta, quelli dei desaparecidos, degli
squadroni della morte, del genocidio in Guatemala, della repressione
più feroce in Salvador e Honduras e del terrorismo di stato americano
in Nicaragua. Lo stesso “premier” iracheno Allawi, è uno del mestiere
essendo stato addestrato dalla CIA. In una intervista a Le Monde e al
TG3, il capo degli ulema, Al Kubaysi, ha parlato esplicitamente di
servizi segreti di un paese straniero come responsabili del sequestro
dei volontari del “Ponte per”.

 
Perché hanno colpito i testimoni e i volontari italiani?

Una ricostruzione attenta del sequestro e della “morte” del giornalista
Enzo Baldoni aiuta meglio a comprendere il perché siano stati colpiti i
volontari del “Ponte per”. Baldoni e il suo collaboratore, il
palestinese Ghareeb, erano stati tra gli organizzatori di quei convogli
umanitari che in questi mesi hanno forzato gli assedi di Falluja e
Najaf, portando acqua, viveri, medicine alle popolazioni assediate.
Questi convogli sono nati spessi nella sede del “Ponte per” a Bagdad,
diventata un punto di riferimento per tanti giornalisti, volontari,
attivisti che cercano di documentare la vita quotidiana nell’Iraq
occupato militarmente ma non certo normalizzato. Spesso devono forzare
l’inattività della Croce Rossa Italiana che il commissario governativo
Scelli sta privando della sua neutralità e credibilità facendone uno
strumento collaterale e non indipendente delle forze militari di
occupazione. Ma questi convogli umanitari alle città assediate non sono
più tollerati dai comandi militari statunitensi. Il settimanale
“Diario” del 9 settembre, basandosi sulle corrispondenze di
Baldoni, riferisce la frase di un ufficiale americano “Noi vogliamo
prenderli per fame e voi andate a portargli i viveri?”. Il
collaboratore di Baldoni, il palestinese Ghareeb, era un organizzatore
infaticabile di questi convogli e conosceva e collaborava con i
volontari del “Ponte per” a Bagdad.

Dunque non era più tollerabile che giornalisti e attivisti italiani, il
cui governo sostiene la guerra ed ha inviato migliaia di soldati ad
occupare il sud dell’Iraq, potessero continuare a mettersi in mezzo con
iniziative umanitarie che ridicolizzavano anche la Croce Rossa Italiana
del commissario Scelli resa ormai collaterale alla politica del governo
Berlusconi. Costoro avevano bisogno di una lezione, così come gli
attivisti umanitari, i giornalisti ficcanaso o i religiosi troppo
impegnati in Salvador, Guatemala, Nicaragua, Honduras. In realtà gli
Stati Uniti stanno perdendo la loro guerra in Iraq e sono consapevoli
che dovranno farne un vero e proprio mattatoio, per questo non vogliono
testimoni.

 
Un sequestro anomalo e l’ombra del terrorismo di Stato

“Se volessero colpire noi, verrebbero a prenderci direttamente, tutti
sanno che siamo qui”. Queste sono le parole, amaramente profetiche, che
Simona Torretta aveva riferito ad un noto fotoreporter pochi giorni
prima del sequestro e dopo che una bomba di mortaio aveva danneggiato
la sede del “Ponte per” a Bagdad il due settembre scorso (riportato ne
“Il Manifesto”, 8 settembre). Lo stesso fotoreporter riferisce di gente
strana, occidentali, nepalesi, iracheni che si precipitano sul posto
dopo l’esplosione. Il capo del consiglio degli Ulema, Al Kubaysi
testimonia che Simona e Simona il giorno prima del sequestro erano
andate da lui in cerca di protezione perché si sentivano minacciate. Da
chi? Cinque giorni dopo, il 7 settembre, Simona Pari, Simona Torretta e
due cooperanti iracheni Ra’ad Alì Abdul Aziz e Manhaz Bassam, venivano
sequestrati e sparivano nell’inferno iracheno.

Il commando che attua il sequestro è diverso da tutti gli altri che
hanno operato gli altri sequestri in mesi. Il sequestro è mirato. Hanno
i nomi di chi devono portare via. Hanno divise ed armi in dotazione ai
“contractors” (vedi la corrispondenza dell’inviato de“Il Messaggero”
del 12 settembre), hanno grandi fuoristrada e colpiscono in una zona
“protetta” dai militari americani a Bagdad dove hanno sede due
ministeri, l’OMS e diverse organizzazioni umanitarie. Non si tratta
dunque di un gruppo “islamico” di sequestratori arrangiato o
improvvisato che ferma le macchine lungo le strade dell’Iraq e ne
rapisce i passeggeri sperando di ottenere un riscatto. Si tratta invece
di professionisti dell’antiguerriglia che hanno agito con sicurezza
ostentata per terrorizzare giornalisti e volontari e mandare via tutti
i testimoni scomodi. L’esodo delle ONG dall’Iraq, ne è la conferma.

Nessuna delle rivendicazioni arrivate è stata ritenuta credibile. In
altri casi, vedi quello del giornalista statunitense Micah Garen, il
sequestro era stato rivendicato e gestito pubblicamente dal movimento
di Al Sadr (vedi “La Repubblica” del 23 agosto)

E’ un altro stile, un altro modello operativo ed ha un altro obiettivo:
fare terra bruciata degli attivisti e dei testimoni scomodi sulla
barbarie dell’occupazione militare statunitense, inglese e italiana
dell’Iraq. Prende corpo un’altra ipotesi, prima sussurrata o denunciata
da pochi ma che oggi sta venendo fuori con drammatica limpidezza anche
nelle parole di Noam Chomski: il terrorismo di Stato. Saremmo dunque in
presenza di quel modello di squadroni della morte già utilizzato il
Centro-America e di cui l’ambasciatore USA a Bagdad, John Negroponte è
un esperto.

E’ un po’ come fu la strage di Piazza Fontana in Italia: la versione di
comodo (il terrorismo islamico) che perde pezzi mentre prende corpo la
pista più credibile (il terrorismo di Stato da parte dei governi
occupanti in Iraq e del governo fantoccio iracheno).

 
Il governo Berlusconi deve essere inchiodato alle sue responsabilità

Il governo Berlusconi porta già il fardello orribile di aver trascinato
l’Italia nella guerra in Iraq. Lo ha fatto schierandosi prima con
l’ingiustificata aggressione anglo-statunitense e poi inviando tremila
soldati a partecipare all’occupazione militare del paese. Le denunce
che continuano ad arrivare sulle malefatte del contingente militare
italiano a Nassyria (le uccisioni di decine di civili nella battaglia
dei ponti, le rivelazioni dei bersaglieri pubblicate da “Il Manifesto”,
le ambulanze colpite come documentato dal giornalista americano Micah
Garen) stanno togliendo qualsiasi alone di “missione di pace” a quella
che è chiaramente una operazione di guerra. Questa condizione
dell’Italia come “Stato belligerante ed occupante” in Iraq, espone il
paese ai contraccolpi e alle conseguenze della guerra. Lo espone in
Iraq dove ci sono i soldati (già ne sono morti più di venti e decine
sono rimasti feriti) ma anche volontari o giornalisti italiani e lo
espone qui in Italia alle ritorsioni che potrebbero assumere il
carattere di attentati terroristici come avvenuto in Spagna.

Il governo Berlusconi si è già reso responsabile di una sospetta
latitanza nel sequestro del giornalista Enzo Baldoni (per il quale poco
o nulla sta facendo per recuperarne il cadavere, come denunciato
dall’inviato del Corriere della Sera) ed ora lo è ancora di più per il
sequestro di Simona Torretta e Simona Pari.

Il tentativo del governo Berlusconi di nascondersi dietro l’unità
nazionale in nome alla lotta contro il terrorismo, è un orribile
inganno che deve essere sventato, smantellato e rovesciato.

E’ decisamente ridicolo richiamarsi al “modello francese”, in cui tutto
il paese si è stretto e mobilitato per chiedere il rilascio dei due
giornalisti sequestrati. Lo è per due semplici motivi:

1)     Il governo francese si è schierato contro la guerra e non ha
inviato militari ad occupare l’Iraq, ha avviato colloqui con tutto il
mondo arabo e non ha esitato a far sentire la sua voce critica anche
verso gli Stati Uniti che hanno incentivato i bombardamenti a tappeto
sulle città irachene;

2)     Il governo francese, si è rifiutato di incontrare il
“presidente” iracheno Gazi Al Jawar perché le ritiene responsabile
dell’incolumità dei due giornalisti sequestrati. Al contrario
Berlusconi e Ciampi hanno confermato la visita in Italia, hanno stretto
la mano al presidente iracheno, hanno ribadito che non intendono
ritirare le truppe dall’Iraq e continuano ad essere subalterni e
omertosi verso gli Stati Uniti.

 
La sera stessa del sequestro dei volontari del “Ponte per”, il governo
emanava un comunicato in cui forniva la versione di comodo: gli autori
erano un imprecisato “gruppo islamico”. Eppure non c’era stata alcuna
rivendicazione e le uniche indiscrezioni dicevano che il commando di
sequestratori affermava di essere agli ordini del governo iracheno.

I partiti dell’opposizione (Centro-sinistra e PRC) hanno commesso
scientemente un gravissimo errore accettando il tavolo dell’unità
nazionale contro il terrorismo con il governo e abbassando il tiro
sulla richiesta del ritiro immediato delle truppe dall’Iraq, cosa che
invece non hanno fatto Verdi e PdCI pur presenti all'incontro con il
governo. La copertura della lotta al terrorismo è anch’essa un orribile
inganno che porta fuori strada le iniziative da prendere per ottenere
la liberazione degli ostaggi e la fine della complicità dell’Italia con
la guerra in Iraq. Se le dichiarazioni di Bertinotti sulle priorità
dell’oggi hanno provocato discussione, polemiche e prese di distanza
sacrosante nella sinistra e nel movimento contro la guerra, ben più
gravi sono state le dichiarazioni di Violante al Corriere della Sera
secondo cui “chiedere oggi il ritiro delle truppe sarebbe affiancare i
terroristi”. La trappola c’è ed è ben evidente e ci porta direttamente
ad arruolarci dentro la logica della guerra di civiltà. Non siamo
affatto sicuri che i sostenitori di questa posizione avventurista non
ne siano pienamente consapevoli, al contrario ci pare che si prestino
ad un gioco ambiguo che attiene alle garanzie della governabilità di un
prossimo governo di centro-sinistra. Le forze dell’opposizione, al
contrario, potrebbero e dovrebbero incalzare il governo, inchiodarlo
alle sue responsabilità ma non affidargli deleghe in bianco sulle
trattative, chiedergli conto dei suoi alleati (e padroni) nella guerra
in Iraq, avrebbero potuto chiedere l’annullamento della visita del
presidente iracheno Al Jawar in Italia come ha fatto il governo
francese o insistere sul ritiro delle truppe come ha fatto il governo
spagnolo….ma non lo hanno fatto. Se la vicenda dei desaparecidos
italiani in Iraq si concluderà felicemente come auspichiamo tutti…il
merito sarà del governo che ha “coniugato la fermezza con l’unità
nazionale”. Se si concluderà drammaticamente le responsabilità saranno
tutte del “terrorismo islamico e dei movimenti pacifisti”. Se non è una
trappola questa, che cosa lo è?

 
Guerra, terrorismo, resistenza: non facciamo confusione

Respingendo subito al mittente le improprie dichiarazioni di Casini
(“Non voglio più sentir parlare di resistenza in Iraq”), è anche vero
che nel movimento contro la guerra, si è affacciato in questi mesi un
dibattito non concluso né arrivato a sintesi sulla resistenza. A
renderlo pertinente ci hanno pensato proprio gli iracheni, prima ancora
erano stati i palestinesi, ma il discorso si potrebbe e si dovrebbe
allargare all’America Latina o all’Asia. La resistenza degli iracheni
all’occupazione anglo-americana-italiana, è arrivata inaspettatamente,
quando in molti avevano già arrotolato le bandiere ritenendo che la
presa di Bagdad e la demolizione delle statue di Saddam Hussein
avessero posto fine alla guerra. Questa svista è stata resa possibile
anche dalla cancellazione della lotta di liberazione in Palestina
dall’agenda politica di buona parte della sinistra italiana. Non è
casuale il nesso tra il congelamento dell’iniziativa in solidarietà con
la Palestina e la riflessione sulla “spirale guerra-terrorismo” e sulla
nonviolenza avviata nel PRC ma anche nei movimenti.

Quella riflessione infatti non è partita tanto dal dibattito e dalle
lacerazioni sulle Foibe ma dalla “Battaglia d’Algeri”, il noto e
splendido film di Gillo Pontecorvo sulla lotta di liberazione in
Algeria. L’attuale fase della resistenza palestinese infatti somiglia
sempre più alla Battaglia d’Algeri e sempre meno alla prima Intifada
(l’Intifada delle pietre). La stessa situazione in Israele si va
configurando come possibile conflitto tra i coloni (i pied noirs
francesi in Algeria) insieme ai partiti oltranzisti contro un governo
che vorrebbe in qualche modo sganciarsi dalla costosa gestione del
sistema coloniale (come fece De Grulle).

L’escalation della violenza in Palestina, soprattutto attraverso gli
shaid (i “martiri” che da noi vengono definiti impropriamente
kamikaze), ha polarizzato le posizioni anche dentro la sinistra e i
movimenti in Europa. Da un lato si è collocato chi appiattisce questi
attentati suicidi nella categoria del terrorismo, ponendoli sullo
stesso piano degli attentati di Al Quaeda ed assumendo obiettivamente i
criteri della propaganda israeliana; dall’altro chi ha continuato a
rivendicare il diritto alla resistenza armata dei palestinesi contro
l’occupazione coloniale e militare israeliana anche prendendo le
distanze da alcuni attentati suicidi (quelli contro i civili in
Israele). Questa seconda posizione, tra l’altro, è quella sostenuta
dalle principali organizzazioni della sinistra palestinese (FPLP, FDLP).

L’irruzione in campo della resistenza irachena ha però reso gracile e
fuori tempo la prima riflessione. La semplificazione ad una spirale tra
guerra e terrorismo dello scontro tra democrazia e imperialismo, tra
autodeterminazione e colonialismo e finanche agli effetti della
rinnovata competizione intercapitalista, non ha tenuto conto dei
numerosi fattori che sono entrati in scena.

Il carattere di massa della resistenza all’occupazione dell’Iraq è del
tutto conforme a quella dei palestinesi o di altre situazioni analoghe
in Asia o America Latina.

Anche in Iraq si sono susseguiti omicidi orribili, attentati suicidi o
autobomba che in alcuni casi si attagliano alla categoria del
terrorismo, ma in larghissima parte ci sono state e continuano ad
esserci iniziative armate o di massa (vedi i movimenti dei disoccupati
o delle donne) dirette contro le forze militari occupanti che rientrano
nella categoria della resistenza. Confondere soggetti e progetti
diversi in una unica categoria (il terrorismo islamico) è ingiusto e
fuorviante.

Quindi è proprio la resistenza, soprattutto lì dove operano forze
progressiste e non confessionali, il fattore capace di spezzare la
spirale guerra-terrorismo su cui ci vorrebbe appiattire la logica dello
scontro di civiltà ormai fatta propria dal governo Berlusconi e
dall’Ulivo (che sta producendo un’ondata islamofobica assai pericolosa)
ma anche la semplificazione diseducativa della spirale
guerra-terrorismo con cui vengono impostati l’analisi e il dibattito
dentro al movimento per la pace e nella sinistra antagonista.

La conferma che questa semplificazione sia decisamente fuori tempo,
fuori luogo e sostanzialmente eurocentrista è venuta dal Forum Sociale
Mondiale di Mumbay (che continua ad essere per questo rimosso dal
dibattito).

 In quel Forum è emerso nettamente come questa impostazione, vista dal
Sud del mondo (da coloro che “ogni mattina si alzano dal lato sbagliato
del capitalismo” come recitava uno striscione a Mumbay), sia ampiamente
minoritaria e ininfluente, sia cioè una digressione totalmente
eurocentrica del tutto inadeguata per offrire chiavi di lettura ed
indicazioni utili ad un movimento globale che si sta ponendo
concretamente il problema di cambiare i rapporti di proprietà a livello
internazionale. Se per porre fine a questa divergenza si vuole buttare
a mare la capacità di discernere tra le forze in campo o l’intero
Novecento, si è liberi da farlo ma che ciò produca risultati positivi o
innovativi nelle prospettive dei movimenti o della sinistra in Europa è
già stato smentito dai fatti, ed i fatti, come è noto, hanno la testa
dura.

 
                                     La Rete dei comunisti


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