Informazione

Da: rifondazione_paris ( info_prc_paris @ yahoogroups.com ) riceviamo e
giriamo:

Da "Liberazione", 25 giugno 2004

http://www.liberazione.it/giornale/040625/archdef.asp

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Quel viaggio dall'ovest all'est

Storie dell'altra Europa

Saint-Avold (Mosella) e Jelez (Polonia)

E' un po' pazzesco ma incoraggiante il viaggio che hanno affrontato la
settimana scorsa i lavoratori della fabbrica Renol di Saint-Avold:
hanno attraversato la Germania in autobus, per andare a incontrarsi,
solo per poche ore, con i lavoratori polacchi che lavorano nello stesso
gruppo, che produce cerchioni per automobili.

I 170 dipendenti della Ronal-France si battono da due mesi contro la
chiusura della loro fabbrica. Mentre la direzione del gruppo accampava
il pretesto di difficoltà economiche per giustificare il blocco della
produzione, hanno scoperto che aveva creato in Polonia, nel 1995 e nel
2001, due fabbriche comprendenti oltre 1.000 operai. Quanto alle
difficoltà economiche, in realtà si trattava semplicemente della voglia
di ricavare sempre maggiori profitti, sfruttando la manodopera polacca.

Invece di entrare nella logica del "ci stanno soffiando il nostro
lavoro", i dipendenti della Ronal-France hanno deciso di invertire
l'andazzo dell'essere messi in concorrenza fra loro, cercando di
delineare un abbozzo di solidarietà al di là dei confini. È stato
l'avvocato del comitato di fabbrica, la dottoressa Blindaüer, a
lanciare l'idea dei viaggi.

Prima di arrivare in Polonia, i lavoratori si sono preliminarmente
spostati in Germania, in due fabbriche del gruppo anch'esse minacciate
di chiusura, a Först e a Landau.


1.000 chilometri di strada

Martedì 15 giugno, alle ore 20, l'autobus parte dalla fabbrica di
Saint-Avold, per affrontare 1.000 chilometri di strada, da un bacino
carbonifero a un altro, dalla Lorena verso la Bassa Slesia. A bordo una
quarantina di operai, tra cui una sola donna, e una manciata di
capisquadra. Quelli che restano sorveglieranno la fabbrica, garantendo
un minimo di produzione.

«Vogliamo spiegare ai dipendenti polacchi la politica del gruppo»,
dicea Stéphane Zerves, delegato della CGT. «Vogliamo dire loro come si
è comportata la Ronal con noi e che c'è il rischio che faccia
altrettanto con loro, perché abbiamo sentito parlare di un progetto di
spostamento dalla Polonia all'Ucraina… Lo scopo del viaggio è quello di
incontrare queste persone che non parlano la nostra stessa lingua e
hanno una cultura diversa dalla nostra, ma hanno gli stessi interessi
che abbiamo noi». Nell'autobus si organizzano partite a carte, girano
birra e barzellette. Un clima da comitiva in vacanza, malgrado le
prospettive pesanti. «Ci si sfoga per allentare la pressione», racconta
un dipendente. «Il tribunale ha respinto il deposito del bilancio e ci
ha concesso un rinvio fino al 29 giugno, ma poi non si sa che cosa
succederà». «Se la fabbrica chiude, nella zona non c'è lavoro per noi»,
conferma Stéphen Zervos. «Il sindaco di Saint-Avold ha dichiarato che,
dopo la chiusura del bacino carbonifero, l'industria in Lorena è
finita, largo ai servizi. Ma servizi per che cosa? L'informatica, la
pulizia, ma di che cosa se non c'è più industria?».

L'indomani, risveglio a Dresda, dopo qualche ora di sonno spezzato.
Zervos distribuisce vitamine. All'alba, l'autobus fa il suo ingresso in
Polonia. Dopo un giro per la fabbrica della Ronal di Walbrzych,
finalmente si arriva a Jelcz. L'obiettivo è incontrare gli operai al
cambio turno, alle ore 14, e di distribuire loro volantini scritti in
polacco. È qui che l'avvocato Blindaüer, che è riuscita a convincere un
rappresentante di Solidarnosc ad associarsi all'iniziativa, deve
incontrarsi con gli operai. Solidarnosc ha posto le sue condizioni: che
la frase "spezzare la macchina delle delocalizzazioni" fosse messa tra
virgolette nel volantino, per non passare per terroristi… Che a quelle
della Cgt fossero abbinate le bandiere della Cftc. Infine, che si
andasse davanti alla fabbrica a gruppetti, perché la legislazione
polacca vieta le manifestazioni di più di 15 persone se non
autorizzate. Prima dell'iniziativa, il sindacalista polacco spiega che
gli operai polacchi della Ronal «non sono favorevoli alla creazione di
un sindacato, per paura del padrone. Probabilmente, non dimostreranno
simpatia per la vostra causa, perché qui il tasso di disoccupazione è
molto alto, intorno al 25%, da quando sono state chiuse le miniere.
Quindi, si accontentano di avere un lavoro, anche se mal pagato».

Sul posto la realtà è un po' diversa. C'è già la polizia, per vigilare
su quel che succede, e una ventina di guardie di una società privata,
schierate a una cinquantina di metri dai cancelli. Alle ore 14, gli
operai non escono in massa: verosimilmente la direzione li ha
trattenuti per non farli incontrare con i loro colleghi francesi. Ma
quello scarso centinaio di operai che escono prendono volentieri il
volantino.


260 euro al mese di salario

Un dipendente racconta a una giornalista di Solidarnosc che le
condizioni di lavoro sono dure, con i rumori, le temperature elevate
della fonderia e le pressioni dei capi, ma almeno si è sicuri di avere
un salario a fine mese, cosa che non succede in molte altre fabbriche.
«Provano a mettere insieme un sindacato, ma il padrone non vuole e fa
pressione», traduce. Guadagnano 1.200 zloty al mese, pari a 260 euro,
cioè 4,5 volte meno dei lavoratori francesi. «È poco, perché i generi
alimentari e la luce elettrica costano cari», commenta la giornalista.
«Con un salario del genere, non si può andare al cinema né acquistare
libri, né permettersi alcun extra per i figli. Qui, però, il salario
minimo è di 820 zloty (180 euro) e il governo ha diminuito i sussidi di
disoccupazione. Si versano se il tasso di disoccupazione in una zona è
elevato, ma si aggirano intorno… ai 600 zloty soltanto (130 euro).
Comunque, sono contenti di vedere i sindacalisti francesi e capiscono
questa iniziativa. Sono sorpresi di trovarseli ai cancelli della loro
fabbrica, perché normalmente è alla televisione che vedono le
manifestazioni in Francia, le bandiere, i lavoratori ben organizzati».
Sulla strada, alcuni abitanti di Jelcz e soprattutto dei lavoratori di
altre fabbriche della zona si fermano per prendere i volantini e dare
un'occhiata. Un operaio di Ronal-France, d'origine polacca e bilingue,
spiega al megafono la situazione della sua fabbrica e lancia messaggi
di solidarietà. I manifestanti gridano allo scandalo quando le guardie
cominciano a strappare di mano i volantini di mano agli operai che
entrano. Dopo più di un'ora, il via vai termina. Il corteo leva le
tende.

Al ritorno, nonostante la brevità dell'iniziativa, gli operai non
appaiono delusi. «È importante avere fatto passare un messaggio, avere
fatto vedere ai polacchi la nostra forza», commenta Tierry Clauss, un
delegato della Cgt. «Si vede che hanno paura. Ma anche da noi si aveva
paura, e anche da noi la Ronal ha sempre cercato di fare fuori la Cgt.
I militanti erano messi da parte, piazzati nei posti di lavoro più duri
e senza mai affiancarli con altri lavoratori. All'inizio della
disoccupazione parziale, un anno fa, la Cgt ha lanciato il segnale
d'allarme chiedendo di conoscere la situazione; ma, dal momento che gli
altri sindacati si sono opposti, non si è potuta otttenere a procedura
della verifica contabile. Altrimenti, si sarebbe saputo molto prima che
cosa stesse tramando la direzione». Michel, 39 anni, operaio d'origine
congolese che lavora alla Ronal da tre anni, ritorna «scandalizzato
dalla povertà della Polonia». «In Africa si è convinti che tutti i
paesi europei siano sviluppati, ma sono rimasto impressionato da quello
che ho visto qui. La gente ci guardava come se fossimo dei ricchi. La
delocalizzazione è una brutta cosa, perché la nostra fabbrica chiuderà
e ci troveremo per strada, con le famiglie da sfamare, con i debiti da
pagare. Ma è positivo per quelli che stanno qui: un salario, anche se
magro, permetterà loro di sfamarsi. Ad ogni modo, le fabbriche si
spostano là dove otterranno maggiore profitto, decidono loro e noi
subiamo». Cédric, 23 anni, nipote di un minatore siciliano trapiantato
in Lorena, spera che «le cose si muoveranno in Polonia, che gli operai
cominceranno a rivendicare salari uguali ai nostri. La direzione ha
strappato loro di mano i volantini come se fossero dei bambini, e loro
hanno lasciato fare perché non c'è lavoro, c'è la miseria. Quelli che
hanno il potere sono davvero dei mascalzoni».


Lavoratori ancora più saldi

Qualche giorno dopo le elezioni europee, molti dichiarano di essersi
astenuti. Uno ha infilato nell'urna un adesivo della Ronal. La maggior
parte identificano l'Europa con la delocalizzazione, anche se la Ronal
si è insediata in Polonia parecchi anni prima dell'allargamento
dell'Unione Europea dello scorso 1° maggio. «Rifiuto tutto quello che è
politica europea, perché mi toglie il posto di lavoro», prorompe André,
anche lui d'origine polacca. «Tutti dicono che è colpa dell'Europa, ma
non ne sono sicuro, perché le delocalizzazioni risalgono a prima
dell'allargamento, e arrivano anche a Taiwan e in altre parti del
mondo», azzarda un altro operaio. «Piuttosto è colpa dei finanziatori,
che giocano con i posti di lavoro per guadagnare sempre più soldi».

Arrivando a Saint-Avold, dopo un'altra notte passata in autobus,
Stéphan Zervos si compiace, perché questo viaggio ha rinsaldato ancora
di più i lavoratori. In attesa della scadenza del 20 giugno, quando il
tribunale deve pronunciarsi sulla liquidazione dell'impresa, i
dipendenti della Ronal proseguiranno con le loro iniziative. Sembra che
abbiano preso gusto ai iviaggi: questa mattina vanno a Bruxelles, per
incontrare il deputato comunista europeo Francis Wurtz.

Fanny Domayrou

L'Humanité, (23-6-2004)
(Traduzione dal francese di Titti Pierini)


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Delocalizzazione, una pratica nota in tutto il mondo ed in costante
aumento

La delocalizzazione delle imprese all'estero non è un fenomeno nuovo né
provinciale. E' un modo di concepire l'impresa diffuso e in costante
espansione. Soprattutto negli ultimi 10 anni e soprattutto nell'area
Europea, delocalizzare la produzione sembra essere diventata una parola
d'ordine. E se gli Stati Uniti hanno sempre avuto specialmente il
Messico come territorio prelibato di caccia, Francia, Italia e Germania
hanno sempre preferito rivolgersi ai Paesi dell'Europa orientale,
Balcani, Romania e Paesi dell'ex Urss in primis, soprattutto dopo la
caduta del muro di Berlino: «Quelle che noi chiamiamo le filiere
internazionali - spiega Luciano Vasapollo, docente di economia
aziendale della facoltà di scienze statistiche de La Sapienza - seguono
questa rotta e non quella africana perché nei Paesi dell'Est la
manodopera non è solamente priva di diritti e tutele, oltre che,
ovviamente, a bassissimo costo, ma è anche molto specializzata».
Seguendo il dogma del maggior profitto a minor costo possibile,
delocalizzare un'impresa ha pochi e chiari metodi: «La parte del ciclo
produttivo ad alto valore aggiunto viene mantenuta in Italia, o dove
sia, mentre il processo produttivo viene portato all'estero». Una
prassi che trova il suo successo al momento della vendita: «Il prodotto
rientra non completamente finito in patria, dove viene definito e
etichettato con il marchio che permette di avere ricavi infinitamente
superiore ai costi». Una procedura che, fra l'altro, permette al
produttore di non pagare neanche le tasse alle frontiere.

Proprio ieri sono stati diffusi i dati Istat sul trend delle
importazioni ed esportazioni italiane: rispetto al mese di aprile, le
prime sono aumentate dell'1,3%, le seconde del 10,5%. Le esportazioni
sono incrementate specialmente verso l'Est: Turchia (+43%), Russia
(+28,8%) e Cina (+22,2%), e hanno riguardato soprattutto il settore dei
prodotti petroliferi raffinati (+72,5%) e dei metalli (+32,2%). Niente
di strano né di «sintomatico della ripresa economica», come ha
commentato il vice ministro delle attività produttive Adolfo Urso, se
rapportato al flusso in uscita degli investimenti diretti che sono
«investimenti con finalità strategiche di controllo o di coordinamento
delle imprese», come per esempio le azioni. Secondo i dati Ice, questi
investimenti sono esponenzialmente aumentati negli ultimi 10 anni,
arrivando (l'ultimo dato è del 2000) a contare 2.573 imprese a
partecipazione italiana, per un totale di 218.866 miliardi di vecchie
lire di fatturato. Il nord-est, soprattutto l'area veneta è il luogo in
cui le rilevazioni hanno uno scatto verso l'alto. I settori produttivi
maggiormente interessari da questo fenomeno sono (o meglio, erano fino
al 2000) nell'ordine, quello degli apparecchi meccanici, alimentari
bevande e tabacco, e proprio i metalli e i prodotti derivati. «E' la
nuova forma di colonialismo, non la morte del fordismo» - conclude il
prof. Vasapollo - «La fabbrica non ha chiuso i cancelli, si è solo
spostata in un altro Paese». Nella tabella degli indici di investimenti
diretti, il settore del petrolio figurava al penultimo posto. Ma le
guerre in Iraq ed in Afghanistan non c'erano ancora.

AM

Da: ICDSM Italia
Data: Lun 12 Lug 2004 13:36:08 Europe/Rome
A: icdsm-italia @yahoogroups. com
Cc: aa -info@yahoogroups .com
Oggetto: [icdsm-italia] Psychological Warfare & Western Propaganda


[ Ian Johnson contestualizza il processo-farsa contro Slobodan
Milosevic nell'ambito della piu' generale operazione di guerra
psicologica e disinformazione strategica che in tutti questi anni ha
accompagnato lo squartamento della Jugoslavia e la sua spartizione
imperialista - ovvero che ha accompagnato, per usare le parole dello
stesso Milosevic, l'operazione di "capovolgimento degli esiti della
Seconda Guerra Mondiale" guidata dalle cancellerie occidentali. Johnson
rievoca alcuni episodi-chiave che attestano della esplicita ed univoca
volonta' occidentale di spaccare il paese gia' nell'Ottobre 1991, ed
inserisce il dramma jugoslavo nel contesto della "transizione" di tutti
i paesi ex socialisti al capitalismo, con le conseguenti devastazioni
sociali che sono sotto agli occhi di tutti. ]


Psychological Warfare & Western Propaganda

By Ian Johnson


I recently came across some samples of the propaganda leaflets dropped
by Nato on Yugoslavia during the 1999 bombing campaign.

Of course the crude propaganda written on Nato’s leaflets can easily be
discredited. For instance one leaflet claims that Nato tried everything
to achieve a peaceful solution in Yugoslavia, whereas anyone conversant
with the Ramboulliet document will know that what Nato wanted was not a
just and peaceful resolution but a complete capitulation by the FRY.
Nevertheless the leaflets not only serve as historical documents but
also reveal the thinking and aims of the aggressors.

The warning to ‘get out of Kosovo’, contained in several of the
leaflets, is stated as if Kosovo was not an integral part of Serbia and
Yugoslavia itself and that theYugoslavs were the actual invaders rather
than the inhabitants.

Also the demonisation of Slobodan Milosevic prevalent in many such
leaflets highlights the fact that Nato were using the name Milosevic as
a substitute for the name Yugoslavia.

In October 1991 Britain’s Lord Carrington called the leaders of the
Yugoslav republics to a meeting in The Hague, Netherlands. The
discussions within the EU at this time revolved around three possible
outcomes to the Yugoslav ‘problem’. 1) For its structure to stay as it
was. 2) For certain republics to secede. 3) Complete dismantling.

Unusually no agenda was supplied to the Yugoslav delegation prior to
their attendance. Once at the meeting the delegation was surprised to
encounter not only Carrington but also all the foreign ministers of the
EU. They were told that there was to be discussions on only one of the
possible options, namely, the complete dismantling of Yugoslavia.

The EU ministers all spoke in favour of this option, as did the
majority of the heads of the republics. With unanimous agreement at
this point for his proposal Carrington turned to listen to the last
speaker, Slobodan Milosevic. Mr Milosevic rose to his feet and said,
and I paraphrase, " Gentlemen, you did not contribute to the creation
of Yugoslavia, you did not contribute to the building of Yugoslavia,
and you have no right to call for its dismantling. I can not agree to
this over the heads of the people of Yugoslavia and now I am returning
home." With this he picked up his papers, turned and walked out of the
meeting.

This reinforced the European powers belief that in order to destroy the
Federal Republic of Yugoslavia they would also have to destroy Slobodan
Milosevic.

Thus the name Milosevic became synonymous with the name and existence
of Yugoslavia.

Mr Milosevic understood very well that small, economically weak
mini-states could only ever be mere vassals under the control of the
major powers. What was being negotiated away at Carrington’s meeting
was any real meaning of sovereignty and independence.

A revealing anecdote to the above meeting is the role played at this
time by the United States. According to British Foreign Office sources
the Americans had told the Europeans that the EU should take the
initiative in this period and that the US would play a secondary role
and merely follow whatever decisions the EU made.

The Europeans were to find out later that at the same time as the US
was proposing this line they were simultaneously funding and arming the
Bosnian Muslims.

It is sometimes extremely difficult to ascertain which is the more
corrupt, deceitful and criminal body, the EU or the US government.

The Propaganda Continues.

Psychological warfare does not necessarily stop when the bombing ends.

The pro-western media now dominant in Yugoslavia and throughout Eastern
Europe play a crucial role in spreading disinformation and fear. Indeed
station B92 should surely be more accurately named as Serbia’s CNN. And
it is striking to see that the rewriting of Yugoslav history is now
emanating from Belgrade itself.

Furthermore the charges used against Milosevic of ‘isolating Serbia’
find an echo today in the propaganda used against Radical Party leader
Tomislav Nikolic, namely that an election victory for Nikolic would
‘isolate Serbia’ from the rest of Europe, a charge that no doubt played
a role in the recent presidential elections, narrowly won by the pro-US
market reformer Boris Tadic.

More than half of the people eligible to vote didn’t, obviously their
reasons can only be guessed at. However over forty-percent of those
that did vote backed Mr Nikolic, clearly not persuaded by western
propaganda to take the road of further market reforms and an
orientation to the big business club known as the European Union. To
their credit they saw a vote for Mr Nikolic as a stand for
self-determination and national sovereignty and a snub to the
imposition of the New World Order.

Despite the approval of the western elite the victory of Boris Tadic
will solve none of the basic economic and political problems facing
Serbia today. The road being taken by the pro-US elements inside the
country cannot but bring further hardship to the general population.

James Petras in a recent article
(http://globalresearch.ca/articles/PET406B ) outlined the results of
this road as seen in other countries over the last fifteen years. His
findings are worth quoting at length:

 
In Poland, the former Gdansk Shipyard, point of origin of the
Solidarity Trade Union, is closed and now a museum piece. Over 20% of
the labor force is officially unemployed (Financial Times, Feb. 21/22,
2004) and has been for the better part of the decade. Another 30% is
"employed" in marginal, low paid jobs (prostitution, contraband, drugs,
flea markets, street venders and the underground economy). In Bulgaria,
Rumania, Latvia, and East Germany similar or worse conditions prevail:
The average real per capita growth over the past 15 years is far below
the preceding 15 years under communism (especially if we include the
benefits of health care, education, subsidized housing and pensions).
Moreover economic inequalities have grown geometrically with 1% of the
top income bracket controlling 80% of private assets and more than 50%
of income while poverty levels exceed 50% or even higher. In the former
USSR, especially south-central Asian republics like Armenia, Georgia,
and Uzbekistan, living standards have fallen by 80%, almost one fourth
of the population has out-migrated or become destitute and industries,
public treasuries and energy sources have been pillaged. The
scientific, health and educational systems have been all but destroyed.
In Armenia, the number of scientific researchers declined from 20,000
in 1990 to 5,000 in 1995, and continues on a downward slide (National
Geographic, March 2004). From being a center of Soviet high technology,
Armenia today is a country run by criminal gangs in which most people
live without central heat and electricity.


Highlighting how the privatisation process has undermined the public
health system in these countries Petras goes on to observe:


A big contributor to the AIDS epidemic are the criminal gangs of
Russia, Eastern Europe, the Balkans and Baltic countries, who trade in
heroin and each year deliver over 200,000 'sex-slaves' to brothels
throughout the world. The violent Albanian mafia operating out of the
newly "liberated" Kosova (sic) controls a significant part of the
heroin trade and trafficking in sex-slaves throughout Western Europe
and North America. Huge amounts of heroin produced by the US allied war
lords of "liberated" Afghanistan pass through the mini-states of former
Yugoslavia flooding Western European countries.

 
Opposition.

That membership of the European Union will bring prosperity and end the
perceived isolation of a country is a myth. The EU exists as a vehicle
for the free movement of capital in its search for ever greater
profits. What membership of this organisation does is to open up a
country to full foreign penetration of its economy. Much of the
privatisation process continuing in Britain emanates from EU
directives, most recently for instance the post office and railways.
Moreover the convergence criteria demanded by the EU means that a
maximum of only 3% of a country’s GDP can be used on public spending.
In Britain this signals the phasing out of the NHS, council housing,
state education, pensions and general welfare provisions. All will go
private with devastating social consequences.

Britain apparently has the fourth strongest economy in the world. What
benefits therefore does this ‘strong’ economy bring to the vast
majority of the population of Britain? As well as the problems outlined
above it is a sobering thought that the personal debt of Britain’s 58
million people is greater than the external debts of Latin America,
Asia and Africa combined.

The main beneficiaries of this situation are the banks and financial
institutions whose profits over the last year alone have rocketed by
over 30%. And it is these same financial institutions, through the
current propaganda, that are promising states such as Serbia a future
of milk and honey!

Therefore the struggle being conducted in Serbia today, whether
consciously or not, is part of a much larger movement worldwide, which
is opposing the imposition of the New World Order, and all the misery
and poverty that entails for the majority of the world’s population.
Moreover the fight for truth and justice that Slobodan Milosevic is
engaged in at The Hague is central to that struggle.

Objective and independent reporting of Milosevic and The Hague tribunal
is virtually impossible in today’s mainstream media. A small but
revealing example of this is the instance when a freelance journalist
wrote about the Djindjic assassination for a leading UK newspaper. His
article contained several references to Mr Milosevic. He was told that
if he wanted his piece to be published he would have to preface the
name Slobodan Milosevic with the words ‘the dictator’. The journalist,
an honest man, argued that Milosevic had been elected democratically on
no less than three occasions so it would be misleading to call him a
‘dictator’. Nevertheless the final published article made reference to
‘the dictator Slobodan Milosevic’. This, I hasten to add, was a
so-called ‘liberal’ newspaper, yet it reflected the rules by which any
reporting on Yugoslavia is subjected to.

Few people have been as vilified in the western press as Mr Milosevic,
yet even fewer people have shown such courage in the face of adversity.
For the last two years from The Hague he has consistently defended his
country and its people against all attempts by the aggressors to
rewrite the history of Yugoslavia. When you compare his heroic stance
to that of the government currently in power in Belgrade and to that of
the powers behind the illegal Hague tribunal, you cannot fail to reach
the conclusion that we are witnessing the contrast between a political
giant as opposed to a gang of political pygmies.

In this crucial period in history we are proud to support him.

Ian Johnson. (CDSM-UK)

July 2004


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Da: ICDSM Italia
Data: Lun 12 Lug 2004 16:23:50 Europe/Rome
A: icdsm-italia @yahoogroups. com
Oggetto: [icdsm-italia] L'ennesima tournee di Carla Del Ponte


L'ennesima tournee di Carla Del Ponte

In occasione della sua ennesima tournee autopromozionale, la signora
Del Ponte ("procuratore" nel processo-farsa contro Slobodan Milosevic)
ha partecipato venerdì 9 luglio 2004 ad un incontro organizzato dalla
Fondazione Lelio Basso, per la presentazione del volume: LA CORTE
PENALE INTERNAZIONALE, PROBLEMI E PROSPETTIVE.

Come era gia' capitato in altre analoghe occasioni, il dibattito e'
stato tra intimi, ad inviti, "chiuso" ad interventi politicamente
"scorretti": tra gli interlocutori nessuno era stato invitato a
rappresentare opinioni veramente diverse. Eppure, un qualsiasi semplice
studente di diritto sarebbe in grado di screditare il "Tribunale ad
hoc" rappresentato dalla Del Ponte, contestandone la illegittimita' e
la violazione dei piu' elementari standard. Un Tribunale, quello
dell'Aia, che si regge soltanto con la prepotenza ed i soldi dello "zio
Sam", allo scopo di giustificare la barbara aggressione NATO alla
Jugoslavia pronunciando sentenze politiche gia' scritte preventivamente.
D'altronde, lo "zio Sam" che sponsorizza il "Tribunale ad hoc" della
Del Ponte e' quello stesso che garantisce per se stesso la immunita' da
tutte le eventuali accuse di "crimini di guerra", e che si rifiuta di
firmare per la istituzione dell’altro Tribunale Internazionale, la
"Corte Penale", oggetto per l'appunto del dibattito della Fondazione
Lelio Basso. E, guarda caso, l'attuale presidente del "Tribunale ad
hoc" della Del Ponte (Theodor Meron) e' precisamente l'ex inviato di
Clinton alla Conferenza di Roma per la istituzione della Corte Penale
Internazionale: quello cioe' che disse formalmente di "NO", a nome
degli USA, in quella occasione... E questa palese incongruenza non
sfugge a nessuno che non sia davvero in malafede.

Nell'occasione del suddetto dibattito, alcuni compagni delI'ICDSM,
Sezione Italiana, hanno  fatto del volantinaggio all'entrata, riuscendo
a consegnare personalmente alla Del Ponte copia della Lettera Aperta di
Ramsey Clark a Kofi Annan (
http://it.groups.yahoo.com/group/icdsm-italia/message/50 ). Una
interessante, davvero surreale intervista alla Del Ponte e' stata
effettuata nella stessa occasione da Tommaso di Francesco: la
riportiamo di seguito.


(A cura di ICDSM Italia. Sulla "strana" carriera di Carla Del Ponte
vedi anche:
http://it.groups.yahoo.com/group/icdsm-italia/message/7 )


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il manifesto - 10 Luglio 2004

INTERVISTA
«Andrò fino in fondo, voglio tutta la verità»

Del Ponte: «Un avvocato per Milosevic malato. Crimini Nato: riaprirò il
caso»

TOMMASO DI FRANCESCO

Abbiamo incontrato Carla Del Ponte, procuratore del Tribunale
internazionale per i crimini nell'ex Jugoslavia, a Roma in occasione di
un seminario sul libro «La Corte penale internazionale. Problemi e
prospettive», organizzato dalla Fondazione internazionale Lelio Basso.
Il procuratore dell'Aja è impegnata in questo momento in una fase
delicatissima del processo che vede alla sbarra l'imputato eccellente
Slobodan Milosevic. Che ora chiede che vengano sentiti in aula più di
1.600 testimoni internazionali, tra questi tutti i leader occidentali
responsabili della guerra «umanitaria» del 1999, da Bill Clinton a Tony
Blair, da Schroeder a Solana. Ma ora l'imputato Milosevic è alle prese
con la sua salute: anche i medici del Tribunale dell'Aja riconoscono un
suo grave scompenso cardiaco.

Cosa risponde a chi l'accusa di esercitare la «giustizia dei vincitori»

Non vedo dove si possa parlare di giustizia dei vincitori. La giustizia
qui si configura soprattutto nel processo penale celebrato contro gli
alti responsabili di gravi crimini commessi durante il conflitto
nell'ex Jugoslavia. La giustizia dei vincitori è quella che non
protegge i diritti della difesa, sopravvaluta o valuta senza troppa
critica le prove a carico e fa un processo veloce con un solo giudizio.
Questa è la giustiza dei vincitori! Noi stiamo celebrando processi che,
in quanto a equità, non hanno eguali in nessun sistema nazionale,
quanto a durata e a sentenze emanate.

Il fatto di aver accorpato insieme tre periodi storici delle guerre
balcaniche con caratteristiche perfino antagonista, non rischia di
uniformare il procedimento d'accusa. La guerra di Bosnia, quella
serbo-croata precedente, il Kosovo...

Su questo non sono d'accordo con lei, perché il conflitto nei Balcani
ha avuto un inizio in Croazia, è lì che si è configurato il conflitto
armato ai sensi di legge. E lì già interveniva Belgrado, con aiuti
sostanziali; quindi c'è una interconnessione fra un conflitto e l'altro
che dura praticamente dieci anni. All'inizio naturalmente ci sono le
colpe individuali, quindi crimini di base che sono uguali per tutti ma
poi c'è la prova individualizzata sulla responsabilità personale
dell'accusato. Da lì ci escono le interconnessioni. Sì c'è una
distinzione netta, ma di tempo...

Ma nel 1991 esisteva ancora la Federazione jugoslava, il premier era
Markovic, croato, Loncar era ministro degli esteri, croato, c'era
l'Armja, il cui capo di stato maggiore Kadjevic era croato. C'era
ancora un paese e un esercito che, certo con il massacro di Vukovar,
comincia ad etnicizzarsi. E' responsabile solo Milosevic che in quel
periodo ha i poteri in Serbia ma non nella Jugoslavia.

De jure non ha il potere, de facto abbiamo dimostrato che ce l'aveva. E
c'è una connessione con l'inizio del conflitto che secondo noi comincia
in Croazia e si espande in Bosnia. Naturalmente si può dire che il
Kosovo è un conflitto a se stante, però nasce da quelle che sono le
risultanze belliche che vengono dalla Croazia. E poi a Vukovar c'è
l'episodio della strage dell'Ospedale. Quel crimine lo hanno commesso i
serbi. Ma può darsi che come lei dice, le configurazioni delle guerre
siano diverse. Lei mi esamina il conflitto armato, io mi occupo di
crimini durante il conflitto armato e cerco di individuare le alte
responsabilità di questi crimini ed è lì che ho l'interconnessione tra
Croazia, Bosnia e Kosovo.

Ma è proprio questa configurazione diversa che configura responsabilità
diverse...

Sicuramente sono responsabilità diverse. Ma prenda il processo
Milosevic. Lì abbiamo fatto tre distinti atti d'accusa proprio perché
ci sono responsabilità, come dice lei, diverse. Però c'è una
responsabilità criminale penale dello stesso soggetto.

Di fronte alla gravità della guerra etnica nei Balcani, non le sembra
che un solo colpevole sia un po' poco? Perché Tudjman e Izetbegovic non
sono mai stati incriminati? E' vero che sono morti, ma quando erano in
vita niente.

Lei dà la risposta. Ho sempre detto, quando ancora erano in vita, che
non ho risorse tali da poter simultaneamente condurre 45 inchieste. Ne
posso fare 6 o 7 al massimo. Quando sono arrivata lì ho trovato queste
7 inchieste in corso, quelle che abbiamo terminato e ne abbiamo aperte
altre. Era chiaro che stavamo conducendo le inchieste quantomeno per
valutare la posizione di Tudjman ed Izetbegovic. Purtroppo non abbiamo
potuto terminare queste inchieste perché la morte del sospetto chiude
l'inchiesta. Non la possiamo continuare.

Amnesty International e Human rights Watch le hanno consegnato rapporti
importanti chiedendole d'incriminare i leader dell'Alleanza atlantica
per l'uccisione di migliaia di civili durante la campagna di 78 giorni
di bombardamenti sulla Serbia e il Montenegro. Lei ha detto no. Ci sono
crimini di serie A e quelli di serie B?

Lavoro con quello che posso raccogliere. Avevo alcuni episodi che
meritavano un approfondimento ed è quello che ho cercato di fare. Sono
arrivata a un punto che avevo bisogno di avere accesso alla
documentazione e alle informazioni della Nato. Non mi è stato possibile
ottenerle. Io lavoro con quello che mi arriva, le inchieste si fanno
secondo regole di legge per poter acquisire prove, quando valuto che ho
sufficienti prove emano gli atti d'accusa secondo la competenza che mi
è stata data. Alla mia prima visita a Belgrado ero sicura che potessero
aiutarmi con la loro documentazione. Aspetto ancora. Comunque io sono
pronta, perché la legge me lo consente, a riaprire questa inchiesta,
quella sulla Nato, se qualcuno finalmente si decide a collaborare con
noi. Avevo degli indizi concreti che mi obbligavano a continuare. Anche
se, sono realista... non è facile

Visti i problemi politici - crisi di governo, uccisione del premier
Djindjic, crescita ulteriore del nazionalismo estremista - è sicura che
l'infinita pressione del Tribunale dell'Aja, senza sollecitare la
giustizia dei serbi, sia stato il modo migliore di comportarsi. I serbi
di Bosnia hanno riconosciuti il crimine di Srebrenica in questi giorni,
a prescindere da arresti e imputati eccellenti...

Questo ultimo riconoscimento è stato importantissimo. Quanto al metodo,
è la direzione giusta anche per Belgrado, più difficile, ma è la buona
direzione perché altrimenti non ci arriviamo, dico politicamente non ci
arriviamo. Perché i processi che stiamo celebrando noi dovrebbero
portare all'accertamento della verità dei fatti e non alla
disinformazione che la comunità internazionale ha sempre ricevuto.

Ma lei crede che l'Occidente non abbia avuto alcuna responsabilità nel
disastro jugoslavo? Pensi alla miccia accesa con i riconoscimenti delle
indipendenze proclamate su base etnica a partire dagli anni 1991-1992...

Io non faccio questioni di geopolitica. Ora però è lo stesso Milosevic
che con la sua difesa, con la chiamata come testimoni di tanti leader
occidentali, ci obbligherà ad entrare in questo tipo di questioni,
perché la sua è una difesa politica. E' importante, perché così sapremo
veramente la verità dei fatti.

In questo momento il processo Milosevic vive un momento molto molto
delicato, l'imputato eccellente dice che il suo deterioramento di stato
di salute è conseguenza della decisione di non avere sufficiente tempo
per difendersi. Che succederà alla fine? Il tribunale attribuirà de
jure, contro la volontà dell'imputato un avvocato d'ufficio?

Non è che Milosevic non abbia avvocati che lo assistano nella
preparazione della difesa, è solo che lui vuole essere da solo in aula
perché così è lui che parla. E' un suo diritto ed è un suo desiderio.
Ora c'è il suo grave stato di salute, ma già prima non si poteva e non
si potrà neanche in futuro avere più di tre giorni di udienza alla
settimana e non più di quattro ore al giorno. Avremmo finito in meno di
un anno se avessimo potuto avere i cinque giorni di udienza e il giorno
completo. Milosevic ora deve contattare i testi, deve prepararli, ha
bisogno di tempo. Nell'ultima udienza del 5 luglio abbiamo chiesto che
adesso gli si assegnassero dei difensori d'ufficio anche per preservare
la sua salute. Lui rifiuta. Adesso la corte ha rilasciato un giudizio:
chiede un altro parere da un altro cardiologo e poi deciderà. Però ha
già chiesto al cancelliere del tribunale di vedere potenziali
difensori. L'importante è che Milosevic possa difendersi e possa finire
questo processo.

E se lui rifiutasse questa condizione?

Noi abbiamo un precedente nel tribunale di Arusha per il Ruanda, dove
abbiamo un accusato che non vuole difendersi, che non riconosce il
tribunale e che non viene in aula. E lì la corte con un giudizio
motivato ha assegnato due difensori d'uffico che hanno rappresentato
gli interessi dell'accusato. Per Milosevic ricominciamo la prossima
settimana, il 21 luglio ci sarà una sospensione fino a fine agosto e in
questo periodo i giudici decideranno se assegnarli l'avvocato. Noi non
vogliamo che questa parte, quella dei testimoni internazionali, venga
meno.

In Kosovo a marzo si è resa evidente una nuova ventata di pulizia
etnica feroce. E' il caos e l'illegalità. A che è servita la guerra
«umanitaria»? Perché lei non interviene per questi nuovi crimini?

Purtroppo no. Eppure mi sono detta: adesso interveniamo, pensando che
avessimo competenza. Ma non c'è conflitto armato... Noi abbiamo bisogno
dell'elemento conflitto armato a norma di legge, e non c'è. Invece a me
andava benissimo, perché è senz'altro un seguito di questo odio etnico.



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ELEZIONI EUROPEE 13 GIUGNO 2004
RISULTATI E COMMENTI SUI PARTITI AREA “GUE-NGL”


Repubblica Ceca

Nonostante la sua non adesione al “Partito della sinistra europea”
(SE), il KSCM raggiunge il suo massimo storico (20,3%), con 6 seggi al
Parlamento Europeo sui 24 complessivi, avanzando (+1,8%) anche rispetto
al risultato già molto alto delle precedenti legislative. La PDS ceca,
aderente alla SE, ottiene 1.709 voti, pari allo 0,07%. Dopo il voto, in
data 26 giugno, si è riunita la Seconda Sessione del CC del partito,
che ha definito ufficialmente la collocazione dello stesso rispetto al
percorso di costruzione della SE, definendo lo status di “osservatore”.

Slovacchia

Il Partito Comunista Slovacco (KSS), che aveva in una prima fase
aderito alla SE, non supera la soglia del 5%, fermandosi al 4,5%, senza
ottenere alcun seggio. Il KSS aveva ottenuto il 6,3% alle precedenti
legislative, entrando per la prima volta nel Parlamento nazionale. Al
Congresso del 26 giugno, il KSS ha rivisto la propria posizione
rispetto alla SE, definendo, come i cugini cechi, lo status di
“osservatore”.

Grecia

Il KKE (Partito Comunista Greco), col 9,5%, non solo conferma i suoi 3
seggi europei, ma ottiene il suo massimo storico a partire dal 1990,
vale a dire dalla scissione che ha dato vita al Synaspismos (Syn), con
un +0,8% sulle precedenti europee e +3,5% sulle legislative di
quest’anno. Il Syn, tra i “soci fondatori” della SE, ottiene il 4,1%
(-1,1% rispetto al 1999, +0,9% rispetto alle ultime legislative di
marzo) ed 1 seggio europeo, perdendone uno rispetto alle precedenti
europee.

Portogallo

IL PCP (nella tradizionale coalizione CDU) ottiene il 9,2% e conferma i
suoi 2 seggi europei (-1,2% sulle precedenti europee, +2,4 sulle ultime
legislative). Il Bloco de Ezquerda (sinistra radicale non comunista)
ottiene un sorprendente 4.9% (+ 3,3 sulle precedenti europee, + 2,3
sulle legislative.), conquistando, per la prima volta, 1 seggio europeo.

Cipro

AKEL ottiene il 27,9% e 93.212 voti, mantenendo 2 seggi europei ma
perdendo il 6,9 % rispetto al picco raggiunto alle legislative di
quest’anno.

Germania

Il Partito del Socialismo Democratico (PDS), “socio fondatore” della
SE, ottiene il 6.1% e 7 seggi europei (+ 1 rispetto al 1999),
aumentando la percentuale dei consensi dello 0,3% rispetto alle
precedenti europee e dell’1,2% sulle legislative.

Italia

Il Partito della Rifondazione Comunista ottiene il 6,1% e 5 seggi, + 1
rispetto al 1999, aumentando le percentuali di consenso dell’1,1 %
sulle politiche del 2001 e dell’1,8 sulle europee. Il Partito dei
Comunisti Italiani (PdCI) ottiene il 2,4%, confermando i 2 seggi
precedenti ed ottenendo un + 0,7 sulle politiche e + 0,4 sulle europee.

Francia

Il PCF ottiene il 5,2% e 2 seggi europei, perdendo l’1,5% e 4 seggi
rispetto alle precedenti europee del 1999 e guadagnando soltanto lo
0,1% rispetto al dato fortemente negativo delle politiche del 2002,
tradendo così, almeno in parte, le aspettative suscitate dal voto delle
regionali del 2004. Il Consiglio Nazionale del partito, riunitosi in
data 25 giugno 2004, ha fissato nella seconda metà di settembre il
periodo di
svolgimento del referendum confermativo tra gli iscritti per l’adesione
alla SE. Le liste di ispirazione trotzkista, LO-LCR, presentatesi
insieme alle elezioni, si fermano al 3,5%, perdendo i 5 seggi che
avevano al Parlamento europeo. Il PC di Reunion (Union gauche), nei
territori d’oltremare, ottiene il 28.8 %, acquisendo1 seggio ed
entrando per la prima volta al Parlamento.

Olanda

Il Socialistische Partij (PS) ottiene il 7 % (+ 2% rispetto alle
europee 1999 e +0,7 rispetto alle politiche del 2003) e 2 seggi
europei, guadagnandone 1 rispetto al 1999.

Spagna

L’alleanza elettorale tra Izquierda Unida (IU), uno dei “soci
fondatori” della SE, ed Iniziativa per Catalogna-Verdi (ICV) ottiene il
4,1% e 2 seggi, uno dei quali per IU nel GUE, mentre l’altro, di ICV,
andrà nei Verdi. Con questo risultato, IU raggiunge il minimo storico,
peggiorando il risultato già molto negativo delle recenti elezioni
politiche di marzo 2004 (-1,7% sulle precedenti europee, -0,5% sulle
politiche) e perdendo 3 deputati europei.
All’indomani del risultato elettorale ed in vista del Congresso
convocato per dicembre si è aperta tra i diversi soggetti costituenti
IU, tra i quali il Partito Comunista Spagnolo, una discussione accesa
che, al momento, parrebbe limitata solo ad alcuni aspetti della recente
gestione di IU (eccessivo verticismo, personificazione esasperata…) e
non tanto proiettata a produrre un bilancio sereno e rigoroso delle
ragioni politiche della continua ed evidente erosione di consenso.

Paesi Nordici

In Svezia, il Partito della Sinistra (Vänsterpartiet) ottiene il 12,8%
e 2 seggi europei, perdendo il 3% ed 1 seggio rispetto al 1999, ma
guadagnando uno 0,7% rispetto alle politiche.
In Finlandia, l’Alleanza di Sinistra (Vasemmistoliitto) conferma lo
stesso risultato elettorale del 1999: 9.1% ed 1 seggio europeo. La
situazione in Danimarca è più complessa. Il Partito Socialista Popolare
(SF) ottiene l’8,1% (+1% rispetto alle europee 1999, +1,8 rispetto alle
politiche), confermando 1 seggio europeo. Al contrario, la lista di
ispirazione “souvrainista” Movimento di Giugno, che tanto successo ha
riscosso in Svezia (14,4% e 3 seggi), si ferma al 9% (-7,1% rispetto al
1999), acquisendo 1 seggio contro i 3 precedenti (uno solo dei 3
parlamentari aveva aderito al GUE). La lista Folk B, movimento popolare
contro l’UE, elegge un parlamentare, che ha già aderito al GUE.

Lettonia

La lista “Diritti dell’uomo”, composta su base etnica (in difesa della
minoranza russofona) ma complessivamente orientata a sinistra, con una
capolista considerata vicina ai comunisti (ancora fuorilegge in
Lettonia), ottiene 10.7% ed 1 seggio. E’ possibile che anche questa
lista entri a far parte del GUE. Dopo aver partecipato come osservatori
e con molto distacco ad alcune riunioni sul “partito europeo”, i
rappresentanti di questa lista non hanno partecipato al congresso
fondativo della SE di Roma neppure come invitati.

ALCUNE CONSIDERAZIONI DI MERITO

1) I migliori risultati sul piano elettorale sono stati conseguiti dai
Partiti comunisti che non hanno aderito alla SE, che maggiormente hanno
contestato e continuano a contestare il progetto di costituzione ed
allargamento della UE a partire dalle sue fondamenta strategiche, e
che, sul piano identitario, continuano a richiamarsi al marxismo e al
leninismo: dal KKE greco ai portoghesi, da AKEL cipriota ai comunisti
di Boemia e Moravia. Da soli questi 4 partiti, anche grazie
all’ingresso di nuovi paesi, ottengono un terzo dei seggi del futuro
GUE-NGL, passando dai 5 del precedente parlamento ai 13 attuali (+8),
ai quali potrebbe aggiungersi l’eurodeputata lettone.

2) Su un totale di 40 seggi nel GUE-NGL, i partiti facenti parte della
SE esprimono 16 seggi, contro i 24 degli altri. Nel nuovo GUE, di
conseguenza, la SE, che possiede una consistenza più o meno equivalente
a quella del “polo comunista”, risulta nettamente in minoranza.

3) Tra i partiti aderenti alla SE, avanzano il PRC (+ 1 seggio) e la
PDS tedesca (+ 1); mentre arretrano tanto il PCF (- 4), quanto IU (- 3)
e SYN (- 1). Rispetto al precedente parlamento europeo, il saldo
complessivo è marcatamente negativo: -6 seggi.

4) Considerando i soli Partiti comunisti, 15 eurodeputati sono fuori
dalla SE e solamente 7 ne fanno parte.

5) Riguardo i trotzkisti, che nella legislatura precedente potevano
contare su 5 eurodeputati francesi (LCR-LO), ottengono oggi un solo
parlamentare europeo, eletto in Portogallo nel BE, di orientamento
“bertinottiano” (sinistra radicale), uscito molti anni fa dal PCP. Il
BE, ad ogni buon conto, contiene una forte componente trotzkista e
partecipa al coordinamento europeo della Sinistra anticapitalistica,
dominato dalla Quarta internazionale.

6) Se si esamina con oggettività ed obbiettività il voto europeo dei
comunisti e delle forze della sinistra alternativa è davvero difficile
sostenere che l’appartenenza alla SE, una cultura politica di rottura
col “comunismo novecentesco” ed un orientamento “europeista” (vale a
dire interno al progetto UE, che non ne contesta le fondamenta
strategiche, simile alle correnti di sinistra della socialdemocrazia)
sarebbero gli ingredienti fondamentali del successo. Sarebbe forse,
alla luce dei dati, più semplice sostenere il contrario. Successi ed
insuccessi appaiono assai più legati alle dinamiche nazionali, a
partire dal legame dei diversi partiti coi rispettivi popoli e
movimenti operai. Quando questo legame di massa è solido, o
forte, il non essere parte della SE, il riferimento ideologico al
leninismo (od alle “eredità staliniane”, per dirla con Bertinotti)
oppure, ancora, un atteggiamento di opposizione strategica all’UE non
appaiono certo come elementi in grado di condizionare negativamente il
consenso.

IL NUOVO GUE-NGL

• Partito del Socialismo Democratico (Germania): 7 seggi (+1 rispetto
al 1999);
• Partito della Rifondazione Comunista (Italia): 5 seggi (+1);
• Partito dei Comunisti Italiani (Italia): 2 seggi (idem);
• Partito Comunista di Boemia e Moravia (Repubblica Ceca): 6 seggi
(nuovo membro UE);
• Partito Comunista Greco (Grecia): 3 seggi (idem);
• Synaspismos (Grecia): 1 seggio (-1);
• Partito Comunista Francese (Francia): 2 seggi (-4);
• Partito Comunista di Reunion (Francia, territori d’oltremare): 1
seggio (+1);
• Partito Comunista Portoghese ed Ecologisti (Portogallo): 2 seggi
(idem);
• Blocco di Sinistra (Portogallo): 1 seggio (+1);
• Partito della Sinistra (Svezia): 2 seggi (-1);
• Partito Socialista Popolare (Danimarca): 1 seggio (idem);
• Folk. B (Danimarca): 1 seggio (idem);
• AKEL (Cipro): 2 seggi (nuovo membro UE);
• Sinistra Unita (Spagna): 1 seggio (-3);
• Partito Socialista (Olanda): 2 seggi (+1);
• Alleanza di Sinistra (Finlandia): 1 seggio (idem).

Il GUE-NGL risulta così costituito da 40 parlamentari europei, che
hanno eletto Presidente del Gruppo il francese Francis Wurtz

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LETTERA INVIATA A LIBERAZIONE IL 7/7:

Le forze comuniste e le elezioni europee del 13 giugno 2004

Dal momento che ha avuto inizio, nel nostro come in altri partiti, la
discussione relativa alle prospettive aperte dal voto europeo del 13
giugno, sarebbe forse opportuno produrre un quadro, sintetico ed
esaustivo, dei risultati ottenuti dalle diverse forze comuniste e della
sinistra di alternativa. Anche per aggiornare, dopo il voto, la nostra
discussione sul Partito della Sinistra Europea (SE). Tra le forze
comuniste, oltre al dato positivo del PRC, spiccano i risultati
ottenuti dal Partito Comunista Greco (9,5%), miglior dato elettorale
dal 1990, dai comunisti portoghesi nella tradizionale coalizione CDU
(9,2%), da AKEL di Cipro (27,9%, pur in flessione rispetto al picco
delle politiche) e, soprattutto, dai comunisti cechi, che si attestano
al 20,3%, massimo storico, e divengono la seconda forza politica del
paese. Al contrario, i comunisti francesi (5,2%), dopo la boccata di
ossigeno delle ultime e recenti regionali, non migliorano di molto il
dato fortemente negativo delle politiche del 2002, perdendo così 4
seggi rispetto alle europee 1999, mentre i comunisti slovacchi non
riescono a
superare lo sbarramento del 5%. Tra le forze di alternativa, tiene solo
la PDS tedesca. I greci del Synaspismos, pur migliorando il dato
negativo delle politiche del marzo 2004, arretrano rispetto alle
precedenti europee (perdendo così 1 dei 2 seggi a Starsburgo), mentre
IU spagnola raggiunge un nuovo minimo storico dopo le politiche del
marzo di quest’anno (4,1% insieme ad Iniziativa per Catalogna-Verdi ed
1 solo parlamentare eletto contro i 4 del 1999 –il secondo si iscriverà
al Gruppo dei Verdi-). La PDS ceca, poi, ottiene lo 0,07%. Le liste di
ispirazione trotskista perdono i 5 rappresentanti francesi di LO-LCR,
ferme al 3,5% e possono contare solamente sul parlamentare eletto in
Portogallo nelle file del Blocco di Sinistra. Da registrare, infine, la
sostanziale tenuta dei partiti nordici. Se questi sono i numeri, nel
nuovo GUE-NGL le forze aderenti alla SE possono contare su 16 dei 40
componenti il gruppo europeo, perdendo 6 seggi rispetto alle europee
del 1999. D’altra parte, comunisti greci, portoghesi, ciprioti e
ceco-moravi raggiungono, grazie all’apporto dei nuovi paesi, 13
parlamentari europei (contro i 5 eletti da greci e portoghesi nel
1999). Se si considerano i soli partiti comunisti, poi, a seguito della
decisione ufficiale di ceco-moravi (CC del 26 giugno) e slovacchi
(Congresso del 26-27 giugno) di collocarsi come semplici “osservatori”
rispetto alla SE, 15 eurodeputati risultano fuori dal partito europeo e
solo 7 dentro. In questo contesto è davvero difficile sostenere che
l’appartenenza alla SE, una cultura politica di rottura col “comunismo
novecentesco” ed un orientamento “europeista” (vale a dire tutto
interno al progetto UE, che non ne contesta le fondamenta strategiche,
simile alle correnti di sinistra della socialdemocrazia) sarebbero gli
ingredienti fondamentali del successo. Sarebbe forse, alla luce dei
dati, più semplice sostenere il contrario. Successi ed insuccessi
appaiono assai più legati alle dinamiche nazionali, a partire dal
legame dei diversi partiti coi rispettivi popoli e movimenti operai.
Quando questo legame di massa è forte, il non essere parte della SE, il
riferimento ideologico al leninismo oppure, ancora, un atteggiamento di
opposizione strategica all’UE non appaiono certo come elementi in grado
di condizionare negativamente il consenso.

Marcello Graziosi
(Modena)