Informazione

LETTONIA: CANCELLATA DEFINITIVAMENTE LA FESTA DELLA VITTORIA SUL
NAZIFASCISMO

Le autorità di Riga presentano le loro credenziali all’Europa


http://www.partaktiv.info/main/409cf23b26f7d/

8 maggio 2004

Mentre, tra torrenti di retorica che ha contagiato anche la “sinistra
europea”, la Lettonia faceva il suo ingresso nell’Unione Europea, a
Riga 50.000 giovani della minoranza russa (e lettoni) scendevano in
piazza per manifestare contro le leggi discriminatorie tendenti a
consolidare nel paese il regime dell’apartheid. In un’altra città,
Liepaja, la polizia interveniva pesantemente contro i dimostranti,
mandandone parecchi al pronto soccorso.

Il giorno precedente N. Kononov , coraggioso comandante partigiano
ottantaduenne (definito “eroe della guerra antifascista” anche dal
presidente russo Vladimir Putin), che già in tarda età aveva dovuto
subire prigione e maltrattamenti, veniva definitivamente (tra le
proteste delle autorità russe e nell’indifferenza delle istituzioni
europee) condannato a 7 anni, con l’accusa di aver fatto giustiziare
alcuni criminali di guerra collaborazionisti nel 1944.

Come se non bastasse, a ulteriore conferma del carattere “democratico”
del regime al potere in Lettonia, di fronte alla richiesta avanzata
dalle organizzazioni partigiane di celebrare in forma ufficiale il 9
maggio, festa della vittoria sul nazifascismo, il presidente della
repubblica rispondeva con un provvedimento che suona come conferma
della cancellazione dello storico avvenimento dal calendario delle
celebrazioni di stato.

In merito a questa ultima vergognosa decisione del governo lettone (e
per richiamare l’attenzione della “sinistra europea”, che, nel suo
congresso dell’8-9 maggio, dove pure sono risuonate critiche severe a
Cuba, non ha ritenuto però di pronunciare una sola parola sulla grave
situazione in cui versano le libertà democratiche nell’europea
Lettonia) pubblichiamo un articolo apparso nel sito comunista ucraino
“Partaktiv.info”. 

M.G.

 

In Lettonia non ci sono le ragioni per festeggiare il 9 maggio come
“Giorno della vittoria”, poiché da quel momento essa per 50 anni è
stata nuovamente occupata dall’Unione Sovietica, si afferma nella
lettera indirizzata dal consigliere del presidente della Lettonia per
le questioni storiche, il professor Anton Eunda, ai veterani del “130°
Corpo dei fucilieri lettoni” e delle brigate partigiane.

I veterani della Seconda guerra mondiale, che hanno combattuto in
formazioni lettoni a fianco della coalizione antihitleriana, si sono
rivolti alla vigilia del 59° anniversario della sconfitta della
Germania hitleriana al presidente della Lettonia, con la richiesta di
attribuire a questa significativa data un carattere ufficiale.

Dopo l’indipendenza, in Lettonia il carattere ufficiale di “Giorno
della vittoria contro il fascismo” del 9 maggio era stato revocato.
Allo stesso tempo si era deciso di celebrare l’8 maggio come festa
della sconfitta del nazismo e del ricordo di tutte le vittime della
Seconda guerra mondiale.

Polemizzando con il consigliere del presidente sulle pagine del
giornale in lingua russa di Riga, “Cias” (L’ora) il membro dell’ufficio
di direzione della Società dei membri del “130° Corpo dei fucilieri
lettoni” e delle brigate partigiane Aleksandr Komarovskij ha detto che
solo nelle battaglie in Lettonia sono morti 150.000 soldati sovietici.
A suo parere, anche i cittadini della Lettonia, che era entrata
all’inizio della Seconda guerra mondiale nell’ambito dell’Unione
Sovietica, hanno dato il loro contributo alla disfatta del nazismo.

 
Traduzione di Mauro Gemma      

[ The original text, in english:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3432 ]


Cari compagni, vi invio in allegato una mia recente traduzione di un
reportage di una Americana da Falluja. Leggere e diffondere è doveroso!
Curzio
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Cronache da Falluja

[ Da più di un mese, le truppe statunitensi di occupazione
hanno preso d'assedio la città di Falluja. Mentre l'opinione pubblica
occidentale viene distratta da rapimenti di "civili", ai quali viene
dato il massimo risalto mediatico, i morti tra la popolazione locale
sono centinaia. I cecchini USA sparano tranquillamente anche sulle
madri di famiglia, sulle ambulanze, bombardano gli ospedali, sicuri di
non dover rispondere a nessuno, a nessun “Tribunale Speciale per i
Crimini di Guerra nell’ex Iraq”... ]

Cecchini USA a Falluja colpiscono alla schiena un uomo disarmato, … una
vecchia signora con la bandiera bianca, … bambini che fuggono dalle
loro case, …e l’ambulanza con la quale stavamo cercando di soccorrere
una donna che stava partorendo prematuramente…

by Jo Wilding

Centro di Osservazione sull’Occupazione in Iraq
http://www.occupationwatch.org/article.php?id=4105
13 aprile 2004

(traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)


Camions, autocisterne per carburanti, carri armati stanno bruciando
sull’autostrada ad est verso Falluja. Un flusso continuo di ragazzini e
uomini va e viene da un autocarro, che non è bruciato, smontandolo
completamente.
Noi prendiamo la via del ritorno tramite Abu Ghraib, Nuha e Ahrar che
imprecano in Arabo, vicino a veicoli pieni di gente con qualche
masseria, che vanno verso la direzione opposta, vicino a posti di
ristoro improvvisati lungo la strada, dove ragazzini buttano cibo
attraverso i finestrini del bus per noi e per le persone bloccate
dentro Falluja.

Il bus sta seguendo una macchina con il nipote di uno sceicco locale e
con una guida che ha contatti con i Mujahedin e ha dato loro
spiegazioni. La ragione per cui mi trovo sul bus è che un giornalista
di mia conoscenza è comparso da me verso le 11 della notte,
raccontandomi che a Falluja le cose erano disperate, che aveva portato
fuori bambini con le membra spappolate, che i soldati USA andavano in
giro minacciando la gente, che se ne dovevano andare via al tramonto
altrimenti venivano ammazzati, ma anche quando le persone fuggivano con
quello che potevano trasportare, venivano fermate ai posti di blocco
dell’esercito USA alla periferia della città, e non lasciate uscire,
intrappolate, a guardare il tramonto del sole.

Egli mi diceva che i veicoli di soccorso e i mezzi di informazione
erano stati mandati via. Mi diceva che esisteva la necessità di portare
dentro qualche aiuto sanitario, e che vi sarebbe stata miglior
possibilità per degli stranieri occidentali di ottenere questo,
passando attraverso i posti di blocco americani. Il resto delle vie era
controllato da gruppi armati che tenevano sotto tiro le strade che
avremmo percorso. Avremmo preso con noi una certa quantità di
medicinali, e così si poteva portare qualche aiuto e quindi usare il
bus per portare fuori la gente che sentiva il bisogno di fuggire.

Vi risparmierò come è maturata la decisione di passare all’azione,
tutte le domande che ci siamo poste e voi vi potrete risparmiare le
accuse di pazzia, su cosa ci aveva spinto a fare questo: se non lo
facevamo noi, chi l’avrebbe fatto?
In un qualche modo, siamo arrivati tutti interi.

Abbiamo ammassato il materiale nel corridoio e i pacchi sono stati
aperti immediatamente, le coperte sono state le più gradite. Non si
tratta proprio di un ospedale, ma di una clinica, di un gabinetto
medico privato che accoglie la gente liberamente, dato che i
bombardamenti aerei hanno distrutto il principale ospedale della città.
Un altro ambulatorio è stato improvvisato in un garage. Non vi sono
anestetici. Le sacche di sangue si trovano in un frigorifero per bibite
e i medici le riportano a temperatura ambiente sotto un getto di acqua
calda in una toilette in condizioni antigieniche.

Vengono avanti donne che urlano, che pregano, che si colpiscono il
petto e il volto.
“Ummi, mamma mia”, una grida. La porto da Maki, un esperto e attivo
direttore della clinica, mi conduce al letto di un bambino di circa
dieci anni che giace con una pallottola piantata nella testa. Un
bambino più piccolo, nel letto vicino, è stato appena curato per una
identica ferita. Un cecchino USA ha colpito lui e la sua nonna mentre
uscivano dalla loro casa per abbandonare Falluja.

Le luci vanno via, il ventilatore si blocca, e nell’improvviso silenzio
qualcuno tiene ferma la fiamma di un accendi sigarette per il dottore
che continua ad operare. L’elettricità alla città è stata tagliata per
giorni e quando il generatore è scarso di carburante, devono
amministrarselo fino al suo rifornimento. Dave mette subito a
disposizione la sua torcia elettrica. I bambini non ce l’hanno fatta a
sopravvivere.

“Vieni,” mi dice Maki e mi precede da solo in una stanza dove si trova
una donna anziana con una ferita addominale da proiettile, che è stata
suturata. Un’altra donna con una gamba che le è stata fasciata, il
letto sotto il suo piede inzuppato di sangue, tiene una bandiera bianca
stretta convulsamente nelle sue mani, ed è sempre la stessa storia:
“Stavo abbandonando la mia casa per fuggire a Baghdad, quando sono
stata colpita da un cecchino USA.” Qualche zona della città è nelle
mani dei marines USA, altre parti in quelle dei combattenti resistenti
locali. Le loro case si trovavano nella zona controllata dagli
Americani, e loro sono risolute nel dire che i cecchini erano marines
USA..

I cecchini non sono solo la causa della carneficina, ma anche
paralizzano le ambulanze e i servizi di soccorso. L’ospedale più
importante, dopo quello principale che è stato bombardato, si trova
nella zona Statunitense e viene isolato dalla clinica per mezzo dei
cecchini. L’ambulanza è stata riparata quattro volte dopo essere stata
danneggiata da proiettili. Corpi stanno giacendo per le strade, dato
che nessuno può andare a raccoglierli senza rischiare di venire colpito.

Qualcuno ci ha detto che siamo stati folli a venire in Iraq; veramente
qualcuno ci ha anche detto che noi siamo stati completamente insani di
mente per essere venuti a Falluja, e ora ci sono persone che mi
propongono di mettersi sul retro del camioncino per andare vicino ai
cecchini, e raccogliere gente malata e ferita, la cosa più pazza che si
sia mai vista. Comunque, io so che se non lo facciamo noi, nessuno lo
farà.

Lui sta portando una bandiera bianca con la mezza luna rossa; non
conosco il suo nome. Gli uomini che noi sorpassiamo ci salutano con
cenni della mano quando il conducente spiega dove stiamo andando. Nel
camioncino il silenzio è terribile, nella terra di nessuno al bordo del
territorio dei Mujahedin, confine che corre, dalla nostra vista,
attorno l’ultimo angolo e la linea dei marines dietro il muro accanto;
nessun uccello, nessuna musica, nessun segnale che qualcuno sia ancora
vivo, finché si apre un cancello dalla parte opposta e appare una donna
che ci fa dei segni.

Noi ci dirigiamo verso la breccia nel muro, da dove possiamo vedere la
macchina, con schegge di mortaio sparse tutte intorno. I piedi sono
visibili, incrociati, nella strada. Io penso che lui sia sicuramente
morto. I cecchini sono del tutto allo scoperto, due di loro sull’angolo
dell’edificio. Io credo che fino ad ora non ci abbiano visto, e quindi
è necessario fare in modo che sappiano che noi siamo qui.

“Hello,” urlo con il massimo della mia voce. “Potete sentirmi?”
Loro lo possono fare sicuramente, sono a circa 30 metri da noi, forse
meno, e di certo si possono sentire le mosche che ronzano volando a
cinquanta passi. Io mi ripeto, senza indugio, che mi devo decidere di
espormi un po’ di più.

“Noi siamo un gruppo di soccorso medico. Vogliamo portare via questo
uomo ferito. È OK anche per noi uscire fuori e andare da lui? Potete
darci un segnale che questo è OK anche per voi?”

Io sono sicura che mi hanno sentito, ma assolutamente non mi
rispondono. Forse non mi hanno capito del tutto, e allora ripeto la
richiesta. Dave urla con il suo accento Statunitense. Urlo anch’io.
Finalmente credo di udire un grido di risposta. Non ne sono sicura,
rilancio l’appello.

“Hello.”

“Si.”

“Possiamo uscire fuori e andare da lui?”

“Si”

Lentamente, le mani alzate, noi andiamo fuori. La nube nera delle
mosche che si solleva ad accoglierci trasporta con sé un odore
sgradevole, caldo, acido. Irrigidito, le sue gambe sono pesanti. Io le
lascio a Rana e a Dave, la nostra guida lo alza da sotto le anche. Il
Kalashnikov è attaccato ai capelli e alla mano dal sangue appiccicoso e
non vogliamo portare l’arma con noi, perciò le pongo sopra il mio piede
in modo da alzarlo per le spalle e allora il sangue sgorga dal foro
nella schiena. Lo portiamo fino al camioncino meglio che possiamo, e
cerchiamo di scacciare le mosche.

Penso che indossasse dei sandali visto che ora risulta scalzo, non ha
più di 20 anni, con addosso dei pantaloni di imitazione Nike e una
maglietta da football a strisce nere e blu, con un grande 28
stampigliato sulla schiena. Come gli aiutanti sanitari della clinica
portano il giovane combattente fuori dal camioncino, un fluido giallo
esce dalla sua bocca, e allora lo girano, a faccia in alto; nella
clinica si fa il vuoto durante il passaggio di fronte a tutto questo, e
saliamo sulla rampa che porta ad una camera mortuaria improvvisata.

Ci laviamo le mani dal sangue e andiamo all’ambulanza. Vi sono persone
bloccate in un altro ospedale che hanno bisogno di andare a Baghdad. A
sirene spiegate, con le luci intermittenti innescate, ci ammucchiamo
sul pavimento dell’ambulanza, con le mani che tengono fuori dei
finestrini carte di identità e passaporti. Riempiamo l’ambulanza con
alcune persone, uno con il petto fasciato con nastro adesivo e una
flebo, un altro su una barella, con le gambe che hanno spasmi violenti,
tanto che le ho dovute immobilizzare, quando lo abbiamo portato fuori.

L’ospedale è meglio attrezzato della clinica per curarli, ma non ha
ottenuto sufficiente materiale per poterli accogliere in modo
appropriato e l’unica possibilità è di inviarli a Baghdad con il
nostro bus, il che significa che dobbiamo tornare alla clinica. Noi
siamo stivati sul pavimento dell’ambulanza, nel caso che ci sparino
addosso. Nisareen, una dottoressa di circa la mia età, non può
trattenersi dal pianto, quando noi ce ne andiamo.

Il dottore si precipita fuori di corsa per incontrarmi: “Potete andare
a prendere una signora incinta, che sta partorendo prematuramente?”

Azzam guida, Ahmed nel mezzo gli indica la direzione, ed io, la
straniera ben riconoscibile, sventolo dal finestrino il mio passaporto.
A volte schegge sfiorano la mia mano, quando avviene lo schianto di una
pallottola sull’ambulanza, che fa staccare qualche parte di plastica,
che vola attraverso il finestrino.

Ci arrestiamo, spegniamo la sirena, conserviamo la luce blu
lampeggiante, stiamo in attesa, gli occhi puntati sulla silhouette di
uomini in uniforme dei marines USA, agli angoli degli edifici.
Arrivano diversi colpi. Noi ci pieghiamo a terra, più bassi possibile,
e posso vedere piccole scintille rosse che colpiscono sferzando vicino
al finestrino, vicino alla mia testa. Qualcuno, è difficile da
ammettere, sta tirando contro l’ambulanza; comincio a bestemmiare. Cosa
altro devi fare quando qualcuno ti spara addosso? Una gomma scoppia con
un rumore fragoroso e un sobbalzo al veicolo.

Sono indignata. Noi stiamo tentando di andare a prendere una donna che
sta dando alla luce un bambino senza alcun conforto medico, senza
elettricità, in una città sotto assedio, in una ambulanza chiaramente
contraddistinta, e voi ci sparate addosso! Come osate?

Come osate far questo?

Azzam afferra l’asta del cambio, ed innesta la retromarcia, un altro
pneumatico esplode quando noi passiamo sul cordolo al centro della
strada, e allora procediamo come ubriachi quando fuggiamo dietro
l’angolo. Io procedo imprecando. Le ruote si stanno smantellando, le
gomme scoppiate stanno bruciando sulla strada.

Appena arriviamo, uomini corrono fuori con una barella ed io scrollo il
capo in segno di non necessità. Loro hanno individuato i nuovi fori dei
colpi e corrono a vedere se tutto è OK. Voglio sapere se vi sia
qualche altra via per uscire da qui. La, maaku tarieq. Non vi sono
altre possibilità. Ci dicono che abbiamo fatto la cosa giusta. Ci
dicono di aver riparato l’ambulanza almeno quattro volte, che la
sistemeranno ancora, ma che il radiatore è andato e i cerchi delle
ruote sono deformati, e intanto la donna nella sua casa nell’oscurità
sta dando alla luce il bambino, da sola! Io l’ho abbandonata, senza
speranza!

Non possiamo uscire fuori nuovamente. Primo, perché non abbiamo più
ambulanze, e poi ora è buio e questo comporta che il nostro aspetto di
stranieri non può mettere al riparo da guai la gente che esce con noi o
le persone che andiamo a prelevare.
Maki è il direttore sanitario del posto di soccorso. Lui afferma di
aver odiato Saddam, ma che adesso odia molto più gli Americani.

Stiamo per toglierci i camici blu, quando da qualche parte, al di là
dell’edificio di fronte, il cielo comincia ad esplodere. Alcuni minuti
dopo una macchina arriva di corsa alla clinica. Io lo sento urlare,
prima di poter vedere che non vi è un solo lembo di pelle sul suo corpo
che sia integro. È ustionato dalle testa ai piedi. Di sicuro non si
potrà fare nulla per lui, che sarà destinato a morire disidratato,
entro pochi giorni.

Un altro uomo è trasportato fuori dalla macchina su una barella.
Cluster bombs, dicono, bombe a grappolo, anche se non si capisce se
questo riguarda un solo ferito o entrambi. Ci dirigiamo a piedi verso
l’abitazione di Mr Yasser, aspettando ad ogni angolo che qualcuno
controlli la strada prima di attraversarla. Una palla di fuoco cade da
un aereo, si divide in tante palle più piccole di intensa e brillante
luce bianca. Ho pensato che si trattasse di bombe a grappolo, perché
queste sono sempre presenti nella mia mente, ma sono svanite subito,
come razzi al magnesio, incredibilmente lucenti ma di vita breve,
fornendo dall’alto un’immagine istantanea della città.

Prima di tutto, Yasser ci invita a presentarci, a dire chi siamo noi.
Io mi presento come un’apprendista avvocato. Un'altra persona mi
domanda se io sono esperta di diritto internazionale. Loro desiderano
conoscere le leggi sui crimini di guerra, cosa significa crimine di
guerra. Rispondo che so qualcosa sulle Convenzioni di Ginevra, che la
prossima volta che li incontrerò porterò loro qualche altra
informazione, e che esiste anche la possibilità che qualcuno traduca
tutto questo in Arabo.

Noi solleviamo la questione di Nayoko. Questo gruppo di combattenti non
ha nulla a che vedere con quelli che trattengono gli ostaggi
Giapponesi, ma mentre stanno ringraziandoci per quello che abbiamo
fatto questa sera, noi ribadiamo che Nayoko ha fatto molto per i
bambini di strada e come questi le vogliono bene. Loro non possono
promettere nulla, ma cercheranno di sapere dove si trova e di
persuadere il gruppo a lasciare andare lei e gli altri. Non posso
proprio pensare che questo farà qualche differenza. A Falluja sono
occupati a combattere una guerra. I gruppi non sono fra loro
coordinati. Ma vale la pena di tentare.

Gli aeroplani volano sopra le nostre teste tutta la notte, e mentre
sonnecchio credo di essere in un volo a lunga distanza, la costante
nota bassa di un drone, di un velivolo telecomandato da ricognizione,
si confonde con le convulse vibrazioni dei jets e con il ritmo stupido
degli elicotteri, solo interrotto dalle esplosioni.

Alla mattina con palloncini gonfiati costruisco cani, giraffe ed
elefanti per i più piccoli, per Abdullah, Aboudi, che sono visibilmente
stressati dai rumori degli aerei e dalle esplosioni. Soffio palloncini
che loro seguono con gli occhi. Finalmente, finalmente scorgo un
sorriso. Perfino i ventenni, i trentenni ridono, uno di questi, un
conducente di ambulanza, dice che anche lui è molto abile, ma con il
Kalashnikov.

Questa mattina i medici sembrano stravolti. Nessuno di loro ha dormito
più di un paio di ore alla notte, da una settimana. Uno ha goduto solo
di otto ore di sonno negli ultimi sette giorni, trascurando di andare
ai funerali di suo fratello e di sua zia, in quanto la sua presenza era
indispensabile in ospedale.

“I morti non li possiamo aiutare” ha affermato Jassim “Io mi devo
preoccupare degli ammalati e dei feriti!”

Usciamo nuovamente, Dave, Rana ed io, questa volta con un camioncino.
Vi sono alcune persone malate vicino alla linea dei marines, che hanno
bisogno di essere evacuate. Nessuno osa uscire dalla propria casa,
visto che i marines stanno sui tetti degli edifici e sparano su tutto
ciò che si muove. Saad ci procura una bandiera bianca, ci esorta a non
preoccuparci, che lui ha controllato la strada che afferma essere
sicura, che i Mujahedin non ci spareranno addosso, che la pace sta su
di noi, questo ragazzino dodicenne, con la faccia coperta da una
keffiyeh, dalla quale spuntano brillanti occhi neri, alto quasi quanto
il suo AK47.

Noi urliamo ancora verso i soldati, tenendo alta la bandiera con una
mezzaluna rossa disegnata sopra con lo spray. Due scendono
dall’edificio, ne controllano il lato da questa parte, e Rana borbotta,
“Allahu akbar. Prego, non sparate su costoro.”
Saltiamo giù e spieghiamo loro che dobbiamo portare via dalle
abitazioni alcune persone malate e loro invitano Rana ad andare e a
portare via la famiglia della casa, sul tetto della quale loro sono
piazzati. In una stanza, senza cibo ne’ acqua da quasi 24 ore, stanno
una trentina di donne e bambini.

Il più anziano dei marines ci dice: “Tra non molto andremo a far
pulizia nelle case.”

“Cosa significa, far pulizia nelle case?”

“Entrare casa per casa, alla ricerca di armi.” Lui guarda l’orologio,
non mi dice quando questo comincerà, è chiaro, ma che in appoggio
stanno per arrivare attacchi aerei. “Se dovete fare quello che dovete
fare, allora sbrigatevi!”

Per prima cosa, scendiamo per la strada , dove siamo stati inviati. Vi
è un uomo, a faccia in giù, in una bianca dishdasha, una piccola
macchia rossa rotonda sulla schiena. Corriamo da lui. Ancora le mosche
sono arrivate per prime. Dave si posiziona alle sue spalle, io lo
prendo alle ginocchia, e come noi tentiamo di stenderlo sulla barella,
la mano di Dave passa sul suo petto, sulla cavità lasciata dal
proiettile che è entrato in modo così netto nella sua schiena da fargli
scoppiare il cuore.

Nelle sue mani non ci sono armi. Solo quando arriviamo noi, saltano
fuori i suoi figli, piangendo, urlando. Urlano “Era disarmato.Era
disarmato! Era appena uscito dal cancello, e loro lo hanno colpito.” E
poi, nessuno di loro aveva osato andare fuori. Nessuno di loro aveva
avuto il coraggio di raccogliere il suo corpo, sconvolti, terrorizzati,
costretti a violare le tradizioni di avere immediatamente cura del
corpo dei morti. Loro non potevano sapere che noi saremmo arrivati,
quindi era inconcepibile che qualcuno potesse aver recuperato l’arma,
lasciando però il corpo.

Era disarmato, un uomo di 55 anni, colpito alla schiena!

Gli copriamo la faccia, lo portiamo sul furgoncino. Non abbiamo nulla
per coprire il suo corpo. La donna sofferente viene aiutata ad uscire
dalla casa, le bambine piccole le stanno tutte attorno abbracciandola e
sussurrano, “Baba. Baba.” Papà. Tutte tremanti, ci lasciano andare, le
mani alzate, dietro l’angolo dove le facciamo entrare dentro la cabina
del furgoncino, facendo scudo alle loro teste, in modo che lo possano
vedere nel retro, il corpo morto di un uomo grosso che invita ad essere
abbracciato.

Ora la gente si riversa fuori delle case, nella speranza che noi li
possiamo scortare in salvo lontano dalla linea del fuoco, bambini,
donne, uomini, che ci domandano ansiosi se li possiamo portare via
tutti, o solo le donne e i bambini.
Andiamo a chiedere. Il giovane marine ci informa che gli uomini in età
per poter combattere non possono andarsene. Io desidero sapere, qual è
l’età giusta per poter combattere. Lui ci pensa un po’ su. Tutti
quelli sotto i quarantacinque anni. Non vi sono limiti al basso.

Questo mi sgomenta; tutti questi uomini dovrebbero rimanere
intrappolati in una città che sta per essere distrutta. Non tutti fra
loro sono combattenti, non tutti sono armati. Questo sta avvenendo
fuori dalla vista del mondo, lontano dallo sguardo dei media, dato che
molti dei media sono profondamente vincolati ai marines o girano al
largo dai sobborghi. Prima che noi possiamo comunicare l’informazione
ricevuta, due esplosioni disperdono la folla nelle strade laterali
dentro alle loro case.

Rana, con i marines, sta evacuando la famiglia dalla casa da loro
occupata. Comunque il camioncino non può ripartire. I componenti
della famiglia si stanno nascondendo dietro le mura della loro casa.
Noi aspettiamo, visto che nulla possiamo fare. Aspettiamo nella terra
di nessuno. Al momento, i marines ci osservano attraverso i loro
cannocchiali, forse lo stanno facendo anche i combattenti locali.

Prendo dalle mie tasche un fazzoletto, mentre me ne sto seduta come un
idiota, non posso fare nulla in nessun posto, sparatorie ed esplosioni
si moltiplicano dappertutto, e faccio sventolare il fazzoletto con
decisione. Penso che sia sempre meglio sembrare assolutamente non
minacciosi e completamente neutrali, cosicché nessuno si senta da noi
infastidito tanto da spararci addosso. Però non possiamo restare
troppo a lungo.
Rana è stata via secoli. Dobbiamo andarcene e la sollecitiamo a
sbrigarsi. Nel gruppo vi è un ragazzo. Lei sta parlando con loro, che
gli permettano di uscire subito!

Un uomo ci invita ad usare la sua automobile della polizia per
trasportare qualche persona, una coppia di anziani, uno dei quali
cammina a stento, i bambini più piccoli. L’auto ha perso una porta.
Chissà se era realmente una macchina della polizia o la macchina era
stata prelevata abusivamente e finita proprio qua? La questione non è
di portare via più gente, ma più in fretta. Loro escono furtivamente
dalle case, si accalcano vicino al muro, ci seguono, le mani sempre in
alto, e camminano per la strada , tenendosi per mano, stringendo la
mano dei bambini, portando borse.

Il camioncino torna indietro e all’interno ci si muove a fatica, quando
arriva un’ambulanza da qualche parte. Un giovane ci fa segnali
dall’uscio di una porta di quello che è rimasto di una casa, il suo
torace è nudo, una fasciatura lorda di sangue attorno ad un braccio,
probabilmente si tratta di un combattente, ma questo non fa differenza
se uno è ferito e disarmato. Non è indispensabile soccorrere i morti.
Come ha detto il dottore, la morte non ha bisogno di aiuto, ma, se sarà
appena possibile, faremo anche questo. Nell’Islam, è molto importante
seppellire i morti subito.
Dato che sicuramente siamo OK con i soldati, e qui c’è un’ambulanza,
corriamo giù a prelevarlo.

L’ambulanza ci segue. I soldati cominciano ad urlare in Inglese di
fermarsi, puntando contro le armi. Il mezzo sta movendosi velocemente.
Stiamo tutti urlando, segnalando di fermarsi, ma sembra che per il
conducente sentirci e vederci richieda un’eternità. Finalmente si
ferma. Si ferma, prima che venga aperto il fuoco.
Noi tiriamo fuori le barelle e corriamo, trascinandocele dietro. Rana
si stringe sul davanti con l’uomo ferito e Dave ed io ci rannicchiamo
vicino ai corpi. Lui mi dice che ha avuto allergie da bambino, e che
ha perso molto il senso dell’olfatto. Ripensandoci, sto desiderando le
allergie dell’infanzia e caccio la mia testa fuori dal finestrino.

Il bus è sul punto di partire, portando a Baghdad la gente ferita,
l’uomo con le ustioni, una delle donne che era stata colpita al collo e
ad una spalla da un cecchino, e molti altri. Rana dichiara di volersi
trattenere per aiutare. Dave ed io non abbiamo esitazioni: ci fermiamo
anche noi. “Se non lo faccio io, chi lo farà?” è diventato casualmente
il nostro motto, ed io mi rendo conto assolutamente di questo, dopo
l’ultima nostra incursione, di quanta gente, di quante donne e bambini
stanno ancora nelle loro case, o perché non hanno avuto la possibilità
di andarsene perché spaventati a morte ad uscire dalle porte, o perché
hanno scelto di rimanere.

Appena abbiamo preso questa nostra comune decisione, Azzam ci dice
invece che dobbiamo andare via. Lui non ha contatti con ogni gruppo
armato, solo con qualcuno. Vi sono molti motivi per i quali
bisognerebbe prendere accordi con tutti. Noi dobbiamo riportare
indietro a Baghdad la gente, al più presto possibile. Se noi veniamo
sequestrati o ammazzati diventeremo la causa di molti problemi, e
allora è cosa migliore che noi saliamo sul bus e che partiamo con lui
immediatamente.

Io sono incazzata e addolorata nel salire sul bus, quando il dottore ci
ha chiesto di andare e portare via quanta più gente possibile. Ho in
odio il fatto che un medico qualificato non possa muoversi con
l’ambulanza, mentre io mi posso muovere, solo perché posso sembrare la
sorella di un cecchino o uno dei suoi amici, ma questo è quello che
succede oggi e che succedeva ieri, e mi sento come un traditore che sta
fuggendo, ma non vedo come potrei scegliere diversamente. Vi è una
guerra oggi, e come straniera devo fare quello che mi è stato detto,
per cui devo andarmene.

Jassim è spaventato e sgomento. Egli arringa di continuo Mohammed,
cerca di tirarlo fuori dalla cabina di guida, mentre stiamo per
muoverci. La donna con la ferita d’arma da fuoco è sul sedile
posteriore, l’uomo con le ustioni le sta davanti, e viene ventilato con
un cartone degli scatoloni vuotati, la sua fleboclisi endovenosa
oscilla di continuo sul binario appeso al soffitto del bus. Fa caldo.
Per lui deve essere insopportabile.

Saad viene nel bus per augurarci buon viaggio. Stringe la mano di Dave
e poi la mia. Io trattengo la sua fra le mie e gli raccomando “Dir
balak”, abbi cura di te, come non potessi dire niente di più stupido ad
un Mujahedin preadolescente con un AK47 nell’altra sua mano, i nostri
occhi che si incontrano e si fissano, i suoi colmi di fuoco e di
terrore.

Perché non posso portarlo via? Perché non posso portarlo da qualche
parte dove possa essere un bambino? Perché non posso fargli una giraffa
con i palloncini e dargli qualche pennarello da disegnare e dirgli di
non dimenticarsi di usare lo spazzolino da denti? Perché non posso
incontrare la persona che ha messo il fucile nelle mani di questo
piccolo bambino? Perché non posso esprimermi con qualcuno su quello che
è dovuto a un bambino? Devo abbandonarlo in questo posto dove si
trovano uomini armati pesantemente che lo circondano e molti di loro
non sono al suo fianco? E senza dubbio io lo faccio. Io sto per
abbandonarlo, come in ogni parte del mondo si abbandonano i soldati
bambini.

La via del ritorno è carica di tensione, il bus si va quasi a bloccare
in una buca nella sabbia, la gente sta scappando usando qualsiasi
mezzo, anche ammassati sul rimorchio di un trattore, teorie di macchine
e di camioncini e di autobus che trasportano la gente verso l’incerto
rifugio di Baghdad, file di uomini in veicoli tutti in coda che
ritornano indietro, dopo aver portato in salvo le loro famiglie, o per
combattere o per aiutare altra gente a scappare. Il conducente, Jassim,
il padre, non ascolta Azzam e prende una strada differente in modo che
all’improvviso non seguiamo più la macchina di testa che ci fa da guida
e percorriamo una strada che è controllata da un diverso gruppo armato,
uno di quelli che ci conosce.

Una folla di uomini agita le armi per bloccare il bus. In certo qual
modo questi pensano evidentemente che vi siano soldati Americani nel
bus, come se non ce ne fossero abbastanza nei carri armati e negli
elicotteri, e vi sono uomini che escono dalle loro auto urlando “Sahafa
Amreeki,” giornalisti Americani. I passeggeri gridano dai finestrini,
“Ana min Falluja,” sono di Falluja. Uomini armati entrano nel bus e
vedono che è tutto vero, che vi sono ammalati e feriti e persone
anziane, Iracheni, e allora si calmano e ci fanno cenno di proseguire.

Noi ci fermiamo ad Abu Ghraib e ci scambiamo i posti, gli stranieri
davanti, gli Iracheni meno visibili, via le keffiyeh in modo da
assumere un aspetto più occidentale. I soldati Americani sono così
contenti di vedere occidentali, che non pensano troppo agli Iracheni
che stanno con noi, perquisiscono gli uomini e il bus, non
perquisiscono le donne perché non vi sono fra loro donne soldato che lo
possono fare. Mohammed continua a chiedermi se le cose stanno andando
in modo OK. “Al-melaach wiyana,” lo rassicuro. Gli angeli stanno con
noi. Lui si mette a ridere.

E quando arriviamo a Baghdad, depositandoli all’ospedale, Nuha scoppia
in lacrime quando viene portato fuori l’uomo ustionato, che si lamenta
e geme dal dolore. Lei pone le sue braccia attorno a me e mi chiede di
essere sua amica. Lei mi dice che la faccio sentire meno isolata, meno
sola.

E le notizie via satellite annunciano che si è ottenuto il cessate il
fuoco, e George Bush
aveva parlato alle truppe, la Domenica di Pasqua, “Io so che quello che
stiamo facendo in Iraq è giusto!” Sparare alla schiena di uomini
disarmati davanti alla porta di casa, davanti alle loro famiglie, è
giusto!? Sparare a nonne con la bandiera bianca, è giusto!?
Sparare a donne e a bambini che stanno fuggendo dalle loro case, è
giusto!? Fare fuoco sulle ambulanze, è giusto!?

Bene George, ora ho conosciuto abbastanza. Io so quello che appare,
quando tu brutalizzi la gente al punto che non hanno più nulla da
perdere. Io so quello che appare, quando un’operazione chirurgica viene
eseguita senza anestetico, visto che gli ospedali sono distrutti o
sotto il fuoco dei cecchini, e la città è sotto assedio e assolutamente
non è possibile portarle soccorso. Io so quello che si sente, anche
troppo. Io so quello che appare quando pallottole traccianti ti passano
sopra la testa, anche se ti trovi dentro ad una ambulanza. Io so quello
che appare quando un uomo giace a terra senza più torace e comincia a
puzzare e so quello che appare quando sua moglie e le sue bambine si
riversano fuori dalla loro casa.

Quello che appare è un crimine e una vergogna per tutti noi!

Jo Wilding
Centro di Osservazione sull’Occupazione in Iraq

http://www.occupationwatch.org/article.php?id=4105

LA FINE DEL PETROLIO / THE OIL CRUNCH


Dalla lista "This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.":


La situazione del petrolio non sembra causare molta preoccupazione in
Italia. Eppure, da due giorni il petrolio è a oltre 39 dollari al
barile.
Allo stesso prezzo, nel 1973, cominciava la prima grande "crisi del
petrolio". Non sembra che la gente stia correndo a vendere le SUV e a
comprare generatori eolici. Neppure sembra che il giverno abbia qualche
timore che potremmo avere qualche problema a finanziare il beneamato
ponte
sullo stretto.

La mia impressione è che nel 1973 tutti sapevano che la crisi non era
dovuta a una questione di carenza di risorse, quella di oggi è molto
piu'
buia, nel senso che veramente stiamo vedendo una situazione in cui la
produzione sta declinando in modo irreversibile. Da questo vengono i
dinieghi e il girare la testa dall'altra parte.

Eppure non si puo' negare l'evidenza. Paul Krugman, economista
intelligente, ha detto proprio questo in un articolo che è appaso ieri
sul
New York Times, trovando anche il modo di far notare l'idiozia assoluta
di
quelli (tanti) che veramente pensavano che invadere l'Iraq era una buona
idea per avere il petrolio a buon mercato. Krugman cita Rupert Murdoch
fra
questi microcefali de-neuronati (oltretutto anche stronzi), io vi posso
raccontare di aver incontrato l'anno scorso, dopo l'invasione, un alto
funzionario della Commissione Europea che mi ha detto, tutto
preoccupato,
qualcosa come "adesso che abbiamo il petrolio Iracheno a buon mercato,
ci
sarà difficile spingere i nostri programmi di risparmio energetico".
Taccio
il nome di questo signore, per carità di patria.

Leggete l'articolo di Krugman. Dice che ci dovremo adattare. Ha
ragione, ma
non sarà ovvio.

Ugo Bardi



The Oil Crunch
By PAUL KRUGMAN

NY TIMES. Published: May 7, 2004

Before the start of the Iraq war his media empire did so much to
promote,
Rupert Murdoch explained the payoff: "The greatest thing to come out of
this for the world economy, if you could put it that way, would be $20 a
barrel for oil." Crude oil prices in New York rose to almost $40 a
barrel
yesterday, a 13-year high.

Those who expected big economic benefits from the war were, of course,
utterly wrong about how things would go in Iraq. But the disastrous
occupation is only part of the reason that oil is getting more
expensive;
the other, which will last even if we somehow find a way out of the
quagmire, is the intensifying competition for a limited world oil
supply.

Thanks to the mess in Iraq — including a continuing campaign of sabotage
against oil pipelines — oil exports have yet to recover to their prewar
level, let alone supply the millions of extra barrels each day the
optimists imagined. And the fallout from the war has spooked the
markets,
which now fear terrorist attacks on oil installations in Saudi Arabia,
and
are starting to worry about radicalization throughout the Middle East.
(It
has been interesting to watch people who lauded George Bush's
leadership in
the war on terror come to the belated realization that Mr. Bush has
given
Osama bin Laden exactly what he wanted.)

Even if things had gone well, however, Iraq couldn't have given us cheap
oil for more than a couple of years at most, because the United States
and
other advanced countries are now competing for oil with the surging
economies of Asia.

Oil is a resource in finite supply; no major oil fields have been found
since 1976, and experts suspect that there are no more to find. Some
analysts argue that world production is already at or near its peak,
although most say that technological progress, which allows the further
exploitation of known sources like the Canadian tar sands, will allow
output to rise for another decade or two. But the date of the physical
peak
in production isn't the really crucial question.

The question, instead, is when the trend in oil prices will turn
decisively
upward. That upward turn is inevitable as a growing world economy
confronts
a resource in limited supply. But when will it happen? Maybe it already
has.

I know, of course, that such predictions have been made before, during
the
energy crisis of the 1970's. But the end of that crisis has been widely
misunderstood: prices went down not because the world found new sources
of
oil, but because it found ways to make do with less.

During the 1980's, oil consumption dropped around the world as the
delayed
effects of the energy crisis led to the use of more fuel-efficient cars,
better insulation in homes and so on. Although economic growth led to a
gradual recovery, as late as 1993 world oil consumption was only
slightly
higher than it had been in 1979. In the United States, oil consumption
didn't regain its 1979 level until 1997.

Since then, however, world demand has grown rapidly: the daily world
consumption of oil is 12 million barrels higher than it was a decade
ago,
roughly equal to the combined production of Saudi Arabia and Iran. It
turns
out that America's love affair with gas guzzlers, shortsighted as it
is, is
not the main culprit: the big increases in demand have come from booming
developing countries. China, in particular, still consumes only 8
percent
of the world's oil — but it accounted for 37 percent of the growth in
world
oil consumption over the last four years.

The collision between rapidly growing world demand and a limited world
supply is the reason why the oil market is so vulnerable to jitters.
Maybe
we'll get through this bad patch, and oil will fall back toward $30 a
barrel. But if that happens, it will be only a temporary respite.

In a way it's ironic. Lately we've been hearing a lot about competition
from Chinese manufacturing and Indian call centers. But a different
kind of
competition — the scramble for oil and other resources — poses a much
bigger threat to our prosperity.

So what should we be doing? Here's a hint: We can neither drill nor
conquer
our way out of the problem. Whatever we do, oil prices are going up.
What
we have to do is adapt.

"UNA EUROPA COME PARADIGMA POST-STATUALE E POST-NAZIONALE, COME SPAZIO
IN CUI DOVREBBE ESSERE POSSIBILE REINVENTARE LA FORMA POLITICA SUL
MODELLO DELLA RETE"


Traduzione in lingua italiana: "Una Europa contro le sovranita'
nazionali e decomposta in gabbie etno-salariali, in cui il potere sia
autocratico e nello spettacolo mediatico l'individuo -- non piu'
cittadino -- abbia l'impressione di avere la facolta' di disobbedire
facendosi le seghe dinanzi alla webcam"

Ma, soprattutto, una Europa che sia allo stesso tempo anti-comunista ed
anti-socialdemocratica. Pare sia questo il progetto politico dei
Disobbedienti:


> Da: "luca" <lucacasarini@...>
> Data: Thu,  6 May 2004 15:22:59 +0200
> A: "mov\. movimento" <This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.>
> Oggetto: [listadisobbedienti] Fwd:[Fwd: Bifo-Formenti_verdi europei]
>
> -------------------------- Messaggio originale
> ---------------------------
> Oggetto: Bifo-Formenti_verdi europei
> Da:      francesco raparelli <rifo78@...>
> Data:    Mar, 4 Maggio 2004, 6:42 pm
> A:       luca.casarini@...
> -----------------------------------------------------------------------
> ---
>
> una proposta di discussione
> franco berardi carlo formenti - Europa 29.04.2004
> Un'ipotesi verde-europea perché emerga anche a livello
> politico-elettorale
> un'alternativa sociale al regime della devastazione e della guerra.
>
> I. La lezione dei movimenti
>
> Ai movimenti sociali che hanno accompagnato il volgere di millennio in
> Occidente (pacifisti e new global in primis) dobbiamo fondamentali
> novità
> ideologiche, culturali e organizzative: il superamento del mito della
> violenza rivoluzionaria, la capacità di federare identità e soggetti
> collettivi portatori di radicali differenze reciproche, un
> mediattivismo
> che, grazie all'appropriazione di massa di Internet e delle nuove
> tecnologie di comunicazione, si è dimostrato capace di tenere testa ai
> media mainstream sul loro terreno, la creazione di una sfera di
> condivisione di conoscenze sofisticate tanto sul piano
> scientitico-tecnologico quanto su quello linguistico-comunicativo. In
> breve, i movimenti hanno elaborato una cultura assai più avanzata e
> raffinata di quella del ceto politico professionale. Al tempo stesso,
> si
> sono dimostrati incapaci di trasferire l'alternativa sociale e
> culturale
> sul terreno della politica. Non sono riusciti, cioè, a liberare la
> sinistra dal fardello di quel ceto burocratico che continua a tenere in
> pugno le redini dei partiti.
>
> La situazione italiana è, da questo punto di vista, esemplare: la
> sinistra
> è ostaggio dell'eredità culturale ed elettorale del PCI che, per quanto
> ridistribuita fra tre partiti (con la prospettiva tutt'altro che
> inverosimile che diventino quattro), riesce a imporre la continuità del
> paradigma novecentesco - lavoristae autoritario -, condiviso tanto
> dalle
> componenti che rivendicano un'identità resistenziale, quanto da quelle
> convertite al liberismo. Del resto, ampliando il punto di vista al
> panorama europeo, non si vedono scenari diversi: nei Paesi in cui le
> differenze fra partiti socialdemocratici e partiti post o neocomunisti
> sono più sfumate se non cancellate ci troviamo di fronte allo stesso
> miscuglio di resistenzialismo e subalternità, caratterizzato dalla
> paradossale, continua oscillazione (ritmata dalle scadenze elettorali)
> fra
> difesa delle ultime trincee del welfare (con un occhio di riguardo per
> gli
> interessi degli strati di classe autoctonie garantiti) ed esaltazione
> (vedi il caso Blair) del modello di sviluppo capitalistico americano.
> Finché non ci saremo sbarazzati di questo retaggio ideologico, non sarà
> possibile fondare una sinistra all'altezza delle sfide del XXI secolo
> (globalizzazione economica, integrazione planetaria dei flussi
> finanziari
> e comunicativi, catastrofi ecologiche, migrazioni di massa, stato di
> guerra permanente fra Nord e Sud del mondo). Sui movimenti grava dunque
> la responsabilità di far emergere una soluzione politica (da sviluppare
> sul piano elettorale non meno che su quello culturale) che si lasci
> alle
> spalle l'eredità del comunismo novecentesco.
>
>
> II. L'equivoco del neoliberismo
>
> A rendere arduo il compito, non sono solo le contraddizioni fra ala
> moderata-pacifista e ala radicale-antagonista dei movimenti, ma anche
> il
> persistere di certi equivoci terminologici. Primo fra tutti, quel
> riflesso
> condizionato che, in nome della necessità di opporsi al neoliberismo,
> spinge l'ala radicale a identificarsi - o almeno a stringere alleanza
> con
> le componenti resistenziali della sinistra tradizionale. In realtà,
> nulla
> appare meno adeguato dell'etichetta liberista (per tacere degli ideali
> liberaldemocratici e/o libertari, che a tale etichetta vengono
> impropriamente associati) per connotare la realtà del capitalismo
> globale
> all'inizio del terzo millennio. Linsieme di accordi, regole e procedure
> promossi e gestiti nellambito di organismi come il WTO, il FMI e la
> Banca
> Mondiale, il vertice non eletto della Comunità Europea, ecc. coincide
> infatti con una cultura inequivocabilmente protezionista, la quale,
> mentre
> sbandiera i principi del libero mercato, mira a difendere con qualsiasi
> mezzo gli interessi delle grandi corporation occidentali (e/o
> degli strati sociali che le garantiscono il consenso elettorale). Basti
> pensare all'introduzione di leggi sempre più restrittive in materia di
> proprietà intellettuale e al loro impatto (con conseguenze devastanti
> per
> l'innovazione tecnologica, i diritti dei consumatori, la salute delle
> popolazioni dei paesi poveri) in settori trainanti delleconomia
> (informatica, biotecnologie, industria culturale, telecomunicazioni,
> ecc.), o alla strenua resistenza opposta da Usa ed UE alla
> liberalizzazione dei mercati agricoli. Non ha dunque senso parlare di
> lotta contro il liberismo, laddove è sempre più urgente lottare per
> difendere le libertà individuali e collettive dalla cultura dirigista e
> tecnocratica del tardo capitalismo. Occorre piuttosto denunciare la
> totale discontinuità fra tradizione degli ideali liberaldemocratici (a
> destra) e liberisti (a sinistra) nei confronti di un liberismo che
> (anche
> sul piano economico!) non ha più nulla da spartire con quelle
> tradizioni.
> Ma soprattutto occorre avere il coraggio di superare certe dicotomie
> (pubblico-privato; deregulation-dirigismo statalista, ecc.),
> riconoscendo
> che oggi non è più su di esse che si fonda la contrapposizione
> destra-sinistra. Chiedere nuove regole o sostenere la deregulation,
> rivendicare il ruolo dellintervento pubblico o promuovere la
> sussidiarietà dell'iniziativa privata, non sono opzioni definibili
> apriori come di destra o di sinistra, ma assumono significati diversi
> in
> contesti diversi. La verità di questa affermazione si è manifestata
> chiaramente nel quadro del ciclo espansivo della Net Economy negli anni
> 90 e della successiva crisi, maturata all'inizio del nuovo millennio.
>
>
> III. Splendori e miserie della Net Economy
>
> La transizione verso un'economia della conoscenza che negli anni 90 è
> progredita con eccezionale rapidità, sull'onda della rivoluzione
> digitale
> e della fulminea espansione di Internet ha trasformato radicalmente
> identità e valori del mondo del lavoro. Alla vecchia composizione di
> classe resa omogenea dall'organizzazione produttiva dellimpresa
> fordista-taylorista è subentrato una sorta di Quinto Stato, un
> variegato
> blocco sociale che, attorno a un nucleo centrale di lavoratori della
> conoscenza (dotati di elevate competenze tecnologiche e comunicative),
> ha
> visto l'aggregazione di una galassia di soggetti professionisti
> freelance,
> microimprenditori, management di piccole e medie imprese
> tecnologicamente
> avanzate (startup), addetti del terzo settore e delle imprese sociali
> ecc.
> accomunati da una cultura profondamente innovativa:
>
> 1) etica hacker: abbandonata l'etica lavorista(il lavoro come
> giustificazione morale di una vita e come fonte esclusiva dei diritti
> di
> cittadinanza, a prescindere dal suo contenuto e dalla sua capacità di
> offrire soddisfazione) si è iniziato a pensare al lavoro come
> opportunità
> di tradurre relazioni sociali, competenze comunicative e interessi
> individuali in conoscenze, e di tradurre tali conoscenze in fonti di
> reddito
>
> 2) una paradossale miscela di individualismo e comunitarismo, di
> voglia di
> libertà individuale e di desiderio di comunità, di creatività
> personale e
> di saperi condivisi. Una miscela che era parsa in grado di superare la
> contrapposizione fra leggi del mercato e valori di solidarietà
> sociale, e
> che annunciava la fine del principio di scarsità. Economia di rete
> sembrava voler dire: tutti competono, tutti cooperano, tutti vincono.
> Una
> economia del dono incarnata dalla comunità del software free e open
> source, in cui la gara per essere i primi o i più bravi non è in
> conflitto
> con l'obiettivo di regalare condizioni di vita e di lavoro migliori a
> tutti, non solo ai più abili, aggressivi o fortunati.
>
> Questa visione è entrata in crisi con il crollo dei titoli tecnologici
> iniziato nella primavera del 2000, e successivamente è stata colpita
> con
> lucida e spietata ferocia dall'amministrazione Bush, che ha sfruttato
> l'onda emotiva degli attentati terroristici dell'11 settembre 2001. E'
> iniziato un attacco combinato: gli oligopoli dell'industria culturale e
> del settore high tech hanno usato l'arma del copyright per
> riconquistare
> il controllo assoluto del mercato, e scrollarsi di dosso la pressione
> competitiva dell'arcipelago di startup, professionisti e lavoratori
> della
> conoscenza che per un decennio erano stati i protagonisti
> dell'innovazione
> tecnologico-culturale e di una inedita globalizzazione dal basso. Il
> governo americano in nome della guerra al terrorismo ha militarizzato
> Internet, riducendo drasticamente i diritti di privacy e la libertà di
> comunicazione in rete ed ha così fatto compiere un enorme balzo
> indietro
> alle speranze rivoluzionarie del Quinto Stato.
>
> In questa situazione, il rischio è quello di appiattirsi sulla diagnosi
> neocomunista: l'illusione è finita, l'economia capitalista mostra il
> suo
> vero volto tentando, come aveva sempre fatto nel corso del secolo
> precedente, di risolvere la crisi con la guerra. Ma la verità è che
> nessuna crisi, dopo la rivoluzione culturale che ha messo le
> tecnologie di
> comunicazione e il linguaggio al centro del modo di produzione, potrà
> mai
> più essere risolta con la guerra. Lo conferma il permanente ristagno
> dell'economia europea, lo conferma la ripresa dell'economia americana
> incapace di recuperare i posti di lavoro perduti (e quindi
> costantemente è
> a rischio di risprofondare in una crisi di sottoconsumo). Lo conferma,
> infine, la tenace resistenza di centinaia di milioni di
> utenti-consumatori
> che continuano a scambiare conoscenze e informazioni gratuite, che si
> oppongono alle violazioni della propria privacy, che insistono
> nell'usare
> Internet per comunicare, socializzare e divertirsi invece che
> per comprare.
> Insomma: dalla crisi non si esce con il keynesismo di guerra
> dell'amministrazione Bush, bensì con un nuovo New Deal, evento che solo
> un radicale rinnovamento della sinistra può regalarci. Ma al di là
> delle
> innovazioni culturali introdotte dai movimenti, in quale direzione
> occorre cercare per trovare indizi di un simile rinnovamento?
>
>
> IV. L'alternativa ecologista
>
> Molti dei contenuti che consentono di prefigurare un'alternativa
> politica
> sono stati elaborati, negli ultimi vent'anni, da quel vasto e ricco
> filone
> di ricerca che coincide con l'area culturale ambientalista. La fine del
> paradigma della crescita illimitata costituisce l'orizzonte di un nuovo
> progetto sociale in cui la ricchezza non è più identificata con la
> quantità dei beni consumabili bensì con la qualità del tempo vissuto.
> Il
> che dischiude l'opportunità di collocare in una nuova prospettiva i
> sogni
> della Net Economy: da un lato, la transizione all'economia immateriale,
> pur conservando la promessa della fine del principio di scarsità, non
> verrebbe più identificata con illusioni di crescita infinita di
> un'economia non più limitata da vincoli materiali, dall'altro, l'etica
> hacker verrebbe liberata dal paradosso di una passione che si rivolge
> contro se stessa, generando la cancellazione fra tempo di vita e tempo
> di
> lavoro. L'ultimo aspetto è di rilievo decisivo per affrontare il
>   problema della sofferenza mentale del lavoro cognitivo, problema
> legato
> alle forme di proiezione dell'infosfera mediatica, alle modalità di
> organizzazione del lavoro comunicativo, alle condizioni di
> socializzazione della creatività individuale e dell'energia psichica,
> in
> una parola all'ecologia della mente. Il riferimento al pensiero di
> Gregory Bateson implicito nell'ultimo termine non è casuale: l'incontro
> fra cultura ecologista e tecnologie digitali è infatti un paradosso
> apparente, se pensiamo al ruolo che Bateson e gli altri padri fondatori
> della cibernetica hanno svolto nell'estendere i concetti di equilibrio
> e
> interazione sistemica dalla scienza dei computer agli altri campi della
> cultura contemporanea (ivi compreso quello politico). Su questo piano,
> l'unico che consenta di integrare il problema della felicità ai
> problemi
> dell'organizzazione sociale del lavoro e della comunicazione - si
> giocano
> la comprensione e il governo di una società complessa di fronte alla
> quale la vecchia cultura politica di sinistra come di destra si sta
> rivelando impotente. Dalla crisi non si esce con la riscoperta di
> politiche espansive sul genere di quelle che consentirono al
> capitalismo
> di superare la Grande Depressione degli anni Trenta. Il New Deal del
> futuro dovrà scommettere su scenari diversi: il decongestionamento, il
> rallentamento, la liberazione dallo stress del lavoro, lamicizia e la
> cooperazione fra diversi al posto della paranoia securitaria. Sono
> punti
> sui quali ha ben poco da dire il pensiero socialista novecentesco,
> nelle
> sue varianti rivoluzionarie e riformiste, nelle sue declinazioni
> stataliste o liberali. Solo nell'area politica europea che si è
> definita
> a partire dall'esperienza dei Grunen tedeschi chi desidera opporsi ai
> disegni di globalizzazione della guerra e dello sfruttamento può
> trovare
> lo spazio per avviare il progetto di costruzione di una sinistra
> all'altezza dei tempi. A partire dal superamento del mito della
> contrapposizione antagonista al modo di produzione capitalista e della
> fuoruscita rivoluzionaria dalla società su di esso fondata.
>
>
> V. Per proteggersi dalla seconda natura
>
> L'imprinting culturale storicista impedisce di capire al ceto politico
> post-comunista che il capitalismo non è, come sottintende la nozione
> marxista di modo di produzione, un sistema totalizzante, bensì uno
> strato
> di pratiche, valori, comportamenti, segni che si sovrappone a un
> complesso
> ambiente culturale e antropologico il quale conserva la propria
> dimensione
> plurima e resiste tenacemente a qualsiasi sovradeterminazione
> totalizzante. Contro le letture deterministe-economiciste del
> veteromarxismo, occorre riscoprire la lezione di Karl Polanyi, l'unico
> critico novecentesco del capitalismo che abbia saputo valorizzare
> l'irriducibile autonomia di società e cultura nei confronti del sistema
> economico. La cultura ambientalista ha le carte in regola per
> raccogliere
> l'eredità di questa lezione, grazie a una genealogia filosofica che è
> evoluzionista-sistemica piuttosto che storicista-dialettica. Genealogia
> che le consente di elaborare strategie di autonomia dal capitale senza
> evocare scenari di totalizzazione alternativa.
>
> Il capitalismo, in quanto marcatura semiotica della storia evolutiva
> della
> nostra specie, non è cancellabile. Ma ciò non significa che se ne
> debbano
> accettare passivamente le conseguente devastanti, né tanto meno
> significa
> che la società sia destinata a modellare i propri valori, desideri,
> bisogni e comportamenti sulle sue imposizioni ideologiche. Detto
> altrimenti: il fatto che il capitale operi, in una certa misura, come
> una
> sorta di seconda natura, non implica che occorra subire le sue leggi, e
> adeguarsi agli imperativi normativi che ne discendono. Così come il
> genere
> umano ha imparato a proteggersi dalla natura e dalla morte, pur
> sapendo di
> non potersene liberare, una cultura di sinistra fondata sulla filosofia
> ecologista potrebbe insegnare alla società a proteggersi dal capitale,
> pur
> sapendo di non potersene liberare.
>
> Lo spazio in cui un simile rovesciamento di tendenza può e deve
> avvenire è
> l'Europa. Non l'Europa intesa come potenza da contrapporre alle altre
> potenze, in primis quella americana. Non l'Europa come stato
> sopranazionale. Bensì l'Europa come paradigma post-statuale e
> post-nazionale, come spazio in cui dovrebbe essere possibile
> reinventare
> la forma della politica sul modello della rete. Di stato a rete parla,
> fra
> gli altri, Manuel Castells, analizzando la peculiarità di un processo
> di
> unificazione che si è sviluppato fra continue contraddizioni e
> incoerenze,
> contrassegnato dalla forbice che è venuta progressivamente aprendosi
> fra
> integrazione culturale agevolata dalla formazione di uno spazio
> audiovisuale europeo promosso dai processi di convergenza e
> integrazione
> fra media e reazioni localiste alle decisioni di una politica
> governata da
> vertici tecnocratici privi di legittimazione democratica. Tuttavia è
> proprio il deficit democratico di cui soffrono istituzioni come il
> Consiglio e la Commissione Europea che, paradossalmente, costringe
> il vertice a recuperare legittimità attraverso quel principio di
> sussidiarietà
> che delega alle istituzioni regionali e locali una quantità crescente
> di
> decisioni. Così le nuove tecnologie di comunicazione vengono usate, da
> un
> lato, per accentrare il flusso delle informazioni nelle mani del
> vertice,
> dall'altro per ridistribuire tale flusso a livello regionale,
> promovendo
> la partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche delle
> istituzioni locali. Lo stato a rete si configura dunque come
> condivisione
> di autorità da parte di una serie di nodi. E benché ognuno di essi
> appaia
> dotato di peso e dimensioni diverse, la stratificazione di poteri
> sovrapposti e in competizione reciproca genera legami di
> interdipendenza
> che ridimensionano il potere del centro. Castells definisce questa
> situazione una sorta di neo-mediavalismo istituzionale, ma la si
> potrebbe
> anche definire come un possibile primo passo verso nuove forme di
> partecipazione dal basso - di tipo postdemocratico? - alla politica.
>
> Un contesto in cui alle minoranze attive potrebbe essere offerta
> l'opportunità di contare in misura superiore al proprio peso
> elettorale.
> Un contesto in cui un processo di aggregazione federativa fra
> movimenti,
> partito ecologista europeo e culture del mediattivismo potrebbe dare un
> contributo decisivo per dirottare l'Europa dalla fallimentare rincorsa
> al
> modello americano in cui appare attualmente impegnata. Del resto,
> l'esperienza della piccola Finlandia e più in generale quella di molti
> Paesi del Nord Europa ha già dimostrato che non è affatto vero che
> rivoluzione digitale e sviluppo dell'economia di rete debbano essere
> necessariamente figlie della deregulation e dello smantellamento del
> welfare: il più garantista (e costoso) sistema di welfare europeo ha
> prodotto un'economia e una cultura capaci di generare il fenomeno
> Nokia e
> l'entusiasmante esperienza della comunità open source. Quanto alla
> cultura
> politica ecologista, nulla impedisce come dimostrano le efficaci
> battaglie
> condotte in Parlamento Europeo in opposizione alla brevettabilità del
> software e all'inasprimento delle sanzioni contro le violazioni della
> proprietà intellettuale di coniugare la tutela dell'ambiente, della
> cultura e del territorio locali con la cooperazione e la solidarietà
> generati dalle esperienze sociali deterritorializzate che si sviluppano
> in rete. Per svolgere un ruolo tanto ambizioso, i verdi europei
> dovranno
> tuttavia sbarazzarsi di ogni residua soggezione nei confronti dell'area
> politico-culturale socialdemocratica e postcomunista. Per progredire
> occorre rovesciare progressivamente, anche sul piano elettorale, il
> rapporto di forza fra componenti innovative e componenti novecentesche
> della sinistra europea. Una sinistra capace di indicare alla società la
> via del superamento della sofferenza mentale, dell'insicurezza, della
> paura nei confronti dell'altro, la via di uno sviluppo compatibile con
> l'ambiente naturale e con l'ecologia della mente, della valorizzazione
> di
> nuove forme di cooperazione e solidarietà sociale assieme (e non in
> alternativa!) alla tutela delle libertà individuali e (perché no?)
> delle
> stesse libertà economiche, avrebbe molta più forza di convinzione di
> una
> sinistra che difende valori storici ormai sconfitti o, peggio ancora,
> si
> adegua all'egemonia culturale dell'avversario.
>
>
> VI. Per concludere, due parole sullo scenario italiano
>
> L'Italia è il luogo in cui questa operazione di rinnovamento politico è
> più urgente, perché tutte le contraddizioni finora analizzate vi si
> presentano in forma esasperata: la cultura neoliberista smentisce in
> modo
> più paradossale che altrove il contenuto semantico della propria
> etichetta, incarnandosi in un regime illiberale fondato su un'inedita
> forma di populismo che sfrutta il controllo monopolistico sul sistema
> dei
> media; la sinistra post comunista oscilla in modo più evidente che
> altrove
> fra velleità neo-resistenziali e subordinazione culturale nei confronti
> dell'ideologia dell'avversario; i movimenti di alternativa e
> sperimentazione sociale che pure hanno qui raggiunto un massimo di
> intensità, potenza e ampiezza si sono rivelati meno capaci che altrove
> di
> configurare una vera alternativa politica; infine il partito verde
> appare
> oltre che numericamente ed elettoralmente più debole di omologhe
> formazioni europee, più esposto al rischio di ridursi ad appendice di
> un 
> centro-sinistra perdente o subalterno.
>
> Malgrado queste condizioni tutt'altro che favorevoli, non è escluso che
> analogamente a quanto è successo in Spagna, dove l'elettorato ha
> punito la
> politica di guerra e le menzogne del governo Aznar, e in Francia, dove
> l'elettorato ha respinto l'assalto alla spesa sociale, anche in Italia
> possa verificarsi una sconfitta elettorale del centro-destra alle
> prossime
> elezioni europee. Ma non ci sarebbe ugualmente da stare allegri, perché
> sull'orizzonte politico non si intravede alcuna reale alternativa. Non
> esiste un programma alternativo all'assolutismo del profitto
> monopolista,
> non esiste un progetto culturale capace di coniugare l'innovazione
> tecnologica ed economica con il benessere sociale. Così il fallimento
> del
> centro-destra sta maturando nel quadro di uno scenario inquietante:
> occupato a gestire gli interessi privati del suo leader e a garantire
> gli
> equilibri fra lobby di ogni tipo, il governo non ha fatto nulla per
> trovare vie d'uscita dal processo di disfacimento economico del
> paese. Il tessuto sociale, economico e culturale che si era costruito
> nei
> decenni precedenti si sta lacerando, scontando il tramonto di una
> competitività fondata quasi esclusivamente su flessibilità del lavoro e
> bassi salari. Oggi la globalizzazione sta facendo sentire i suoi
> effetti
> devastanti anche sui settori più dinamici, mentre l'Italia sembra avere
> perso qualsiasi capacità di innovazione culturale e tecnologica (in
> barba
> alle retoriche celebrazioni della nostra creatività, leggi arte di
> arrangiarsi). Il salario reale si è eroso in maniera impressionante
> mentre la politica di privatizzazione dei servizi ha reso il costo
> della
> vita insostenibile.
>
> In questa situazione, diventa sempre più probabile una esplosione
> sociale
> del resto preannunciata da segnali come gli scioperi selvaggi di
> autoferrotranviari e aeroportuali. Un'opposizione degna del nome
> avrebbe
> cercato di dare sbocco politico a queste agitazioni spontanee (così
> come
> ai girotondi che manifestano la propria indignazione per il degrado
> morale
> della vita nazionale e al movimento contro la guerra in Irak), ma ciò
> non
> è accaduto, anzi sembra probabile che un eventuale, futuro governo di
> centro-sinistra possa continuare alcune delle politiche antisociali
> dell'attuale governo di centro-destra. Il rischio è che, in una
> situazione
> del genere, quella stessa destra che non ha saputo governare si
> prepari a
> divenire una forza di opposizione eversiva, decisa a guidare esplosioni
> sociali di stampo populista da parte dei ceti medi impoveriti. Ecco
> perché
> il compito più urgente non è quello di accentuare una crisi del
> centro-destra che procede ormai per forza propria, ma semmai
> quello di investire energie e immaginazione politica dei movimenti
> sociali nella elaborazione di un programma alternativo e nella
> costruzione di un personale politico capace di gestirlo in modo
> spregiudicato, moderno, radicale. Uno scenario in cui l'area verde
> concepita in termini più ampi del partito che oggi la incarna è
> chiamata
> a svolgere un ruolo decisivo, a condizione che non si lasci ridurre ad
> appendice di un centro-sinistra perdente o subalterno, ma assuma i
> connotati di una forza indipendente impegnata a promuovere uno
> schieramento votato a trasformare radicalmente la vocazione governativa
> di un centro-sinistra rinnovato nella cultura e nellatteggiamento. Se
> riuscissimo ad andare in questa direzione, lItalia potrebbe
> rappresentare
> un segmento importante assieme agli altri paesi neolatini di un
> progetto
> di ridefinizione della prospettiva europea secondo linee di identità
> postnazionale e di costruzione di una alternativa all'egemonia
> politico-culturale del modello americano.
>
>
>
> il potere non è
> solo dove si prendono
> decisioni orrende
>     ma ovunque il discorso
> rimuove il corpo la rabbia
> l'urlo il gesto di vivere
>
>                    alice è il diavolo
>
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