Informazione

http://www.edit.hr/lavoce/040510/politica.htm

Da "La Voce del Popolo" (Fiume - Rijeka)
10 maggio 2004

Celebrata sul Monte Maggiore La Giornata della Vittoria e dell'Europa


«Contro il fascismo uniti croati, italiani e sloveni»


MONTE MAGGIORE – Tradizionale appuntamento, ieri, nella spianata
antistante l’ex Casa di riposo dell’INA sul Monte Maggiore. Come
sempre, i combattenti antifascisti e gli antifascisti, assieme ai loro
ospiti, hanno celebrato la Giornata della vittoria, la Giornata
dell’Europa e gli anniversario della ricostituzione della I Brigata
"Vladimir Gortan" e della Conferenza circondariale dell’USAOH. Anche
quest’anno, la manifestazione ha attirato sul Monte Maggiore,
nonostante le incerte condizioni del tempo, migliaia di persone. Tra
gli ospiti, il generale Petar Stipetić, inviato personale del capo
dello Stato Stjepan Mesić, i presidenti delle Regioni litoraneo-montana
Zlatko Komadina e Istriana Ivan Jakovčić, i sindaci di numerose
municipalità istriane e del litorale, deputati al Sabor, ecc. Il primo
a prendere la parola, è stato Miho Valić, a nome dei combattenti
antifascisti istriani e litoraneo-montani. "I combattenti della Guerra
popolare di liberazione, unicamente in Croazia vengono sottovalutati.
Noi, finora, abbiamo sopportato tantissimo cercando a tutti gli
indirizzi la resa dei diritti acquisiti, toltici dall’ex Governo
accadizetiano. Ora l’HDZ è nuovamente al potere ma le belle parole di
Ivo Sanader non ci soddisfano. Egli riconosce i nostri meriti nella
lotta antifascista, ma non la nostra dignità visto che siamo sempre
discriminati. Per questa ragione, chiediamo al Governo e al Sabor di
venire equiparati nei diritti con i combattenti della guerra
patriottica. In caso contrario, saremo costretti a mettere a conoscenza
del fatto tutte le istituzioni internazionali più importanti", ha detto
Valić, aggiungendo che "non si può accedere all’UE se non si
riconoscono tutte le norme di comportamento civile". Ai convenuti si
sono indi rivolti anche i vicepresidenti dell’Associazione nazionale
dei combattenti antifascisti Vinko Šunjara e Miljenko Benčić. Ambedue
hanno messo in rilievo che il fascismo, purtroppo, non è stato ancora
completamente sradicato. Per queste ragioni, è necessaria l’esistenza
del movimento antifascista, che deve essere forte, compatto e deciso.
A nome dei combattenti antifascisti italiani, ha parlato Ferruccio
Pastrovicchio. "In occasione della Giornata della vittoria sul
nazifascismo, della Giornata dell’Europa, del 60.esimo anniversario
dalla ricostituzione della I Brigata ‘Vladimir Gortan’ e della
Conferenza circondariale dell’USAOH per l’Istria è doveroso ricordare
la nostra gloriosa lotta antifascista e rendere onore a coloro che
diedero la vita per la libertà della nostra terra. Dopo lo svolgimento
di detta Conferenza, si formarono numerose unità e compagnie,
battaglioni e brigate. Qui va inserita anche la formazione del
battaglione ‘Pino Budicin’, simbolo dei combattenti istriani di
nazionalità italiana fino alla costituzione della 43.esima Divisione
istriana – massima formazione militare quale garante dell’anticipazione
dell’applicazione delle storiche decisioni di Pisino per la liberazione
e l’unione dell’Istria alla Patria. Dobbiamo ricordarci in Istria che
contro il fascismo in Istria si oppose tutto il popolo di componente
multietnica – croati, italiani e sloveni. Queste forze partigiane,
guidate dall’eroico compagno Tito sono state unite fino alla vittoria
finale. Gli italiani di queste terre, lottarono con dignità per una
società libera, democratiche e per i diritti nazionali e sociali. Un
grande merito va attribuito anche alla formazione dell’Unione degli
Italiani dell’Istria e di Fiume e del Litorale sloveno nella
mobilitazione degli italiani per la salvaguardia e la garanzia dei
diritti partitetici di tutti i combattenti della LPL nella costituzione
del nuovo Stato. Oggi, dobbiamo rivendicare con forza i valori
dell’antifascismo come l’unica grande cultura civile del nostro Paese e
impedire che nella società si presentino e si diffondano pericolosi
cascami di natura fascista".
Tutti i relatori, durante i loro interventi, sono stati interrotti da
fragorosi applausi ogniqualvolta hanno fatto il nome di Josip Broz
Tito, la cui immagine era posta al centro del palco. Al termine dei
discorsi, si è svolto un programma artistico-culturali e, a tutti
quanti, è stato offerto l’immancabile rancio partigiano.

Silvano Silvani

Copyright (c) "EDIT" 2000-2004

[ Uno dei principali canali televisivi tedeschi, la ZDF, ha trasmesso
domenica scorsa un documentario nel quale, usando a pretesto un
episodio criminale ancora in gran parte da chiarire, commesso a Londra,
si e' voluto fomentare per l'ennesima volta pangermanico odio nei
confronti del popolo nemico per antonomasia: i Serbi. Un razzismo
particolarmente schifoso e pericoloso, questo dei media tedeschi,
perche' ammantato di retorica femminista e considerazioni in malafede
sul difficile contesto economico-sociale nel quale si vengono a trovare
gli immigrati slavi all'estero... ]


Liebe Freundinnen und Freunde,

Der Mörder war wieder der Serbe: Zum ekelhaften ZDF-Zweiteiler "Heißer
Verdacht" habe ich einen Kommentar geschrieben, der morgen (10. Mai) in
der "Jungen Welt" erscheinen wird. Unten der Text vorab.

Ansonsten wurde ich kurzfristig zu einer weiteren Lesung aus
"Kriegslügen. Vom Kosovokonfoikt zum Milosevic-Prozeß" eingeladen, und
zwar am kommenden Samstag, 15. Mai, um 19 Uhr in Berlin, Serbischer
Club, Helholtzstr.122 (Moabit, Nähe Gotzkowskybrücke). Weitere Termine
unter

www.juergen-elsaesser.de

Srdacno, J.E.

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Junge Welt, 10/5/2004


Folter im ZDF


Krimi-Zweiteiler »Heißer Verdacht«: antirassistisch und feministisch
verpackte Serbenhetze

Auf allen Kanälen laufen die Folterbilder aus Abu Ghraib, und Rumsfeld
muß Buße tun. Blair sieht man ebenfalls wieder schwitzen, denn nach den
Schnappschüssen der GIs wurden auch Erinnerungsfotos von Soldaten der
Royal Army veröffentlicht: Einer pißt auf einen irakischen Gefangenen,
dann wird der Kadaver vom LKW gestoßen. Wie gut, daß sich das ZDF in
diesen schweren Stunden in Schadensbegrenzung übt und daran erinnert,
daß unsere angelsächsischen Freunde die Folter keineswegs praktizieren,
sondern vielmehr entschlossen bekämpfen, und diese ihrer Wesensart nach
nicht freiheitlich-westlich, sondern balkanisch-serbisch ist.

Der Krimi »Heißer Verdacht«, am letzten und vorletzten Sonntag direkt
nach dem heute-journal ausgestrahlt, zeigte dem vom ganzen Renten- und
Irak-Schlamassel frustrierten TV-Glotzer, wer seine wirklichen Feinde
sind.
In London werden zwei muslimische Frauen aus Bosnien bestialisch
gefoltert und ermordet. Die Täter sind zwei Serben, die durch dieses
Verbrechen »die letzten Zeugen« – so der Untertitel – eines Massakers
beseitigen wollen, das sie mit ihrer Einheit im bosnischen Bürgerkrieg
begangen haben. Doch der Film klagt nicht nur die beiden, sondern alle
Serben an: Während der gesamten 200 Minuten werden durchweg alle
Exemplare dieser Spezies als mordgierig, kriminell, verschlagen oder
wenigstens als verstockt und hinterwäldlerisch dargestellt, die Bilder
in der Regel durch bedrohliches Musikgerumpel unterlegt. Die
klagend-schönen Ethno-Klänge, die Goran Bregovic mit »Weddings und
Funerals« bekannt gemacht hat, werden dagegen immer dann eingespielt,
wenn die Kamera die muslimischen Frauen zeigt. Dabei ist Bregovic ein
Serbe, aber der gute Balkanpop darf im deutschen Fernsehen natürlich
nicht vom Feind kommen.

Als wahrer »Teufel« – so seine Opfer wörtlich – wird dabei ausgerechnet
ein Serbe dargestellt, der ganz anders ist als seine ungebildeten und
stiernackigen Landsleute: Er lebt seit vielen Jahren in London, geht
als Augenoptiker einem ehrbaren Beruf nach, ist mit einer Engländerin
verheiratet, besticht durch Höflichkeit und Charme, arbeitet sogar als
V-Mann der britischen Polizei und liefert serbische Kriegsverbrecher
ans Messer. Aber ausgerechnet dieser Gentleman hat eine Zwölfjährige
vier Tage lang sadistisch vergewaltigt und setzt, kaum ist er
überführt, seinem eigenen Kind den Dolch an die Kehle. Dieses Stereotyp
kennt man aus dem Antisemitismus: Der Volksschädling ist gerade dann am
gefährlichsten, wenn er sich perfekt assimiliert hat und als nützliches
Glied der Wirtsgesellschaft renommiert. Deswegen, so die Nazis, müssen
alle Juden ausgerottet werden, nicht nur die Unangepaßten. Nach diesem
Film kann der Zuschauer eigentlich nur die Schlußfolgerung ziehen, daß
man mit den Serben auf die gleiche Weise verfahren muß.

Obwohl die Produktion also in der Tradition von »Jud Süß« und anderem
Nazidreck steht, werden sich die bei den Mainzer Verantwortlichen
eingehenden Proteste in Grenzen halten. Denn Regisseur Tom Hooper hat
seine rassistische Hetze antirassistisch und feministisch verpackt: Die
Morde spielen im Milieu zumeist illegaler Flüchtlinge; deren Ausbeutung
als billige Arbeitskräfte gibt den Hintergrund der polizeilichen
Ermittlungen ab. »Der Zweiteiler gehört sicherlich mit zum Besten, was
derzeit im Fernsehen zu sehen ist. Das Thema Migration wird auf eine
zeitgemäße und kritische Weise dargestellt«, lobte der Branchendienst
rp-online. In Hauptkommissarin Jane Tennison sieht die »Welt am
Sonntag« »eine stille Kämpferin, die der geballten Chauvifront mit
disziplinierter Härte imponierte«, obwohl sie bei ihren Ermittlungen
wie ein Rambo vorgeht und sich um Rechtsgrundlagen nicht schert. Doch
anders als bei Charles Bronson sind ihre schärfsten Waffen nicht Fäuste
und Kanonen, sondern Tränen: »Ich kann es nicht beweisen, aber ich
fühle, daß er es war«, schluchzt sie und schickt dann ihre Killertruppe
los. Das hätte von Rudolf Scharping stammen können – und auch bei der
elenden Auschwitz-Vergleicherei kann sie ihm durchaus das Wasser
reichen.

Während Mrs. Tennison auf Moral und weibliche Intuition setzt und damit
die Schurken überführt, verteidigen ihre männlichen Kollegen die
Unschuldsvermutung, bemühen sich um Recherche in alle Richtungen und
suchen sogar – pfui, wie altmodisch – nach möglichen ökonomischen
Motiven für die Morde, etwa bei der balkanischen Zigarettenmafia. Aber
diese Überlegungen sind im Film von vornherein diskreditiert, weil sie
zum einen von älteren Herren vorgebracht werden, die sich zum anderen
auch noch politisch unkorrekt zum Thema Asyl äußern. Merke: Wer die
Schuld der Serben nicht zum Prärogativ seines Denkens und Handelns
macht, muß ein Chauvi und verkappter Rechtsradikaler sein.

Jürgen Elsässer

www.jungewelt.de

Due anni fa, nel maggio 2002, moriva a Roma Giuseppe Maras.

Maras fu Comandante della Divisione Italia, gia' Brigata Garibaldi,
nella Lotta di Liberazione jugoslava. Medaglia d'oro della Resistenza,
fu decorato anche da Tito, che conosceva personalmente. Fu fino alla
morte un vero punto di riferimento per i tanti italiani che
combatterono nei Balcani contro il nazifascismo.

Negli ultimissimi anni di vita Maras aveva partecipato ad
iniziative-dibattito pubbliche sullo sfascio del paese meraviglioso che
anche lui aveva contribuito a costruire, e che dal 1991 non riusciva
piu' a riconoscere. Dal 2001 aveva aderito anche al progetto del
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia.

La sua morte fu sostanzialmente ignorata da media e militanti della
sinistra, ma la sua memoria vive e con essa i valori internazionalisti
della lotta partigiana. Continueremo ad onorarli anche in futuro.

CNJ

www.resistenze.org - popoli resistenti - bosnia - 07-05-04


Da www.balkanpeace
traduz. a cura di E. Vigna ( Associazione SOS Yugoslavia)


Documentazione su Srebrenica


Quel che segue è l’analisi di un italiano che fu realmente sul terreno
bosniaco durante la guerra, ed in particolare nel corso della caduta di
Srebrenica.
Si può essere d’accordo oppure no con l’analisi politica, ma si
dovrebbe davvero leggere il resoconto di come Srebrenica cadde, su chi
sono le vittime i cui corpi sono stati sino a questo punto ritrovati, e
la ragione per cui l’autore crede che i serbi volessero sopraffare e
conquistare Srebrenica, mettendone in fuga i musulmani bosniaci,
piuttosto che avere nei loro confronti qualunque proponimento di
commettere una carneficina. E’ anche piuttosto istruttivo il confronto
Srebrenica e Krajina, così come la relazione mediatica che con esso ha
attinenza diffusasi tra la “stampa libera” in Occidente.
Vi sono scarsi dubbi sul fatto che almeno 2000 musulmani bosniaci
perirono nel combattere l’esercito serbo bosniaco. Permane tuttavia la
domanda, QUANDO si verificò la maggioranza di tali perdite? Stando
all’analisi sottostante, ciò avvenne prima della caduta definitiva di
Srebrenica; dove i musulmani opposero pochissima resistenza nell’estate
del 1995.

Carlos Martins Branco


Vorrei esprimere le mie opinioni riguardo gli eventi di Srebrenica.
Invio qui un articolo che ho scritto tempo fa , che rispecchia un modo
di accostarsi alla questione molto diverso da quello trasmesso dai
media occidentali, e dalla CNN in particolare. Ero UNMOs Deputy Chief
Operations Officers del UNPF (a livello di luogo in cui si svolgono le
azioni) e le mie informazioni si fondano sui rapporti successivi alle
operazioni militari dell’UNMOs che in quei giorni venivano spediti a
Srebrenica per posta, e su alcuni verbali dell’ONU non resi noti
all’opinione pubblica. Le mie fonti non sono Ruder & Finn Global Public
Affairs, che non include il mio nome nel suo database. Non voglio
dibattere di numeri e questioni simili. Tali argomenti non mi
interessano in alcun modo. Non vi sono informazioni attendibili, e le
cifre sono state usate e manipolate a fini propagandistici, non sono
orientati ad una seria comprensione del conflitto iugoslavo.
L’articolo si fonda su informazioni VERE e include la mia analisi degli
eventi. La storia è più lunga di quella dell’articolo, ho tuttavia
tentato di essere il più conciso possibile. Spero contribuisca a fare
ulteriore chiarezza su ciò che realmente accadde a Srebrenica e quel
che si celava al di sotto degli eventi, specialmente per quel che
riguarda l’atteggiamento dei mussulmani bosniaci. Credo fermamente che
Srebrenica possa costituire una sorta di modello, di esempio di
condotta bellica delle due fazioni che si combattono nel conflitto: da
una parte i musulmani bosniaci che provocano i serbi, tentando in tutti
i modi di convincere la comunità internazionale ad intervenire con la
forza contro i serbi in modo da risolvere la questione militare;
dall’altro lato la mancanza di intelligence all’interno della
leadership serba, che fornisce così ai musulmani le giustificazioni ed
i motivi che cercavano. So bene che ad alcuni di voi non piaceranno i
contenuti dell’articolo. Mi dispiace per loro.

L’accaduto di Srebrenica è stato un inganno?

Sono passati anni da quando l’enclave musulmana Srebrenica, è caduta
nelle mani dell’esercito serbo in Bosnia. Molto è stato scritto su tale
questione controversa. Nondimeno, la maggioranza dei resoconti si è
limitata ad una generica esposizione mediatica dell’accaduto,
apportandovi uno scarso rigore analitico. Un dibattito su Srebrenica
non può limitarsi al genocidio e alle fosse comuni, che costituiscono
un’evenienza quasi banale da un capo all’altro dell’ex-Jugoslavia.
Un’analisi rigorosa degli eventi deve prendere in considerazione il
retroterra culturale, le circostanze che hanno fatto da sfondo, così da
comprendere le reali motivazioni che hanno condotto alla caduta
dell’enclave.

La zona di Srebrenica, come quasi tutta la Bosnia orientale, è
caratterizzata da un terreno molto accidentato ed aspro. Scoscese
vallate con fitte foreste e profondi precipizi rendono impossibile il
passaggio ai mezzi di trasporto da guerra, avvantaggiando decisamente
le forze difensive. Date le risorse alla portata di  entrambe le parti
e le caratteristiche del terreno, parve verosimile che l’esercito
bosniaco (ABiH) avesse la forza necessaria per attuare una strategia
difensiva, se si fosse fatto pieno ricorso al vantaggio offerto dalla
configurazione del territorio. Tuttavia, ciò non accadde.

Stabilito il vantaggio militare delle forze difensive, risulta molto
difficile spiegare l’assenza di una resistenza militare. Le forze
musulmane non instaurarono un sistema di difesa effettivo, e non
tentarono nemmeno di trarre vantaggio della loro artiglieria pesante,
sotto controllo delle forze delle Nazioni Unite (ONU), in un momento in
cui avrebbero avuto ogni ragione per fare ciò.
La mancanza di una risposta militare si colloca in netto contrasto con
l’assetto offensivo che caratterizzò le azioni delle forze di difesa
durante le precedenti situazioni di assedio, connotate dai tipici
“raids” violenti sferrati contro i villaggi serbi circostanti
l’enclave, causando in tal modo perdite gravose fra la popolazione
civile serba.

Ma in questo caso, con l’attenzione dei media che convergeva sull’area,
la difesa militare dell’enclave avrebbe svelato l’autentica situazione
delle zone di sicurezza, provando così che queste ultime non erano mai
state autenticamente demilitarizzate com’era stato rivendicato e come
si sosteneva, ma che al contrario davano protezione e nascondiglio ad
unità altamente militarizzate. Una resistenza militare avrebbe messo a
repentaglio l’immagine di “vittima” così accuratamente costruita, il
cui mantenimento i musulmani consideravano di capitale importanza.

Dall’inizio alla fine dell’intera operazione fu chiaro che esistevano
disaccordi radicali fra i leaders dell’enclave. Da un punto di vista
strettamente militare regnava il caos totale. ORIC, il carismatico
comandante di Srebrenica, era assente.

Il governo di Sarajevo non ne autorizzò il ritorno, così da poter
guidare la resistenza. Il potere militare cadde fra le mani dei suoi
luogotenenti, i quali avevano una lunga storia di incompatibilità. La
mancanza di una chiara leadership da parte di Oric condusse ad una
situazione di totale inettitudine. Gli ordini contraddittori dei suoi
successori paralizzarono completamente le forze sotto assedio.

Anche la condotta dei leaders politici risulta interessante. Il
presidente locale SDP, Zlatko Dukic, in un’intervista con gli
osservatori dell’Unione Europea, spiegò che Srebrenica era parte di una
transazione d’affari, di un negoziato che coinvolgeva una via di
supporto logistico verso Sarajevo, passante attraverso VOGOSCA. Affermò
anche che la caduta dell’enclave faceva parte di un’operazione militare
orchestrata per screditare l’Occidente e persuadere i paesi islamici,
al fine di ottenerne l’appoggio. Questa era dunque la motivazione per
cui ORIC si era tenuto a distanza dalle sue truppe. Tale tesi fu anche
sostenuta dai sostenitori locali del DAS. Correvano anche molte voci di
rapporti commerciali all’interno della popolazione locale dell’enclave.

Un altro aspetto curioso fu l’assenza di una reazione militare da parte
del 2° Corpo dell’esercito musulmano, che non fece nulla per attenuare
la pressione militare sull’enclave. Era risaputo che l’unità serba
nella regione, i “Drina Corps” fosse esausta, e che l’attacco a
Srebrenica sarebbe stato possibile soltanto mediante l’aiuto di unità
provenienti da altre regioni.
Ciononostante, Sarajevo non mosse un dito per sferrare un attacco che
avrebbe diviso le forze serbe ed esposto i punti vulnerabili creati
dalla concentrazione delle risorse attorno a Srebrenica. Un tale
attacco avrebbe ridotto la pressione militare gravante sull’enclave.

E’ anche importante notare il patetico appello del presidente di
Opstina, Osman Suljic, il 9 luglio, che implorava gli osservatori
militari di dire al mondo che i serbi stavano impiegando armi chimiche.
Il medesimo gentiluomo accusava più tardi i media di trasmettere false
notizie riguardo la resistenza delle truppe nell’enclave, richiedendo
un diniego da parte dell’ONU. Secondo Suljic, le truppe mussulmane non
rispondevano e non avrebbero mai risposto con l’artiglieria pesante.
Allo stesso tempo, egli lamentava la mancanza di derrate alimentari e
sottolineava la situazione dal punto di vista umanitario. Stranamente,
agli osservatori non fu mai permesso di ispezionare i depositi di
stoccaggio cibo. L’enfasi mostrata dai leaders politici sulla mancanza
di risposta militare e sull’assenza di provviste alimentari suggerisce
vagamente una politica ufficiale che iniziava a delinearsi, a
distinguersi.

Alla metà del 1995, il protrarsi della guerra aveva scoraggiato
l’interesse pubblico. Vi era stata una sostanziale riduzione nella
pressione dell’opinione pubblica delle democrazie occidentali. Un
incidente di tale rilievo avrebbe nondimeno fornito per settimane nuovo
materiale scottante per i media, risvegliando l’opinione pubblica ed
incitando nuove passioni. Sarebbe così stato possibile prendere due
piccioni con una fava: si sarebbe potuta rivelare la pressione in modo
da togliere l’embargo, ed allo stesso tempo sarebbe stato difficile per
i paesi occupanti ritirare le loro forze, un’ipotesi quest’ultima
avanzata dai vertici dell’ONU, e cioè da personalità come Akashi e
Boutros-Boutros Ghali.

Nei musulmani albergava da sempre una segreta speranza riguardo il
sollevamento dall’embargo. Ciò era divenuto l’obiettivo principale del
governo di Sarajevo, alimentato dal voto al Senato e Congresso USA a
favore di tale misura. Tuttavia, il presidente Clinton pose il veto
alla decisione e richiese una maggioranza dei due terzi in entrambe le
Camere.

Il collasso delle enclaves costituì la pressione decisiva di cui la
campagna necessitava. A seguito di tale caduta, il Senato statunitense
votò con un maggioranza di oltre due terzi a favore dell’eliminazione
dell’embargo. Era chiaro, inevitabile, che prima o poi le enclaves
sarebbero cadute sotto il controllo serbo. Vi era consenso fra i
negoziatori (l’amministrazione USA, l’ONU e i governi europei) sul
fatto che fosse impossibile mantenere le tre enclaves mussulmane, e che
queste ultime si sarebbero dovute cedere in cambio di territori della
Bosnia centrale. In molteplici occasioni, fu Madeleine Albright a
proporre a Izetbegovic tale scambio, basato sulla proposta del gruppo
di contatto. All’inizio del 1993, primo momento di crisi dell’enclave,
Karadzic aveva proposto ad Izetbegovic di scambiare Srebrenica con le
zone periferiche attorno a Vogosca. Tale scambio includeva il movimento
di popolazioni in entrambe le direzioni. Questo era l’obiettivo cui
miravano i negoziati segreti, per evitare pubblicità indesiderata. Ciò
implicava che i paesi occidentali accettassero ed incoraggiassero la
separazione etnica.

La verità è che sia gli americani che il presidente Izetbegovic erano
tacitamente convenuti alla decisione che non aveva senso insistere con
la permanenza di tali enclaves isolate in una Bosnia divisa. Nel 1995
nessuno credeva più nell’inevitabilità di una divisione etnica del
territorio. Nel mese di giugno 1995, prima dell’operazione militare in
Srebrenica, Alexander Vershbow, assistente speciale del presidente
Clinton, dichiarava che “l’America dovrebbe incoraggiare i bosniaci a
pensare in termini di territori con maggiore coerenza e compattezza
territoriale.” In altre parole ciò stava a significare che si sarebbero
dovute dimenticare le enclaves. L’attacco a Srebrenica, attuato senza
aiuto da parte di Belgrado, fu del tutto inutile, e ha esemplificato al
massimo grado il fallimento politico della leadership serba.

Nel mentre, i media occidentali esacerbavano la situazione trasformando
le enclaves in una potente icona ad uso e consumo dei media; situazione
che Izetbegovic avrebbe presto esaminato attentamente.

La CNN trasmetteva quotidianamente le immagini di fosse comuni per
migliaia di corpi, ottenute da satelliti spia. Nonostante la precisione
microscopica nella localizzazione di tali fosse, risulta certo che
nessuna scoperta ha sinora confermato tali sospetti. Poiché non
sussistono più restrizioni di movimento, è inevitabile che si facciano
congetture, che si mediti sul perché esse non siano state ancora
mostrate al mondo.

Se vi fosse stato un piano premeditato di genocidio, invece di
attaccare in un’unica direzione, da sud verso nord – che lasciava adito
all’ipotesi di fuga verso nord e ovest, i serbi si sarebbero insediati
in maniera tale da impedire a chiunque di sfuggire loro. I posti di
osservazione dell’ONU a nord dell’enclave non furono mai disturbati e
protrassero la loro attività anche al termine delle operazioni militari.

Esistono ovviamente fosse comuni alla periferia di Srebrenica, come nel
resto della ex-Yugoslavia, laddove hanno avuto luogo i combattimenti,
ma non sussistono argomenti ragionevoli per la campagna che è stata
montata, e nemmeno per i numeri avanzati dalla CNN.
Le fosse comuni sono riempite da un numero limitato di corpi da
entrambe le parti, conseguenza di battaglie e combattimenti animati, ma
non risultato di un piano premeditato di genocidio, come si è invece
verificato per le popolazioni serbe di Krajina nell’estate del 1995,
quando l’esercito croato portò a termine uno sterminio di massa di
tutti i serbi che là si trovavano.

In questo caso, i media serbarono un silenzio assoluto, nonostante il
fatto che il genocidio si fosse protratto lungo un periodo di tre mesi.
L’obiettivo di Srebrenica era la pulizia etnica e non il genocidio, a
differenza di ciò che accadde in Krajina, dove benché non vi fosse
stata azione militare, l’esercito croato decimò i villaggi.
Nonostante si sapesse che le enclaves erano già una causa persa,
Sarajevo insistette nel trarre dividendi politici dal fatto. La
ricettività che era stata creata negli occhi dell’opinione pubblica
rendeva più semplice vendere la tesi del genocidio.

Quel che rivestì ancora una maggiore importanza della tesi del
genocidio e dell’isolamento politico dei serbi fu il ricatto teso
all’ONU: o quest’ultimo avrebbe unito le forze del proprio contingente
a quelle del governo di Sarajevo nell’economia del conflitto (quel che
in seguito si verificò) oppure l’organismo ONU sarebbe stato
completamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica, inducendola
successivamente ad appoggiare la Bosnia.

Srebrenica fu il colmo che indusse i governi occidentali a cercare e
raggiungere un accordo per la necessità di porre fine alla loro
condizione di neutralità ed intraprendere un’azione militare
schierandosi con una delle due parti in conflitto. Fu la goccia che
fece traboccare il vaso, ciò che unì l’Occidente nel suo desiderio di
rompere “la bestialità serba”. Sarajevo era conscia di mancare della
capacità militare necessaria a distruggere i serbi. Era necessario
creare le condizioni attraverso le quali la comunità internazionale
avrebbe agito per essa. Srebrenica assunse un ruolo vitale in tale
processo.

Srebrenica rappresenta un atto all’interno di una serie attuata dai
leaders serbi, che intendevano provocare l’ONU, dimostrando in questo
modo la loro impotenza. Fu un errore strategico che sarebbe costato
loro caro. Fra i due contendenti, colui che traeva tutto il suo
guadagno dal dimostrare l’impotenza delle Nazioni Unite era la
leadership di Sarajevo e non quella di Pale. Nel 1995 era chiaro che il
mutamento dello status quo richiedesse un intervento potente in grado
di rovesciare il potere militare serbo.

Srebrenica fu uno di tali pretesti, conseguenza della ristrettezza di
vedute dei leaders serbi bosniaci.
Guidate con sapienza, le forze assediate avrebbero potuto difendere
l’enclave con facilità, almeno per molto tempo ancora. Si rivelò
conveniente lasciare che l’enclave cadesse in tal modo.

Poiché l’enclave era condannata a cadere, si preferì lasciare che ciò
accadesse nella maniera più vantaggiosa. Ma ciò sarebbe stato fattibile
soltanto se Sarajevo avesse avuto iniziativa politica e libertà di
movimento, eventualità che non si sarebbe mai verificata attorno al
tavolo dei negoziati. La caduta deliberata dell’enclave potrebbe
apparire come un terribile atto di orchestrazione machiavellica, ma la
realtà è che il governo di Sarajevo aveva molto da guadagnare, come fu
dimostrato. Srebrenica non fu un intrigo, un disegno senza conseguenze.
I serbi ottennero una vittoria militare che ebbe però effetti
collaterali altamente negativi sul piano politico, che portarono al
loro definitivo ostracismo.

Potremmo aggiungere una singolare nota conclusiva. Non appena le
postazioni degli osservatori Onu furono attaccate e si rivelarono
impossibili da mantenere, le forze si ritirarono. Le barricate
innalzate dall’esercito musulmano non fecero passare le truppe. Queste
ultime non furono trattate come soldati in fuga dal fronte, ma
piuttosto con una sordida differenziazione.

Non soltanto i musulmani si rifiutarono di combattere per difendere
loro stessi, essi obbligarono altri a combattere in loro nome. In un
caso, il comandante di un veicolo olandese decise, dopo alcune
conversazioni con l’ABiH, di oltrepassare la barriera. Un soldato
musulmano lanciò una granata da mano i cui frammenti lo ferirono a
morte. L’unico soldato ONU che morì nell’offensiva di Srebrenica fu
ucciso dai musulmani.


Carlos Martins Branco European University Institute

Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Badia Fiesolana, Italia