Informazione

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Nuovo Maccartismo

1) RISPOSTA AL QUIZ DI VISNJICA BROJ 992 "RETORICA BELLICA"
2) Intervista a Vladimiro Giacché
3) "L'Antidiplomatico" conduce la battaglia contro il nuovo Maccartismo
4) "Fake news": i softwares per censurare e il convegno autogol della Boldrini
5) IL REGIME VUOLE IL MONOPOLIO DELLE BUFALE. GIÙ LE MANI DALLA RETE! (di Giorgio Cremaschi)


Sul carattere strategico della disinformazione nel caso jugoslavo conduciamo una polemica ostinata da un quarto di secolo. Tra la ampia documentazione disponibile segnaliamo:
Guerra e disinformazione strategica (di Andrea Martocchia. Intervento al convegno TARGET, Vicenza 21/3/2009)
La disinformazione in ex Jugoslavia e in Kosovo (di Jean Toschi Marazzani Visconti, maggio 2006)
Guerra di Bosnia:
- "Ora i serbi usano il napalm..." /  "La suora violentata non è mai esistita"
https://www.cnj.it/documentazione/DOSSIER96/Pages/13.html
- Notizie dalla Jugoslavia: "la stampa di parte" (Foreign Policy / Die Weltwoche / Internazionale, 1994)
https://www.cnj.it/documentazione/DOSSIER96/Pages/14.html
- An interview to James Harff of Ruder&Finn Public Global Affairs 

Altri link:

Il parlamento Ue apre la stagione della censura contro tutti i dissenzienti (PandoraTV, 24.11.2016)
Im EU-Parlament werden Massnahmen gegen die "Russische Propaganda" von RT und Sputnik, welche mit derjenigen des Islamischen Staates gleichgesetzt wird (!), beschlossen:
PTV news Speciale - Putin: “Chi è l’insegnante di democrazia?” (PandoraTV, 24 nov 2016)
Vladimir Putin, Presidente della Federazione Russa, commenta la risoluzione dell’Ue, intitolata "Comunicazioni strategiche dell'UE come contromisure alla propaganda di parti terze”, che addita i media russi come pericolo per la sovranità dei Paesi europei e li equipara allo Stato Islamico...

Propaganda in Schweizer Medien?
Ob öffentliches Fernsehen oder Lokalradio, ob Boule­vard oder NZZ: Wenn es um Geo­po­li­tik und Kriege geht, be­rich­ten die eta­blier­ten Medien selbst in der offiziell neutralen Schweiz erstaunlich gleich­artig und ein­seitig. Sie tun dies wo­mög­lich nicht ganz frei­wil­lig, denn die Schweiz steht unter Druck. Eine all­zu objek­tive Be­richt­er­stat­tung und die Ver­wen­dung „feind­licher“ Quellen könnte un­an­ge­nehme politische und wirtschaftliche Konsequenzen für das erfolgreiche Alpen­land haben. Schwei­zer Medien: un­ab­hängig oder an­ge­passt?

Michel Collon: journalisme ou propagande? (Investig'Action - Michel Collon, 20 set 2016)
Quelle est la différence entre journalisme et journalisme engagé? Que l’on travaille pour de grands groupes, ou avec un indépendant, c’est une opinion citoyenne qui nous incite à exercer ce métier. Le problème commence quand la transparence et l’honnêteté se transforment en propagande et en désinformation...Regardez ce documentaire réalisé par Jennifer Malherbe et faites vous votre opinion. Les grands médias ont l’argent. Nous, nous ne pouvons compter que sur les gens. Aidez-nous à démasquer les médiamensonges ! https://dons.investigaction.net/fr


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Risposta al QUIZ di Visnjica broj 992 "Retorica bellica"

A chi sono da attribuire le parole seguenti?

<< La Russia è un serpente a sonagli che circola in tutto il mondo... Non sempre il serpente a sonagli morde velenoso. Spesso, specie se viene accarezzato, circonda con disinvoltura il corpo di chi lo sopporta, ma se si arrabbiasse allora morde con morsi velenosi... C’è chi stritola il serpente a sonagli e chi ne è stritolato. >>

La risposta esatta è la numero 2) Eugenio Scalfari:

La Russia di Putin è un serpente a sonagli (di Eugenio Scalfari, 8 gennaio 2017)
http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2017/01/04/news/la-russia-di-putin-e-un-serpente-a-sonagli-1.292851


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Si veda anche:
“Informazione da controllare? Siamo al ministero della Verità, come in ‘1984’ di Orwell” – Intervista a Vladimiro Giacché su Il Fatto Quotidiano del 31 dicembre 2016
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/siamo-al-ministero-della-verita-come-in-1984-di-orwell/
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Dal relativismo alla sindrome da “fake news” 

6 Gennaio 2017

Intervista a Vladimiro Giacché, a cura di Zenit – da it.zenit.org
https://it.zenit.org/articles/dal-relativismo-alla-sindrome-da-fake-news/

Chi per anni ha affermato che la verità non esiste, oggi invoca agenzie statali per intercettare le notizie non vere. Il parere di Vladimiro Giacché, autore de “La fabbrica del falso”

L’anno nuovo sembra essersi aperto con una sindrome che sta contagiando diversi ambienti, quella delle cosiddette “fake news”, le notizie false.

Il leader del M5S, Beppe Grillo, invoca la necessità di formare improbabili giurie popolari con il compito di controllare la veridicità delle notizie diffuse da stampa e tv. Facebook ha elaborato un software che avrebbe la capacità di segnalare agli utenti le notizie ritenute inattendibili. C’è poi chi, come il presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella, propone un’agenzia statale di vigilanza.

Quest’ultima idea ha suscitato diverse critiche. Molti la paragonano a quegli uffici statali, tipici dei totalitarismi, che hanno il compito di controllare ogni pubblicazione e sequestrare quelle potenzialmente pericolose o esplicitamente ostili al potere. Altri ancora, più in vena letteraria, agitano l’accostamento con il ministero della Verità del libro 1984, di George Orwell.

Tra questi c’è Vladimiro Giacchè, economista e filosofo, presidente del Centro Europa Ricerche, autore de La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (nuova ed. aggiornata 2016). ZENIT lo ha intervistato.

Cosa non la convince della proposta di Pitruzzella?

Mi sembra una proposta sbagliata e pericolosa. Sbagliata per molti motivi. Perché oggi le fake news non passano soltanto attraverso la rete ma anche attraverso i media tradizionali. Perché la menzogna veramente pericolosa non è il singolo enunciato falso, ma la falsa cornice interpretativa generale che viene offerta per certi fatti. E perché spesso la menzogna non si presenta come tale: pensiamo alle mezze verità (per cui ti parlo degli atti di violenza dell’aggredito, ma non ti dico che si sta difendendo da un aggressore), a quello che non ci viene detto (pochi giorni fa un rapporto sulla povertà in Germania è stato depurato dal governo di alcune frasi “spiacevoli”), agli eufemismi che consentono di rendere la verità meno brutta (“uso della forza” per parlare della guerra, “interrogatori rafforzati” al posto di “tortura”, e così via). Ma è anche una proposta pericolosa, perché adombra una sorta di controllo governativo o paragovernativo sulla rete, che può facilmente tradursi nella chiusura di siti non graditi a chi è al potere.

Qualcuno sta coniando un nuovo termine per indicare la nostra epoca: post-verità. Di orwelliano c’è anche la neo-lingua? Quanto è importante il potere delle parole?

Le parole sono importantissime. Harold Pinter diceva che “il linguaggio viene adoperato per tenere a distanza il pensiero”. Questo avviene tutti i giorni, e proprio attraverso i termini chiave del nostro lessico politico. Basti pensare alla metamorfosi che hanno conosciuto parole come democrazia o riforma. Quanti ancora associano al termine democrazia il concetto di “potere del popolo”, che poi dovrebbe essere il suo significato letterale? Angelo Panebianco ha denunciato anni fa che la stessa “democrazia rappresentativa” (concetto comunque già più ristretto di quello di democrazia) “a voler essere realisti, è poco più di un sistema di oligarchie in competizione”. Ancora più clamoroso il caso di una parola come “riforma”. Un tempo le “riforme” indicavano provvedimenti di legge per migliorare la condizione delle persone. Oggi le “riforme” indicano tagli allo Stato sociale e alle pensioni.

Anche complottista è un termine coniato in modo artificiale? Magari per screditare chi la pensa in modo non allineato…

I complottisti ci sono davvero, e ci sono sempre stati. Ma spesso hanno lavorato al servizio del potere: ad esempio i Protocolli dei savi di Sion, un documento falso costruito per dimostrare un presunto complotto degli ebrei, fu opera della polizia segreta zarista. Oggi spesso si usa il termine contro chi mette in dubbio che alcune “verità” del potere siano realmente tali. Anni fa si diede del complottista a chi sosteneva che la famosa fialetta con le armi chimiche di Saddam agitata da Powell all’assemblea dell’Onu fosse una messinscena. All’epoca tutti i principali giornali, anche in Italia, presero per buono quel falso vergognoso. È chiaro che in rete girano molte notizie inventate di sana pianta, ma in genere si attirano il discredito che meritano. E comunque la pericolosità delle sciocchezze sulle scie chimiche è ben diversa da quella delle menzogne sulle armi di distruzione di massa di Saddam, che sono servite a scatenare una guerra in cui sono morte centinaia di migliaia di persone.

Nel libro “La fabbrica del falso” afferma che “la menzogna è il grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo”. Lei ha citato le fialette di antrace agitate da Colin Powell. Qualche altro eclatante esempio?

C’è l’imbarazzo della scelta. Praticamente tutte le più recenti guerre sono state giustificate e vendute all’opinione pubblica attraverso la costruzione di fake news e la loro diffusione attraverso i grandi media. A sostegno della prima guerra in Iraq si disse che i soldati di Saddam avevano staccato la corrente alle incubatrici degli ospedali di Kuwait City, per giustificare la seconda – come abbiamo detto – si tirarono fuori le armi di distruzione di massa, in Libia ci hanno fatto vedere fosse comuni che erano normali cimiteri, per di più fotografati mesi prima. È importante capire che in tutti questi casi la falsa notizia è funzionale a costruire una cornice interpretativa (il dittatore cattivo, pericolo per l’umanità, ecc.): una volta recepita questa interpretazione, le persone collocheranno entro di essa le altre notizie che ricevono, dando meno importanza – o non prendendo in considerazione – quelle che la contraddicono. Ad esempio, nel caso della Siria, i monasteri e le chiese distrutti dai cosiddetti “ribelli” e non dalle truppe governative.

Facebook ha elaborato un software per individuare e segnalare agli utenti le notizie inattendibili. Questo lavoro di vigilanza è affidato alla Poynter Institute, società finanziata dalla fondazione Open Society di George Soros. C’è il rischio che il controllore non sia propriamente super partes…

Sarebbe divertente applicare il software alla notizia che Facebook ha elaborato un software per segnalare le notizie inattendibili: se il software è ben fatto, dovrebbe segnalarla come inattendibile. Scherzi a parte, trovo molto significativo che fondazioni nate (a loro dire) per diffondere gli ideali delle “società aperte” contro i “totalitarismi” finiscano poi per farsi promotrici… della chiusura delle società aperte. E per di più facendo uso di algoritmi e altri strumenti automatici. Non mi sembra un passo avanti. Più in generale, credo che lo stato di salute dei paesi del “libero Occidente” sia ben definito dal ruolo conferito a uno speculatore di borsa che, dopo aver tratto profitto per decenni dalla destabilizzazione dei mercati finanziari, ora con i soldi così guadagnati si dedica a destabilizzare regimi che non gli piacciono e a promuovere “rivoluzioni colorate”.

Eppure fino a ieri ci era stato insegnato che la verità non esiste, che è un retaggio oscurantista medievale, che tutte le opinioni sono uguali e relative. Non evince anche Lei una contraddizione?

La contraddizione c’è eccome. Ma entrambi gli atteggiamenti rappresentano una scorciatoia. Quando si è in difficoltà perché non si riesce a confutare le argomentazioni di qualcuno, spesso si gioca la carta del relativismo, mettendo sullo stesso piano tutte le opinioni (la propria, infondata, e quella altrui, più fondata). Ma anche l’accusa di costruire fake news o di credere ad esse è una via di fuga: in questo caso, dal fatto che non si riesce ad imporre il proprio punto di vista, pur avendo dalla propria parte tutti o quasi gli organi di informazione “ufficiali”. Questo apre un problema gigantesco: chi è legittimato a decidere se una notizia è vera o falsa, e a comminare sanzioni su questa base? In realtà, il fatto di ritenere che non esista qualcosa come la Verità assoluta non impedisce di demistificare un enunciato falso. Ma a mio giudizio questo può e deve emergere dal libero confronto delle opinioni. E deve riguardare tutti i media.

Chi può decidere quando una notizia è falsa?

Ciascuno di noi, se è posto in condizione di esercitare il ragionamento e di verificare contenuti e contesto della presunta notizia. Però, per chi non si occupa professionalmente di queste cose, la possibilità di ragionare è resa complicata dalla velocità con cui le notizie si susseguono e la verifica dei contenuti dalla difficoltà di accesso alle fonti. Precisamente a questo dovrebbero servire i professionisti dell’informazione: a renderci disponibili notizie quanto più possibili verificate, basate su fonti attendibili e riferite con onestà. Come sappiamo, purtroppo le cose spesso non vanno così. È per questo che occorre che ciascuno di noi eserciti in prima persona il proprio senso critico. Nella “Fabbrica del falso” parlo di “strategie di resistenza”, che vanno dalla demistificazione del linguaggio usato per dare certe notizie all’utilizzo delle incongruenze presenti nel discorso ufficiale. Meglio adoperare queste strategie che far decidere a un’agenzia statale se una notizia è vera o falsa.

* Vladimiro Giacché è Vice Presidente dell'Associazione Politica e Culturale Marx XXI


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2017, l'anno della mobilitazione per la difesa della libera espressione su internet


Ricordo bene nel 1950 quando i russi dovevano entrare nelle nostre scuole, nel Congresso, nel Dipartimento di Stato - e secondo molti sostenitori di Eisenhower / Nixon - prendere in consegna il nostro paese senza una seria opposizione (e loro mi chiamano paranoico!). E 'stato questa stessa psicosi che insisteva sul nostro bisogno di andare in Vietnam per difendere le nostre libertà contro i comunisti a 6.000 miglia di distanza. E dopo che il Terrore Rosso è finito per sempre nel 1991, non è finita. E 'diventato Hussein dell'Iraq con le sue armi di distruzione di massa. E' diventato il demone, reale come qualsiasi Processo alle streghe. Lo è stato Gheddafi della Libia, e poi era Assad della Siria. In altre parole, come in una profezia orwelliana, non è mai finita, e vi posso garantire che non finirà - a meno che le persone che ancora pensano dicano "Basta" a questo demone”, Oliver Stone.

 

Quest’oggi si chiude il 2016. Un anno per noi importante, di crescita e consolidamento del nostro progetto che viene premiato quotidianamente da voi lettori che ci seguite in numero sempre crescente.
 
Ci preme ringraziare chi attraverso i suoi blog personali nella nostra testata giornalistica ci ha permesso di crescere aldilà di ogni più rosea aspettativa e chi, con azioni volontarie per noi di fondamentale importanza, ci aiuta quotidianamente a reperire informazioni e collegare i tasselli. Una menzione a parte meritano, infine, siti amici come Contropiano e Marx 21, con cui abbiamo intrapreso un percorso di collaborazione reciproca quotidiana che ci lusinga e onora. Tutto questo rappresenta l'aspetto più bello della rete, di internet e di un'informazione alternativa possibile. Grazie a tutti.

Affronteremo il 2017 consci che si tratterà di un anno duro: eventi come la vittoria di Trump nelle elezioni statunitensi, la Brexit e le fake news del mainstream sulla guerra in Siria hanno segnato una grave sconfitta per l’informazione tradizionale. 

Sempre più persone preferiscono informarsi sui media alternativi come il nostro.
Vivremo tempi difficili. Utilizzando la lotta alle menzogne, alle fake news e all’odio, con la narrazione della post-verità proveranno a stringere le maglie della libertà d’informazione in rete. Negli Stati Uniti si è arrivati, primo passo, ad una lista di proscrizione attraverso il giornale della Cia e, secondo passo, ad una legislazione che cercherà di censurarli senza mezze misure. Nel mentre lo spettacolo ridicolo, grottesco e puerile di un presidente uscente, Barack Obama, che non perde occasione per non farsi rimpiangere dal mondo con la farsesca storia complottista “degli hacker e della propaganda russa”. 


In Europa sta accadendo lo stesso. Tutto è partito con la famigerata risoluzione del Parlamento europeo che ha addirittura equiparato la “propaganda” della Russia a quella dell'Isis. Siamo alla follia di un nuovo maccartismo molto periocoloso che noi, come AntiDiplomatico, vi abbiamo denunciato per primi in Italia. E siamo alla prova, l'ennesima, di come l'Unione Europea oggi sia un esperimento fallito e contro la storia.

E in Italia? Beh Italia, i cavalieri delle “fake news” BoldriniOrlando e ora Pitruzzella hanno gettato la maschera e dichiarano senza mezze misure che anche nel nostro paese si debba mettere un bavaglio alla rete e ripercorrere la scure in corso negli Stati Uniti. 

Ma sempre più persone stanno dicendo “basta” alle menzogne delle corporazioni mediatiche. La dimostrazione l'abbiamo avuta proprio in questa settimana: quando “Left” ha deciso di nominare “persone dell'anno” niente meno che gli amici di Al-Nusra (Al-Qaeda) ad Aleppo est, gli “Elmetti bianchi”, la reazione consapevole degli utenti ci ha sorpreso e ha dato un senso compiuto al nostro lavoro quotidiano. 

Del resto, se ci riflettete, la mancata invasione della Siria sulla “fake news” delle armi chimiche utilizzate da Assad nel 2013 è la sconfitta pià grande della propaganda guerrafondaia occidenale. Le armi di distruzione di massa di Saddam e il viagra utilizzato dalle milizie di Gheddafi hanno permesso lo stupro di Iraq e Libia; la nuova consapevolezza dell'opinione pubblica, al contrario, non ha permesso che lo stesso potesse essere fatto in modo completo in Siria. 

E veniamo agli ultimi giorni dell'anno. La liberazione di Aleppo è stata descritta dai propagatori delle fake news come un “assedio” - un po' come se dicessimo che “le truppe di De Gaulle hanno assediato Parigi contro i rivoluzionari nazisti”. 

La liberazione di Aleppo è una vittoria dell'umanità e uno spartiacque storico di una nuova epoca per l'informazione. 

Non potendo più controllare l'opinione pubblica come in passato, tuttavia, l'obiettivo delle corporazioni mediatiche è chiaro: censura. Le dichiarazioni di Boldrini, Orlando e Pitruzzella hanno gettato un cammino preciso contro cui noi de l'AntiDiplomatico saremo pronti a combattere. Ma la mobilitazione deve essere generale, da parte di tutti coloro che hanno a cuore il futuro della libera espressione in rete. 
 
Noi siamo pronti e non ci tiriamo indietro. Così come non ci hanno fermato gli attacchi infamanti di quest'anno da parte di chi si ritrova sempre dalla parte sbagliata della storia ed è costretto, per giustificare l'ingiustificabile, a raccontare “fake news” a cui non crede davvero più nessuno.... oltre a fare pubblicità positiva all'AntiDiplomatico!  

Buon 2017 in difesa della libera espressione del pluralismo dell'informazione mai così in pericolo!


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IL FALLIMENTO DEI GRANDI GRUPPI EDITORIALI E' LA NOSTRA VITTORIA

di Federico Pieraccini, 14/12/2016


IL FALLIMENTO DEI GRANDI GRUPPI EDITORIALI

Il Sole 24 Ore perde 100 milioni di euro all'anno.

Il New York Times 114 milioni di dollari all'anno.

Il Guardian 173 milioni di Sterline all'anno.

L'elenco potrebbe continuare con Corriere della Sera, Repubblica, Le Monde, Washington Post etc... il senso è che tutti i grandi gruppi, da qui ai prossimi cinque anni, probabilmente falliranno.

Il motivo è quanto mai scontato e banale: hanno perso credibilità. Nessuno crede più loro. Il livello giornalistico è imbarazzante. Il 98% dei pezzi sono brutali scopiazzature di articoli già scritti negli Stati Uniti.

Il cittadino medio non ha più alcun interesse ad informarsi tramite quotidiani o siti internet che riciclano false notizie, parziali o volutamente errate come forma estrema di propaganda.

Questo trend è stato confermato dalle tendenze di voto in Europa e Stati Uniti.

Più il cittadino incrementa la sua capacità di informarsi correttamente, ad esempio comprendendo causa-effetto (soprattutto collegando questo aspetto alle difficoltà economiche quotidiane) e più vota nel proprio interesse. Esattamente il contrario di ciò che le elite vorrebbero.

Naturalmente, l'interesse dell'uomo medio non coincide con quello dei padroni dei grandi gruppi editoriali e ancor meno con i candidati prescelti dal 'sistema' o dalle loro politiche. Da qui, la notevole incazzatura dei tempi recenti mirata ai siti e ai quotidiani di autentica informazione .
L'ultima trovata, davvero ridicola, è etichettare tutto ciò che è contrario alla propaganda dei grandi gruppi editoriali come 'fake news' (notizie false).

Come se aver invaso un paese come l'Iraq, con il falso pretesto costruito ad arte delle armi di distruzione di massa, provocando circa 1 milione di morti, potesse essere ignorato di colpo o far parte delle notizie "autentiche".

Basta aprire un giornale o accendere la TV, osservare come viene descritta la situazione ad Aleppo, per comprendere come sia già iniziato, da tempo, il canto del cigno di queste nullità. Stanno impazzendo.

Non dobbiamo dimenticare o sottovalutare il fatto che è iniziata una guerra sleale e scorretta, diretta verso analisti e giornalisti che informano in maniera indipendente, con mezzi infinitamente inferiori rispetto ai grandi gruppi editoriali. Siamo tutti in prima linea.

Hanno dichiarato guerra alla verità, in barba a tutti i principi di democrazia e libertà di parola con cui questi fetenti si sono riempiti le bocche per decenni, giustificando guerre, morti e distruzione degli Stati Uniti. Hanno gettato la maschera. Si mostrano per quello che sono: organi di propaganda. Nient'altro.

Appostiamoci sulla classica riva del fiume e attendiamo i cadaveri-editoriali che scorrano... il loro destino è già segnato.

Come disse Lincoln: "Potete ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per tutto il tempo, ma non potete ingannare tutti per tutto il tempo".

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Difendi l'AntiDiplomatico. Difendi la tua Liberta' di "Stampa" contro il nuovo Maccartismo


"Un concetto assai caro anche al sito chiave che dà al M5S i contenuti da esibire per piacere a Mosca, «lantidiplomatico.it», che si distingue per il suo sostegno a Putin, Assad e Trump"

La Stampa, 5 novembre 2016.


Negli ultimi mesi il nostro sito, l'AntiDiplomatico, ha notevolmente aumentato il numero dei suoi lettori. Non è stato solo merito nostro, lo dobbiamo ammettere. Tanto hanno fatto anche tutti coloro che hanno scelto di utilizzare a nostro favore la loro cattiva fama e il loro essere sempre dalla parte sbagliata della storia. Tutto potevamo aspettarci, dobbiamo essere onesti, tranne che ad attaccarci arrivasse anche il giornale di Fiat Chrysler.

L'articolo che ci chiama in causa è il sequel di un precedente che ha l'obiettivo di far passare questo messaggio: la Russia del nemico Putin ha deciso di investire tanti miliardi in propaganda per far vincere il No al referendum del 4 dicembre, utilizzando siti satelliti italiani "grillini" che fanno da ponte. Per non offendere ulteriormente la vostra intelligenza, non aggiungiamo nulla di più rispetto alle considerazioni puntuali di Francesco Santoianni sul nostro sito (qui e qui), ma lasciateci solo una considerazione tragi-comica che denota lo stato dell'arte della nostra "informazione": dopo che l'ambasciatore del paese più potente del mondo e che controlla direttamente o indirettamente quasi tutti i mezzi di informazione occidentale ha fatto un endorsment diretto per il SI; dopo che lo stesso presidente della prima potenza del mondo e che controlla quasi tutti i mezzi di informazione occidentali ha organizzato una serata di gala in onore di Renzi per dire agli italiani che devono votare Si per non compromettere gli investimenti; e dopo che, infine, il presidente di Fiat Chrysler,  Marchionne, si è espresso per il Si ripetutamente, non si è forse sbagliato indirizzo per cercare una violazione del nostro diritto di non ingerenza negli affari interni?

Abbiamo deciso di riproporre la citazione che ci chiama in causa all'inizio dell'articolo perché l’isteria maccartista di chi vede in un giornale (e in un movimento politico) non allineato alle direttive di Renzi una quinta colonna  al soldo del “nemico" non è solo de La Stampa àma infetta oggi anche l’Unione Europea, che nell’aprile di quest’anno, ha creato una struttura finalizzata a contrastare la “propaganda” e la “disinformazione” proveniente dalla Russia: cioè la UE pagherà (con soldi nostri) giornalisti per scrivere articoli contro Putin. 

Ma soffermiamoci su due velenose affermazioni contenute nella citazione, le più preoccupanti.

1) "contenuti da esibire per piacere a Mosca". 

Il sito "l'AntiDiplomatico" nasce nel 2013 per iniziativa di giovani studiosi di relazioni internazionali e giornalisti interessati a vario titolo e varie esperienze alla politica internazionale. Credevamo che la politica estera nel nostro paese venisse raccontata male e ci siamo lanciati in quest'avventura. Tanti amici abbiamo incontrato nel nostro percorso e tanti sono i blog che stiamo aprendo.
C'è una visione di mondo nell'AntiDiplomatico e c'è una scelta redazionale negli articoli che pubblichiamo? Certamente si.
Ci sono dei valori di riferimento? Certamente si.
Si combatte ogni giorno contro le menzogne, le bufale e la propaganda dell'universalismo neo-liberista e i crimini delle guerre d'aggressione occidentali? Certamente si.
Crediamo che fenomeni in corso a livello internazionale (Alba, Brics e le sfide al Washington consensus) debbano essere raccontati bene? Certamente si.

Non si vuole dettare nessuna "direttiva" ma, più semplicemente, presentare – soprattutto attraverso gli articoli tradotti da siti come Telesur, Zero Hedge, Hispan Tv, Al Masdar, Press Tv, Russia Today, Correo de l'Orinoco, El Telegrafo, Cubadebate, Guardian, Telegraph,  Indipendent... e tanti altri - una visione del mondo diversa da quella della propaganda dell'universalismo neo-liberista e guerrafondaio così brillantemente portata avanti da giornali italiani come La Stampa. 

Il tutto con libertà assoluta, dignità e passione. Abbiamo deciso di inserire la pubblicità nel nostro sito, nella speranza di poter trasformare nel minor tempo possibile la nostra redazione informale di volantari volentorosi in una struttura più consolidata. 


2) "(L’AntiDiplomatico) che si distingue per il suo sostegno a Putin, Assad e Trump". 

Una affermazione falsa che, per quanto riguarda il nostro presunto "sostegno" a Trump (che riteniamo la stessa faccia della tragica medaglia di un regime, il più violento dalla seconda guerra mondiale ad oggi, al capolinea) è smentito da articoli come questoquestoquesto, questoquesto (e potremmo continuare) che contrasta con le nostre simpatie dichiarate per Jill Stein, candidata verde alle elezioni nord-americane, censurata in Italia da tutti, giornale di Fiat Cyrsler compresa. 

Per quanto riguarda il presunto sostegno a Putin, e Assad (anche esso smentito da innumerevoli articoli de L’Antiplomatico) non fa i conti con una realtà elementare e cioè che essi oggi, indipendentemente dal giudizio che si può dare del loro operato e delle loro politiche interne, sono l’obbiettivo di una colossale operazione, anche mediatica, portata avanti dai governi di quasi tutto l’Occidente che vede in una guerra (forse peggiore della Seconda guerra mondiale) lo sbocco finale. 

L’inaudito attacco a L’Antiplomatico da parte di uno dei più importanti giornali padronali italiani deve preoccupare tutti coloro che hanno a cuore le sorti della libertà di stampa e della democrazia nel nostro Paese; anche perché il maccartismo, che trasforma in “nemico interno” chiunque non accetti i diktat del Governo, delle banche, dell’Unione Europea… diventerà una costante nei prossimi tempi. Per questo, lungi dal volere ergerci a “vittime” di alcunché, chiediamo solidarietà ai nostri lettori e ai tanti altri siti che – come L’Antiplomatico – operano “per un’altra visione del Mondo”. Noi continueremo a raccontarvela con ancora maggiore forza e passione.

La Redazione de L’Antidiplomatico


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"Fake news": il Convegno autogol della Boldrini


“Operazione sporca”, “altera la realtà”, “è illegale”. Con queste parole la Presidentessa della Camera Laura Boldrini ha oggi aperto la sessione dei lavori del Convegno organizzato alla Camera dei Deputati "Non è vero ma ci credo – Vita, morte e miracoli di una falsa notizia" presso la Sala della Lupa di Montecitorio. “C'è una strategia precisa: si vuole delegittimare, ridicolizzare e gettare discredito”, prosegue la Boldrini che indica nelle “ragioni politiche e nel profitto” il movente. Quello che è stato organizzato oggi alla Camera è in linea con il processo di demonizzazione della rete e di censura preventiva delle voci dissonanti che negli Usa ha prodotto le prime "liste di proscrizione" e in Italia una nuova forma di maccartismo.

Dopo aver citato la definizione di “post truth” della Oxford University – a cui 



[Vi sottoponiamo l'articolo seguente, scritto da un diplomatico britannico, in quanto esempio perfetto non solo delle errate convinzioni e concezioni e delle illusioni imperanti in tema di Balcani, ma anche dello sforzo programmatico eversivo occidentale di ridisegnare i confini sulla base di criteri etnici-razziali-nazionalisti. Arrivederci nella Grande Albania! (a cura di Italo Slavo)]

We bring to your attention the following article, written by a UK diplomat, being a perfect example not only of western mistaken beliefs, misconceptions and delusions about the Balkans, but also of the West's programmatic subversive effort to reshape boundaries according with ethnic-racial-nationalistic criteria. Next to come: Greater Albania.

See also:

Timothy Less: First federalization, then annexation of western Macedonia to Albania (22.12.2016)

Timothy Less advocates reshaping of Balkan boundaries  (December 22, 2016 by Grey Carter)

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December 20, 2016

Dysfunction in the Balkans

Can the Post-Yugoslav Settlement Survive?
By Timothy Less

The political settlement in the former Yugoslavia is unraveling. In Bosnia, the weakest state in the region, both Serbs and Croats are mounting a concerted challenge to the Dayton peace accords, the delicate set of compromises that hold the country together. In Macedonia, political figures from the large Albanian minority are calling for the federalization of the state along ethnic lines. In Kosovo, the Serb minority is insisting on the creation of a network of self-governing enclaves with effective independence from the central government. In Serbia’s Presevo Valley, Albanians are agitating for greater autonomy. In Montenegro, Albanians have demanded a self-governing entity. And in Kosovo and Albania, where Albanians have their independence, nationalists are pushing for a unified Albanian state.
It is easy to dismiss all this as simply sound and fury, whipped up by opportunistic politicians. But it would be a mistake to ignore the will of the electorates, which have persistently shown their dissatisfaction with the multiethnic status quo and are demanding change. The choice facing Western policymakers is either to recognize the legitimacy of these demands and radically change their approach or to continue with the current policy and risk renewed conflict.
A BEAUTIFUL IDEA
When Yugoslavia collapsed at the start of 1990s, there was nothing predetermined about what followed. One possibility was the emergence of nation-states, comparable to those elsewhere in Europe; another was multiethnic states based on internal administrative boundaries. In the end, the West determined the nature of the post-Yugoslav settlement by recognizing the independence of the old Yugoslav republics within their existing borders. In doing so, they were guided not only by a belief that this would promote justice and security but also by an ideological conviction that nationalism was the source of instability in Europe. Multiethnicity was seen as a viable, even desirable, organizing principle. 
Unfortunately, this decision cut across the most basic interests of the emerging minority groups, which saw themselves condemned to second-class status in someone else’s state. In the 1990s, many took up arms to try to secure formal separation. Subsequently, wherever this failed, minorities have struggled to secure as much autonomy as possible within their adoptive states. Given the resistance of majority groups to the fragmentation of their polities, these attempts at separation have built tension into the very nervous system of the region’s various multiethnic states.
As a result, the West has been compelled for the last two decades to enforce the settlement it imposed on the former Yugoslavia, deploying UN-run civilian missions and NATO troops as regional policemen. At first, Washington took the lead, but after the United States downgraded its presence in the Balkans over the last decade, primary responsibility for upholding the post-Yugoslav settlement passed to the European Union. In doing so, the EU substituted the hard power of the U.S. military for the soft power of enlargement. Its assumption was that the very act of preparing for EU membership would transform poor authoritarian states into the kinds of prosperous, democratic, law-bound polities in which disaffected minorities would be content to live.
For a short while toward the end of the last decade, the policy appeared to be working. However, the disquiet of minorities eventually made it clear that the EU’s approach could not resolve the problems created by multiethnicity. Its central misconception was that minorities would give higher priority to political and economic reform than to grievances about territory and security, which would no longer matter after joining the EU. All this made sense to Europeans living in their post-historical paradise but did not hold water for minorities situated in the Hobbesian realm of the Balkans, unable to secure even their most primary needs—their security, rights, and prosperity.
Instead, issues of governance and the economy, and even more peripheral concerns such as education and the environment, were pushed to the margins as political institutions became gridlocked by intractable questions about territory, identity, and the balance between central and regional power. Day-to-day, Bosnia, Kosovo, and Macedonia were mired in political dysfunction, economic stagnation, and institutional corruption, even as their more homogenous neighbors, such as Albania, Croatia, and even Serbia, began to prosper.
The policy is further complicated by the Euroskepticism now sweeping across Europe, which threatens any remaining hope that integration could lead to stabilization. A Eurobarometer poll last year suggested that only 39 percent of EU citizens favor enlargement and 49 percent oppose it. Earlier this year, voters in the Netherlands decided in a referendum to block Ukraine’s integration with the EU; it was, in effect, a vote against enlargement. Previous governments in both Austria and France have also pledged to condition future enlargement upon a national referendum.
As a result, the process of enlargement has stalled. Thirteen years after its launch at a summit in Thessaloniki, four of the six non-EU states in the region have yet to open negotiations on EU membership. Serbia has only tentatively begun, and Montenegro, the region’s most advanced state, has only provisionally closed two of the 35 negotiating chapters, four years after starting. (By contrast, the central European countries completed the entire negotiating process within the same time frame.)
To complicate matters, Russia is using its influence to frustrate the process of integration, encouraging unhappy minorities such as the Bosnian Serbs to escalate their demands for separatism and threatening the pro-integration government in Montenegro. Turkey is nurturing the support of disaffected Muslims such as Bosniaks and Macedonian Albanians. And China is enthusiastically providing governments across the region with no-strings funding for investment in infrastructure, undermining the West’s attempts to promote conditions-based internal reform.
Almost every state has recently experienced serious unrest as people lose faith in the power of the EU to deliver them from their current state of hopelessness, poverty, and corruption. Adding to these tensions, minorities are trying to take control of their destiny by demanding the right to a separate territory in countries where the central government inevitably prioritizes the interests of the majority group. This combination of factors is already destabilizing the Balkans and, in turn, threatening to undermine the post-Yugoslav settlement.

For the moment, the EU’s ability to preserve the status quo in the Balkans is not completely spent because of its collective veto on border changes in the region. Meanwhile, Brussels is continuing to squeeze every last bit of leverage out of its policy of integration. In the last couple of years, it has pushed all the region’s laggards—Albania, Bosnia, and Kosovo—one step closer to membership.
But the EU is still struggling mightily to impose its authority. European diplomats were unable to resolve a two-year political crisis in Macedonia that began when the governing parties, which just won early elections, were implicated in wiretapped recordings revealing gross corruption and outright criminality. The EU also failed to conclude an agreement to normalize relations between Serbia and Kosovo. (In fact, relations between the two governments are deteriorating.) Perhaps most serious, Bosnia’s Republika Srpska proceeded with a controversial referendum in October, despite EU protestations, about retaining its national day holiday, which Bosnia’s highest court found discriminatory against non-Serbs and which Western diplomats said violated the Dayton constitution that holds Bosnia together. The EU’s subsequent inability to punish Bosnian Serb leaders through sanctions could embolden them to organize an independence referendum.
A MISERABLE REALITY
What happens next, of course, is a matter of speculation. In all probability, the post-Yugoslav settlement will continue to hold in law. But separatist groups can easily gain a kind of functional independence by repudiating the authority of the central government and then waiting for more opportune circumstances, such as the collapse of the EU, to formalize this separation. Left unchecked, the situation risks sliding toward renewed conflict as majority populations fight to maintain the integrity of their states.
If this is the danger, then how should policymakers respond? The key consideration is that the existing policy of stabilization through integration, to the extent that it ever worked, has fully run its course, given the effective end of EU enlargement. By laboring onward with an obsolete policy that relies on an elusive reward, and without any sanctions for noncompliance, the West is handing the power of initiative to local revisionists and their external sponsors, Russia and Turkey, which are pursuing self-interested policies that cut across the West’s objectives.
Some argue that the existing policy could be made to work if only Brussels tried a bit harder, backing up its pledge of EU membership with greater efforts to promote regional cooperation, democracy, transparency, economic development, and so on. However, this is wishful thinking. The promise of EU membership is broken, and every one of these initiatives has been tried in spades for the last 20 years.
Others, especially majority groups on the ground, argue that Europe should get tough with politicians who advocate separatism, as Washington did in the past. This might work if Europe were willing to intervene in the region indefinitely. But the political context has changed radically over the last decade. No one wants another civilian mission, and threatening a group such as the Bosnian Serbs would simply drive it into Russia’s open arms.
A radical new approach is therefore required that forges a durable peace by addressing the underlying source of instability in the Balkans: the mismatch of political and national boundaries. The two-decade experiment in multiethnicity has failed. If the West is to stay true to its long-standing goal of preserving peace in the Balkans, then the moment has come to put pragmatism before idealism and plan for a graduated transition to properly constituted nation-states whose populations can satisfy their most basic political interests.
Given the divisions in Europe, the United States needs to step up and take control of the process. In the short term, Washington should support the internal fragmentation of multiethnic states where minorities demand it—for example, by accepting the Albanians’ bid for the federalization of Macedonia and the Croats’ demand for a third entity in Bosnia. In the medium term, the United States should allow these various territories to form close political and economic links with their larger neighbors, such as allowing dual citizenship and establishing shared institutions, while formally remaining a part of their existing state.
In the final phase, these territories could break from their existing states and unite with their mother country, perhaps initially as autonomous regions. A Croat entity in Bosnia would merge with Croatia; Republika Srpska and the north of Kosovo with Serbia; and the Presevo Valley, western Macedonia, and most of Kosovo with Albania. Meanwhile, Montenegro, which may lose its small Albanian enclaves, could either stay independent or coalesce with an expanded Serbia. In pursuing this plan, the United States would not be breaking new ground but simply reviving the Wilsonian vision of a Europe comprising self-governing nations—but for the one part of the continent where this vision has never been applied.
Inevitably, there would be difficulties and risks, although not as serious as those inherent in the existing failed policy approach. Serbia would have to let go of Kosovo, minus the north, but the compensation would be the realization of a Serbian nation-state in the territory where Serbs predominate. Albanians would similarly have to give up northern Kosovo. More problematic, Bosniaks and Macedonians would need to accept the loss of territory to which they are sentimentally attached and without any significant territorial compensation.
In truth, this would simply be a formalization of the existing reality. But the United States and Europe would need to smooth the transition by investing heavily in their economic development and by involving a range of international partners—including Turkey, Russia, and the key regional states of Albania, Croatia, and Serbia—to commit to their security. During a transitional period, Washington and others may also have to deploy peacekeepers to uphold the borders of the expanded Albanian, Croatian, and Serbian states.
But this would be only a temporary commitment, in contrast with the current deployment needed to uphold an illegitimate status quo—4,300 troops in Kosovo, including around 600 from the United States, and another 600 troops in Bosnia. Ultimately, it is easier to enforce a separation than a reluctant cohabitation.
These suggestions may shock those who are heavily invested in the current policy of multiethnicity. But the debate on the Balkans has been dominated for far too long by Western diplomats and academics who deny what is obvious to almost everyone on the ground: that multiethnicity in the region is a beautiful idea and a miserable reality.
There is no question that undoing the existing settlement would be complicated. However, a managed process of separating groups with divergent national interests, rather than forcible coexistence for the sake of an abstract ideological goal, would eliminate the most serious risk facing the region—namely, uncontrolled disintegration and renewed conflict. It would also give places such as Bosnia and Kosovo a better chance of developing in the longer term. This is eminently preferable to the status quo.
After many wasted years, the West must have the confidence to embrace a new approach that cuts through hardened assumptions. For the new administration, there is now an unprecedented opportunity to rethink a policy that has been flawed since its very inception. In a final act of service to the Balkans, the United States should finish the job it started so long ago, this time once and for all.

TIMOTHY LESS is Director of Nova Europa, a political risk consultancy, and an Associate Researcher at the University of Cambridge’s Forum on Geopolitics. He was formerly a British diplomat in the Balkans.




Alep, plaidoyer pour la liberté d’analyse et une géopolitique cohérente de la France




Ces derniers jours, j’ai été la cible d’attaques répétées, dans plusieurs médias –FranceInterLe Mondele JDDLibération et Le Nouvel Observateur –, tendant à me présenter comme un soutien de Bachar el-Assad et/ou de Poutine et à m’accuser d’incompréhension par rapport aux événements en cours en Syrie, voire d’insensibilité face à la tragédie vécue par les civils d’Alep. Il est bien entendu qu’à travers ma personne, il s’agit là de viser Jean-Luc Mélenchon en tant que candidat à la présidence de la République, porteur d’une vision de la guerre en Syrie et d’une ligne géostratégique indépendantiste pour la France à même de redonner à notre pays sa grandeur et son autonomie. Gardant l’espoir que le débat reste encore possible – sur cette question comme sur toute autre. Je me permets donc de répondre à ces critiques, tout en précisant que je ne minimise pas les souffrances du peuple syrien, mais que je dénonce la propagande mensongère et le deux poids deux mesures qui conduisent aux guerres futures. Je ne suis pas favorable au dictateur Bachar-Al Assad, mais je dénonce le terrorisme djihadiste sanguinaire et l’ineptie de la ligne géostratégique française. Je ne suis pas pro-Poutine comme le répètent les atlantistes, je suis pour l’indépendance de la France.

Le courage, c’est de chercher la vérité et de la dire, c’est de ne pas subir la loi du mensonge triomphant qui passe et de ne pas faire écho aux applaudissements imbéciles et aux huées fanatiques – Jean Jaurès, Discours à la jeunesse, Juillet 1903.

 

Excuses sur un des tweets et pratiques journalistiques

Précisons tout d’abord qu’on me reproche essentiellement deux « tweets », que l’on juge ignominieux. Dans le premier, j’affirme que la couverture médiatique des événements en Syrie est orwellienne. Dans le second, je remarque que l’information selon laquelle le principal hôpital d’Alep a été détruit par les bombardements a été répétée plusieurs fois sur les quelques derniers mois. C’est en extrapolant à partir de ces deux publications de 140 caractères chacune qu’on me reproche de manquer de compassion à l’égard des civils tués et de ne pas dénoncer, comme je devrais, la barbarie dont font preuve les régimes de Bachar el-Assad et celui de Vladimir Poutine.

Si je ne retire rien au premier tweet concernant la propagande orwellienne – je m’en explique plus amplement plus bas –, je regrette le second sur l’hôpital. En raison de la concision des messages Twitter, aucune argumentation sérieuse n’est possible, ce qui laisse la porte ouverte à toutes les interprétations, y compris les plus absurdes et haïssables. Ce tweet, qui cherchait à dénoncer la propagande à l’œuvre dans les guerres sur un exemple spécifique, a blessé un grand nombre de camarades du Parti de Gauche, comme de citoyens non partisans, légitimement horrifiés par les images de morts provenant d’Alep. Je m’en excuse publiquement, mais demande de me faire la grâce de lire ce texte jusqu’au bout, car si condamné je dois être, moralement, publiquement ou politiquement, autant que ce soit pour les bonnes raisons et en toute connaissance de cause. Ces explications sont aussi exhaustives que possible, et permettent à chacun d’accéder aisément aux sources par liens hypertextes.

Je voudrais d’emblée souligner que contrairement à ce que devrait être une pratique journalistique de base, je n’ai été contacté par aucun des journalistes qui m’incriminent en extrapolant des positions politiques générales à partir de deux tweets ou en reprenant ce que leurs collègues ont initialement dit ou écrit. On conviendra qu’il s’agit là d’une attitude étrange pour les thuriféraires des valeurs démocratiques dont ils seraient les uniques défenseurs.

 

Un émoi légitime face au drame humain vécu par les civils et l’expression d’un dissensus

Non, je ne suis pas indifférent à la mort et à la souffrance d’enfants dans les guerres. Je les connais même sans doute mieux qu’une grande partie des personnes qui me le reprochent, pour avoir été, dans le cadre d’une opération humanitaire, assistant responsable d’un camp pour enfants orphelins ou perdus au Rwanda en 1994, peu après le génocide, mais aussi pour avoir vu une ville – Belgrade, où je suis né – bombardée, en 1999, par la plus formidable armada aérienne de l’histoire, conduite par l’OTAN. Ces bombardements, dont la ville garde toujours les stigmates, n’avaient d’ailleurs suscité à l’époque aucun émoi en Occident. Enfin, j’ai eu l’honneur de servir en tant qu’officier dans l’armée française ; participer à une opération extérieure en Afghanistan, en 2006-2007, m’a donné l’occasion d’appréhender directement la guerre et la tragédie qu’elle représente.

Il ne s’agit donc pas de ma part de nier la tragédie vécue par les civils pris sous les bombes, et on cherchera en vain une citation en ce sens venant de ma part. Les morts, d’Alep ou d’ailleurs, surtout des enfants, font au contraire écho aux images épouvantables que je porte dans ma mémoire. La prise d’une ville – moment particulièrement sanglant dans tout conflit armé – est toujours une catastrophe pour les civils, otages et cibles – volontaires ou non – des belligérants, qui risquent de manquer de nourriture, d’être blessés, violentés ou tués. Même si le combat est moralement et politiquement légitime, la violence subie par les civils est intolérable et particulièrement cruelle dans les zones urbaines où chaque rue est une nasse, où la menace de tireurs embusqués est omniprésente. Devant toute souffrance de civils, on ne peut que compatir ; pour reprendre les termes souvent utilisés ces derniers jours par les médias, elle signe toujours, peu ou prou, la mort de l’humanité. Mais partout et à chaque fois ; pas uniquement à Alep. Au-delà de ce constat, commun à tous les êtres humains doués de sensibilité, les conflits armés, pas plus que n’importe quel autre événement, ne peuvent échapper aux interprétations divergentes. Le problème survient lorsqu’un conflit en particulier acquiert soudain un statut spécial dans la couverture médiatique pour devenir une sorte d’icône dont il est interdit de commenter le sens.

C’est précisément ce qui se passe avec la bataille d’Alep. Dans la longue série de conflits qui ont secoué le monde, et en particulier le Moyen-Orient, depuis quinze ans, peu d’événements ont suscité une adhésion aussi massive des commentateurs à une version particulière de l’histoire et ont produit une injonction aussi forte adressée à tout un chacun de s’y conformer. Dans ce contexte, toute voix discordante, qui s’interroge à la fois sur la production de ce consensus, sur les raisons de l’émotion collective ainsi construite et sur le bien-fondé de l’éclairage apporté apparaît proprement hérétique. Pourtant aucune tragédie ne nous exonère du devoir non seulement de compatir, mais aussi de chercher à comprendre ; et ce n’est pas en clouant au pilori quiconque s’écarte de la version « approuvée » du conflit syrien qui prévaut dans les médias qu’on résout les problèmes qui conduisent à ces tragédies. Je crois au contraire que c’est le rôle d’un responsable politique de sortir du cadre compassionnel commun – même s’il est légitime – pour s’interroger sur les causes, comprendre dans toute sa complexité la course des événements qui conduisent aux drames et chercher des réponses adéquates.

Revenons donc aux deux tweets incriminés pour en développer le propos. Le tweet qui affirme que le dernier hôpital d’Alep a manifestement été détruit une quinzaine de fois ne vise pas, encore une fois, à moquer la tragédie d’enfants qui meurent à Alep faute de soins ; il cherche à attirer l’attention sur l’incroyable guerre de l’information qui double les hostilités physiques sur le terrain, utilisant tous les moyens possibles pour provoquer l’émotion, l’indignation et la haine. Cette propagande est évidemment menée par toutes les parties ; est-ce une raison suffisante pour ne pas dénoncer les excès commis du « bon » côté, le nôtre ? J’aurais d’ailleurs tout autant pu aborder cette propagande par d’autres biais. Quoi qu’il en soit, l’erreur a été de le faire sur Twitter où il est impossible de développer une réflexion construite.

Dans les articles de Libération et du Monde, il est écrit que je ne base ma remarque que sur des tweets informant de la destruction du « dernier hôpital d’Alep » et non sur des articles de véritables journalistes écrivant dans la presse respectable. Il est vrai que les tweets sur le sujet sont légion – les recenser serait beaucoup trop long –, mais contrairement à ce qui a été suggéré dans ces articles, mon tweet malheureux m’a bien été inspiré par la lecture de la presse légitime. Mon tweet datait du 13 décembre ; voici quelques exemples de publications antérieures que Le Monde et Libération peuvent considérer comme sérieuses car produites par leurs confrères : Le Monde du 21 octobre« Alep sans médecins ni chirurgiens », le Washington Post du 16 novembre « Les avions de guerre bombardent l’hôpital des enfants alors qu’Assad relance l’offensive sur Alep »The Guardian du 19 novembre « Le dernier hôpital d’Alep-Est détruit par des frappes aériennes »,  le Huffington Post du 21 novembre « Les bombardements forcent les médecins à fermer le dernier hôpital pour enfants d’Alep », Al-Jazeera du 27 novembre « Dans le dernier hôpital d’Alep-Est même plus d’espace pour marcher », L’India Times du 4 décembre « En Syrie partie 3 : Avec le dernier hôpital détruit, Alep s’annonce comme le plus grand bain de sang de l’Histoire contemporaine ». Encore une fois, il ne s’agit pas de nier la souffrance bien réelle que peuvent endurer les civils pris sous le feu destructeur, mais de montrer à ces journalistes et à ceux qui ont pu être choqués par mon tweet que je ne suis pas de mauvaise foi et que je sais, en tant qu’ancien officier des opérations psychologiques, reconnaître une manipulation destinée à impressionner.

Ce reproche est par ailleurs relativement cocasse compte tenu du fait que les tweets sont souvent la seule base des informations dont disposent les journalistes qui me critiquent. En effet, il y a très peu de journalistes sur le terrain et aucune organisation internationale digne de ce nom, comme le rappelle fort justement le journaliste Patrick Coburn dans The Independent du 2 décembre « Voilà pourquoi tout ce que vous avez pu lire sur la guerre en Syrie pourrait s’avérer faux ». L’autre source d’information des médias, aveuglément reprise depuis des années, est l’organisation portant le nom irréprochable d’Observatoire syrien des droits de l’homme. Il s’agit en fait d’une source particulièrement illégitime puisqu’elle est une émanation des Frères Musulmans, financée par l’Arabie Saoudite et le Qatar et… basée à Londres ; pourtant, elle est la référence pour dénoncer les crimes et compter les morts. C’est, je l’affirme, une manipulation pure et simple du public, qui dure depuis trop longtemps.

 

Le caractère orwellien de la couverture médiatique du conflit

Oui, pour qualifier la couverture médiatique du conflit en Syrie, j’ai utilisé le terme « orwellienne », et je suis prêt à réitérer cette qualification. Par orwellien, j’entends faisant penser à la réalité décrite par Orwell dans 1984. Dans ce roman, les trois puissances qui se partagent le monde – OcéaniaEstasia et Eurasia – sont perpétuellement en guerre, et voilà comment l’auteur décrit la manière dont cette guerre est présentée à la population : « Mais retrouver l’histoire de toute la période, dire qui combattait contre qui à un moment donné était absolument impossible. Tous les rapports écrits ou oraux ne faisaient jamais allusion qu’à l’événement actuel. En ce moment, par exemple, en 1984 (si c’était bien 1984) l’Océania était alliée à l’Estasia et en guerre avec l’Eurasia. Dans aucune émission publique ou privée il n’était admis que les trois puissances avaient été, à une autre époque, groupées différemment. Winston savait fort bien qu’il y avait seulement quatre ans, l’Océania était en guerre avec l’Estasia et alliée à l’Eurasia. Mais ce n’était qu’un renseignement furtif et frauduleux qu’il avait retenu par hasard parce qu’il ne maîtrisait pas suffisamment sa mémoire. Officiellement, le changement de partenaires n’avait jamais eu lieu. L’Océania était en guerre avec l’Eurasia. L’Océania avait, par conséquent, toujours été en guerre avec l’Eurasia. L’ennemi du moment représentait toujours le mal absolu et il s’ensuivait qu’aucune entente passée ou future avec lui n’était possible. »

Oui, la couverture médiatique du conflit en Syrie m’a souvent fait penser à cette citation d’Orwell. En 2001, à la suite des attentats de New York, Al-Qaïda a été désignée comme le mal absolu et combattue par la coalition internationale sur tous les fronts possibles. Et d’une certaine manière légitimement : ne s’agit-il pas d’une organisation terroriste criminelle, agissant à l’échelle internationale, et dont Daech n’est qu’un des avatars ? Al-Qaïda est encore combattue aujourd’hui au Mali par les forces armées françaises, qui y ont mené et y mènent un remarquable et difficile combat contre les terroristes et autres criminels (opérations ServalEpervier, puis Barkhane). Elle a frappé les villes européennes, le 11 mars 2004 à Madrid, le 7 juillet 2005 à Londres ou encore à Paris lors de l’attentat contre Charlie Hebdo le 7 janvier 2015 par les frères Kouachi qui se sont revendiqués spécifiquement d’Al-Qaïda au Yémen. À chaque fois, là aussi légitimement, l’émotion populaire a été immense, l’inquiétude et la colère aussi. L’État islamique a ensuite pris le relais, avec les terribles attaques de novembre 2015, dites du Bataclan, les pires qui aient jamais ensanglanté la France. Et je ne parle même pas ici du volume proprement sidérant de victimes provoquées par ces organisations lors d’opération terroristes conduites dans des pays musulmans (ou dont la religion majoritaires est l’islam) : plus de 30 000 morts depuis les attentats de Charlie Hebdo – que l’on se représente bien ce chiffre, qui ne semble pas gêner ceux qui ont quelques tendresses pour les avatars d’Al-Qaïda, rapidement repeint en démocrates, du seul fait qu’ils combattent contre les troupes syriennes régulières et les Russes. Il faut aussi bien se souvenir de ce chiffre quand les mouvances d’extrême droite en France tentent de faire croire que les terroristes islamistes en veulent exclusivement à la France ou à l’Occident ou à leurs valeurs. Le terrorisme islamiste représente une plaie internationale frappant tousazimuts et sans distinction de nationalité, de religion ou de zone géographique ; c’est un des multiples fléaux de la mondialisation incontrôlée, dont les racines théoriques se trouvent dans les monarchies théocratiques wahhabites du Golfe, Arabie Saoudite et Qatar en tête.

Mais ces derniers mois, la couverture du conflit en Syrie – l’un des fiefs de ces deux organisations islamistes – semble frappée de schizophrénie. On parle de temps en temps de l’EI, plus jamais d’Al-Qaïda ou si peu, en catimini ; on parle beaucoup de la guerre menée par Bachar el-Assad ; mais on ne rapproche jamais ces deux informations. Certes, lorsqu’on le fait, le tableau qui en ressort est moins simple et moins confortable que celui d’une guerre où le bien (les rebelles démocratiques) combattrait le mal (le régime totalitaire). Mais cette amnésie et cette incapacité à faire tenir ensemble toutes les données nécessaires à la compréhension de la situation, fussent-elles inconfortables, suit très précisément le schéma orwellien décrit dans le passage de 1984 cité plus haut, qu’Orwell appelle la « double pensée ». Est-il criminel de remarquer cette particularité inquiétante de la couverture médiatique de ces tragiques événements ? D’essayer d’en comprendre les raisons ? De rappeler l’autre côté de la réalité, qu’on essaie sans cesse de refouler au point où certains communiqués qui passent dans les informations deviennent proprement incompréhensibles ? Ainsi, lors des combats simultanés à Palmyre et à Alep des dernières semaines, il était très malaisé pour une personne moyennement informée de comprendre qui attaque qui dans ces villes, les « gentils » et les « méchants » semblant changer de rôles sans aucune explication.

Par ailleurs, d’autres conflits tragiques aux conséquences humanitaires comparables, parfois pires, sont en cours au même moment sans que cela ne produise un émoi équivalent, ni dans les médias ni au sein du gouvernement. Il ne s’agit pas de nier les souffrances à Alep en en invoquant d’autres ailleurs, mais de s’interroger sérieusement sur le désintérêt quasi complet, ou au mieux léger et parcellaire, pour les autres conflits. Je tiens à préciser ici que je ne porte aucun jugement sur les citoyens français, mais sur les médias et les politiques qui s’adressent à eux. Je pense que l’émoi et l’horreur seraient pires encore si pendant plusieurs semaines on montrait dans les médias les souffrances des civils yéménites. Que se passe-t-il là-bas ? Un conflit qui dure depuis presque deux ans ou au moins 10 000 civils sont morts, dont au moins 4 000 en raison de bombardements, et où… 14 millions de personnes ont besoin d’une aide alimentaire. Pire, au Yémen, selon l’UNICEF, 2,2 millions, oui, 2,2 millions d’enfants souffrent de malnutrition aigüe dont 460 000 de malnutrition aigüe sévère. Je ne posterai pas ici de photos d’enfants en « malnutrition aigüe sévère », mais c’est terrifiant. Face à cette tragédie, le nouveau Premier ministre de la France n’évoque pas un crime contre l’humanité ; et pourtant c’est le cas, mais c’est dû à une guerre menée par l’Arabie Saoudite et le Qatar avec l’appui des États-Unis, soit tous des « alliés » de la France, qui livre aux deux premiers pays des armes en volume considérable. Les causes de la malnutrition et de la famine sont simples : le Yémen, pays pauvre avec peu de terres arables, importe la plus grosse partie de son alimentation, or les ports de ce pays subissent un blocus militaire de la part de l’Arabie Saoudite et du Qatar. Où est l’indignation ? Où sont les reportages ? Où sont les tribunes envolées dans nos médias et les pétitions en ligne ? Où sont les sanctions économiques ? Quid des résolutions à l’ONU ? On se le demande.

On se souviendra également du bombardement, le 3 octobre 2015, de l’hôpital de Kunduz tenu par Médecins sans Frontières, dont on trouvera le rapport ici. Ce n’était pas le premier hôpital bombardé par les États-Unis. Peut-être était-ce par erreur ? En tout état de cause, la couverture médiatique en avait été assez sobre et nul appel exigeant une explication de la part des États-Unis n’a vu le jour, pas plus, bien sûr, que des demandes de sanctions.

Être la patrie des droits de l’homme ne nous autorise justement pas à utiliser ces droits et l’indignation dont en suscite la violation de façon variable. On ne peut pas les invoquer uniquement pour dénoncer les actions de nos adversaires ou concurrents géopolitiques et les oublier lorsqu’il s’agit d’opérations menées pour appuyer notre hégémonie, ou celle de notre suzerain, les États-Unis. Si les droits de l’homme ne sont pas invoqués systématiquement et avec la même force pour tous les crimes, alors ils sont dévoyés.

 

Qui défend Alep, « djihadistes islamistes » ou « rebelles modérés » ?

Une fois intégré l’aspect toujours terrifiant de toute guerre, en particulier dans les zones urbaines, la question à se poser est de savoir qui fait la guerre contre qui et dans quel but politique. Il est bien évident que si la ville d’Alep était défendue par des « rebelles modérés » ou des forces combattantes démocratiques visant à renverser le régime dictatorial d’Assad, la légitimité de leur combat aurait été totale, le crime des Russes complet et la non-assistance par les États occidentaux tragique. C’est en gros le tableau dessiné dans nos médias. Malheureusement, la réalité concrète est tout autre.

Il est important de noter qu’un des premiers axes de propagande est d’avoir créé la confusion dans les esprits en se référant à Alep alors que les combats et les bombardements avaient lieu à Alep-Est. Alep-Ouest est tenue depuis des années par le gouvernement syrien et compte plus d’un million d’habitants ; c’est là qu’allaient se réfugier, le plus souvent, les civils qui pouvaient se dégager d’Alep-Est. Alep-Est, elle, comptait moins de 150 000 habitants (dans la dernière phase des combats, depuis le 15 novembre, Robert Balanche, chercheur au Washington Institute for Near Est Policy, n’en comptait plus que 20 à 30 000), que la guerre a forcés à vivre dans des conditions abominables : sans accès à l’eau potable, aux soins ou à une nourriture descente. La dureté des conditions de vie, inhérente à la tragédie que vivent les populations civiles en état de siège, était aggravée par les privations organisées volontairement par les groupes djihadistes qui nous ont été présentés comme défendant les populations ; ainsi lors de la prise d’Alep-Est a-t-on pu assister à la découverte de colossales réserves de nourriture, détournées de l’aide humanitaire et refusées aux populations civiles. Par ailleurs, les djihadistes tiraient depuis des mois sur Alep-Ouest (souvent depuis l’hôpital d’Alep-Est), et surtout sur les zones chrétiennes – sans, là non plus, provoquer une grande émotion dans nos médias (un exemple ici tiré du Monde ou du Point).

Si la ville d’Alep-Est était tenue principalement par des djihadistes apparentés d’une manière ou d’une autre à Al-Qaïda ou à Daech, la ligne morale et politique à tenir face aux événements devient beaucoup moins évidente. Pouvait-on soutenir sans réserve leurs revendications et leur combat contre l’armée de Bachar el-Assad ? Souhaiterions-nous sérieusement que des organisations terroristes prennent le contrôle de villes entières, de régions, voire de l’États, et s’y implantent durablement ?

On me rétorquera peut-être qu’assimiler la rébellion démocratique aux islamistes d’Al-Qaïda relève d’un simplisme outrancier. Pourtant les informations indiquant que la rébellion démocratique a depuis longtemps été phagocytée par les djihadistes ne manquent pas ; on se réfèrera utilement à l’article du journaliste Bachir El-Khoury dans Le Monde diplomatique intitulé « Qui sont les rebelles syriens ? » (du mois de décembre et toujours disponible en kiosque), qui a le mérite d’être exhaustif tout en adoptant un ton neutre. On pourra aussi se référer à Robert Balanche dans La Croix : « A Alep-Est, les rebelles sont cantonnés dans un périmètre d’environ 10 km², où ils compteraient 6 000 à 7 000 combattants. Ceux-ci appartiennent en majorité à deux groupes de la coalition salafiste-djihadiste Jaish Al-Fatah, le Front Fatah Al-Cham (ex-Front Al-Nosra, branche syrienne d’Al-Qaida), de tendance internationaliste, et Ahrar Al-Cham, de tendance locale. « Il n’y a pas de groupe laïque à Alep-Est depuis 2012-2013, précise le chercheur. Tous ont été éliminés par les islamistes ». Ou encore à Robert Fisk dont l’analyse, que je fais mienne, dans cet article de The Independent est la plus lucide tant sur la situation globale, les combats à Alep, la cruauté du régime syrien, la bouffonnerie de nos gouvernements et les conséquences à long terme : « Mais il est temps de dire l’autre vérité: que nombre des « rebelles » que nous, les Occidentaux, avons soutenus – et que notre absurde premier ministre Theresa May a indirectement bénis (…) – sont les plus cruels et les plus impitoyables des combattants au Moyen-Orient. Et tandis que nous avons été saisis d’effroi par Daech pendant le siège de Mossoul (un événement trop semblable à Alep, bien que vous ne le penseriez pas en lisant notre récit de l’histoire), nous avons volontairement ignoré le comportement des rebelles d’Alep ».

Fréderic Pinchon décrit les mêmes réalités pour France Info : « La plupart des habitants d’Alep-Est est allée à Alep-Ouest, c’est-à-dire les zones gouvernementales. (…) La poche de rébellion d’Alep-Est ne représente pas les civils. (…) Par ailleurs, sur la question de la réalité de la rébellion à l’est d’Alep, on a sans doute été beaucoup intoxiqué en Europe et en Occident en général. (…) À travers des négociations secrètes, ces rebelles ont obtenu un sauf-conduit. Et ce en négociant avec les Russes et non avec les Syriens. Depuis deux ans, les Russes sont à la manœuvre sur l’ensemble du territoire et négocient des trêves. Pour une grande partie, cette rébellion va soit rendre des armes, soit s’intégrer dans des unités de l’armée syrienne, soit partir pour Idleb, qui va rester la dernière zone que l’armée de Bachar Al-Assad n’a pas réussi à réduire. L’offensive à Idleb a d’ailleurs déjà commencé avec l’aide de l’aviation américaine. (…) Les civils dans leur grande majorité qui vivaient encore à Alep-Est ont servi de boucliers humains, comme en ce moment à Mossoul, l’État islamique se sert des habitants de Mossoul comme boucliers humains. On nous a présenté pendant quelques mois une situation qui ne correspondait pas à la réalité. »

La réalité, c’est que les « rebelles modérés » comme nous aimons à les qualifier dans les médias dominants sont pour la plupart des combattants d’Al-Nosra (soit Al-Qaïda) ou sous la coupe de cette organisation. Ces fanatiques au pouvoir seraient la pire chose que l’on puisse souhaiter à un pays – même la très étasunienne fondation Carnegie ne peut que constater la volonté d’Al-Nosra de transformer la Syrie en un État régi par la Charia. Pour la sécurité de la France et de l’Europe, pour l’avenir de la Syrie, la première chose à faire est de se débarrasser de ces groupes terroristes et d’organiser une transition démocratique sous mandat de l’ONU.

Il faut bien comprendre ce qui s’est passé à Alep-Est. Dans cette partie de la ville, les djihadistes en perte de puissance, acculés, font ce qu’ils ont fait hier à Manbij et ce qu’ils feront demain à Mossoul, après-demain à Raqqa, Al-Bab ou Idlib : prendre en otage les populations, exécuter ceux qui tentent de fuir et s’en servir comme boucliers humains, le plus souvent en s’abritant dans ou autour des éventuels hôpitaux. En août dernier, les forces armées kurdes de l’YPG (Unités de Protection du Peuple, l’armée du Rojava) ont repris aux djihadistes de Daech la ville de Manbij, au prix de terribles combats. Lors de la phase finale de l’assaut, les Kurdes ont dû négocier avec les djihadistes et avec les États-Unis un accord dont les termes étaient les suivants : les djihadistes survivants pourraient se retirer avec leurs familles, leurs blessés et leurs armes légères, les États-Unis promettant de ne pas les bombarder dans leur retraite vers Raqqa ; en échange les djihadistes promettaient de ne pas exécuter les milliers de civils pris en otage, ainsi que l’a décrit Patrice Franceschi. La bataille de Manbij n’était qu’une, bien qu’héroïque, parmi tant d’autres combats (par exemple à Kobané) livrés par les Kurdes. Éminemment utile pour la France, il ne provoquera pas d’émoi particulier, car ne sera que peu relaté, même si l’on doit souligner l’assistance des forces spéciales françaises dans ces combats. À Alep-Est, il se passe peu ou prou la même chose qu’à Manbij : les combattants djihadistes ont tenu la population civile en otage – si l’on veut une source parfaitement officielle pour s’en convaincre, on peut consulter le rapport de Robert Coville, porte-parole du Haut Commissariat de l’ONU aux droits de l’Homme. Désormais, les combattants survivants étant autorisés à quitter Alep par les Russes, qui organisent ces corridors et l’armée syrienne, pour aller au Nord vers les territoires et villes encore sous leur contrôle. À Mossoul, la coalition menée par les États-Unis attaque et livre, elle aussi, combat dans des hôpitaux. Et pourquoi ? Non pas par barbarie étasunienne ou irakienne, mais par nécessité, parce que les djihadistes de Daech ont fait de l’hôpital de Mossoul un centre de commandement. Il s’agit d’une stratégie délibérée et systématiquement appliquée par des fanatiques, à Alep-Est comme ailleurs. Demain, il faudra organiser les mêmes corridors pour libérer les derniers civils et permettre aux djihadistes survivants de se replier sans quoi ils se feront sauter. Non, l’idée que les civils d’Alep-Est étaient tenus en otage par les combattants islamistes n’est pas juste une opinion, mais une réalité avérée par les faits. Le pire est à venir quand l’une ou l’autre des coalitions arriveront au dernier bastion tenu par les djihadistes, quand il n’y aura plus ultimement où fuir, alors un immense bain de sang sera à craindre.

La forte présence d’islamistes dans les rangs des combattants n’est en rien une surprise, ni une anomalie. Même un spectateur non averti qui s’est intéressé au minimum à la manière dont les choses se sont déroulées dans tous les pays touchés par le printemps arabe a pu se rendre compte que dans cette région l’islamisme prospérait sur le terreau de l’instabilité étatique et de la guerre civile, et qu’en l’absence de solution politique rapide, c’est lui qui occupait généralement le terrain. La lecture des rapports, dès 2011, de personnalités comme Alain Chouet, ex-patron du service de renseignement de sécurité de la DGSE, longtemps en poste en Syrie, aurait été utile à certains (voir des éléments ici). Certes, si les islamistes ont pu à ce point s’imposer au sein de l’opposition anti-Assad, c’est aussi parce que les puissances occidentales ont tardé à soutenir les manifestations contre le régime ; mais ils étaient là dès l’origine, et l’issue actuelle n’était alors en rien imprévisible. En partant de cette donnée du terrain, et quelles que soient les réserves qu’on peut émettre à l’égard du régime syrien, surtout au bout de cinq ans de guerre civile, la position consistant à soutenir la puissance étatique, dans cette région, ne peut pas juste être balayée d’un revers de main au prétexte qu’elle serait immorale. Elle l’est certainement en partie, car c’est le cas de toutes les positions réalistes ; mais l’est-elle plus que celle qui consiste à « oublier » qui sont les insurgés qui ont tenu les quartiers est d’Alep, y retenant des civils en otage ? Que celle qui consiste à refuser de combattre ces groupes, dir

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RETORICA BELLICA


QUIZ: a chi sono da attribuire le parole seguenti?

<< La Russia è un serpente a sonagli che circola in tutto il mondo... Non sempre il serpente a sonagli morde velenoso. Spesso, specie se viene accarezzato, circonda con disinvoltura il corpo di chi lo sopporta, ma se si arrabbiasse allora morde con morsi velenosi... C’è chi stritola il serpente a sonagli e chi ne è stritolato. >>

[ ] Heinrich Himmler sulla Europäische Revue, Luglio 1941
[ ] Eugenio Scalfari su La Repubblica, Gennaio 2017
[ ] Julija Tymošenko intervistata da Le Parisien, Febbraio 2015
[ ] Hillary Clinton sul New York Times del 20 Settembre 2016
[ ] Achille Starace sul Popolo d'Italia, editoriale del 4 Maggio 1942

La risposta sarà fornita tra un paio di giorni all'interno del nostro post "Nuovo Maccartismo".