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L'egemonia tedesca

1) Oskar Lafontaine: La supremazia tedesca in Europa
2) “Kernel Europa”. Un nucleo centrale franco-tedesco per una Ue a due velocità (di Sergio Cararo)


Auch lesenswert:

Wunschzettelökonomie (Von Reiner Zilkenat – junge Welt, 13.06.2015)
Vor 75 Jahren: Die »Reichsgruppe Industrie« entwirft einen europäischen Wirtschaftsraum
... Dabei war von zentraler Bedeutung, wie der europäische Kontinent wirtschaftlich neu organisiert werden sollte. ... In der im Januar 1935 gebildeten Institution waren in Wirtschaftsgruppen, unterteilt in Fachgruppen, die einzelnen Industriebranchen, Betriebe und Banken vertreten. Es handelte sich um eine Organisation, die im staatsmonopolistischen System der Kriegsvorbereitungs- und der Kriegswirtschaft vor allem die Interessen großer Konzerne und Banken artikulieren und ihre Umsetzung in politisches Handeln gewährleisten sollte...
http://www.jungewelt.de/2015/06-13/025.php

Billions for European Wars (German armament projects – GFP 10.6.2015.) 
The German Defense Minister announced new multi-billion Euro armament projects, aimed at Germany's and the EU's greater independence from the USA. Ursula von der Leyen announced yesterday that the Bundeswehr would purchase the Medium Extended Air Defense System "MEADS" to replace the "Patriot" air defense system. Whereas the "Patriot" system had to be imported entirely from the United States, a consortium with significant German participation will manufacture MEADS. It is estimated to cost about four billion Euros, with another four billion having been already invested. With MEADS, Germany would achieve more "autonomy in security policy," according to a CSU party military policy specialist. The German Navy will also receive four MKS 180 multi-role warships worth around four billion Euros, better suited for waging distant wars more effectively and over more extended periods. Other armament projects, such as a German-French battle tank, serve the consolidation of the EU's arms industries or - as with the "Euro-drone" - are aimed at achieving more independence from the US arms industry. The A 400M Airbus airlifter crash in early May is seen by observers in the context of these efforts to achieve autonomy...
http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/58854

Milliarden für europäische Kriege (Von der Leyen kündigt neue Rüstungsprojekte an – GFP 10.6.2015.)
Die deutsche Verteidigungsministerin kündigt neue milliardenschwere Rüstungsprojekte an und zielt auf eine größere militärische Eigenständigkeit Deutschlands und der EU gegenüber den USA. Wie Ursula von der Leyen am gestrigen Dienstag mitteilte, wird die Bundeswehr als Ersatz für ihre "Patriot"-Luftabwehrbatterien das Flugabwehrsystem "Meads" kaufen. Es wird von einem Konsortium unter starker deutscher Beteiligung hergestellt, während die "Patriot"-Systeme komplett aus den Vereinigten Staaten importiert werden mussten. Die Kosten werden auf rund vier Milliarden Euro geschätzt; weitere vier Milliarden Euro sind bereits investiert worden. Deutschland erlange mit Meads größere "sicherheitspolitische Souveränität", erklärt ein CSU-Militärpolitiker. Zudem wird die deutsche Marine vier Mehrzweckkampfschiffe MKS 180 erhalten - Kosten: ebenfalls vier Milliarden Euro. Mit ihnen werden Kriege fernab des eigenen Landes schlagkräftiger und länger geführt werden können als bisher. Weitere Rüstungsprojekte wie ein deutsch-französisches Kampfpanzerprojekt dienen der Verschmelzung der EU-Waffenindustrie oder zielen wie die "Euro-Drohne" darauf ab, von US-Waffenschmieden unabhängiger zu werden. Mit derlei Unabhängigkeitsbestrebungen bringen Beobachter den Absturz eines Militärtransporters vom Typ Airbus A400M Anfang Mai in Verbindung...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59132

Sulla Europa a guida tedesca si vedano anche, sul nostro sito:

Il ruolo della Germania nella distruzione della Jugoslavia (1995)
Lo "spazio vitale tedesco" (1995)
Europa: unione e disgregazione (1997)


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ORIG.: Un article de Oskar Lafontaine: La suprématie allemande en Europe (23 MAI 15)



La supremazia tedesca in Europa

di Oskar Lafontaine


 Jean-Luc Mélanchon, il fondatore del Parti de Gauche, ha scritto un pamphlet intitolato «Le hareng de Bismarck» (L’aringa di Bismarck). Questo libro è diretto contro la supremazia tedesca in Europa e la ripresa, da parte del presidente francese François Hollande e Manuel Valls, il capo del governo, della politica della «Agenda 2010» di Gerhard Schröder. Poiché questa «politica riformatrice» di Schröder non era un prodotto social-democratico ma consisteva nella ripresa del programma del padronato tedesco da parte di un cancelliere social-democratico, la polemica lanciata da Mélanchon mira in sostanza a denunciare la messa in atto, in Francia, di questo programma del padronato tedesco.

La sua esposizione è convincente. Questo programma funziona solamente a spese degli altri e solamente se gli altri paesi europei non lo adottano più. Ciò è così semplice e logico che non si può non domandarsi perché la cancelliera tedesca, il suo ministro delle finanze, e i suoi partner di coalizione, non l’hanno ancora capito. Tutti i paesi europei non possono avere esportazioni eccedenti, cioè più di quanto consumano. O, ancora più semplicemente: tutti i paesi non possono avere in contemporanea il record di esportazioni.

 Per illustrare ciò che è successo in Francia, Mélenchon racconta una visita di François Hollande a Angela Merkel nel maggio 2014. Il presidente francese riceve come regalo a Straslund una piccola botte di aringhe di Bismarck. Del resto lo Spiegel aveva notato il gesto inopportuno. «François Hollande avrebbe potuto intendere questa botte come grettezza da parte di Angela Merkel. Il cancelliere prussiano, che concesse il suo nome nel 1871 a un pescivendolo per i suoi pesci di conserva, era un nemico terribile dei Francesi ». Spinto da una febbre tutta nazionalista lo Spiegel prosegue: «Come ai tempi di Bismarck, la Francia lotta contro la sua inferiorità di fronte al suo vicino dell’est… E come all’epoca, è un cancelliere soprannominato “di bronzo” che governa a Berlino».

 Per Mélenchon, Bismarck ha aggredito la Francia. Dopo la vittoria, fece incoronare l’Imperatore tedesco nella galleria dei vetri di Versailles. Fino a oggi, i francesi non hanno dimenticato questa umiliazione. Il fondatore del Parti de Gauche chiama questa aringa di Bismarck un “messaggio siciliano”. Quando la mafia inviava a qualcuno un pesce significava che una persona era stata “mandata dai pesci”, ovvero ucciso.

 Secondo Mélenchon, sono la democrazia europea e i valori fondamentali della Rivoluzione francese, Libertà, Uguaglianza, Fraternità che sono stati mandati ai pesci dalla supremazia tedesca.

 La Merkel non ha certamente voluto inviare un messaggio siciliano. Non è né così malvagia né così sorniona. Ma il fatto che ha offerto lo stesso regalo al presidente francese che a George W. Bush e Vladimir Putin mostra in realtà a che punto la politica e la cultura francese le sono ancora estranee.

 Quando Mitterand, Thatcher e Andreotti si opponevano alla riunificazione della Germania era alla supremazia della grande Germania che si opponevano, una supremazia che, secondo loro, avrebbe messo in pericolo il processo di unità in Europa.

 George Bush, il presidente americano, non aveva niente da ridire. Al contrario, esigeva dalla Germania una “partnership nella leadership”. Elogiava, così, una dominazione tedesca in Europa, in accordo con la strategia mondiale americana.

 Finché i tedeschi giocheranno a vassalli della potenza mondiale degli Stati Uniti – basta pensare al comportamento della Merkel nello scandalo della NSA – la messa in guardia di Mélenchon: “l’imperialismo tedesco è di ritorno” non minaccerà la sola potenza mondiale restante.

 Il pamphlet di Mélenchon non può essere bollato come una critica esagerata al governo tedesco da parte di un uomo di sinistra. Nel necrologio in omaggio al suo collega Ulrich Beck, il sociologo inglese Anthony Giddens scriveva: «Thomas Mann aveva concluso, come si sa a seguito alle due guerre mondiali, che era necessario che l’integrazione europea sfociasse in una Germania europea, in ogni caso non in una Europa tedesca. Ma la crisi dell’euro ha precisamente prodotto questa Europa tedesca. Angela Merkel è de facto la presidente della UE. Non si può, per così dire, far passare nulla contro di lei, la Repubblica federale definisce le regole per il resto dell’Unione. Ma poiché l’egemonia della Germania non ha una legittimità immediata, la Merkel tenta di dissimularla. È diventata, come propone Beck, una “Merkiavel” che nasconde abilmente la sua influenza di dominatrice, cosa che sfocia infine nell’inganno. Essa finge di guidare il salvataggio dell’Europa ma è autorizzata solamente la politica passata attraverso il prisma del pensiero economico tedesco.

 «Siamo assai lontani dalla stabilizzazione dell’euro, perché la Germania non permette la condizione necessaria a ciò, ovvero una integrazione fiscale e economica più grande dell’Eurozona. Al contrario si impone ai paesi del Sud una politica di austerità senza neppure preservare una parvenza di approvazione democratica. Il risultato è che il centro politico sprofonda in questi paesi ancora più rapidamente che negli altri.

 «E’ per questo che Beck si augurava un nuovo contratto sociale per l’Europa. Ciò significa in ultima istanza una rivolta contro la dominazione tedesca. La politica economica dovrebbe puntare più fortemente sugli investimenti, la protezione sociali dovrebbe essere estesa in Europa. I paesi più ricchi dovrebbero impegnarsi per quelli che soffrono la crisi»

 Se si confrontano le analisi di questi due celebri sociologi con la frase della Merkel: «Se l’euro muore è l’Europa che muore», allora si vede bene tutta la grandezza dello scacco della sua politica europea. In effetti noi siamo molto lontani dalla stabilizzazione dell’euro. Mélenchon non dimentica di notare quanto nel frattempo i tedeschi si mostrano arroganti in Europa. Quando si diceva al momento dell’introduzione dell’euro: “L’euro parla tedesco”, si intendeva ancora riassicurare i cittadini tedeschi che si preoccupavano della stabilità monetaria. Già, all’epoca, gli altri paesi europei non amavano questa musica. Ma quando Volker Kauder, presidente del gruppo della CDU/CSU al parlamento tedesco, disse al congresso della CDU a Leipzig, dieci anni più tardi “ora ecco che in Europa si parla tedesco”, si poteva allora di nuovo provare la vecchia follia della “grandeur” tedesca. Nello scorso aprile, in una riunione a Washington, Wolfgang Schäuble criticava la mancanza di volontà di riforma dell’Assemblea nazionale francese e diceva: «la Francia potrebbe ritenersi felice se qualcuno costringesse il Parlamento, ma questo è difficile, è così la democrazia». Il primo segretario del Partito socialista Jean-Christophe Cambadélis rimprovera al ministro delle finanze tedesco una «francofobia intollerabile inaccettabile e contro-producente». Il tono di indignazione del capo delle fila socialiste non è molto differente da quello di Mélenchon: «la Germania è di nuovo un pericolo. Il modello che impone agli stati europei è un regresso per la nostra civiltà»-

 Non si dimentica di sottolineare che il modello economico tedesco dei neo-liberisti è lontano dall’essere coronato dal successo che i suoi propagandisti vorrebbero farci credere. Se la si considera su più anni, la crescita francese è superiore alla crescita tedesca. Ciò vale anche per i guadagni di produttività. Le lamentele della Merkel riguardo alle vacanze lunghe, alle pensioni precoci degli europei del sud si scontrano con un rifiuto categorico privo di ogni spirito di comprensione. Mélenchon ricorda con un tono sarcastico che questi fannulloni dei Greci, degli Spagnoli e dei Portoghesi hanno meno vacanze che i lavoratori della Germania e che gli Spagnoli e i Portoghesi vanno in pensione più tardi.

 La Germania ha, ci dice il nostro combattivo deputato europeo, il numero più basso di nascite e la parte di popolazione anziana più alta in Europa. È questo il modello che la Francia dovrebbe seguire?

 Nell’inquinamento dell’aria e nella produzione di rifiuti la Germania di nuovo è in testa e impedisce, su ordine dell’industria dell’automobile, dei livelli d’emissione di gas di produzione più bassi e, su ordine dell’industria chimica, delle direttive ecologiche al livello europeo.

 Va da sé che Jean-Luc Mélenchon miri particolarmente alla politica sociale tedesca. Desiderava evitare a ogni costo in Francia riduzioni di salari e pensioni che seguono il modello tedesco. La precarizzazione del lavoro con i salari bassi, i contratti di lavoro a durata determinata, i contratti a cottimo, del lavoro interinale e dei mini lavori non può servire da modello a Parigi. In Francia, il mercato del lavoro non è ancora, e di molto, così frantumato come in Germania. Da molto c’è un salario minimo più alto che quello del vicino dell’Est.

 Si può riconoscere l’avanzata della sottomissione al paradigma neoliberista in Germania nella risposta data a un sondaggio fatto da Handelsblatt dove la maggioranza dei managers tedeschi esigeva un salario minimo superiore a quello che reclamavano la DGB e i socialdemocratici.

 Mélenchon, per rinforzare la sua critica, fa riferimento a Arnaud Montebourg, ministro socialista dimissionario. Nel 2011, questi dichiarava: “Madame Merkel  sta per uccidere l’euro… e sulla nostra rovina che la Germania vuole fare fortuna… è venuto il momento di assumere il confronto politico di fronte alla Germania”. Il presidente socialista dell’assemblea nazionale, Claude Bartolone, si esprimeva in maniera simile. Sebbene dicessero di avere a cuore di lavorare in comune con la Francia, Merkel e Schäuble non si mostrano fino a ora molto impressionati da tutto questo. I social-democratici tedeschi stessi non hanno fatto nulla per mettere fine alle politiche di austerità in Europa. Li tenta troppo la possibilità di mettere i ginocchio Syriza e di strozzare sul nascere l’arrivo di una concorrenza a sinistra – e il pensiero va a Podemos in Spagna.

 Il discorso della mania di grandezza con la Francia è pericoloso. Se la politica tedesca, portata sulle spalle dei vicini per mezzo del dumping sociale e salariale, porta Marine Le Pen al potere, allora il progresso dell’unificazione europea sarà stoppato per lungo tempo.

 Anche Die Linke, unico partito a portare una voce di un’altra politica europea al parlamento tedesco, deve continuare il dibattito. Se la Merkel e  Schäuble, insieme a Sigmar Gabriel, mettono in ginocchio Syriza non sarà solamente un pesante regresso per la democrazia europea e lo stato sociale europeo, ma anche per tutta la sinistra politica in Europa.

 Di fronte al blocco neo-liberista, Tsipras e Varoufakis cercano una soluzione. Hanno invitato a Atene il precedente economista in capo della Deutische Bank, Thomas Mayer. Nel 2012, aveva fatto la proposta di una moneta parallela a l’euro, un euro greco o Geuro. C’era l’idea che la Grecia non poteva uscire economicamente con un euro forte e né può indebitarsi di nuovo perché non ha il diritto di stampare euro. Il blocco neo-liberista europeo al quale Mélenchon aggiunge anche i partiti social-democratici e socialisti al potere fa tutto per affondare la sinistra in Grecia. Ma i grandi piani dei politici dell’austerità non ingannano: l’attuale sistema monetario non funziona. La loro politica ha fatto sprofondare sempre più giù l’Europa nella crisi. Anche se, come me, non si crede che la proposta dell’ex capo economico della Deutsche Bank, Thomas Meyer, sia sufficiente, nessuno in definitiva può evitare il dibattito su un nuovo ordine monetario europeo. La competitività tanto vantata delle varie economie nazionali non può essere sempre prodotta con l’abbassamento dei salari e delle pensioni e sulla distruzione delle contrattazioni collettive e delle protezione del diritto del lavoro. Io mi domando perché il governo greco ha ancora bisogno di crediti che non sono stati introdotti che per salvare le banche. La più grande flessibilità che si impone nel sistema monetario europeo e che lascerà nuovamente la possibilità di svalutare ha bisogno, come quadro e come partner cooperante, della Banca Centrale europea. Ovvero: la BCE può senza problemi dirigere il corso delle monete nazionali, per esempio il corso del Geuro. Si regolerebbe la svalutazione divenuta necessaria e si eviterebbe anche la caduta tanto spaventosa di una moneta debole. Beninteso come ha mostrato l’esempio di Cipro, delle misure di controllo dei capitali sono inevitabili. Nella questione monetaria Mélenchon rinvia alla discussione cominciata qualche tempo fa dalla Germania su un euro del sud, senza prendere una chiara posizione. Die Linke non dovrebbe sottrarsi a una tale discussione rinviando come ora alle esportazioni tedesche. Il nazionalismo delle esportazioni sulle spalle dei vicini non può trovare il consenso di un partito di sinistra. Le questioni monetarie sono conosciute per essere difficili e anche nel caso dell’unione monetaria come per la riunificazione  e per l’introduzione dell’Euro i responsabili non si sono coperti di gloria. Indipendentemente dai diversi modelli messi in discussione una cosa dovrà essere chiara: l’euro non dovrà parlare tedesco ma europeo.


traduzione di Stefano Acerbo


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“Kernel Europa”. Un nucleo centrale franco-tedesco per una Ue a due velocità

di Sergio Cararo – 3 Giugno 2015

Si riaffaccia il progetto della “Kernel Europa,” una Unione Europea a più velocità ed a cerchi concentrici subordinati ad un nucleo centrale. Un vecchio progetto tedesco del 1994 torna così a imporsi nel dibattito e nelle prospettive europee assumendo in pieno l'impianto ideologico ordo-liberista, variante germanica del liberalismo, che ha conformato fin nei dettagli la costruzione dell'Unione Europea. L'ipotesi emerge da un documento segreto franco-tedesco, riportato dal settimanale Die Zeit [ http://www.zeit.de/politik/deutschland/2015-06/eu-merkel-hollande-reform-gipfel ], nel quale la cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Hollande intendono procedere ad un cambio di passo significativo nei poteri decisionali dell'Unione Europea. Colpisce il fatto che il documento sia strutturalmente “euro-centrico” nel senso che mette il mantenimento della moneta unica come fattore strategico della tenuta dell'apparato costruito dalle classi dominanti europee sull'Ue. In particolare emerge la tentazione di procedere anche ad una gestione sia delle spinte centrifughe che centripete dell'Eurozona. Da un lato i paesi più deboli possono essere marginalizzati, dall'altra quelli più forti – il nucleo duro franco-tedesco – invece si centralizzano ancora di più.

Secondo il documento, citato dal settimanale tedesco, in futuro gli Stati dell’Eurozona dovrebbero lavorare in modo molto più coeso. Nelle intenzioni della Merkel l'Unione europea infatti deve arrivare ad avere "vertici dell'Eurozona più regolari". Non solo. Dovrebbe anche essere migliorata la capacità di azione del gruppo dei ministri delle Finanze.

Il documento, elaborato insieme al presidente francese Francois Hollande, viene presentato come il contributo di Merkel al vertice europeo del 26/27 giugno prossimo, in cui si dovrà discutere della riorganizzazione dell’Unione europea alla luce delle crescenti tensioni e contraddizioni che vengono emergendo. Da un lato il referendum britannico sulla permanenza o meno nell'Unione, dall'altra le proteste contro le politiche di austerity che vedono la Grecia al centro della tensione ma anche i risultati delle elezioni amministrative in Spagna e di quelle presidenziali in Polonia dove sono cresciuti i consensi alle posizioni – diverse tra loro – di critica ai diktat e ai vincoli dell'Unione Europea.

In molti vedono in questo documento l'attuazione del famoso piano Schauble-Lamers del 1994, quello che individuava la necessità di una “Kernel Europa”cioè di un nucleo duro centrale al quale tutti gli altri dovevano adeguarsi. Inutile dire che al centro del nucleo centrale si sono Germania e Francia. Il documento venne presentato il 1° settembre del 1994, durante il semestre di presidenza tedesca dell’Ue, quando l'allora presidente del gruppo parlamentare della CDU/CSU Wolfgang Schäuble presentòal Bundestag, a nome del suo partito, il documento redatto insieme a Karl Lamers dal titolo “Riflessioni sulla politica europea”. Erano passati poco più di un anno dalla dissoluzione dell'Urss e due anni dalla riunificazione tedesca, e si delineava la prospettiva dell’allargamento ad est dell’Unione Europea. Il documento Schauble-Lamers riteneva che lo sviluppo del processo di unificazione in Europa era entrato “in una fase critica”, tale che, “se entro due-quattro anni non si trova una soluzione alle cause di tale inquietante evoluzione, anziché indirizzarsi verso la maggiore convergenza prevista dal Trattato di Maastricht, l’Unione rischia di imboccare inesorabilmente la via di una formazione più debole, limitata essenzialmente ad alcuni aspetti economici e composta da diversi sottogruppi. Tale zona di libero scambio ‘migliorata’ non potrebbe consentire alla società europea di superare i problemi vitali e le sfide esterne che si trova ad affrontare”. I provvedimenti istituzionali e politici che Schäuble e Lamers suggerivano per prevenire questa deriva riguardavano innanzitutto lo sviluppo istituzionale dell’Unione, la cui capacità di azione e base democratica dovevano essere rafforzate adottando una struttura ispirata al modello dello Stato federale e al principio di sussidiarietà; e parallelamente, “nonostante le notevoli difficoltà giuridiche e pratiche”, si sarebbe dovuta istituzionalizzare l’idea di un’Europa a più velocità – “altrimenti l’Unione si limiterà ad una cooperazione intergovernativa favorevole ad una ‘Europa alla carta’ ” – e si sarebbe dovuto rafforzare “il nucleo duro già costituito dai paesi impegnati sul fronte dell’integrazione e pronti a cooperare”. Questo nucleo, composto dalla Francia, dalla Germania e dai paesi del Benelux, si confermava  anche in ambito monetario – cosa importantissima secondo i due autori del testo, dato che proprio l’Unione Economica e Monetaria doveva essere, a sua volta, il nucleo duro dell’Unione politica – ed era l’unico strumento che avrebbe permesso di conciliare gli obiettivi contraddittori dell’approfondimento e dell’allargamento dell’Unione Europea. Sono passati venti anni da quel progetto egemonico tedesco e adesso le condizioni per attuarlo si stanno delineando compiutamente, trascinando così il settore più concentrato, monopolista e multinazionale del capitalismo europeo.





Ilaria Alpi - L'ultimo viaggio

1) La scottante verità di Ilaria Alpi (di Manlio Dinucci su Il Manifesto del 09.06.2015)
2) Ilaria Alpi e la CIA: cose di Cosa Nostra e Cosa Loro (di Luigi Grimaldi)
3) “Un traffico d’armi per conto della CIA”: l’ultima verità su Ilaria e Miran (di Daniele Mastrogiacomo su La Repubblica del 10.04.2015)


IL DOCUMENTO: Ilaria Alpi - L'ultimo viaggio (Speciale di RAI3 del 11/04/2015)
Sono passati ventuno anni dalla morte di Ilaria Alpi, giornalista Rai e del suo operatore Miran Hrovatin, uccisi in un agguato a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Da allora molti misteri, molti depistaggi, hanno tenuta nascosta la verità sui mandanti, sugli esecutori materiali, sul movente di quel sangue. "Ilaria Alpi – L'ultimo viaggio" prova ad accendere qualche nuova luce sull'inchiesta che Ilaria stava facendo in Somalia sul traffico internazionale di armi, ora che nuovi documenti sono stati de-secretati e nuove testimonianze acquisite. Cosa aveva scoperto Ilaria Alpi durante il suo ultimo viaggio? Che cosa le è stato impedito di raccontarci con quell'ultimo agguato a Mogadiscio? Una docu-fiction di Claudio Canepari prodotta da Rai Fiction in collaborazione con Magnolia.
VIDEO: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-77f45782-2361-40cd-a00a-1ede256a8794.html


Sui traffici di armi organizzati dai paesi NATO per sostenere le parti secessioniste e squartare la Jugoslavia si veda anche alla nostra pagina dedicata:


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L'arte della guerra. La rubrica settimanale di Manlio Dinucci

La scottante verità di Ilaria Alpi

di Manlio Dinucci su Il Manifesto del 09.06.2015

La docu­fic­tion «Ila­ria Alpi – L’ultimo viag­gio» (visi­bile sul sito di Rai Tre [ http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-77f45782-2361-40cd-a00a-1ede256a8794.html ]) getta luce, soprat­tutto gra­zie a prove sco­perte dal gior­na­li­sta Luigi Gri­maldi, sull’omicidio della gior­na­li­sta e del suo ope­ra­tore Miran Hro­va­tin il 20 marzo 1994 a Moga­di­scio. Furono assas­si­nati, in un agguato orga­niz­zato dalla Cia con l’aiuto di Gla­dio e ser­vizi segreti ita­liani, per­ché ave­vano sco­perto un traf­fico di armi gestito dalla Cia attra­verso la flotta della società Schi­fco, donata dalla Coo­pe­ra­zione ita­liana alla Soma­lia uffi­cial­mente per la pesca.

In realtà, agli inizi degli anni Novanta, le navi della Shi­fco erano usate, insieme a navi della Let­to­nia, per tra­spor­tare armi Usa e rifiuti tos­sici anche radioat­tivi in Soma­lia e per rifor­nire di armi la Croa­zia in guerra con­tro la Jugoslavia.

Anche se nella docu­fic­tion non se ne parla, risulta che una nave della Shi­fco, la 21 Oktoo­bar II (poi sotto ban­diera pana­mense col nome di Urgull), si tro­vava il 10 aprile 1991 nel porto di Livorno dove era in corso una ope­ra­zione segreta di tra­sbordo di armi sta­tu­ni­tensi rien­trate a Camp Darby dopo la guerra all’Iraq, e dove si con­sumò la tra­ge­dia della Moby Prince in cui mori­rono 140 persone.

Sul caso Alpi, dopo otto pro­cessi (con la con­danna di un somalo rite­nuto inno­cente dagli stessi geni­tori di Ila­ria) e quat­tro com­mis­sioni par­la­men­tari, sta venendo alla luce la verità, ossia ciò che Ila­ria aveva sco­perto e appun­tato sui tac­cuini, fatti spa­rire dai ser­vizi segreti. Una verità di scot­tante, dram­ma­tica attualità.

L’operazione «Restore Hope», lan­ciata nel dicem­bre 1992 in Soma­lia (paese di grande impor­tanza geo­stra­te­gica) dal pre­si­dente Bush, con l’assenso del neo-presidente Clin­ton, è stata la prima mis­sione di «inge­renza umanitaria».

Con la stessa moti­va­zione, ossia che occorre inter­ve­nire mili­tar­mente quando è in peri­colo la soprav­vi­venza di un popolo, sono state lan­ciate le suc­ces­sive guerre Usa/Nato con­tro la Jugo­sla­via, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria e altre ope­ra­zioni come quelle in corso nello Yemen e in Ucraina.

Pre­pa­rate e accom­pa­gnate, sotto la veste «uma­ni­ta­ria», da atti­vità segrete. Una inchie­sta del New York Times (24 marzo 2013 [ http://www.nytimes.com/2013/03/25/world/middleeast/arms-airlift-to-syrian-rebels-expands-with-cia-aid.html?_r=1 ]) ha con­fer­mato l’esistenza di una rete inter­na­zio­nale della Cia, che con aerei qata­riani, gior­dani e sau­diti for­ni­sce ai «ribelli» in Siria, attra­verso la Tur­chia, armi pro­ve­nienti anche dalla Croa­zia, che resti­tui­sce così alla Cia il «favore» rice­vuto negli anni Novanta.

Quando il 29 mag­gio scorso il quo­ti­diano turco Cum­hu­riyet ha pub­bli­cato un video che mostra il tran­sito di tali armi attra­verso la Tur­chia, il pre­si­dente Erdo­gan ha dichia­rato che il diret­tore del gior­nale pagherà «un prezzo pesante».

Ven­tun anni fa Ila­ria Alpi pagò con la vita il ten­ta­tivo di dimo­strare che la realtà della guerra non è solo quella che viene fatta appa­rire ai nostri occhi.

Da allora la guerra è dive­nuta sem­pre più «coperta». Lo con­ferma un ser­vi­zio del New York Times (7 giu­gno [ http://www.nytimes.com/2015/06/07/world/asia/the-secret-history-of-seal-team-6.html ]) sulla «Team 6», unità super­se­greta del Comando Usa per le ope­ra­zioni spe­ciali, inca­ri­cata delle «ucci­sioni silen­ziose». I suoi spe­cia­li­sti «hanno tra­mato azioni mor­tali da basi segrete sui calan­chi della Soma­lia, in Afgha­ni­stan si sono impe­gnati in com­bat­ti­menti così rav­vi­ci­nati da ritor­nare imbe­vuti di san­gue non loro», ucci­dendo anche con «pri­mi­tivi tomahawk».

Usando «sta­zioni di spio­nag­gio in tutto il mondo», camuf­fan­dosi da «impie­gati civili di com­pa­gnie o fun­zio­nari di amba­sciate», seguono coloro che «gli Stati uniti vogliono ucci­dere o catturare».

Il «Team 6» è dive­nuta «una mac­china glo­bale di cac­cia all’uomo». I kil­ler di Ila­ria Alpi sono oggi ancora più potenti. Ma la verità è dura da uccidere.



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Inizio messaggio inoltrato:

Da: Luigi Grimaldi <grimaldipress @ gmail.com>
Oggetto: Contributo di Luigi Grimaldi. Richiesta Ospitalità per pubblicazione on line
Data: 14 giugno 2015 13:45:54 CEST

ILARIA ALPI E LA CIA: COSE DI COSA NOSTRA E COSA LORO

di Luigi Grimaldi


In relazione all'importante articolo di Manlio Dinucci pubblicato sul Manifesto del 9 giugno (La scottante verità di Ilaria Alpi http://ilmanifesto.info/la-scottante-verita-di-ilaria-alpi/ ), molto ripreso e dibattuto in rete, in cui sono citato come consulente della docu-fiction di Rai 3 "Ilaria Alpi L'Ultimo Viaggio", vorrei esprimere la mia opinione.

Un esercizio molto di moda nel nostro paese, a cominciare dal "lavoro" di Carlo Taormina, in relazione al caso Alpi Hrovatin, è quello della destrutturazione del lavoro di ricerca e analisi di chi cerca la verità, senza pretendere di possederla. In inglese "debunkers", specialità tipica di coloro che accusano di dietrologia e complottismo chi mette in discussione le affermazioni di noti bugiardi. Ognuno è libero di avere le proprie opinioni e di criticare, ma anziché baloccarsi a discettare su ciò che non è il "caso" in questione (esercizio troppo facile in assenza di argomentazioni fattuali) ci si dovrebbe esercitare su ciò che è stato e che è il caso Alpi Hrovatin. Ci si  esponga insomma se si vuole intervernire. Per me la questione di fondo è e rimane il ruolo della Cia nella vicenda Alpi. Più di qualcuno, certamente in buona fede, ma in modo miope, continua a sostenere che un coinvolgimento della Cia nel delitto di Mogadiscio sarebbe un comodo schermo per le responsabilità italiane. Non è così. Ritengo sia un distinguo inconsistente . E' chiaro che nulla di quanto è accaduto in Somalia, traffici di armi e rifiuti, ma non solo, sarebbe stato possibile senza un attivo coinvolgimento dei servizi italiani e della politica. Ma dov'è il confine tra intelligence italiana e USA? Non c'è! Perché la Somalia era "Cosa Nostra", fin dai tempi delle colonie dell'impero.... Notizia ben chiara anche alla CIA che al momento di attivare la propria cellula a Mogadiscio (nell'agosto del 1993) affianca al capo stazione un particolare agente: non uno che parli il somalo o l'arabo, ma Gianpaolo Spinelli: perché di origini italiane, perché parla italiano e perché da anni è l'agente di collegamento tra la CIA e il Sismi a Roma (lo ritroveremo nel caso Abu Omar a Milano e nello scandalo sullo spionaggio Pirelli-Telecom-Sismi al fianco di Mancini e Tavaroli). Dov'è quindi la contraddizione??? Dov'è il problema? Se la Somalia era "Cosa Nostra", nel senso dell'Italia, i nostri servizi (o una fazione all'interno di questi) sono da sempre "cosa loro", nel senso dell'intelligence USA. E allora tutto si spiega: mi riferisco in particolare agli ostacoli giudiziari all'accertamento della verità, come il caso Gelle o i molti depistaggi a cui in questi anni abbiamo assistito e che hanno dimostrato una intensità, una continuità e un livello mai visti se non per casi come Ustica, la strage di Bologna, il Moby Prince. Sin dal primo giorno dopo il delitto (chi conosce "le carte" lo sa) si è depistato per accreditare la tesi della rapina e escludere il delitto su commissione, che invece prevede dei moventi: e chi compie questo gioco di prestigio? Unosom, la cellulla dei Servizi di informazione di Unosom. E chi è Unosom? Unosom è "cosa loro", la finta uniforme degli USA per le cosiddette operazioni di ingerenza umanitaria a suon di carri armati e di missili.Un coinvolgimento mosso da “necessità nazionali” o maturate in ambito Nato? Ci sono indizi sufficienti e documentabili oltre ogni incertezza per affermare che il duplice delitto di Mogadiscio sia stato, per dirlacon le parole di Luciana Alpi, la mamma di Ilaria, concordato.Concordato in più sedi e a più livelli, all'interno di uno scacchiere internazionale ben definito e circostanziato che appare abbastanza evidente analizzando il contesto storico in cui matura. La contemporaneità della guerra nella ex Yugoslavia in primo luogo, il lavorio per predisporre l'ingresso di paesi dell'ex blocco comunista nella Nato (come Polonia e Lettonia), i rapporti, che definire contraddittori è davvero poca cosa, tra blocco occidentale e paesi musulmani (leggi Afganistan e Yemen), sono elementi che costantemente emergono se si analizza con lucidità la vicenda nel suo complesso, guardando l'orizzonte senza limitarsi a far la guardia al recinto dell'orto. La verità sul caso Alpi fa ancora paura dopo 21 anni e quanto si è messo in campo per impedire che venisse alla luce, ivi comprese le inutili conclusioni della commissione presieduta con disinvoltura da Carlo Taormina e sostenute dalla maggioranza di centro destra (anche se a dire il vero la “sinistra” non ha brillato), la dice lunga sul livello delle responsabilità che ancora devono essere coperte. Le prove ci sono. Il quadro è chiaro. Il disegno leggibile: basterebbe che ognuno facesse la sua parte fino in fondo.


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“UN TRAFFICO D’ARMI PER CONTO DELLA CIA”: L’ULTIMA VERITÀ SU ILARIA E MIRAN

Un’imboscata per eliminare due cronisti che facevano domande scomode. Le rivelazioni sulla morte della Alpi e di Hrovatin in una docu-fiction su Rai 3.

di DANIELE MASTROGIACOMO

NESSUNA rapina o tentativo di sequestro. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono caduti in un’imboscata. Un agguato studiato nei dettagli per mettere a tacere due giornalisti diventati troppo pericolosi. Grazie ad una soffiata della parte dei Servizi italiani rimasta legata al signore della guerra Mohammed Farah Aidid, il Tg3 della Rai avrebbe raccolto sufficienti indizi per smascherare un traffico d’armi clandestino portato avanti da due noti broker internazionali: il siriano Monzer al-Kassar e il polacco Jerzy Dembrowski. Il tutto in un territorio controllato dall’altro signore della guerra somalo, Mohammed Ali Mahdi, su cui avevano puntato gli Usa. Un traffico svolto per conto della Cia e gestito dalla flotta della società Schifco, donata dalla Cooperazione italiana alla Somalia per incrementare l’industria peschiera nell’Oceano Indiano del Corno d’Africa. Non è facile rievocare l’assassinio di Ilaria e Miran. Soprattutto dopo 21 anni da quella tragica esecuzione, avvenuta il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio. E’ stata esplorata in otto processi, indagata da quattro Commissioni parlamentari e conclusa, almeno da un punto di vista giudiziario, con una condanna a 26 anni nei confronti di un cittadino somalo, Hashi Omar Assan, che molti credono innocente.
Con una docu-fiction elaborata in oltre un anno di indagini che andrà in onda sabato prossimo su Rai 3 alle 21,30, gli sceneggiatori Claudio Canepari e Massimo Fiocchi, per una produzione Magnolia, sono riusciti a ripercorrere gli ultimi mesi di lavoro e di vita di Ilaria Alpi. Con il titolo “Ilaria Alpi  -  L’ultimo viaggio “, realizzato anche da Mariano Cirino e Gabriele Gravagna e raccontato dall’inviata Lisa Iotti, il video si snoda in un racconto chiaro, dal ritmo battente, con immagini del tutto inedite sui 200 giorni trascorsi in Somalia dalla giornalista del Tg3. Grazie alle riprese conservate dall’operatore Rai Alberto Calvi che ha sempre seguito con Ilaria l’operazione Restore Hope, rinunciando all’ultima, fatale missione, si scopre il lavoro costante della collega.
Solo la lettura degli atti desecretati, assieme alle testimonianze dello stesso Calvi, di Franco Oliva, l’ex funzionario della Farnesina spedito in Somalia per mettere ordine nell’attività della Cooperazione e vittima a sua volta di un attentato a cui è scampato per miracolo, il lavoro di Ilaria e Miran prende corpo e forma. Le rivelazioni di un ex appartenente alla “Gladio”, rete clandestina anticomunista, riempiono infine quei vuoti che né la magistratura né la Commissione di indagine erano riuscite a colmare, aprendo la strada all’agguato per rapina o sequestro.
Con uno scoop finale, grazie al contributo del giornalista Luigi Grimaldi. Quello che fa intuire il movente di un duplice omicidio. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin si erano avvicinati troppo ad un traffico che doveva restare segreto: riguardava anche la spedizione in Somalia di una partita di 5000 fucili d’assalto e 5000 pistole da parte degli Usa. Ufficialmente. Ma in realtà, attraverso una triangolazione che aggirava l’embargo decretato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel 2002, una partita destinata alla neonata federazione croata-bosniaca durante la guerra nell’ex Jugoslavia.
Due differenti carichi, trasferiti da navi della Lettonia a navi della Shifco sempre al largo della Somalia, sono segnalati in due rapporti delle Nazioni Unite del 2002 e del 2003. Il primo avviene il 14 giugno del 1992; il secondo nel marzo del 1994: è identico a quello registrato a bordo della “21 Oktoobar”, l’ammiraglia della flotta Schifco, la cui rotta è tracciata dai Lloyds fino al porto iraniano di Bandar Abbas. Di qui, avrebbe preso il largo verso la Croazia a bordo di un’altra nave. Ilaria a Miran moriranno pochi giorni dopo.
La “Farax Oomar”, l’altra nave della Schifco, con a bordo 2 italiani e ormeggiata a Bosaso su cui indagava la giornalista Rai, era ostaggio del clan di Ali Mahdi. Serviva come garanzia del pagamento della tangente per il traffico d’armi Usa-Italia destinato a Zagabria. Ilaria Alpi ignorava tutto questo. Ma aveva dei sospetti. Cercò di chiarirli nella sua ultima intervista al sultano di Bosaso: gli chiese se la “Farax Oomar” ormeggiata in porto era sotto sequestro. Una domanda fatale.
Nella docu-fiction basta osservare la reazione del capo tribù. Ilaria e Miran verranno attirati in una trappola con una telefonata di cui si ignora l’autore. Lasciano il loro albergo e si avventurano nella parte sud di Mogadiscio per raggiungere l’hotel Amana. Fanno qualcosa che non avrebbero mai fatto se non davanti a qualcosa di eccezionale. Dopo un agguato verranno freddati entrambi con un colpo alla nuca. Una vera esecuzione. Per mettere fine a quella curiosità e al riparo un segreto imbarazzante.

10 aprile 2015




[L'entrata in guerra dell'Italia al fianco della Germania nazista, allo scopo di procacciarsi un facile bottino, esattamente 75 anni fa, si risolverà in una drammatica disfatta.
Dall'Africa al Donbass al Kosovo, quasi come oggi, l'Italia vigliaccamente al rimorchio del più prepotente di turno, finisce per pagarne care le conseguenze. E non impara mai dai propri errori. (IS) ]


junge Welt (Berlin), Ausgabe vom 09.06.2015, Seite 12 / Thema

Bloß Juniorpartner


Am 10. Juni 1940 trat Italien an der Seite Nazideutschlands in den Krieg ein. Mussolini wollte sich einen Anteil an der Beute sichern, hatte sich indes zu unterwerfen und führte seine Armeen in den Untergang

Von Gerhard Feldbauer

Den Eintritt in den Zweiten Weltkrieg an der Seite Hitlerdeutschlands gab Benito Mussolini auf einer Massenkundgebung am 10. Juni 1940 in Rom bekannt. Vom Balkon des Palazzo Venezia, seines Regierungssitzes, brüllte er die Kriegserklärung an Großbritannien und Frankreich hinaus: »Volk Italiens! Zu den Waffen! Wir wollen die Ketten der territorialen und militärischen Ordnung, die uns in unserem Meer erwürgen, sprengen, weil ein 45-Millionen-Volk nicht wirklich frei ist, wenn es keinen freien Zugang zum Ozean hat.«

Ein Jahr vorher, am 22. Mai 1939, hatten die Außenminister Joachim von Rippentrop und Graf Galeazzo Ciano, in Anwesenheit von Hitler, in Berlin einen »Stahlpakt« genannten »Freundschafts- und Bündnisvertrag« unterzeichnet, mit der automatischen Festlegung der gegenseitigen Beistandspflicht – ganz gleich, aus welchen Gründen – direkt auf die danach begonnenen Aggressionen ausgerichtet. Damals hatte Mussolini geltend gemacht, militärische Konflikte in Europa bis 1943 unbedingt zu vermeiden, da Italien darauf nicht vorbereitet sei. Dazu konnte der »Duce« anführen, dass Italien bereits seit fast zwei Jahrzehnten kräftezehrende Eroberungskriege führte: 1922 bis ’34 in Libyen und 1935 bis ’36 mit einer halben Million Soldaten in Äthiopien. Außerdem war Rom mit bis zu 150.000 Mann, 8.000 Panzern und gepanzerten Fahrzeugen sowie 800 Kampfflugzeugen und 90 Kriegsschiffen personell stärker als Deutschland an der Niederschlagung der Spanischen Republik beteiligt und hatte zuletzt Albanien überfallen und als Kolonie okkupiert. Obwohl der Stahlpakt genaue militärische Absprachen vorsah, wurde Mussolini von Hitler über den bevorstehenden Überfall der Deutschen auf Polen erst kurz vor Beginn informiert. Mussolini lehnte eine Teilnahme ab.

Doch nun nahmen die Ereignisse einen Verlauf, mit dem der »Duce« nicht gerechnet hatte. Nach dem Blitzsieg gegen Polen erzielte die Wehrmacht weitere Erfolge gegen Dänemark, die Niederlande, Belgien und Norwegen. Als sie nach der Evakuierung der britisch-französischen Truppen am 4. Juni 1940 Dünkirchen einnahm (siehe jW-Thema vom 26.5.) und ihre Offensive in Frankreich fortsetzte, meinte Mussolini, »im September ist alles vorbei« und beschloss, in den Krieg einzutreten, um sich einen Anteil an der Beute zu sichern. Die italienischen Angriffe an der Alpenfront zeitigten jedoch kaum Erfolge. Bei den Waffenstillstandsverhandlungen mit Frankreich am 24. Juni 1940 in Rom konnte der »Duce« seine Ansprüche auf Korsika, Tunis und Djibouti nicht durchsetzen. Hitler billigte ihm nur einen kleinen Küstenstreifen an der Côte d´Azur zu. Nicht einmal Nizza wurde ihm überlassen. Ohne Anerkennung von Besitzansprüchen durfte Italien den Hafen von Djibouti benutzen.

Mit Italiens Kriegseintritt traten die bereits nach der Machtübernahme Hitlers sichtbar gewordenen Interessengegensätze offener zu Tage. Am 12./13. März 1938 hatte Mussolini die Annexion Österreichs, die er 1934 noch verhindert hatte, hinnehmen müssen.¹ Die deutschsprachige Bevölkerung Südtirols (Alto Adige, Oberetsch) hatte mehrheitlich die Einverleibung begrüßt. Mussolini musste am 21. Oktober 1939 einem Abkommen mit Hitler zustimmen, das allen Einwohnern, die es wünschten, die Aussiedlung gestattete. 86 Prozent entschieden sich für Deutschland. Bis 1940/41 verließen von damals 300.000 Reichs- bzw. »Volksdeutschen« jedoch nur 80.000 Südtirol. Unter den Bedingungen des Krieges wurde die Aussiedlung dann abgebrochen.

Überfall auf Griechenland scheitert

In dem von Hitlerdeutschland entfesselten Kampf um die Weltherrschaft erwies der wirtschaftlich und militärisch schwächere italienische Imperialismus sich dem raffinierteren, rücksichtsloseren und in Aggressionskriegen erfahreneren deutschen als unterlegen. Obwohl als Diktator ein Jahrzehnt länger an der Macht als der »Führer« musste der »Duce« sich deshalb schon bald mit der Rolle des Juniorpartners begnügen. So versuchte er als erstes, seine Großmachtansprüche auf dem Balkan zur Geltung zu bringen. Um Deutschland dort bei der Unterjochung der Völker zuvorzukommen und einen Teil der erhofften Eroberungen an sich zu reißen, fiel Mussolini von Albanien aus am 28. Oktober 1940 mit acht Divisionen, rund 105.000 Mann, und circa 400 Flugzeugen in Griechenland ein. Hitler war über den Angriff nicht informiert worden. Als Generalstabschef Pietro Badoglio das ansprach, entgegnete Mussolini: »Haben die uns vielleicht wegen des Norwegenfeldzuges irgendeine Mitteilung gemacht? Haben die es vorher angekündigt, als sie vorhatten, die Offensive im Westen anzufangen? Sie haben uns als nicht vorhanden betrachtet – und jetzt zahle ich es ihnen mit gleicher Münze zurück.«² Seine Offensive scheiterte jedoch an der unerwartet starken Abwehr der griechischen Armee, welche die Italiener in ihre Ausgangsstellungen zurückwarf. Den Hellenen kam zugute, dass die in die Divisionen Roms eingegliederten albanischen Bataillone teilweise zu ihnen überliefen, der Rest daraufhin entwaffnet wurde. Am 9. März 1941 startete der »Duce« den zweiten Versuch, Griechenland zu erobern. Eine Woche nach ihrem Beginn brach auch diese Offensive zusammen. Berlin war wiederum nicht informiert worden. Hitler soll, als er von dem Überfall erfuhr, einen »Tobsuchtsanfall erlitten haben«.³

Die Aggressionsplanung der Wehrmacht gegen die UdSSR sah zur Absicherung der Südostflanke den Überfall auf Jugoslawien und Griechenland vor. Hitler wartete zunächst ab. Dann zeichnete sich jedoch britische Unterstützung ab, und die Griechen setzten zu Gegenangriffen an. Die Sache wurde, wie Goebbels in seinen Tagebuchaufzeichnungen notierte, für Berlin allmählich peinlich. Da sein Achsenpartner vor aller Welt »richtiggehend verprügelt« wurde, startete die Wehrmacht im Vorfeld der Aggression gegen die UdSSR am 6. April von Bulgarien und Ungarn aus zum geplanten Überfall auf Jugoslawien und Griechenland. Die italienischen Truppen wurden von nun an dem Oberbefehl der Wehrmacht unterstellt. Nach außen wurde das Gesicht gewahrt und der »Duce« und das Comando Supremo bis zum Sturz Mussolinis am 26. Juli 1943 als Oberbefehlshaber ausgewiesen. Das griechische Fiasko verdeutlichte, dass Italien seine Expansionsziele nur noch mit deutscher Hilfe in Angriff nehmen konnte. Mussolini musste seine Pläne denen Berlins unterordnen, wobei sich Hitlerdeutschland die günstige strategische Lage Italiens als Sprungbrett zunutze machte, um den Balkan, Nordafrika und den Nahen Osten zu erreichen.

Abenteuerliche Vorstöße in Afrika

In Verkennung der militärischen Möglichkeiten hatte Mussolini bereits im Sommer 1940 mehrere Angriffe in Nord- und Ostafrika gestartet. Im Juli stießen seine Truppen nach Sudan und Kenia vor. Am 3. August fielen sie in Britisch Somaliland ein, das sie am 19. August mit der Einnahme von Berbera fast vollständig eroberten. Im September drangen sie von Libyen aus in Ägypten bis Sidi Barrani vor. Die abenteuerlichen Vorstöße scheiterten binnen kurzer Zeit. Sidi Barrani wurde am 10. Dezember von den Briten zurückerobert. Am 22. Januar 1941 nahm deren 8. Armee unter dem Oberbefehl von Bernard Montgomery Tobruk ein, am 8. Februar Marsa el Brega und El Agheila. Die Streitkräfte des Empire zerschlugen zehn italienische Divisionen und machten 130.000 Gefangene.

Am 18. Januar 1941 begann in Ostafrika unter britischem Oberbefehl zusammen mit äthiopischen Truppenteilen unter dem Kommando von Kaiser Hailé Selassié der Angriff auf Äthiopien, Eritrea und Italienisch-Somaliland. Nachdem Addis Abeba besetzt worden war, kehrte am 5. Mai 1941, auf den Tag genau sechs Jahre nach dem Einmarsch der Kolonialarmee Mussolinis, Kaiser Selassié in die Hauptstadt zurück. Am 18. Mai 1941 kapitulierten die italienischen Truppen in Ostafrika. Es war das Ende des ostafrikanischen Kolonialreiches, von dem aus der »Duce« nach der Eroberung Äthiopiens 1936 »die Kolonialkarte Afrikas ändern und damit die Frage der Neuaufteilung der Welt praktisch stellen wollte«?. Die völlige Niederlage wurde in Nordafrika vorerst durch das ab 6. Februar 1941 zu Hilfe geschickte deutsche Afrikakorps abgewendet. Erwin Rommel, der Befehlshaber der deutsch-italienischen Verbände?, konnte die Niederlage auf diesem Kriegsschauplatz jedoch nur hinauszuzögern.

An der Ostfront verheizt

An der Ostfront teilten die Italiener an der Jahreswende zu 1943 die furchtbaren Niederlagen der Wehrmacht. Bei der Aggression gegen die UdSSR musste Mussolini dem »Stahlpakt« nachkommen und Hilfsdienste leisten. Im Juli 1941 stellte er zunächst ein Korps von vier Divisionen zur Verfügung. Im Sommer 1942 wurde es um weitere acht Divisionen (Hitler hatte 20 gefordert) zur Armata Italiana in Russia (Armir) auf eine Stärke von 230.000 Mann aufgestockt, um die schweren Verluste der Wehrmacht in der Schlacht vor Moskau auszugleichen. Zusammen mit den Verbänden aus den Satellitenstaaten Ungarn und Rumänien hatte die Armir innerhalb der Heeresgruppe B am Don eine 270 Kilometer lange Frontlinie zu halten. An dem für ihre Personalstärke viel zu breiten Abschnitt traf sie die volle Wucht der im November einsetzenden sowjetischen Gegenoffensive. Als die Reste der von Paulus befehligten 6. deutschen Armee zwischen dem 31. Januar und 2. Februar 1943 im Kessel von Stalingrad kapitulierten, existierte auch die italienische Ostarmee schon nicht mehr. Ihre Divisionen wurden zwischen dem 11. und 22. Dezember in die verschneite Donezsteppe getrieben, dort eingekesselt und größtenteils vernichtet. Nach Italien kehrten nur einige tausend Soldaten zurück.

Schwerer als die katastrophale Niederlage wogen fast noch die Nachrichten, die vom Verhalten der Deutschen gegenüber den italienischen Soldaten kündeten. Selbst ein Bericht des italienischen Generalstabes befasste sich damit. Er besagte, dass die Wehrmacht die Italiener während des schrecklichen Rückzuges in der eisigen Steppe erbarmungslos ihrem Schicksal überließ, die deutschen »Verbündeten« den »Italienern stets jegliche Hilfe versagten, sich aller verfügbaren Kraftfahrzeuge bemächtigten, unsere Verwundeten ohne Transportmittel, ohne Nahrungsmittel und ohne erforderliche Versorgung zurückließen.« Als das Schicksal der ARMIR in Italien bekannt wurde, trug das im Frühsommer 1943 wesentlich zur wachsenden Antikriegsstimmung bei.

Der Mythos von der »Unbesiegbarkeit« der Hitlerwehrmacht war zerstört. Das führte unter den Trägern der faschistischen Diktatur Italiens zur Erkenntnis, dass der Krieg nicht mehr zu gewinnen war. Bereits im Vorfeld der Niederlage der Wehrmacht bei Stalingrad war Marschall Pietro Badoglio, der sich 1940 gegen den Kriegseintritt Italiens ausgesprochen hatte und nach dem Scheitern des Überfalls auf Griechenland als Generalstabschef des Heeres zurückgetreten war, aktiv geworden. Er hatte sich im November 1942 in Mailand in der Wohnung des Stahlunternehmers Enrico Falck mit führenden Industriellen und Größen der Faschistischen Partei getroffen, um ein Ausscheiden Italiens aus dem faschistischen Bündnis zu erörtern. Teilnehmer waren auch Vertreter der bürgerlichen Opposition, unter ihnen der spätere Ministerpräsident Alcide De Gasperi von den Christdemokraten. Danach kam es zu ersten Sondierungen mit Washington und London.


[PHOTO: Die »Armata Italiana in Russia« wurde von der deutschen Wehrmacht erbarmungslos verheizt und erhielt beim Rückzug keinerlei Hilfeleistung (italienische Kriegsgefangene, bewacht von Soldaten der Roten Armee im Dongebiet 1942)]

Mussolini beschlichen ebenfalls Zweifel am »Endsieg« der Wehrmacht an der Ostfront. Er zog jedoch andere Schlussfolgerungen. Am 1. Dezember 1942 äußerte er gegenüber Göring bei dessen Besuch in Rom, »dass auf die eine oder andere Weise das Kapitel des Krieges gegen Russland, der keinen Zweck mehr hat, abgeschlossen werden müsse«, um Kräfte für den Kampf gegen die Anglo-Amerikaner im Westen und im Mittelmeerraum zu gewinnen. Graf Ciano, der am 18./19. Dezember ins Führerhauptquartier »Wolfsschanze« flog, übermittelte Hitler den Standpunkt des »Duce«, zur Vermeidung eines Zweifrontenkrieges mit Russland gegebenenfalls zu einer Lösung der Art »neuer Brest-Litowsk-Friede« zu kommen, um größere Truppenmengen von der Ostfront abziehen zu können. Hitler entgegnete, das strategische Hauptziel bleibe nach wie vor, »den bolschewistischen Koloss zu zerschlagen«.?

Die deutschen Niederlagen an der Ostfront wirkten sich auf die deutsch-italienischen Verbände in Nordafrika aus. Für sie konnten keine erforderlichen Verstärkungen herangeführt werden, da alle Kräfte gegen die Rote Armee gebraucht wurden. Britische Flugzeuge und Schiffe, die vor allem von Malta aus operierten, versenkten 30 bis 40 Prozent des ohnehin nicht ausreichenden Nachschubs. Im Oktober/November 1942 führte das zum Scheitern der Offensive Rommels zur Eroberung Ägyptens, die weiter in den Nahen und Mittleren Osten führen sollte. Mit der Niederlage bei El Alamein, in der Rommels Panzerarmee über 50.000 Mann und einen Teil ihrer Panzer und Geschütze verlor, trat die Wende auf dem nordafrikanischen Kriegsschauplatz ein. Rommel führte Hitlers Befehl vom 2. November, »die Stellung bei El Alamein, ›koste es, was es wolle‹, zu halten« und »zu siegen oder zu sterben« nicht aus.? Er zog sich mit den verbliebenen Panzer- und motorisierten Verbänden 1.200 Kilometer nach Westen zurück, während die Infanteriedivisionen meist eingeschlossen und vernichtet oder gefangengenommen wurden. Badoglio hielt fest, dass, wie an der Ostfront auch bei El Alamein, »sich die Deutschen aller unserer Beförderungsmittel zur Beschleunigung ihres Rückzuges (bemächtigten) und die italienischen Abteilungen vor unüberwindlichen Schwierigkeiten« zurückließen.¹?

Die Eroberung von Tunis und Biserta durch deutsche Luftlandetruppen im November 1942 brachte nur vorübergehend eine Entlastung. Im März 1943 begannen die an Soldaten und Material weit überlegenen anglo-amerikanischen Truppen ihre Offensive. Sie endete am 13. Mai 1943 am Kap Bon nahe Tunis mit der Kapitulation der je zur Hälfte aus Deutschen und Italienern bestehenden noch 250.000 Mann zählenden Heeresgruppe Afrika, von der sich Rommel rechtzeitig abgesetzt hatte.

Wechsel zur Antihitlerkoalition

Mit der Landung der Alliierten am 9. Juli auf Sizilien brach die Krise des italienischen Faschismus offen aus. Nachdem der Krieg Italien wirtschaftlich ruiniert hatte, wuchs der Unwillen gegen die faschistische Bewegung nun nicht nur in Kreisen der Generalität und des Königshauses, sondern auch unter der Großbourgeoisie. Die Furcht, die von Kommunisten und Sozialisten dominierte Resistenza könnte in einem Volksaufstand Mussolini stürzen, führte im Juli 1943 dazu, dass sich die Verschwörer des »Duce« entledigten, um nicht in die Niederlage Hitlerdeutschlands hineingezogen zu werden.

König Vittorio Emanuele III., der sich der Palastrevolte anschloss, beauftragte Marschall Badoglio mit der Bildung einer neuen Regierung, die mit den Alliierten einen Waffenstillstand schloss und mit der Kriegserklärung an Deutschland am 13. Oktober 1943 auf die Seite der Antihitlerkoalition übertrat. Der auf dem Gran Sasso gefangengesetzte Mussolini aber wurde von einem SS-Kommando unter Sturmbannführer Otto Skorzeny befreit und bildete unter dem Besatzungsregime der Wehrmacht eine Marionettenherrschaft, die bis fünf Minuten nach zwölf Hitlerdeutschland in den Untergang folgte.

Dennoch machte Hitler Italien zum Sündenbock für die deutsche Niederlage. Dessen »effektive Ohnmacht« sei »Deutschland zum Verhängnis« geworden, äußerte er im April 1945 in seinem sogenannten Politischen Testament. Er kam auf die italienischen Misserfolge in Griechenland zurück und behauptete allen Ernstes, dass sich aus dem notwendigen Eingreifen der Wehrmacht die »unheilvolle Verspätung« des Russlandfeldzuges und die Niederlage an der Ostfront ergeben habe.

Anmerkungen

1 Als am 25. Juli 1934 die direkt der Führung in Berlin unterstellte SS-Standarte 89 in Wien nach der Ermordung von Bundeskanzler Engelbert Dolllfuß mit einem Putsch das Signal zum deutschen Einmarsch geben wollte, hatte Mussolini zur Unterstützung Österreichs, das er als seine Einflusssphäre und Sprungbrett auf den Balkan betrachtete, vier Divisionen an den Brennerpass geschickt. Hitler musste nachgeben und den Anschluss verschieben.

2 Pietro Badoglio: Italien im Zweiten Weltkrieg. München/Leipzig 1947, S. 52

3 Gerhard Schreiber: Deutsche Kriegsverbrechen in Italien. München 1996, S. 17

4 Bernhard Law Montgomery. Kriegsgeschichte. Weltgeschichte in Schlachten und Kriegszügen. Frechen 1968, S. 506 f.

5 Die strukturelle Bezeichnung war zunächst Panzergruppe, später Panzerarmee.

6 Roberto Battaglia/Giuseppe Garritano: Der italienische Widerstandskampf 1943–1945. Berlin/DDR 1970, S. 15

7 Ray Mosley: Zwischen Hitler und Mussolini. Das Doppelleben des Grafen Ciano. Berlin 1998, S. 182 ff.

8 Andreas Hillgruber (Hrsg.): Von El Alamein bis Stalingrad. Aus dem Kriegstagebuch des OKW der Wehrmacht, München 1964, S. 27

9 Ebd, S. 53

10 Badoglio, a.a.O., S. 54

Gerhard Feldbauer, früherer Italien-Korrespondent des Neuen Deutschland, schrieb auf diesen Seiten zuletzt am 28.4. über Mussolinis Ende.





(english / italiano)

LA GRECIA E LA JUGOSLAVIA

Il ministro del lavoro greco, Panos Skourletis (Syriza), ha affermato che contro il governo di Atene è stata scatenata "una guerra non dichiarata... sia dall'interno che dall'esterno" e che la situazione assomiglia a quella della Jugoslavia prima del bombardamento della NATO: "Stanno conducendo la stessa guerra a forza di bugie e propaganda"...



The Next Yugoslavia? Greek Minister Claims Europe at War With Athens

13.06.2015

European countries, international creditors and the Greek opposition have declared a war on Greece (resembling the one on Yugoslavia) but the government will stay true to its election promises, Labor Minister Panos Skourletis of Syriza said.

"The months following the elections were extremely hard. Never before has the government, which received a clear popular
 mandate, faced such a war waged against authorities from within and from abroad," he told Athens residents, adding that it is an undeclared war.
The situation resembles the one with Yugoslavia prior to the beginning of the NATO bombing campaign, Skourletis pointed out. "They are waging the same war with lies and propaganda," he said.

The aim of this campaign is straightforward, according to the official. These forces seek to "undermine public trust for the government forcing it to go back on its word and break election promises," he explained.
The labor minister pointed out that the government is doing its best to tackle the humanitarian crisis. It introduced a law on income support and will not cut wages and pensions. Pension supplements amounting to some $180 will also stay.
"The government will deliver on its promise. Syriza is a hard nut to crack. We will not back down," he said.
The Greek minister added that adversaries of the current authorities are trying to bring the government under control so that it would translate laws sent via email from English into Greek and put them to vote, like it had done before.
"The Greek people must unite [in the face of these developments]," he said.



(english / srpskohrvatski.
O istom temu procitajte dalje:
Offener Brief an die deutsche Bundeskanzlerin Frau Dr. Angela Merkel / Отворено писмо канцеларки Ангели Меркел
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8315

--- ENGLISH:

 Belgrade, June 2nd, 2015
 
WHAT DOES DR. ANGELA MERKEL’S VISIT TO BELGRADE BRING? 
 
Although the precise date of German Chancellor Dr. Angela Merkel’s visit to Serbia is still unknown, it is soon expected. There is little doubt this visit will prove to be very important, both for further development of bilateral relations between the two countries and the relations of Serbia and the European Union, the latter often referred to as Serbia’s European agenda. No less present will be the topics covering actual developments in the region. With the crisis in Greece unrelenting, the region is experiencing a new one – this time in FYRO Macedonia. Further to this, political extremism, organized international crime and terrorism are on the rise. The heroin-transiting route goes through FYROM, parts of Serbia, in particular Kosovo and Metohija, through Albania and some other countries in the region, to end up on the streets of all major cities in Western Europe. That same route is also a major corridor for the transit of tens of thousands of refugees from the Near East, the Middle East, and Northern Africa, including so-called political asylum seekers from the region. Scenes of badges and chants to so-called Greater Albania are on the rise on various occasions in Kosovo and Metohija, Albania, FYROM, and to a lesser degree so in Greece and Montenegro. 
Speak loudly or keep silent as one may, or downplaying the above or some other incidents, it seems that the region has plunged into times of serous turbulences, if not destabilization proper.
The questions are obvious: to which extent are these events spontaneous versus being orchestrated; to which extent are they consequences of vividly deep socio-economic crisis, or of mass unemployment and disorientation of the youth, and to which extent the result of out-of-region powers “pulling strings”; why the mechanisms of preventive actions were not activated; what are possible outcomes; in case of escalation and, possibly, even more severe development of situation, how to prevent spillover or domino-effect, as this could hardly be controlled or contained to this region alone?
We believe that this question will also be tackled in talks during the Belgrade visit of Dr. Angela Merkel. Further, we hope that the joint efforts will result in realistic and useful initiative and outcomes. Reference to joint efforts implies Serbia’s important geo-strategic position and capacity for partnership in areas and ventures of common interest. We deem that, in this, Serbia deserves by far greater understanding and support. 
While keeping the pace with the public and political developments, we believe we are not mistaken to infer that the major segment of public in Serbia holds that – and this is historically important – it would be most beneficial for reconciliation, greater understanding and overall wider cooperation, if Chancellor Merkel would find it appropriate to issue a public apology to the Serbian nation during this visit, for crimes and enormous devastation inflicted by German occupying forces during both World Wars and NATO aggression in 1999, where Bundeswehr has had a leading role.
Not only decades, but also a century has passed since; yet, the Serbian nation still deeply and painfully remembers it all, and feels for its millions-strong victims being ignored, as there has never been any remorse or apology declared by any German official. If we understand the Serbian public at all, the majority expects apology from Germany for the crimes committed by German occupiers on the territory of Serbia. After Russia and Poland, Serbia comes third by number of human casualties perished during World War Two, and, as is historical fact, has given a vast contribution to the Allied victory over Nazis and Fascists
The forthcoming visit of Dr. Angela Merkel is already seen as appropriate opportunity for a public apology also because it comes in the midst of the series of marking the 70thanniversary of the victory over Nazi-Fascism, the centenary of the World War One, and the 16thanniversary of NATO aggression.
Serbian people are aware that the highest German officials have already publicly apologized for the victims of Nazi-Fascism: to Poland (Chancellor Willy Brandt, in Warsaw), to France (in Oradour), to Greece (President Johannes Rau, in Kalavriti, 2000, President Joachim Gauck, in Ligkiades, 2014), to Czech Republic (President Gauck, in Lidice, 2014), to Italy (President Gauck, in Sant’Anna di Stazzema).
Indeed, it would be very difficult to explain that Chancellor Merkel’s official visit to the country and the nation that have so terribly suffered under occupation of Hitler Soldatesque, in the year of numerous jubilees, passes without due homage to the 70th anniversary of the victory over Nazi-Fascism, without tribute to millions of victims, and without public apology to the Serbian nation. This is paying a moral and civilizational debt to history, and also a far more important contribution to the reconciliation and the future, namely, the future of Serbian - German relations and the future of Europe. Here we talk about a Europe vying for reconciliation, and the vision of peace and equality. 
 

The Belgrade Forum for a World of Equals   
Dragomir Vučićević, retired Ambassador,
President of Assembly of the Belgrade Forum


--- SRPSKOHRVATSKI:



Иако још увек није саопштен прецизан датум посете немачке канцеларке Др Ангеле Меркел Србији, очекује се да ће се посета реализовати наредних дана. Нема сумње да ће посета бити веома значајна како за даљи развој билатералних односа две земље, тако и за односе Србије и Европске уније, или како се то најчешће говори - за европски пут Србије. Ништа мање биће присутне и теме о актуелном развоју у региону. Криза у Грчкој и даље траје, а регион је добио и нову – у Македонији. У порасту су политички екстремизам, организовани међународни криминали тероризам. Преко Македоније, делова Србије, посебно, Косова и Метохије, Албаније и неких других земаља региона, транзитира око 80% хероина који се нуди на западно-европском тржишту.То је уједно и један од главних праваца којим ка Западној Европи трнзитирају десетине хиљада избеглица са Блиског и Средњег Истока, Северне Африке, као и тзв. политички азиланти. Знамења и скандирања тзв.Великој Албанији све су присутнија у разним приликама на Косову и Метохији, Албанији и Македонији, нешто мање у Грчкој и Црној Гори. Штагод ко говорио, коликогод ћутао или умањивао поменута и друга догађања, чини се да је регион ушао у период озбиљних турбуленција, да не кажемо дестабилизације. Колико је све то спонтано, а колико дириговано; колико је последица драматично дубоке социјално-економске кризе, масовне незапослености и дезоријентације младих, а колико «повлачења канапа» сила изван региона;зашто нису покренути механизми превентивног деловања; шта из свега тога може да се изроди; како, у случају заоштравања и евентуалног још тежег развоја, спречити «изливања» и «преливања» која би било тешко контролисати и ограничити на регион? Верујемо да ће та и друга питања бити присутна и у разговорима током посете Др Ангеле Меркел Београду.Надајмо се да ће из тих заједничких напора произаћи реалне и корисне иницијативе и резултати. Из заједничких напора зато што Србија има важну геостратешку позицију и капацитете за партнерство у областима и подухватима од заједничког интереса. Сматрамо да јој је за то потребно далеко веће разумевање и подршка.

Пратећи јавни и политички живот, чини нам се да не грешимо ако кажемо да , велики део јавности у Србији оцењује да би за помирење, веће разумевање и још ширу сарадњу у свим областима било јако добро, историјски значајно, уколико би Канцеларка др Меркел нашла за сходно да се током посете јавно извини српском народу за злочине и огромна разарања немачких окупационих снага током Првог и Другог светског рата, као и током агресије НАТО 1999., у којој је Бундесвер имаоједну од водећих улога. Прошле су деценије, па и читав век, али је у српском народу још увек дубоко памћење свега тога и осећај потцењивања његових милионских жртава јер од представника Немачке нема изражавања кајања, нема извињења. Ако добро разумемо, јавност у Србији, највећи део те јавности, очекује извињење од Немачке за злочине извршене од стране немачких окупатора на територији Србије. Србија је, после Русије и Пољске, на трећем месту по броју људских жртава изазваних током Другог светског рата и дала је огроман допринос савезничкој победи над наци-фашизмом што су историјске чињенице.

Предстојећа посета Др Ангеле Меркел, оцењује се као прикладна прилика за јавно извињење због тога што се реализује у време обележавања 70-е годишњице победе над наци-фашизмом, 100-е годишњице Првог светског рата, као и 16-е годишњице агресије НАТО.

Јавности Србије је познато да су се највиши представници Немачке извинили за жртве наци-фашизма: Пољској (Канцелар Вили Брант, у Варшави), Француској (Орадур), Грчкој (Председници Јоханес Рау, Калаврити, 2000., Јоаким Гаук, Лингијадес, 2014.), Чешкој (Председник Гаук, Лидице, 2014.), Италији (Председник Гаук, Сент Ана ди Стацема).

Било би, заиста, тешко објашњиво да се званична посета Канцеларке Меркел земљи и народу који су толико пропатили под окупацијом хитлеровске солдатеске, у години јубилеја реализује без дужног осврта на 70-у годишњицу победе над наци-фашизмом, одавања поште милионским жртвама и јавног извињења српском народу.То је морални и цивилизацијски дуг према историји, али идалеко значајнији улог у помирење и будућност. Не само српско-немачких односа, већ у будућност Европе. Оне којој су данас насушно потребни помирење, визија мира и равноправности.

Драгомир Вучићевић


Амбасадор у пензији,
Председник Скупштине Београдског форума




(francais / english / italiano)


A TORTE IN FACCIA

Il pasdaran euro-atlantista Bernard-Henri Levy ("BHL"), ex "nuovo filosofo" sessantottino francese poi diventato propagandista di tutte le guerre imperialiste e neocoloniali, dopo le ultime esternazioni si è beccato quel che gli spetta...

BHL de nouveau entarté en Belgique au cri de « y en a marre »
Une vingtaine de personnes ont lancé des tartes à la crème au visage de BHL présent à l'église Saint-Loup à Namur dans le cadre d'un dialogue croisé avec Jan Fabre. Malgré la présence de ses deux gardes du corps, "BHL", criant "Non, y en a marre", a reçu de la crème chantilly sur le visage, les cheveux et son costume...

Bernard-Henri Levy: European leaders may be abandoning Ukraine (Interview - Kyiv Post, May 25, 2015)
... "You are close to President Petro Poroshenko. Have you shared this with him?" 
"Let me say, first, that the more I see of President Poroshenko the more I am struck by his calm, his determination, and his independence..."
http://www.kyivpost.com/opinion/op-ed/bernard-henri-levy-european-leaders-may-be-abandoning-ukraine-389421.html 

Intransigenti filo ucraini e democratici d’occasione. Bernard Levy & Soros (di Michele Marsonet, 7 febbraio 2015)
Beffa: quei due proposti sui grandi quotidiani come nobili difensori degli ideali liberal-democratici...
http://www.remocontro.it/2015/02/07/intransigenti-filo-ucraini-democratici-doccasione-bernard-levy-soros/ 

De Sarajevo à Gaza : impostures et palinodies de Bernard-Henri Lévy (23 juillet 2014)
Bernard-Henri Lévy est un « grand ami » de Sarajevo et de Bakir Izetbegović, tandis que Milorad Dodik est un « grand ami » d’Israël... Mais comment donc s’y retrouver quand les amis de mes ennemis sont mes amis ?! Depuis Sarajevo, Vuk Bačanović décrypte les incohérences et les hypocrisies de la « pensée BHL »...
http://balkans.courriers.info/article25345.html

Pourquoi Bernard-Henri Lévy se tait-il sur la Libye ? (Vicenç Navarro, 27.11.2013)
Les opinions en matière de droits de l'homme de Bernard-Henri Lévy sont marquées par le deux poids deux mesures, ne manquant jamais d'épouser les lignes de la politique internationale menée par le gouvernement fédéral des États-Unis et par l'Union européenne... 





Alatri (FR), sabato 6 giugno 2015
alle ore 9.00 presso la Sala della Biblioteca Comunale - Palazzo Conti Gentili

PROGETTARE IL PASSATO
Convegno di studi sul campo di concentramento per jugoslavi de "Le Fraschette"

Intervengono:
Alessandra Kersevan - storica
Costantino Di Sante - storico
Paolo Cestra - responsabile settore Pianificazione Territoriale del Comune di Alatri
Maria Combusti - architetto
Mario Costantini - autore del testo "LE FRASCHETTE da campo di concentramento a luogo della memoria"
Marilinda Figliozzi - coautrice del testo "LE FRASCHETTE DI ALATRI da campo di concentramento a centro raccolta rifugiati e profughi"

Evento organizzato dall'A.N.P.C. Associazione Nazionale Partigiani Cristiani - Presidenza provinciale di Frosinone e patrocinato dal Comune di Alatri e con la collaborazione del liceo "Pietrobono" e dell'istituto "Pertini"

SUL CAMPO DELLE "FRASCHETTE" VEDI ANCHE: https://www.cnj.it/documentazione/CAMPITA/fraschette.htm


===

Roma, sabato 10 giugno 2015
alle ore 16:30 presso l'Aula Conversi dell'Istituto di Fisica, Univ. "La Sapienza"
Città Universitaria, P.le Aldo Moro


Guerre, imperialismo, mass-media, manipolazioni e rivoluzioni colorate
IL NEOCOLONIALISMO E LA FUNZIONE STRATEGICA DELLA
SINISTRA IMPERIALE

CONVEGNO PUBBLICO
Intervengono:
MICHEL COLLON - saggista e giornalista indipendente
GERALDINA COLLOTTI - giornalista e militante
VLADIMIRO GIACCHE' - economista e saggista





"WE ARE THE WAR..."

I Ministri degli Esteri della NATO credono di essere intonati.
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=VqaeriPlYDQ

Russia unimpressed with NATO’s ‘We are the War’ performance (Al Gurnov, RT, May 20, 2015)
... When NATO foreign ministers, after a banquet in Turkey, let their hair down and sang“We Are the World,” people around the world heard instead the words, “We are the WAR” ...





CNJ-onlus aderisce alla campagna GUERRA ALLA GUERRA.
Si tratta del tentativo, promosso dalla Rete dei Comunisti, di riavviare la mobilitazione contro la guerra, costituendo un coordinamento tra le iniziative antimilitariste "sopravvissute" nel contesto nazionale, data la delicatezza e pericolosità dello scenario globale attuale: strumentalizzazione del problema dei "barconi" e minacce di nuova guerra alla Libia, continue stragi saudite/wahabite in Yemen, Siria e altrove, propaganda antirussa alle stelle e, ovviamente, progetti di Grande Albania e ri-destabilizzazione nei Balcani... Andare oltre l' "antiamericanismo" e riconoscere i pericoli derivanti anche dal complesso di interessi europei e dal rinato imperial-revanscismo tedesco in particolare.

Trovate di seguito i materiali relativi ad alcune delle iniziative già in programma: 
* Assemblea Cittadina a BOLOGNA 27/5
* Manifestazioni a ROMA, BOLOGNA e PISA per il 2 GIUGNO festa della Repubblica


=== BOLOGNA MERCOLEDÌ 27 MAGGIO 2015 
alle ore 20.30 presso la Sala Consiliare - Giardino Lorusso, Via dello Scalo 21, Bologna:

ASSEMBLEA CITTADINA: GUERRA ALLA GUERRA

La pace in Europa non è più un dato scontato
L’imperialismo dell’Unione Europea è una minaccia per i propri popoli.
Fermiamo la guerra e opponiamoci ad ogni interventismo militare
 
Coordina Carlos Venturi (Rete dei Comunisti Bologna) 
Partecipano: 
Marco Santopadre (RdC) 
con un report dalla Carovana di solidarietà antifascista in Donbass
Partecipano:
Campagna Noi Restiamo
Ross@
Comitato Ucraina antifascista (Bo)
PCL
Comitato Naz. per la Jugoslavia (onlus)

Vedi volantino allegato
Si raccomanda la massima partecipazione e diffusione dell’appuntamento


=== BOLOGNA MARTEDI 2 GIUGNO 2015
alle ore 10:00 in Piazza 8 Agosto, Bologna

2 GIUGNO - DICHIARIAMO GUERRA ALLA GUERRA

L’articolo 11 della Costituzione proclama il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Nella realtà, il coinvolgimento dell’Italia negli scenari della “guerra globale” è crescente e multiforme: dalla partecipazione dirette alle missioni militari, alla concessione delle basi militari in territorio italiano alle guerre USA e NATO nel Mediterraneo e nel Medio-Oriente, non trascurando l’aumento folle delle spese militari per l’ammodernamento dell’arsenale bellico. Insomma, tutta la politica estera del nostro paese è intrisa della scelta bellica, con una chiara responsabilità in devastazione e massacri sempre meno occultabile. L’Italia permane il solido alleato di Stati apertamente impegnati in politiche di aggressione contro altri Stati sovrani e popolazioni civili inermi. Ciò avviene per Israele contro la Palestina e l’Arabia Saudita contro lo Yemen, o con il sostegno agli “amici della Siria” coalizione complice degli jihadisti (contro cui combatte l’eroica resistenza curda), ma anche in Europa con il sostegno ai golpisti internamente alleati ai nazisti al potere in Ucraina e in guerra per impedire la autodeterminazione delle repubbliche indipendenti ed antifasciste.

MOBILITARSI AFFINCHE’ L’ITALIA ESCA DALLA SPIRALE DI GUERRA 
La guerra era e resta sempre solo strumento di distruzione e morte; le devastazioni di intere regioni, i crimini perpetrati contro moltitudini di esseri umani la cui unica colpa è quella di essere nati nelle “parti sbagliate” del globo hanno visto il proliferare di meccanismi di sostegno ideologico agli interventi militari e di mistificazione della loro reali motivazioni, sotto la coltre della guerra umanitaria e di liberazione dai regimi tirannici, operazioni alimentate in modo pressoché unanime da tutto il mondo dell’informazione occidentale. Nel nostro paese inoltre l’assunzione piena della legittimità della “guerra umanitaria o per l’estensione della democrazia” nell’orizzonte politico della maggiore forza politica di derivazione progressista, il Partito Democratico, ha indebolito notevolmente la diffusione di analisi critiche di stimolo alla mobilitazione di massa contro la guerra, che per decenni ha rappresentato una prerogativa
dei movimenti.

RIANNODARE LE RETI DELLA SOLIDARIETA’
Il 2 giugno data della festa della Repubblica, è l’occasione per promuovere una giornata di mobilitazione nazionale contro la guerra, articolata nelle realtà territoriali, concepita come contraltare alle parate militari, rimettendo al centro dell’attenzione il carattere pacifista e antifascista della nostra Costituzione.

COSTRUIAMO LA GIORNATA NAZIONALE CONTRO LA GUERRA
L’ITALIA RIPUDIA LA GUERRA E I GUERRAFONDAI

PER QUESTO LANCIAMO L’APPUNTAMENTO PER IL 2 GIUGNO ORE 10.00
PIAZZA 8 AGOSTO A BOLOGNA

Prime adesioni: Rete dei Comunisti Bologna, Noi Restiamo, Ross@ Bologna, Partito Comunista dei Lavoratori Bologna, Partito comunista d'Italia Bologna, Comitato Palestina Bologna, Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia Onlus, Comitato Ucraina Antifascista Bologna …
Per adesioni: retedeicomunistibologna@...


=== ROMA MARTEDI 2 GIUGNO 2015

DA ROMA UN APPELLO PER UNA GIORNATA NAZIONALE CONTRO LA GUERRA IL 2 GIUGNO

L’articolo 11 della Costituzione proclama il ripudio della guerra come
strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Nella realtà, il
coinvolgimento dell’Italia negli scenari della “guerra globale” è crescente
e multiforme: dalla partecipazione dirette nelle missioni militari, alla
concessione delle basi militari in territorio italiano alle guerre USA e
NATO nel Mediterraneo e nel Medio-Oriente, non trascurando l’aumento folle
delle spese militari per l’ammodernamento dell’arsenale bellico.

Insomma, tutta la politica estera del nostro paese è intrisa della scelta
bellica, con una chiara responsabilità in devastazione e massacri sempre
meno occultabile. L’Italia permane il solido alleato di potenze straniere
apertamente impegnate in politiche di aggressione contro stati sovrani e
popolazioni civili inermi. Ciò avviene per Israele contro la Palestina e
l'’Arabia Saudita contro lo Yemen, o con il sostegno agli “amici della Siria”
coalizione complice degli jiadisti (Contro cui combatte l’eroica resistenza
curda), ma anche in Europa con il sostegno ai golpisti internamente alleati
ai nazisti al potere in Ucraina e in guerra contro le autoproclamate
repubbliche indipendenti ed antifasciste.
ALLORA E’ ORA DI MOBILITARSI AFFINCHE’ L’ITALIA ESCA DALLA SPIRALE DI GUERRA
IN CUI E’ IMMERSA

Lo scenario della competizione economica, industriale, commerciale,
finanziaria deborda sempre più frequentemente in guerra militare, ponendo in
fibrillazione gli istituti politici e militari sopravvissuti alla guerra
fredda, ONU E NATO in primis, il primo, incapace di fungere da camera di
compensazione delle forze in campo; la seconda, diventata una alleanza di
guerra proiettata ad invadere territori di paesi sovrani.

La costituzione dell’Unione Europea , in quello che comunemente si definiva
come il campo occidentale, in veste di competitore globale e portatore di
interessi materiali non sempre armonizzabili con quelli della superpotenza
USA è l’aspetto peculiare con cui il movimento contro la guerra è chiamato a
confrontarsi.
La distruzione e la conseguente tribalizzazione delle entità statali in
Iraq, Libia, Siria rispondono ad un preciso disegno di dominio
geo-strategico perseguito dagli USA in proprio o in ambito NATO, che lascia
sul campo i suoi frutti avvelenati principalmente ai suoi “alleati europei”,
vedi situazione in Libia, dove il nostro paese è storicamente coinvolto.

La guerra era e resta sempre solo strumento di distruzione e morte ; le
devastazioni di intere regioni, i crimini perpetrati contro moltitudini di
esseri umani la cui unica colpa e quella di essere nati nelle “parti
sbagliate” del globo hanno visto il proliferare di meccanismi di sostegno

ideologico agli interventi militari e di mistificazione della loro reali
motivazioni, sotto la coltre della guerra umanitaria e di liberazione dai
regimi tirannici, operazioni alimentate in modo pressoché unanime da tutto
il mondo dell’informazione occidentale. Nel nostro paese inoltre
l’assunzione piena della legittimità della “guerra umanitaria o per
l’estensione della democrazia” nell’orizzonte politico della maggiore forza
politica di derivazione progressista, il partito democratico, ha indebolito
notevolmente la diffusione di analisi critiche di stimolo alla mobilitazione
di massa contro la guerra, che per decenni ha rappresentato una prerogativa
dei movimenti.
Allora riannodare le reti della solidarietà e della denuncia che, pur in
condizioni di difficoltà, sono attive può essere il punto di rilancio del
movimento contro la guerra: dalla denuncia dell'’ignavia della politica di
fronte alla tragedia quotidiana degli annegamenti dinanzi alle nostre coste
di derelitti in fuga dalla guerra ( di cui il nostro paese è direttamente
responsabile); alla contestazione di tutta la politica estera italiana e dei
processi di militarizzazione dei nostri territori ( da ultimo il MUOS in
Sicilia).
Comitati di solidarietà internazionali con le vittime delle guerre e
comitati territoriali impegnati in battaglie contro la presenza delle basi
militari, delle armi di distruzione di massa e delle politiche di incremento
delle spese belliche possono costituire la base materiale per la
ricostruzione del protagonismo di massa contro la guerra.

Il 2 giugno data della festa della Repubblica, può essere l’occasione per
promuovere una giornata di mobilitazione nazionale contro la guerra,
articolata nelle realtà territoriali, concepita come contraltare alla
parata militare sui Fori Imperiali, rimettendo al centro dell’attenzione il
carattere pacifista e antifascista della nostra Costituzione.
Una giornata che si svolga in ogni luogo d’Italia con le iniziative ritenute
idonee, presidi, volantinaggi marce, ecc., in prossimità di luoghi simbolo
della militarizzazione e delle vittime delle politiche belliciste, caserme,
CIE, CPT.

Costruiamo la giornata nazionale contro la guerra!
L’Italia ripudia la guerra e i guerrafondai!!!

RETE NOWAR
COLLETTIVO MILITANT
RETE DEI COMUNISTI
COMITATO CON LA PALESTINA NEL CUORE
COMITATO PER IL DONBASS ANTINAZISTA
PCDI
ROSS@


=== PISA MARTEDI 2 GIUGNO 2015

MOBILITAZIONE CONTRO LA GUERRA

ORE 18 PRESIDIO IN CORSO ITALIA 
(zona Logge di Banchi, di fronte farmacia Petri) 

Condividiamo e sosterremo contenuti e obiettivi dell’appello nazionale per una giornata di mobilitazione contro la guerra il 2 giugno e quelli della campagna per l’uscita dell’Italia dalla NATO: http://contropiano.org/documenti/item/30706-appello-per-un-mobilitazione-contro-la-guerra-il-2-giugno
In continuità con le lotte del recente passato, lo faremo tornando a denunciare il ruolo centrale che giocano le basi militari, la ricerca universitaria e le industrie di vecchio e nuovo insediamento a Pisa. Parliamo della base militare statunitense di Camp Darby, dell’Hub all’aeroporto militare dall’Oro, del ComFoSe (Comando Forze Speciali), quest’ultimo insediato recentemente all’interno della caserma dei parà Gamerra. Intorno a queste basi cresce un’economia di guerra fatta d’industrie specializzate (IDS droni per truppe speciali), d’investimenti infrastrutturali (darsena pisana, scolmatore, porto di Livorno) di finanziamenti milionari a una ricerca al servizio delle tecnologie duali (Scuola Superiore S.Anna).

Questo succede - a Pisa come in tutta Italia - nonostante l’articolo 11 della nostra Costituzione proclami il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. 
Il coinvolgimento dell’Italia negli scenari della “guerra globale” è crescente e multiforme: dalla partecipazione diretta nelle missioni militari, alla concessione delle basi militari in territorio italiano, alle guerre pianificate dall’Unione Europea, dagli USA e dalla NATO nel Mediterraneo, in Medio-Oriente e nell’Est europeo. In questo senso, sosteniamo la campagna per l'uscita dell'Italia dalla NATO per un’Italia neutrale “No guerra No NATO”.
In una situazione di crisi economica sempre più devastante per le classi popolari, queste scelte di guerra costano alle casse dello Stato italiano oltre 80 milioni di euro al giorno, che mancano alla sanità, alla scuola, ai servizi sociali, al lavoro, alla sicurezza del territorio. 

OCCORRE QUINDI TORNARE A MOBILITARSI AFFINCHE’ I NOSTRI TERRITORI ESCANO DALLA SPIRALE DI GUERRA IN CUI SONO IMMERSI

I crimini perpetrati contro centinaia di milioni di esseri umani la cui unica colpa è di essere nati nelle “parti sbagliate” del globo sono usati per sostenere ideologicamente nuovi interventi militari, mistificando le loro reali motivazioni. Sotto la coltre di “interventi umanitari” per difendere la popolazione dall'Isis, un terrorismo finanziato dall'imperialismo Usa e dai suoi alleati Arabia Saudita, Qatar, Israele, si prepara la prossima operazione militare in Libia. La tragedia quotidiana degli annegamenti dinanzi alle nostre coste di derelitti in fuga dalle guerre si trasforma così in una nuova occasione di aggressione, finalizzata a difendere gli affari delle multinazionali del petrolio come Total, ENI, BP, EXXON, non certo chi fugge e muore in mare.

Per tutto questo Il 2 giugno data della festa della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista, sarà una giornata di mobilitazione nazionale contro la guerra, anche a Pisa.

PRIME ADESIONI: COMITATO NO HUB, CIRCOLO AGORA’, ROSS@ PISA, RETE DEI COMUNISTI, SEZIONE E.BERLINGUER, GIOVANI COMUNISTI-PRC, CIRCOLO CHE GUEVARA PONSACCO (PI)

Per adesioni: agorapi@...




(deutsch / srpskohrvatski)

Živadin Jovanović an Angela Merkel

1) Offener Brief an die deutsche Bundeskanzlerin Frau Dr. Angela Merkel / Отворено писмо канцеларки Ангели Меркел
2) Може ли Србија да испоручи све а не добије ништа? Шта су САД добиле санкцијама против Русије
3) Албанија и Бугарска желе делове македонске територије, може се умешати и Турска


=== 1 ===


Ihre Exellenz
Frau Angela Merkel
Kanzlerin der Bundesrepublik Deutschland
Berlin
Deutschland

Belgrad, den 26. Mai 2015

Sehr geehrte Frau Bundeskanzlerin,
aus unseren Medien haben wir erfahren, dass Sie demnächst einen offiziellen Besuch der Republik Serbiens abstatten werden. Es ist ein großer Wunsch von uns allen, dass Ihr Besuch und Ihre Gespräche mit den führenden politischen Vertretern Serbiens zur Vetiefung der gegenseitigen Beziehungen unserer Länder und Völker beitragen werden.
Unser Belgrader Forum für die Welt der Gleichberechtigten, ein unabhängiger, nicht parteigebundener und nicht profitorientierter Verein, möchte zum Ausdruck bringen, dass Ihr Besuch im Zeitraum des Gedenkens an 70 Jahre nach dem Sieg ueber den Nazifaschismus und an 16 Jahre nach der NATO-Aggression gegen Serbien und Montenegro zustandekommt.
Ungeachtet weiterer Folgen wollen wir Ihre Aufmerksamkeit darauf lenken, dass in beiden Kriegen auch eine sehr große Anzahl an Kindern ums Leben gekommen ist.
Wir sind zutiefst davon überzeugt, dass Sie den 1941. von Faschisten erschossenen 300 Schülern und Professoren des Gymnasiums der Stadt Kragujevac und den beim NATO–Angriffums Leben gekommenen Kindern durch eine Blumengabe in der Gedenkstätte ŠUMARICE Kragujevac und am Denkmal im Park TAŠMAJDAN in Belgradeine große Ehre erweisen würden.
Die serbische Öffentlichkeit würde sicher solche symbolische Gesten als wichtige und staatsmännisch verantwortliche Schritte zur Versöhung und Verständigung positiv aufnehmen.
Dies verdienen nicht nur die immensen Opfer Serbiens, sondern auch die großen und bedeutenden Persönlichkeiten der serbischen, deutschen und europäischen Kultur wie Vuk Stefanović Karadžić, Gebrüder Grimm und Johann Wolfgang Goethe. Ihr Werk stellt ein leuchtendes und inspirierendes Vorbild für den Aufbau fruchtbarer Beziehungen und gegenseitiger Achtung des serbischen und deutschen Volkes.

Mit respektvoller Hochachtung 
Vorsitezender des Belgrader Forums
Živadin Jovanović

--- ORIG.:


Бр. 72/15

Веома поштована госпођо Савезна Канцеларко,

Из медија масовног комуницирања сазнали смо да ускоро долазите у званичну посету Републици Србији. Желимо да Ваша посета и разговориса највишим представницима Србиједоприносуразвојуи побољшању односа између наше две земље и њихових народа.

Београдски форум за свет равноправних, независно, нестраначко и непрофитно удружење, жели да примети да се Ваша посета остварује у време обележавања 70-е годишњице победе над наци-фашизмом и 16-е годишњице агресије НАТО на Србију и Цену Гору (март-јуни 1999). Не губећи из вида друге последице, желимо да скренемо Вашу пажњу на чињеницу да је у оба рата страдао велики број деце. Зато смо дубоко уверени да би било прикладно уколико бисте, поводом 70-е годишњице победе над фашизмом током Ваше посете нашли време да положите цвеће у Спомен парку „Шумарице“, Крагујевац, у коме су наци-фашисти 1941. године стрељали око 300ђака Крагујевачке гимназијеи њихових професора. Једнако би било прикладно уколико бисте поводом 16-е годишњице напада НАТО положили цвеће и код Споменика палој деци, у парку „Ташмајдан“, у Београду.

Најдубље смо уверени да би ови симболички гестови били поздрављени у српској јавности као важан и државнички одговоран корак у правцу помирења и разумевања. То заслужују огромне жртве народа Србије, али ништа мање ивеликани српске, немачке и европске културе, као што су Вук Стефановић Караџић, браћа Грим, Јохан Волфганг Гетечија су дела светао пример и инспирација за изградњу односа узајамног поштовања између српског и немачког народа.

Примите, госпођо Савезна Канцеларко, изразе нашег најдубљег поштовања.


Њена Екселенција
Др Ангела Меркел
Савезни канцелар Савезне Републике Немачке
Берлин
Немачка

Председник Београдског форума
Живадин Јовановић



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Живадин Јовановић

У јавности се провлачи теза да Србија, ако жели у ЕУ што је проглашено за национални и државни приоритет, мора и да уведе санкције Русији јер је то део заједничке, или јединствене, спољне политике ЕУ. Притом се, намерно или због незнања, изоставља да је заједничка спољна и безбедносна политика ЕУ и даље, добрим делом, циљ а не усаглашена и применљива стратегија. Питање је да ли унутар ЕУ и може доћи до консенсуса у погледу сваког конкретног спољно-политичког питања. Као што је познато, консенсус не постоји ни о питању признавања Косова и Метохије. Друго, Србија још није чланица ЕУ да би била у обавези да примењује чак и оно што чланице ЕУ, од случаја до случаја, усагласе. Треће, пријатељски, савезнички односи Србије и Русије уобличени током историје, заједнички корени у култури, језику и духовности представљају део идентитета српског народа и Србије. Очекивати од Србије да уведе санкције Русији било би равно захтеву да се Србија одрекне дела свог идентитета, што свакако није стандард ЕУ. Бар не декларисани. 
Иронично је да било ко у име ЕУ захтева од Србије, нечланице, да уведе санкције према Русији када у самој ЕУ расту отпори па чак и случајеви кршења тих истих санкција од њених чланица. Иронија је тим већа што сви знају да тзв. пут Србије ка ЕУ, превасходно ако не искључиво, зависи од одрицања од Косова и Метохије. Отуда иза захтева за увођење санкција према Русији треба видети жељу и стратегију САД да трајно одвоје Србију од Русије, да је лише руске подршке суверенитету и територијалном интегритету, бесцаринског извоза на руско тржиште, више милијарди евра вредних инвестиција, енергетске безбедбности (са, или без Јужног, Турског тока), да је потпуно оголе и загосподаре њеном тероторијом и ресурсима. Верујемо да до тога, ипак, неће нити може доћи, да ни моћна гошћа са севера, нити још моћнији домаћин нашег Премијера с оне стране Атлантика, неће наступити ауторитаристички. 
Србија жели добре односе са свима, али пре свега мора да опстане и да се развија као слободна и независна, на сопственим коренима и сопственом историјом. Србија зна да се то не постиже непрекидним одрицањем од својих животних интереса, нити прихватањем улоге монете за поткусуривање рачуна унутар ЕУ, између ЕУ и САД, или у односима Запад - Исток. СФРЈ је својевремено била монета за успостављање (привидног) јединства ЕУ (ЕЕЗ) уочи Мастрихта 1992. тако што је разбијена. Слична је била и судбина СРЈ. Србија нема права да прихвата улогу такве монете.

Потребно је да се Србија окрене себи, потребама и интересима које сама дефинише, да сачува и покрене своје ресурсе, за сопствено добро. Распродаја преосталих економских и природних ресурса била би фатална, тешко поправљива, грешка. Потврда да не схвата савремене процесе и да долази крај ере либералног капитализма. Одрицање од (преостале) слободе и суверенитета. Тотална неодговорност према долазећим генерацијама.
Србија је у много чему специфична. Њена савезништва и историјска искуства су јединствена. Историја њених односа и са ЕУ, НАТО и њиховим кључним чланицама, различита је од историје суседа. Зато је неутралност Србије природна, логична и једино одржива стратешка опција. Ту опцију треба развијати, јачати и уздићи на ниво уставног принципа. Теза да Србија не може седети на две столице, да се мора определити, у суштини, је хладноратовска и треба је одлучно одбацити. Она само привиднно једнако нуди једну или другу „столицу“, уствари, представља прикривен захтев да се Србија, без остатка, преда Западу (САД, НАТО, ЕУ).
Глобални услови и процеси данас су битно различити него почетком 90-тих. На једној страни, Империја и њени савезници чине све да сачувају доминацију стечене позиције и привилегије. Раст војних издатака, глобализација интервенционизма, енормни раст броја војних база САД/НАТО у Европи, прерастање НАТО-а из одбрамбеног у офанзивни. Растућа агресивност војног фактора само је видљив израз дубоких поремећаја система. На на другој страни, успостављају се нови феномени и распореди. Постепено се успоставља мултиполарни систем односа. Кина незадрживо израста у најмоћнију светску економску силу. Функционишу Шангајски савез, ОДКБ, ЕАУ, БРИКС, Г-20. Конституишу се нове глобалне финансијско-кредитне институције изван система Бретон-Вудса, нагрижена је монополска улога долара као светске монете. 
У тим условима, аналитичари и политичари све више размишљају о питањима као што су – за који од наведена два основна глобална процеса време ради, коме се и зашто жури, које су опције најпримереније за мале и средње земље? И многа друга. 
Србија никоме ништа не дугује, поготову не дугује ЕУ и НАТО-у. Велики број њихових чланица, поготову оне кључне, итекако дугују Србији – морално и материјално. Није јасно зашто се српске владе почев од 2000. до данас, држе снисходљиво пред њиховим комесарима, амбасадорима, министрима, зашто се толико примају на њихове празно звучеће комплименте? Када ће, на пример, да поставе питање накнаде ратне штете и затраже извињење за злочине из прошлости, укључујући и за агресију 1999.? Неће прихватити, неће се извинити? У реду, то зависи од њих. Нека одбију. Наљутиће се? Не желимо никога да љутимо. Зашто би се љутили они који су јавно признали да су грубо кршили међународне законе - НАТО, обожавани Герхард Шредер, Тони Блер и многи други! 
Што се Русије тиче, она се од њих не разликује само по томе што никада није ратовала против Србије, иако је то, разуме се, веома важно и тачно. Сарађивала је отворено, безусловно, пружала хуманитарну, економску и војну помоћ увек када је могла. Од почетка 2000. Србија је једини партнер изван ЗНД који на тржиште Русије извози без царине. Прошле године обележавали смо смо 100 година од почетка Првог светског рата. Подсетили смо се, поред осталог, и на то колико су велике заслуге Русија за спас српске војске и народа после албанске голготе. Ове године прослављамо 70 година од победе над наци-фашизмом. Подсећамо се огромних жртава српског народа и његовог незаменљивог доприноса победи над највећим злом у новијој историји цивилизације. Али, и чињенице да су, у завршници рата, Београд и делови Србије (Југославије) ослобођени заједничком борбом Народно-ослободилачке војске и Црвене армије. 
Тачно је, разуме се, и то да је Србија у оба светска рата имала и друге савезнике, оне са Запада. И њих поштује и цени. Тако ће остати. Крајем рата они су бомбардовали Србију и Црну Гору – Београд, Ниш, Прокупље, Приштину, Никшић, Подгорицу, да поменемо само неке градове - наносећи Србији огромне људске губитке и разарања. То се не може ни оправдати, ни заборавити. 
Током тзв. југословенске кризе, односно, разбијања СФРЈ, наши западни савезници су помагали сецесију бивших југословенских република, достављали им оружје (кршећи емгарго УН), обезбеђивали логистику, обавештајне податке, војне стручњаке, пропаганду, саветнике. Истовремено, Србију су „помагали“ – екскомуникацијом, изолацијом, санкцијама без преседана, сатанизацијом. Русија Јељцина и Козирјева учинила је велику грешку 1992. Гласајући за санкције СБ УН. С друге стране, Русија је све време трајања санкција слала велику хуманитарну помоћ Србији, а руска јавност, Руска Државна дума, интелектуална елита и други чиниоци руског друштва, су на све начине подржавали Србију (СРЈ), изражавали солидарност са српским народом. 
Центри моћи из најутицајнијих земаље чланица ЕУ и НАТО, су финансирали, обучавали и наоружавали терористичку ОВК годинама пре агресије 1999. Док су водеће земље Запада (САД, ВБ, Немачка) припремале оружану агресију, у савезништву са терористичком ОВК, подржавале сепаратисте, криминалаце са потерница и терористе на Косову и Метохији, Русија је подржавала изналажење мирног политичког решења, упозоравала на опасности од ширења тероризма, кршења принципа УН и ОЕБС-а. Током и после агресије НАТО, Руска влада је јачала пружање хуманитарне помоћи Србији и Црној Гори, покретала међународне акције. Зхваљујући Сергеју Шојгуу, тадашњег министра за ванредне ситуације, формирана је посебна међународна хуманитарна група – Русије, Грчке, Швајцарске – за финансирање, прикупљање и транспорт помоћи. 
У новије време Запад је, благо речено, покровитељ једностраног отцепљења Косова и Метохије. Оружаном агресијом и окупацијом извршио је припреме, да би потом иницирао једнострано отцепљење и признавање. Русија је осудила агресију НАТО као ударац на међународни правни поредак, кршење основних принципа УН, ОЕБС. Председник Владимир Путин континуирано упозорава да је отцепљење Косова и Метохије од Србије опасан преседан, а не „уникални случај“, како су говорили лидери Запада. Русија не признаје отцепљење Косова и Метохије, нити намерава то да учини, како јер ових дана у Београду потврдио и руски министар спољних послова Сергеј Лавров. „Уникална“ је изјава америчког председника Обаме да је одлука о отцепљењу Косова (и Метохије, прим.аут.) исправна јер је донета на референдуму(!). Да ли због незнања, или пристрастности и двоструких стандарда, мање је битно, али је свакако „уникална“!
Серијска разбијања СФРЈ, СРЈ и Србије, могу само за неупућене или злонамерне бити последица погрешно вођене политике српских политичара, неразумевања времена и нових односа после пада Берлинског зида. Реч је о дугорочној стратегији продирања на Исток и глобалне доминације САД. Дробљење, изнуривање и дезоријентација српског народа као политичког фактора на Балкану је последица те стратегије. 
Стратегија ширења на Исток и глобалне доминације је безизгледна, безизлазна и осуђена на пропаст. Она се већ враћа као бумеранг, најпре и најдиректније погађајући ЕУ, а потом и целу западну хемисферу.
Ако је Запад, на челу са САД, оружаном агресијом 1999. против СРЈ, узео залет за „стратешки скок“ на Исток (Русија, Централна Азија, Каспиј), онда је потпаљивањем пожара у Кијеву 15 година касније демонстрирао велики дефицит способности за оријентацију у новом времену и простору. 
Америчка стратегија изолације и кажњавања Русије доживела је неуспех. 
САД су најпре наметнуле своју одлуку о санкцијама савезничкој ЕУ, а онда их у јавности представиле као санкције тзв. међународне заједнице (читај НАТО/ЕУ) против Русије. Наводно, због руске агресије на Украјину. Суштински, циљ санкција је спречавање даље сарадње и повезивања ЕУ и Русије, изазивање економских проблема на обе стране, подстицање социјалних и политичких проблема у Русији, њена дестабилизација, а посебно - слабљење положаја Путина. Сукоби у Украјини су изазвани да би дали покриће и повод за санкције, дисциплиновање и увлчачење Европе у конфронтацију са Русијом. Узрок је – немирење САД са све осетнијим слабљењем утицаја и губљењем привилегија у глобалним односима.
А шта су САД и Запад добили? 
Прво, постало је јасно (што се од самог почетка могло и морало знати) да се тако велика тероторија као што је Русија, не може држати под санкцијама и изолацијом. Јер Русија има огромно унутрашње тржиште, ресурсе и стратешке партнере (земље БРИКС-а, на пример), којима не пада на памет да је кажњавају, односно, да се самокажњавају. Друго, Русија се брзо преоријентисала на развој сопствене индустрије и производње хране смањујући на тај начин зависност од увоза са Запада (ЕУ) и уједно, отклањајући дугорочну неуравнотеженост у економији која се ослањала, углавном, на производњу и извоз енергената и сировина. Треће, покушаји кажњавања и изолације Русије, лишили су западни бизнис приступа како руском тржишту за које немају рационалну алтернативу (близина), тако изворима стратешких сировина. Четврто, дошло је до убрзања и ширења сарадње Русије и Кине, као стратешких партнера - у развоју, енергетици, инфраструктури (нафтовод, гасовод, железнице), наоружању, финансијама (банкарству). Пето, даље је подгрејано питање да ли ЕУ и даље треба слепо да следи америчку политику и империјалне циљеве што, како пример санкција против Русије показује, наноси огромну, ненадокнадиву штету и заостајање Европе у развоју. И шесто, санкције су даље ојачале патриотску хомогенизацију руског друштва, унутрашњи и међународни престиж Путина. Нису ли то на свој начин потврдиле и манифестације у Москви и широм Русије, поводом прославе 70. годишњице победе над наци-фашизмом. 
Шта је од свега тога био циљ америчких санкција!? Које од горућих међународних проблема, од Украјине преко Сирије, Либије, Блиског и Средњег Истока, до међународног тероризма, организованог међународног криминала и пиратства –Запад може решити без сарадње са Русијом? Бумеранг санкција је очигледан. 
Потребно је да се Србија окрене себи, потребама и интересима које сама дефинише, да сачува и покрене своје ресурсе, за сопствено добро. Распродаја преосталих економских и природних ресурса била би фатална, тешко поправљива, грешка. Потврда да не схвата савремене процесе, да крај ере либералног капитализма није далеко. Одрицање од (преостале) слободе и суверенитета. Тотална неодговорност према долазећим генерацијама.
Србија је у много чему специфична. Њена савезништва и историјска искуства су јединствена. Историја њених односа и са ЕУ, НАТО и њиховим кључним чланицама, различита је од историје суседа. Зато је неутралност Србије природна, логична и једино одржива стратешка опција. Ту опцију треба развијати, јачати и уздићи на ниво уставног принципа. Теза да Србија не може седети на две столице, да се мора определити, у суштини, је хладноратовска и треба је одлучно одбацити. Она само привиднно једнако нуди једну или другу „столицу“, уствари, то је маскирани захтев да се Србија, без остатка, преда Западу (САД, НАТО, ЕУ).

Политика уравнотежених односа са свим важним међународним чиниоцима није илузија, већ реални, прави пут који успешно следе многе земље света. Србија је слободна и мирољубива земља која може успешно да сарађује и са чланицама НАТО и ОДКБ, као и са нечланицама, поготову са неутралним и несврстаним земљама, без обзира да ли су у суседству, или удаљене. Београд треба да остане отворен за евроинтеграције, да усваја универзалне стандарде, али је погрешно да чланство у ЕУ третира као питање живота, или смрти. 
Невероватно је како су политичари и медији само отварање преговарачких поглавља претворили у готово митски догађај који само треба да се деси што пре и онда ће све бити у реду! Нико не поставља питање колику цену Србија плаћа само за отварање и само на питању Косова и Метохије! Колико ће трајати преговори након отварања поглавља. Нисмо злослути, али зашто не бисмо бар, онако, успут, имали на уму и искуство Турске! Србија је, некако, увек у политици Запада третирана као изузетак. Наравно, не у позитивном смислу. 
Отварање поглавља условљава се и распакивањем Устава Србије. И поред свих политичких и медијских манипулација, јасно је да је питање броја посланика Народне скупштине, иако маргинално, џокер у кампањи придобијања подршке јавности. Да ли је неморално, обмањивати грађане да је мотив уставних промена уштеда на смањивању броја посланика са садашњих 250 на 150! Разуме се, да у земљи са са толико сиромаштва, беде и незапослености, доста људи у то поверује. Али, каквое време, какви су то људи који злоупотребљавају јадни положај доброг дела грађана, да им потурају кукавичје јаје! Утисак горчине тим је већи што се немуштим језиком избегавају одговори на питање - шта ће се друго мењати у Уставу. Поготову, нема одређене реакције на раширено уверење да је основни разлог промена – захтев ЕУ да се из Устава изостави преамбула због помињања Покрјине Косова и Метохије. На то и слична питања задужени координатори промена са провидним лицемерјем подсећају да су део демократског система у коме све мора да тече по процедури и без прејудицирања. Осим разуме се, кад је реч о смањивању броја посланика са 250 на 150. То се зна, израчунато је да ће се по том основу, годишње уштедети до два милиона евра „наших грађана“. Чак је израчунато и колико ће се нових радних места на тој уштеди отворити! Свака част! Колико бриге за „наше грађане“! 
А тек, шта се крије иза захтева за регионализацијом Србије? Колико ће бити аутономних региона? У којим областима ће се ширити надлежности покрајине Војводине, не само по захтеву Бојана Пајтића и политичара сличне оријентације, већ, посебно, на иницијативу подгрејаног и ојачаног „цивилног сектора“ „проевропске оријентације“ (читај: про-ЕУ, про-Сорошевих, про-НДИ, про-УСАИД фондова). Ако то не буде довољно да Војводина де-факто постане федерална јединица у Србији као некаквом савезу аутономних региона, или покрајина, припомоћиће „саветници“ из иностранства чији је статус већ легализован. (Кад смо се навикли на Тонија Блера, перјаницу агресије НАТО 1999. и расистичке сатанизације Срба, у улози саветника Владе, сви други представници ЕУ и „међународне заједнице“ којима је упућен општи, јавни позив, да прискоче у помоћ, биће право освежење, такорећи, уживање за српску јавност). 
Ако Србија за отварање поглавља испоручи све (и Косово и Метохију, и Устав, и преостале фирме, и Војводину као федералну јединицу, и регионе као нове аутономне покрајине, и подршку унитарној БиХ на рачун надлежности РС), шта ће и када добити за узврат? 
При садашњим конфликтним политичким и социјално-економским токовима унутар Србије, при одомаћеној дубокој умешаности страних фактора у унутрашње послове, при растућим апетитима агресивних и деструктивних снага у региону, при, мање или више, отвореним ревизионистичким апетитима неких суседа, при много чему другом, бојим се распакивања садашњег Устава маколиико сам свестан његових недостатака од дана када је усвојен. Када једном распакује свој садашњи Устав, питање је колико ће Србија бити у стању да обезбеди да његове промене буду усклађене са основним националним и државним интересима. 
ЕУ јесте опција и нека остане. Опција за чланство, али и опција за добросусество. Јер, ЕУ се не може похвалити историјатом разумевања за интересе Србије у последње две и по деценије. Погледајмо како се ЕУ огледала и како се данас огледа у огледалу Косова и Метохије, да ли поштује резолуцију СБ УН 1244 за коју је листом гласала; колико поштује и колико се залаже за примену Дејтонског, Ердутског, Бриселског или било којег другог споразума, када је реч о интересима Србије и српског народа; Колико је Еулекс „статусно неутралан“ у пракси; шта је ЕУ предузела, или шта предузима за слободан и безбедан повратак 250.000 протераних Срба и других неалбанаца у своје домове на Косову и Метохији; у каквој су пропорцији њене донације према више десетина милијарди евра које су из Србије исисале њене банке и корпорације од 2001. до данас?... Наша економија јесте повезана са немачким и фирмама земаља ЕУ. Колико Србија зарађује из те сарадње и ЕУ инвестиција, када ће преко те сарадње зарадити, на пример 51милијарду САД долара колико су у процесу куповине српског тржишта, посебно финансијског, зарадиле фирме из ЕУ? Најчешће ради о повезаности фирми из ЕУ са својим филијалама у Србији. Профит не остаје у Србији. Ако и остане, биће под контролом иностраних, а не српских корпорација. 
Потребно је да Србија у односима са свим другим земљама и интеграцијама поштује начело реципропцитета, боље, да се придржава начела - да су други потребни Србији само онолико колико ти други кроз праксу покажу, да поштују интересе Србије? 
Озбиљна политика не треба никога да проглашава као опцију без алтернативе. Једностране концесије и беспоговорна лојалност – ето нам колонијалног положаја. Комплименти страних фактора, поготову, ММФ-а и ЕУ комесара, лако могу да поведу, заварају. У принципу, свако се понаша и говори руковођен својим, не интересима Србије. И Србија друге треба да цени по томе колико разумеју и праведним компромисима допрносе њеним интересима. Једини објективни судија успеха или неуспеха једне политике је квалитет живота грађана Србије. 
Било би препоручљиво да се има у виду и могућност да Србија, из неког, данас можда теже видљивог разлога, не буде примљена у чланство ЕУ. Бескрајна листа условљавања, уцењивања и директног понижавања Србије, поодавно упућује да такву могућност не треба отписивати. Постоји и додатни разлог. У писму угледног немачког политичара Вили Вимера упућеног канцелару Герхарду Шредеру 2. маја 2000. године, поред осталог, цитиран је став представника Вашингтона који гласи: „Србију треба трајно држати ван европског развоја“. Засад сви знамо да је тај став поштован протеклих 15 година. Колики му је рок трајања?Србија се суочава са опасношћу да непрекидно испоручује све што се од ње тражи и што ће се тражити, а да не добије ништа. Не упозорава ли на то и салдо такозваних преговора о Косову и Метохији. Још од Тадића, Коштунице и Јеремића - до Вучића, Николића и Дачића.


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АЛБАНИЈА И БУГАРСКА  ЖЕЛЕ ДЕЛОВЕ МАКЕДОНСКЕ ТЕРИТОРИЈЕ, МОЖЕ СЕ УМЕШАТИ И ТУРСКА

„У Македонији постоје многи економски и социјални проблеми, пре свега незапосленост, и у томе се крије незадовољство које покушавају да искористе не за решавање социјално-економских проблема већ за спречавање повратка Русије на Балкан“,- каже министар иностраних послова СР Југославије (1998-2000) Живадин Јовановић.

Он је још крајем деведесетих на свом искуству осетио како отелотворени западни геополитички интереси заједно са милионима становника једноставно разарају државе. И нема сумње да ће део ове некада велике државе - мала Македонија - бити кажњена због одбијања увођења санкција Русији и због учешћа у енергетским пројектима.

„Премијер Груевски је подржао изградњу Турског тока. Значи, једна мала држава је подржала пројекат који није у складу са интересима САД и представља претњу америчкој стратегији да на узди држи Европу, користећи енергетске ресурсе и друге методе. Управо стога је Груевски добио опозицију и догађање народа“,- објашњава Живадин Јовановић.

(Преузето са:  http://fakti.org/rossiya/medija-menju/prvi-kanal-ruske-drzavne-televizije-o-americkom-podrivanju-makedonije)



(english / russkij / italiano)

Aleksej Mozgovoj, eroe antimperialista


Tra il 6 ed il 10 Maggio u.s. il Comandante Mozgovoj aveva consentito che la Carovana Antifascista della Banda Bassotti fosse ospitata ad Alchevsk, sotto la tutela della Brigata Prizrak ("Fantasma"), e si era imposto affinché il Forum AIS – Antifascismo Internazionalismo Solidarietà – si svolgesse regolarmente. Una delegazione del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS aveva partecipato ad entrambi gli eventi [ https://www.cnj.it/documentazione/ucraina/aisforum.htm ]. Di fronte alla scioccante notizia che un attentato di stampo mafioso due sere fa ha ucciso Mozgovoj ed altre sei persone, il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS si unisce al cordoglio dei miliziani, della popolazione di Alchevsk e degli internazionalisti del mondo intero. La figura di Mozgovoj resterà per sempre tra i simboli della lotta dei popoli contro l'imperialismo e il fascismo.


1) Vigliacca strage a Mihajlovka (Donbass/Novorossija), UCCISO IL COMANDANTE MOZGOVOJ
2) 27 MAGGIO: LE INIZIATIVE ad Alchevsk, Bologna, Milano, New York ...
3) BACKGROUND: Mozgovoj e la Brigata Prizrak, componente comunista nella Resistenza novorussa
4) Profilo di Aleksej Mozgovoj
A. Bogachev (kprf.ru), Colonel Cassad, A. Mozgovoj...
5) ANALISI
– Il Donbass tra competizione globale, resistenza antifascista e lotta di classe – di Marco Santopadre
– La sinistra russa che sostiene il Donbass – di Fabrizio Poggi

PER AGGIORNAMENTI NEI PROSSIMI GIORNI: https://www.cnj.it/documentazione/ucraina.htm#mozgovoj



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Il 23 Maggio alle ore 17:30 è stato compiuto un attentato al Comandante Alexei Borisovich Mozgovoi della Brigata Prizrak. Dopo l'esplosione di una mina, la macchina con il comandante di brigata è stata colpita da due PK ed uno o due RPK [mitragliatrici].
Nella macchina - il comandante di brigata Mozgovoy, la sua segretaria Anna, l'autista "Song" e le sue guardie del corpo "Canvas" e "Broom" - sono morte sul colpo. Gli assassini hanno colpito anche altre tre macchine, uccidendo due civili, inclusa una donna incinta.
Le autorità della Repubblica Popolare di Lugansk stanno investigando per identificare i criminali. Un report ufficiale del comando della Brigata Prizrak sarà annunciato a breve.
Alexey Markov, commissario dell'Unità dei comunisti combattenti, Brigata Prizrak.
InformBrigata 404

Fonte: Comitato per il Donbass Antinazista, 24/5/2015 
https://www.facebook.com/1464626327135220/photos/a.1464626383801881.1073741825.1464626327135220/1604811363116715/?type=1&theater
ORIG.: http://trueredrat.livejournal.com/13885.html

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Plotnitsky, presidente della Rep. Popolare di Luhansk: "Avevo vedute diverse dalle sue rispetto alle questioni politiche, ma nel combattere per la RPL eravamo fianco a fianco. La morte di Mozgovoy giova solamente alla junta di Kiev; invece di muoversi verso la pace e nel contesto degli accordi di Minsk, cercano di minare la stabilità politica delle nostre repubbliche e di spingere verso un percorso di instabilità, portandoci ad una nuova escalation del conflitto militare. Ordino all'Ufficio Generale della Procura della RPL, al Ministro degli Interni della RPL ed alla milizia popolare della RPL di usare una attenzione speciale nella ricerca di quelli che hanno compiuto questo assassinio."

Fonte: Truth about situation in Ukraine, 24.5.2015
The attack on Alexey Mozgovoy was an attack on all of us, the head of the Lugansk People's Republic Igor Plotnitsky told the Lugansk Information Center today.
“The attack on Alexey Mozgovoy and his companions was an attack on all of us, on the people that protect the LPR’s right to exist. I grieve with all who knew Alexey Borisovich Mozgovoy, and who were his close associates. I had different views from his on political matters, but in fighting for the LPR, we stood shoulder to shoulder. Mozgovoy’s death is only beneficial for the Kiev junta; instead of moving towards peace in the framework of the Minsk accords, they seek to undermine political stability in our republics and push us on a shaky path, leading us to a new escalation of the military conflict. I order the LPR Prosecutor's General Office, the LPR Ministry of Internal Affairs, and the LPR people's militia to special care in searching for those who carried out this assassination,” – Igor Plotnitsky said.

Source: Нападение на Мозгового стало нападением на всех нас – глава ЛНР (23.5.2015)

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Unit 404: The murder of Mozgovoy [sub ENG\ITA] (Voxkomm, 24.5.2015)
(parlano il comandante Piotr Biriukov "Arkadic" ed il commissario Alexej Markov "Dobrij")
ORIG.: Убийство Мозгового. "Arkadich" and "Dobrii" statement on the murder of Mozgovoy

TRAD.:


Ghost Brigade communist commanders' statement on assassination of Alexei Mozgovoi

Statement of Political Commander Alexey Markov and Military Commander Pyotr Biryukov, Volunteer Communist Detachment, Ghost Brigade Unit 404:

Alexey Markov: With great sorrow we have to communicate to our friends of Western Europe, the U.S., Latin America and Africa, that today around 17:30 an assassination attempt happened against our brigade commander Mozgovoi. 

His car was hit by an explosive and there were several machine-gun shots. Unfortunately, all the people in the car are dead: our brigade commander Alexei Mozgovoi, his spokesperson Anna, the guards Holst and Metla, the driver Pesnya.

We are not going to build a castle of conjectures about who stands behind this barbaric crime. The police will think about it. The command of the brigade will do everything possible to help the Republic find the murderers, those ones who, I am sure, will be punished. From our site we will assist in all possible ways. 

Pyotr Biryukov: The Ghost Brigade, and communist unit as part of it, will not disappear as a force against fascism. Our volunteers are the proof of this fact, and the people who help us, who trust us and rely on us to defend them.

One of the combatants of the brigade has been killed; the commander. But his work lives with us. We will carry it on. 

AM: Our flag resists. I am sure that the brigade flag will be seen in Lysichansk, Kharkov and Kiev very soon, and will be the best memorial for our commander.

PB: This will be an authentic memorial for him. 

However, if the enemy on the opposite side is happy, they are happy for nothing. We are not scared. Fire tempers steel. As communists, we declare it simply and unequivocally.

AM: They will not scare us. We know very well where we are going and what we can lose along the way – and what we are fighting for. Anyone who thinks we will be scared or stop or get lost is going to be disappointed very soon. 

We feel pain and grief now, but soon our pain will turn into anger. And on the front line our “very hated friends” from the opposite side … 

PB: … will feel this anger on themselves. The anger of our combatants.

AM: A person can be murdered, but not his ideas. The idea Alexei Mozgovoi had been carrying on since last year, the one which brought thousands of people to join us. With the death of one person, the ideas will not die. We are going to carry them through the war, through the misery, through the death. With these ideas, we will live, and build a better life. 

Unfortunately, the best things civilization brings are paid for with the blood and lives of many brave people. 

PB: The best people. 

AM: But if we were not ready to pay this price, humanity would still be wearing furs and smash each others heads with stone hammers. 

PB: Or split the community into nationalities or measuring the noses …

AM: Or skulls …

PB: Or burn itself in the furnaces of Auschwitz.

AM: Our foreign friends can be sure that the communist brigade exited, exists and will exist as long as it serves Novorossiya, and we suggest to our enemies not to celebrate ahead of time. Not much time remains to you. 

PB: And I would add, not only “as long as it serves Novorossiya” but till it serves all the people. All the people want justice. All the people need the truth. 

We are not afraid to die for this.

AM: Sometimes it is necessary.

Both: '¡No pasarán!

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Comunicato ufficiale della Brigata Prizrak a seguito del vigliacco assassinio di Mozgovoj ed altre sei persone. 
Parlano il comandante Shevcenko, il comandante Piotr Biriukov "Arkadic", Markov, e un altro miliziano.
Appeal of "Ghost" brigade command | ENG, DE Subs (Vox Populi Evo, 24.5.2015)
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=NtqKwxSmxMQ
Обращение командования бригады "Призрак" (Алексей Мозговой - Голос народа, 23.5.2015)

Biryukov: The Ghost Brigade will continue to carry out its mission (24.5.2015)

Mozgovoy was an ideal target - Dmitry Steshin (May 24, 2015)

Meeting ad Alchevsk per commemorare Mozgovoj e gli altri caduti nella vigliacca strage di Mihajlovka
Митинг-реквием в Алчевске в память о комбриге Мозговом (24.5.2015)


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LE INIZIATIVE

Dagli organizzatori del Forum AIS giunge il seguente APPELLO ALLA MOBILITAZIONE in coincidenza con i funerali delle vittime della vigliacca strage di Mihajlovka, che si terranno ad Alchevsk. L'APPUNTAMENTO E' MERCOLEDI' 27 MAGGIO ALLE ORE 10 del Donbass, ORE 8 italiane, IN TUTTI I LUOGHI-SIMBOLO DELLA RESISTENZA COMUNISTA: organizzare volantinaggi, presidii, deposizioni di fiori e tutto quanto possa servire a sottolineare che POSSONO UCCIDERE CHIUNQUE MA UN'IDEA NON MUORE


Call for International Solidarity Actions on May 27 in Connection with the Death of Alexei Mozgovoi (25.5.2015)

Together we held an International Solidarity Forum: “Antifascism, Internationalism, Solidarity” on May 8, 2015, in the city of Alchevsk. Delegates expressed international communist solidarity against fascism in all its forms. There were many difficulties and organizational challenges, and we were suddenly faced with opposition from a group of anti-communist officials in the Lugansk People's Republic who do not want to see the Lugansk region enter the socialist path of development. There were threats, accusations and sabotage, but we stood united and held this important and necessary event in solidarity with the people of Lugansk
As a result of the international forum, we adopted a number of decisions, one of which was a declaration of the unity of all leftists who want to help defend the rights of the inhabitants of Novorossiya to self-determination and support the communists fighting in Donbass. And today, all who support the ideology of social justice, equality and fraternity in Novorossiya need international solidarity.
Alexei Mozgovoi, one of the most prominent militia commanders, who loudly and openly spoke of his commitment to the ideas of socialism, fraternity and internationalism, and without fear told the truth about the problems of Novorossiya, has been killed. This is a very great loss for us and the entire communist, antifascist movement of Donbass.
Alexei Mozgovoi, who hosted the Forum, despite all the difficulties and threats, is dead. But while it is easy to kill a revolutionary, it is impossible to kill an idea. The ideas that guided him came from the dreams and aspirations of the suffering people of Donbass. Those ideas filled the Forum, which the participants carried home with them, ideas that became the engine of revolution in the Donbass.
Today, as we struggle to understand what happened and how to proceed, we are sure that there will be a lot of discussion and debate. However, now more than ever, the communists of Donbass need international support.
We call on all progressive, communist, socialist, leftist, antifascist international forces in Europe and around the world to hold actions in solidarity with Donbass-Novorossiya in connection with the tragic death of Alexei Mozgovoi, whose funeral will be held on May 27 at 10:00 in Lugansk. Actions in solidarity with all who are fighting here for the ideals of socialism, equality and fraternity.
In connection with the death of Brigade Commander Alexei Mozgovoi, we ask our comrades to organize in their cities, where possible, informational pickets, laying of flowers at memorial sites connected with the history of the Soviet Union or the communist movement, or pickets at embassies of the United States or Ukraine with the demand to stop killing people in the Donbass, under the flags of the Ghost Brigade, Novorossiya and the red flags of the communists.
Please share and send us information about planned activities.

Long live international solidarity!
We will not break! Together we will win!
Fascism will not pass!

With respect and gratitude,
Maksym Chalenko
Coordinator of the AIS Forum
in the Lugansk People's Republic

(Translated by Greg Butterfield)
ORIG.: Обращение Луганчан-участников форума «Антифашизм, интернационализм, солидарность»

Мы вместе 8 мая 2015 года в городе Алчевске провели форум, форум Антифашистской Интернациональной Солидарности. Солидарности коммунистов - интернационалистов против фашизма в любом его проявлении. Много было сложностей, проблем его организации, неожиданно мы столкнулись с противодействием группы чиновников-антикоммунистов внутри ЛНР не желающих видеть Луганщину идущей по социалистическому пути развития. Были угрозы, обвинения и противодействие, но вместе мы выстояли и провели важное и необходимое для народа Луганщины мероприятие солидарности.
Как итог интернационального форума мы приняли ряд решений, одним, из которым стала декларация о единство всех левых желающих на практике помогать отстаивать права жителей Новороссии на самоопределение и поддерживающих коммунистов борющихся на Донбассе. И сегодня нам, всем кто является сторонником идеологии социальной справедливости, равенства, братства в Новороссии нужна международная интернациональная солидарность.
Погиб Алексей Мозговой один из самых ярких командиров ополчения, который громко и открыто не боясь, говорил правду о проблемах в Новороссии, говорил о своей приверженности идеям социализма, братства, интернационализма. Это очень тяжелая утрата для нас и всего коммунистического, антифашистского движения Донбасса.
Алексей Мозговой, который принял форум, несмотря на все сложности и угрозы погиб. Но легко убить революционера, невозможно убить идею. Идеи которое были его целью исходили из чаяний и стремлений страдающего народа Донбасса. Идеи, которые пропитали форум, которые несли приехавшие на него участники, идеи которая стала двигателем революции свершившейся на Донбассе.
Сегодня нам всем не просто понять, что произошло и как действовать дальше, уверены, что будет еще много дискуссий и споров. Вместе с тем сегодня как никогда мы коммунисты Донбасса нуждаемся в международной интернациональной поддержке.
Призываем все прогрессивные коммунистические, социалистические, антифашистские, левые, интернациональные силы Европы и мира в связи с трагической гибелью Алексея Мозгового 27 мая в 10.00 по Луганскому времени провести акции солидарности с Донбассом-Новороссией. Солидарности со всеми кто борется здесь за идеалы социализма, равенства, братства.
В связи со смертью комбрига Алексея Мозгового просим по возможности организовать в своих городах информационные пикеты, возложения цветов к памятным местам, связанным с историей СССР, коммунистического движения или провести пикеты посольств США или Украины с требованием прекратить убийство людей на Донбассе, другие акции или мероприятия по мере возможности под флагами Бригады «Призрак», Новороссии» и Красных флагов коммунистов.
Да здравствует интернациональная солидарность!!! 
Нас не сломить!!! Вместе победим!!! 
Фашизм не пройдет!!!

С уважением и благодарностью,
Координатор АИС Форума
в Луганской Народной Республике 
Максим Чаленко

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BOLOGNA 
mercoledì 27 Maggio alle ore 11 in Piazza Verdi


"Si può uccidere un uomo, non le sue idee". Saluto al Comandante Aleksey Borisovich Mozgovoy

Il Comandante comunista Aleksey Mozgovoj è stato assassinato nel tardo pomeriggio di sabato 23 maggio, tra Alchevsk e Lugansk dagli sgherri fascisti della Junta di Kiev. Il capo della Prizrak (Brigata Fantasma) è caduto in una imboscata nella quale sono stati uccisi la sua segretaria Anna, due militari ed alcuni civili. L'auto a bordo del quale viaggiavano Mozgovoj e la scorta è stata crivellata di colpi. Attaccate con armi automatiche anche altre tre automobili che facevano parte del convoglio.
Il Comitato Ucraina Antifascista di Bologna e i Compagni di Noi Restiamo invitano gli antifascisti ad un presidio in memoria del Comandante Mozgovoy, combattente antifascista, mercoledì 27 Maggio alle ore 11 in Piazza Verdi - Bologna 

evento FB: https://www.facebook.com/events/455614004603586/

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MILANO 
mercoledì 27 Maggio alle ore 8 in Piazzale Loreto, davanti la Stele dei 15

Saluto al Comandante Mozgovoj, caduto per la Resistenza del Donbas

Il Comandante comunista Aleksey Mozgovoj è stato assassinato nel tardo pomeriggio di sabato 23 maggio, tra Alchevsk e Lugansk. Il capo della Prizrak (Brigata Fantasma) è caduto in una imboscata nella quale è stata uccisa la sua segretaria Anna, due militari ed alcuni civili. L'annuncio ufficiale della morte di Mozgovoj è stato diffuso dalla sua brigata e da numerosi organi di stampa locali e russi. L'auto a bordo del quale viaggiavano Mozgovoj e la scorta é stata crivellata di colpi. Attaccate con armi automatiche anche altre tre automobili che facevano parte del convoglio.
Il Comitato contro la guerra di Milano e i Compagni milanesi della Carovana Antifascista nel Donbass invitano gli antifascisti a portare il loro saluto mercoledì mattina alle 8 in Piazzale Loreto, davanti la Stele dei 15.


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NEW YORK
Wednesday, May 27, 6:00pm to 7:00pm
At the statue of the Liberator, Simon Bolivar
North side of 59th St. and Sixth Avenue, Manhattan (Southern end of Central Park)

Memorial for Commander Alexei Mozgovoi & Ghost Brigade Martyrs

We join with anti-fascists around the world to honor the memory of Commander Alexei Mozgovoi and the other members of his Ghost Brigade team assassinated in the Lugansk People's Republic on May 23. We stand in solidarity with the popular resistance in the Donbass people's republics. Commander Mozgovoi's funeral will be held May 27.
Meet at the statue of the Liberator, Simon Bolivar, on the north side of 59th Street at Sixth Avenue (southern edge of Central Park) at 6pm. Bring candles or tealights, flags and signs, and any words of solidarity you wish to express.

Called by the Solidarity with Ukraine Antifascists Committee of the International Action Center



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BACKGROUND

Sulla Brigata "Fantasma" di A. Mozgovoi e l'Unità 404

vedi anche:

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Fonte: pagina FB "Comitato per il Donbass Antinazista", 29/1/2015

(Una prima versione alla URL: 
pagina FB "Comitato per il Donbass Antinazista", 28/11/2014

ORIG.: Entrevista a Sergio, Héctor, Miguel y Oriol: “Estamos ante una oportunidad histórica de construir un estado socialista en Europa”
miércoles, 26 de noviembre de 2014
Respondiendo al llamamiento internacional para unirse a la resistencia contra el gobierno golpista de Poroshenko, son numerosos los voluntarios de toda Europa llegados al Donbass en defensa de la Nueva Rusia. Entre ellos también varios provenientes de Castilla y Catalunya, que tras su paso por el Batallón Vostok decidieron integrarse en la Brigada Prizrak, bajo las órdenes del carismático comandante Alexey Mozgovoy. Tras su breve paso por les brigades continentales, los jóvenes antifascistas acaban de integrarse en el Escuadrón rojo 404, una unidad de ideología comunista dentro de la Brigada Prizrak, en la que comparten tareas con otros jóvenes revolucionarios…
http://pravdainternacional.blogspot.it/2014/11/estamos-ante-una-oportunidad-historica.html?spref=fb )

 
"Abbiamo l'opportunità di costruire uno Stato socialista in Europa"
Intervista ai volontari antifascisti di Spagna, nel Donbass

Molti volontari provenienti da tutta Europa hanno risposto alla chiamata di aderire al movimento di resistenza contro il colpo di Stato di Poroshenko e sono arrivati nel Donbass per difendere la Novorossiya. Tra di loro c'è un gruppo di volontari di Castiglia e Catalogna, che hanno aderito alla Brigata Prizrak servendo sotto la figura carismatica di Aleksey Mozgovoy. Dopo un breve soggiorno con le Brigate Continentali, gli antifascisti spagnoli si sono uniti altri giovani rivoluzionari nell'Unità 404, una unità comunista all'interno della Brigata Prizrak .

Abbiamo incontrato Sergio, Héctor, Miguel Oriol per conoscere la loro vita con la 404 e sul loro ruolo nella resistenza popolare della Novorossiya.

-Prima di tutto, perché sei venuto alla Donbass per combattere contro il governo di Poroshenko?

Siamo tutti d'accordo che il massacro di Odessa è stato il punto di svolta per noi. Ma ci sono molte ragioni per cui abbiamo aderito alla lotta: per aiutare a costruire uno stato socialista in Europa, per contribuire a difendere il popolo di Donbass dall'esercito Kiev. Questa è una lotta contro il fascismo e siamo in debito con coloro che hanno aderito alle Brigate internazionali in Spagna nel 1936 per lottare contro il colpo di stato.

-Lasciando la tua vita, i tuoi amici e la tua famiglia per andare a combattere in una guerra in cui si può morire non può essere facile. È la Novorossiya vale tali rischi?

Siamo perfettamente consapevoli dei rischi che corriamo con la decisione di andare in guerra e sappiamo quello che abbiamo lasciato in Spagna, ma la causa vale il rischio. Siamo qui per lottare contro il fascismo. Per la prima volta in un tempo molto lungo, vi è una reale possibilità di contribuire alla costruzione di uno stato socialista in Europa. Come comunisti, non abbiamo potuto lasciare andare questa opportunità.

-Vi definite comunisti. Che cosa significa per voi per lottare per la Novorossiya? Quali sono i vostri obiettivi politici e militari?

Il nostro compito militare principale è quello di formare il futuro Stato della Novorossiya, liberandolo dalla feccia fascista. Sono loro che hanno causato questa guerra. E il nostro compito politico principale è quello di aiutare a costruire uno Stato socialista per far parte delle unità rivoluzionarie delle forze armate insieme ad altri comunisti che combattono qui. La bandiera rossa sventolerà ancora in alto in Europa.

-Come con il Kurdistan o la Palestina, la resistenza Donbass si basa sul sostegno popolare ed è politicamente diversificata, così si distingue che uno dei capi della milizia Lugansk è Vitaly Victorovich, un comunista noto. Qual è la reale presenza e l'influenza dei comunisti nella resistenza popolare?

I comunisti hanno una presenza di primo piano nella resistenza. Ci sono due unità formate esclusivamente da comunisti: uno nel Battaglione Vostok e un altro qui, nella Brigata Prizrak. Ci sono comunisti anche in altre unità . C'è grande nostalgia sovietica tra i volontari che combattono nella Milizia. Tutto si è deteriorato qui dopo il crollo dell'Unione Sovietica, tutti qui possono vederlo. Non possiamo dire esattamente quanti comunisti sono nella Resistenza, ma è l'ideologia predominante nella Milizia.

L'ideologia comunista è presente sulla scena politica anche. Igor Plotnitsky, il leader della LPR, ha un ideologia comunista. I comunisti sono influenti sia nella Lugansk e le milizie Donetsk. Molti dei comandanti stanno combattendo per una Novorossiya libera da fascisti e oligarchi.

-Dopo un breve soggiorno in altre unità e battaglioni, vi siete uniti all'Unità 404 della Brigata Prizrak. Perché vi siete trasferiti qui? Ci parli della sua nuova vita in questa unità.

La nostra vita in questa unità è simile a quella in altre unità: la stessa disciplina, stessi orari e stesse rotazioni al fronte. Ciò che cambia veramente è la gerarchia. Qui tutto è più egualitario, non ci sono comandanti. C'è un commissario politico che si occupa della disciplina ed il morale dei soldati. Ed abbiamo due leader: uno responsabile della formazione militare, un altro che comanda sul campo di battaglia.

Abbiamo preso la decisione di cambiare l'unità per motivi politici, anche se ci sono sempre stati i comandanti comunisti nelle nostre unità. Le differenze politiche ci hanno impedito di sentirci confortevoli quanto avremmo voluto. Ci sentiamo completamente a nostro agio con i nostri nuovi compagni qui nell'Unità 404.

-Anche se i nazionalisti sono una minoranza nella Milizia, una parte della sinistra spagnola [ndr: anche di quella italiana] hanno usato la loro presenza come una scusa per giustificare i crimini di Kiev e della NATO contro la popolazione civile. Alcuni addirittura vi chiamano "nazisti", non solo voi ma l'intera Resistenza. Cosa avete da dire a proposito di questo?

Qualsiasi tipo di sinistra che giustifica fascisti che uccidono i civili dovrebbero ripensare a cosa sia realmente la loro ideologia. Alcuni hanno chiamato noi "nazisti", che è divertente per noi, con la nostra pelle mezza scura (ride). Quelli di voi che sono stati qui sono gli unici che possono giudicare, tutti gli altri invece state solo speculando a 3.000 chilometri di distanza. E voglio chiarire [Sergio] che io sono più rosso che il sangue che scorre nelle mie vene. E questo non cambierà, non importa ciò che gli altri possono dire.

-Quale pensi sia la caratteristica principale della Resistenza novorussa: lotta di classe, la lotta contro il fascismo o di liberazione nazionale?

La Novorossiya è una lotta contro il fascismo, contro il dominio degli oligarchi ed è un movimento di liberazione nazionale. Stiamo combattendo contro i fascisti di Kiev e gli oligarchi che hanno saccheggiato l'Ucraina post-sovietica. E si tratta di un movimento di liberazione nazionale, in quanto essi difendono la loro cultura, la loro lingua e la loro gente.

-Parliamo della guerra che avete avuto modo di vedere qui. Come è la vita in prima linea? Cosa passa per la mente quando si è in combattimento?

La vita qui è dura. Fa freddo, hai fame e sei stremato, ma niente di tutto ciò che conta quando ti rendi conto che stai facendo la cosa giusta. Un milione di cose ti passano attraverso la mente, l'adrenalina entra in gioco, ma a volte si ha paura di morire. A volte ti chiedi cosa stai facendo qui.

-Che tipo di compiti militari hai svolto finora e quale è il vostro compito in prima linea?

Non possiamo rispondere a questa domanda per motivi di sicurezza, ma quello che possiamo dire è che la nostra unità svolge compiti di infiltrazione, sabotaggio e altre operazioni speciali.

-Siete volontari che lottano per la Novorossiya. Siete a conoscenza di mercenari occidentali che combattono per Kiev?

Sì, siamo volontari che combattono per la propria soddisfazione, non per soldi. Ma siamo consapevoli di mercenari che combattono per Kiev, sostenuti e finanziati dalla NATO e l'Unione Europea, i colpevoli di quello che sta accadendo in Ucraina.

-Quale sarà l'esito di questa guerra?

Vinceremo! La volontà del popolo è inarrestabile.


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http://www.marx21.it/internazionale/area-ex-urss/25655-aleksej-mozgovoj.html

Aleksej Mozgovoj

di Aleksej Bogachev 
da kprf.ru
25 Maggio 2015

Traduzione dal russo di Mauro Gemma

Il leggendario comandante dei combattenti antifascisti del Donbass, Aleksej Mozgovoj, è stato vigliaccamente ucciso in un attentato.

Per ricordare la figura di Mozgovoj, il sito del Partito Comunista della Federazione Russa ha ospitato un articolo, in cui vengono illustrate le ragioni che motivavano il suo coraggioso impegno.

“Mentre ci opponiamo con le armi al genocidio del popolo russo sul territorio dell'ex Ucraina, come nessun altro avvertiamo la mancanza di norme legali che riguardino la più grande  nazione  divisa al mondo” – si legge in un documento firmato dai comandanti popolari. “E nonostante la differenza dei termini “maledetto moskal” (“moskal” è termine usato in modo dispregiativo per indicare i cittadini russi e russofoni in Ucraina, ndt) e “popolazione di lingua russa”, la tendenza appare una sola: la spersonalizzazione e la disintegrazione del popolo russo... Il tempo ha dimostrato che solo in presenza di un progetto nazionale e del consolidamento del popolo russo è possibile rispondere alle minacce che dobbiamo affrontare oggi” (http://www.regnum.ru/news/polit/1926116.html).

Il nemico ha assassinato uno dei più popolari difensori dell'idea di civiltà russa. Ma Mozgovoj non ha difeso solo l'idea russa, ma anche, in una certa misura, l'idea sovietica! E' stato uno dei pochi che, con decisione e apertamente, si è opposto al potere degli oligarchi e si è espresso per la lotta di classe. Così, in una teleconferenza con Kiev aveva chiaramente dichiarato: “Noi stiamo combattendo... ma non contro il popolo ucraino. Noi combattiamo soprattutto per la giustizia, per l'onestà, affinché non esista l'oligarchia nella nostra società e non eserciti il potere, perché affari e potere rappresentano una miscela pericolosa”.

Sostenendo ciò, Mozgovoj era diventato nemico personale dei vampiri di ogni genere che si trovano su entrambi i lati della frontiera russa. Infatti stava mettendo in pratica un punto essenziale del Programma del Partito Comunista della Federazione Russa e delle forze popolari-patriottiche della Russia, quello relativo alla necessità di collegare la lotta di liberazione nazionale con la lotta sociale e di classe. Sono convinto che sia stato ucciso soprattutto per questa ragione. Ora il sacro dovere di ciascuno di noi è quello di raccogliere la bandiera del comandante di brigata Mozgovoj e combattere per la causa, sul cui altare ha sacrificato la propria vita. (...)

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While Revolutionaries Can Be Murdered, You Cannot Kill Ideas (by Boris Rozhin / Colonel Cassad, 23.5.2015)
"It is war that is the greatest injustice. We are not fighting the ones responsible. Those who finance, who stir it up, who through the media set one people against another—it is them whom we must fight." Aleksey Borisovich Mozgovoy
http://slavyangrad.org/2015/05/24/while-revolutionaries-can-be-murdered-you-cannot-kill-ideas/

Alexey Mozgovoy Was the Face of the Left Revolution in Donbass (Colonel Cassad, May 24, 2015)
ORIG.: Революционеров можно убить, идеи - никогда

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“It is a gift to die in May…”
A poetry by Aleksey Borisovich Mozgovoy, 22.05.2013

Мозговой и Дремов обратились к руководству России с просьбой поддержать «Русский Проект» (22 мая 2015)
Легендарные командиры армии Луганской Народной Республики Алексей Мозговой и Павел Дремов убеждены в том, что конфликт на Украине возник, в частности, еще и потому, что в России на государственном уровне отсутствует национальная идея и на законодательном уровне никак не закреплены права разделенного русского народа...

Oleg Tsarev: I helped reconcile Bolotov and Mozgovoy (video) (May 24, 2015)
Олег Царев - Болотов и Мозговой договорились о сотрудничестве (6.5.2014)

Mozgovoy will build a socialist Novorossiya [sub ENG\SPA\TR\ITA] (Voxkomm, 12 nov 2014)
Speech of Alexey Mozgovoi (commander of the brigade “Ghost’) at the celebration of October revolution on November 7 in Alchevsk, Lugansk People's Republic

Fonte: pagina FB "Comitato per il Donbass Antinazista"
Il "Manifesto" del comandante Mozgovoy tradotto in inglese ed italiano. Nel video le sue aspirazioni, i sogni, il suo modello di società. L'invito all'unione col popolo che vive sotto l'Ucraina inferocita dal nazionalismo, promosso e scatenato dai media di regime. Un appello che chiunque abbia intenzione di capirci qualcosa in questo conflitto ai margini dell'Europa non può farsi sfuggire...
Mozgovoy's Manifesto [sub ENG\TR\ITA] (Voxkomm, 3 feb 2015)
Socialist manifesto of one of the most important commanders of rebel's militia.
VIDEO: http://www.youtube.com/watch?v=RTyLXc9llwI
OR: www.youtube.com/watch?v=gH7jMS0VaCA



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Il Donbass tra competizione globale, resistenza antifascista e lotta di classe

di Marco Santopadre*
18/05 2015

Chi si ostina ad avere delle vicende internazionali una visione manichea o mitologica rischia alla lunga di rimanere assai deluso, e di prendere lucciole per lanterne. La mancanza di un punto di riferimento chiaro a livello internazionale per le forze progressiste e antimperialiste e i rapporti di forza sfavorevoli ad ogni ipotesi di cambiamento radicale dal punto di vista socio-economico rendono assai difficile l’affermarsi di ipotesi politiche organizzate e stabili in controtendenza rispetto allo status quo. 

Eppure nelle regioni orientali dell’Ucraina da più di un anno sopravvivono e in qualche modo di rafforzano delle statualità sperimentali sorte in reazione al colpo di stato filoccidentale realizzato a Kiev nel febbraio del 2014 da forze nazionaliste o apertamente fasciste. Il golpe scaturito da Maidan, oltre ad imporre l’ingresso del paese nell’orbita della Nato e dell’Unione Europea e a consegnare tutto il potere nelle mani di pochi voraci oligarchi, ha innanzitutto affermato la propria identità negando quella delle popolazioni russofone che rappresentano la maggioranza nelle regioni del sud est ucraino e che non hanno accettato il nuovo regime fondato su uno sciovinismo che nega la loro identità culturale e storica e che rivaluta l’oscura e criminale pagina del collaborazionismo con gli invasori nazisti nel corso della seconda guerra mondiale. 
La scelta da parte del regime di adottare fin da subito la carta della repressione militare, sostenuta dagli Stati Uniti e dalla Nato oltre che dagli appetiti degli oligarchi interessati a mettere le mani sulle ricchezze minerarie del Donbass, ha fatto il resto. La strage di Odessa – con decine di sindacalisti, attivisti di sinistra o semplici manifestanti o lavoratori assassinati all’interno della Casa dei Sindacati da parte delle bande fasciste supportate dal nuovo regime e dagli sponsor internazionali – ha rappresentato per molti versi il fattore scatenante di una ribellione che a Lugansk e Donetsk ha assunto forme stabili, organizzate, armate e anche politiche e che invece in altre località è stata presto schiacciata. Le popolazioni dell’est si sono convinte – non a torto – del fatto che non c’era spazio per loro, per la loro identità, per le loro aspirazioni all’interno della “nuova” Ucraina banderista ed hanno così dato vita a delle entità autonome – le Repubbliche Popolari – che hanno dato non poco filo da torcere al regime di Yatseniuk e Poroshenko.
Riprendendo l’avvertenza con cui abbiamo aperto quest’intervento, sarebbe sbagliato dare di queste esperienze una visione mitologica che pure può appagare alcune necessità identitarie all’interno di una sinistra poco avvezza all’analisi concreta della situazione concreta e spesso alla tifoseria. Le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk vanno difese e supportate per l’elemento di resistenza politica e popolare (oltre che militare) che oggettivamente rappresentano all’interno di un paese divenuto vittima dall’intervento di potenze straniere e di un imperialismo – nella doppia veste statunitense ed europea – che pur di perseguire i propri scopi egemonici non si è fatto scrupolo di demolire un paese come l’Ucraina, sostenendo le forze più scioviniste e soffiando sul fuoco delle divisioni culturali ed etniche fino a scatenare una guerra civile che ha prodotto decine di migliaia di vittime e distruzioni immani. Uno scenario che, all’interno di un mondo squassato dalla competizione globale tra poli imperialisti in concorrenza, vedremo riprodursi sempre più spesso. Appare quindi evidente che analizzare lo scenario ucraino decontestualizzandolo da quello di un globo divenuto campo di battaglia tra potenze concorrenti rischia di consegnarci una visione limitata, parziale e quindi inadatta.
E’ in questo quadro che le tendenze e le forze effettivamente in campo vanno considerate per quello che sono, e non per quello che vorremmo che fossero. E’ ad esempio palese che la Federazione Russa rappresenti nello scacchiere della competizione globale uno dei soggetti aggrediti dalla crescente voracità degli imperialismi statunitense ed europeo e che Mosca non possa in alcun modo accettare senza reagire l’assorbimento violento dell’Ucraina all’interno dello spazio economico e militare occidentale. E’ altresì evidente che senza l’aiuto russo – non solo del governo, ma anche di forze politiche e organizzazioni non necessariamente espressione del Cremlino – la resistenza novorussa avrebbe avuto vita assai più difficile. Se la Russia non può essere considerata una potenza imperialista è altrettanto evidente che all'opposto non può e non dev’essere considerata neanche una sorta di Unione Sovietica rediviva e sotto mentite spoglie – al di là dell’intelligente utilizzo putiniano della storia sovietica e dell’epopea della Grande Guerra Patriottica – e che Mosca supporterà le Repubbliche Popolari del Donbass nella misura in cui queste non metteranno a rischio equilibri interni ed internazionali che vedono la Russia sulla difensiva e in una condizione di svantaggio. Non è un segreto che alla realizzazione degli accordi di Minsk hanno contribuito soprattutto le spinte di Putin e dell’Unione Europea – interessati alla ricucitura di un conflitto che rischia in qualsiasi momento di prendere una brutta piega e di diventare irreversibile – mentre contro il cessate il fuoco e una risoluzione anche politica del contenzioso hanno operato, per motivi diametralmente opposti, sia le forze estremiste ucraine e l’amministrazione Usa da una parte sia, sull’altro fronte, alcune consistenti forze alla base delle esperienze delle Repubbliche Popolari. 
Il quadro oggi è più ingarbugliato che mai e lanciarsi in schematiche previsioni rischia di costituire un esercizio inutile quanto dannoso. Il cessate il fuoco regge, più o meno, da mesi, ma lo spettro di una ennesima offensiva delle forze armate ucraine e dei battaglioni neonazisti è dietro l’angolo, a maggior ragione dopo un periodo di relativa calma che il regime di Kiev ha utilizzato per riorganizzare le proprie forze sfruttando l’addestramento delle proprie truppe da parte dei consiglieri di Washington e di Londra. 
Mosca non può cessare di difendere la ribellione dell’est ucraino, se lo facesse subirebbe una sconfitta sul campo nei confronti delle pretese europee e statunitensi che potrebbe avere un effetto a catena in tutto lo spazio ex sovietico, già contraddistinto da una penetrazione economica e militare da parte della Nato che di fatto stinge il territorio russo in una morsa. Inoltre, se Putin e la sua cerchia dovessero mostrarsi arrendevoli sullo scenario ucraino, la classe dirigente di Mosca subirebbe l’ostilità e la rabbia di ampi settori della propria popolazione che già chiedono una risposta più contundente nei confronti dell’aggressione di Washington e Bruxelles. 
Ma ciò non vuol dire che la Federazione Russa sosterrà le rivendicazioni delle forze indipendentiste del Donbass a qualsiasi costo. Escluso già all’inizio della ribellione uno scenario come quello messo in atto in Crimea, Mosca sembra spingere per una federalizzazione dell’Ucraina che permetterebbe il mantenimento dell’influenza russa nell’est senza rompere formalmente l’integrità territoriale del paese. Il che cozza non solo con lo sciovinismo della nuova classe dirigente di Kiev e con le spinte guerrafondaie dei suoi sponsor – Stati Uniti, Repubbliche Baltiche, Polonia… - ma anche con le rivendicazioni e le aspirazioni di una parte delle forze protagoniste della resistenza a Lugansk e a Donetsk e che mai e poi mai accetteranno un ritorno della sovranità ucraina sul Donbass, seppure ‘temperata’ da una certa autonomia. Le spinte e le controspinte rispetto a questo tema sono più che evidenti e costituiscono l’elemento alla base della dura trattativa in corso – spesso lontano dai riflettori dei media internazionali – tra i rappresentanti locali e i governi dell’Ue e della Russia, con contraddizioni non certo secondarie anche all’interno dei rispettivi campi.
Contraddizioni rilevanti che esistono e rischiano di allargarsi anche in altri ambiti, come ad esempio quello della dialettica tra ‘civile’, ‘politico’ e ‘militare’. Se è vero che fin dall’inizio la ribellione del Donbass si è dotata di strumenti di governo formali e di meccanismi – per quanto imperfetti – di sanzione popolare degli organismi chiamati a governare, è anche vero che lo scenario bellico continua a concedere alle milizie e alle forme militari di organizzazione una rilevanza che spesso sovrasta l’ambito civile e che in alcuni casi entra in aperta contraddizione con l’infrastruttura politica. Di recente i governi delle due repubbliche hanno imposto a tutte le milizie formatesi spontaneamente nella prima fase della ribellione di sciogliersi e di integrarsi nelle forze armate ufficiali, ma alcune formazioni resistono a questa decisione, gelose non solo della propria autonomia militare ma anche della propria identità e progettualità politica specifica. 
E’ il caso ad esempio della Brigata Prizrak e dell’Unità 404, animate da centinaia di combattenti esplicitamente comunisti e antifascisti, e che nella zona visitata recentemente dalla Carovana Antifascista  coordinano numerose attività di sostegno alla popolazione – come la ‘Mensa Popolare di Alchevsk - e di gestione di attività economiche miranti a fornire loro autonomia economica e alimentare. 
E’ evidente che non si possono rappresentare le Repubbliche Popolari del Donbass come entità monolitiche, e che al loro interno agiscono forze e dinamiche a volte non coincidenti o addirittura in contrapposizione, come è ovvio che avvenga sulla spinta di un ‘normale’ conflitto politico e dell’esplicitarsi della lotta di classe che in un quadro di scontro bellico assumono spesso una manifestazione di tipo militare e quindi ancora più irriducibile.
La missione della Carovana Antifascista in Donbass a inizio maggio ha fornito alle realtà che vi hanno partecipato l’occasione per toccare con mano una situazione contraddistinta da diverse faglie. Da una parte vi sono i governi locali - che rappresentano forze e identità politiche composite, che vanno dai comunisti fino alle formazioni nazionaliste e tradizionaliste – con le loro esigenze di controllo e di normalizzazione, dall’altra formazioni politico-militari che resistono all’istituzionalizzazione e che tentano di sfruttare l’indeterminatezza della situazione per imporre una visione sociale ed economica più avanzata. Ovviamente i conflitti non mancano, a partire da quelli sulle competenze e con sullo sfondo il difficile rapporto con il governo russo e gli interessi della classe dirigente di Mosca.
Il Forum Internazionale che si è tenuto ad Alchevsk l’8 maggio scorso ha rappresentato una cartina di tornasole rispetto alle contraddizioni politiche e di classe in campo nelle Repubbliche Popolari. Alle varie delegazioni internazionali – provenienti da molti paesi europei ma anche dalla Russia – si sono aggiunte numerose realtà della sinistra comunista e antimperialista ucraine e del Donbass, e gli interventi dei vari rappresentanti hanno permesso ai partecipanti di avere una visione complessiva più vasta. Al piano della resistenza popolare e militare all�

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70.mo Liberazione / 5



Inizio messaggio inoltrato:

Da: Andrea Martocchia 
Oggetto: Sul futuro dell'ANPI e dell'antifascismo in Italia
Data: 21 maggio 2015 19:58:25 CEST
A: Carlo Smuraglia, Saverio Ferrari


Sul futuro dell'ANPI e dell'antifascismo in Italia
Una riflessione "a bocce ferme"

di Andrea Martocchia (*)


Prima di mettere nero su bianco questi miei pensieri ho voluto attendere il passaggio delle ricorrenze del 70.mo della Liberazione dell'Italia e dell'Europa, che ci hanno visto tutti impegnati in numerose iniziative, poiché ritengo che certe questioni vanno affrontate il più possibile a mente fredda, usando tutta l'attenzione, la lucidità e la pacatezza di cui siamo capaci.
Mi riallaccio solo in parte alla discussione pubblicamente inaugurata da Saverio Ferrari (1) poiché era da tempo che ragionavo sulle tematiche più larghe che vado ad esporre. Premetto che il mio intervento è motivato dalla passione personale, che mi porta ad avere a cuore sia le sorti dell'antifascismo in generale sia le più specifiche sorti dell'ANPI, Associazione della quale non ho la tessera pur frequentandone con assiduità crescente sedi, soci e soprattutto compagni partigiani per attività connesse alla ricostruzione storiografica oltre che per affinità ideale. 

Cos'è l'ANPI?

Ferrari a mio avviso pone il tema dell'antifascismo in un'accezione troppo larga, che travalica ciò che può essere davvero pertinente per l'ANPI (errore "per eccesso"); al contempo egli non tematizza, e dunque non aiuta ad affrontare, la questione specifica del carattere e dei compiti dell'ANPI (errore "per difetto"). Cosicché, gli interrogativi posti da Ferrari colgono solo alcuni aspetti nella ridda di discussioni sviluppate dentro, attorno e fuori dell'ANPI da qualche tempo; discussioni che peraltro hanno già portato ad alcune conseguenze e decisioni, quale è stata quella della concreta trasformazione dell'ANPI da associazione "chiusa" (riservata agli ex combattenti) ad associazione "aperta" (da qualche anno possono iscriversi tutti). Per quanto ne so io, il confronto sulla natura e sul destino dell'ANPI prosegue molto animato soprattutto all'interno della stessa Associazione.

Il momento simbolico del 70.mo coincide con un cruciale passaggio nella storia e nella natura dell'ANPI e della Repubblica Italiana. Siamo – già da qualche tempo, in realtà – al tornante storico della scomparsa degli ultimi partigiani; eppure le riflessioni sulle implicazioni anche politiche di questo tornante sono state finora assolutamente insufficienti.

In estrema sintesi, su che cosa debba essere l'ANPI prevalgono oggi due tesi:
– la prima riconduce l'ANPI ad una associazione combattentistica (ed in tal caso il suo ruolo sarebbe già pressoché esaurito) o comunque a realtà meramente testimoniale (e perciò sempre meno influente nella politica e nella società, e sempre meno interessante anche per lo storico professionista che si occupa di Resistenza); 
– la seconda, pur rivendicando all'ANPI la sua origine di testimone, ne sottolinea la funzione attuale come soggetto guardiano della Costituzione e/o, più genericamente, dell'etica della politica.
Questa seconda visione è prevalente oggi negli organismi direttivi dell'ANPI. Tuttavia, a parte il fatto che per poter imporre dei valori bisogna avere la forza/rappresentatività sociale necessaria, è innegabile che per lungo tempo quella dell'ANPI sia stata una funzione di servizio, in senso sia positivo – in quanto "fondamento morale" della Repubblica – sia negativo – in quanto strumento di legittimazione per istituzioni che troppo spesso hanno deluso le aspettative.

L'ANPI si trova di volta in volta presa in mezzo a tensioni da parti opposte, sulle questioni più diverse e tutte potenzialmente laceranti: dai reiterati casi di revisionismo storico fino allo scontro israelo-palestinese, dalla TAV alle nuove guerre, dalle "foibe" all'antifascismo militante... al contempo essa subisce gli scossoni provocati dalla deriva politica (indubbiamente verso destra) dell' "azionista di riferimento", cioè il Partito Democratico in quanto principale erede delle forze politiche egemoni nel processo di costituzione dell'Italia repubblicana. 

Antifascisti e Partigiani

Vorrei allora sgombrare il campo da una prima questione: certamente oggigiorno c'è un buon 75% di antifascismo che non è rappresentato dall'ANPI, ed anzi va detto che la percentuale non ha mai raggiunto il 100%. 

In effetti, l'ANPI non nasce come ambito organizzativo "degli antifascisti", bensì come Associazione Partigiani. Tale definizione la porta ad avere un ruolo sostanzialmente diverso rispetto a quello auspicato da Ferrari, e non da oggi: ad esemplificare tale specificità è l'esistenza di un'altra associazione, l'ANPPIA, preposta alla organizzazione delle istanze degli antifascisti "storici", che non necessariamente furono (o poterono essere) partigiani. 
Non è una distinzione di lana caprina: soprattutto, non lo è di fronte ad una estensione direi vertiginosa del concetto di "antifascismo", e alla concomitante perdita del senso esatto del termine "fascismo". Succede infatti che iniziative e festival "antifascisti" organizzati sul territorio portino in risalto battaglie e identità che molto poco hanno a che fare con il fascismo "storico": dai diritti LGBT ai vegani, dalla TAV al commercio equo e solidale... Un tale allargamento della prospettiva è accettabile solo nella misura in cui non travolge/oscura la esigenza di precisare e difendere la specificità ed i valori della guerra vinta contro il nazifascismo (1941-1945), specificità e valori che hanno diritto a sedi dedicate per essere affermati e tramandati.

Tuttavia, affermando che l'ANPI è il consesso "dei partigiani" più che degli "antifascisti" (tantomeno degli "antifascisti in senso lato"), ancora non abbiamo definito esattamente l'oggetto della nostra riflessione. 

E' ben noto il dibattito sul carattere "uno e trino" della Resistenza italiana, intesa di volta in volta come (a) movimento di liberazione nazionale (b) moto di emancipazione sociale (c) guerra civile tra diverse opzioni politiche. Per di più, nelle nostrane interpretazioni della Resistenza è normalmente eluso il suo carattere internazionale e internazionalista – al quale è soprattutto dedicato il lavoro storiografico che stiamo portando avanti in prima persona da qualche anno. (2) Di quest'ultimo aspetto l'ANPI si è fatta interprete in ritardo e con difficoltà: basti pensare alla recente sofferta battaglia interna all'Associazione sulla possibilità di tesseramento per i cittadini non italiani, o al fatto che solo da pochissimo l'ANPI ha aderito alla Federazione Internazionale delle organizzazioni sue omologhe (FIR). Tali ritardi si spiegano solo e precisamente con il fatto che l'ANPI ha a lungo operato essenzialmente come vestale di un culto della Resistenza intesa esclusivamente come "lotta di liberazione nazionale", cioè usando quella accezione della Resistenza che è l'unica funzionale alle esigenze istituzionali. Solo in tale accezione, infatti, la Resistenza può essere presentata come atto costituente di questa Nazione e di questo Stato ("Secondo Risorgimento").
Benché restrittiva, tale accezione era e rimane prevalente nel discorso pubblico tanto da essere stata addirittura rilanciata in occasione delle recentissime celebrazioni per il 70.mo: infatti, in occasione della sessione a Camere riunite del Parlamento, il 16 aprile u.s., cui su invito del Presidente Mattarella hanno presenziato un gran numero di partigiani, nei discorsi delle autorità (cito soprattutto la Boldrini) si è voluto fermamente ribadire che la Resistenza fu un moto "nazionale" e "interclassista". Per converso, le celebrazioni del 70.mo della Liberazione a livello europeo sono state sostanzialmente minimizzate e disertate, in un frangente dei rapporti internazionali che vede anche i nostri politici fomentatori di una rinnovata ostilità contro la Russia.
 
Il dilemma attuale dell'ANPI

Torniamo dunque all'ANPI. 
Nell'ANPI assieme all'anima antifascista convive, sin dall'inizio, un'anima patriottica che perfettamente interpreta quella concezione del "Secondo Risorgimento" di cui sopra. D'altronde le due anime – antifascista e patriottica – hanno convissuto già nel movimento partigiano, incontrandosi ma anche scontrandosi. Esse possono coincidere, ma non lo devono necessariamente. Andrebbe allora innanzitutto analizzata questa dialettica, che non è affatto risolta, come dimostrano le polemiche in merito al Giorno del Ricordo ed ai presunti crimini della Resistenza jugoslava.
Tuttavia, il problema attuale, che rischia di essere un problema di vita o di morte per l'ANPI, in questa fase, mi sembra soprattutto quello della sostenibilità del suo ruolo "istituzionale" tradizionale: tolte infatti le celebrazioni del 70.mo, le nuove istituzioni repubblicane dimostrano di non essere più completamente devote alla Costituzione cosicché sempre meno potranno in futuro essere considerate filiazione della Resistenza. Questa contraddizione, tutta politica, ha precipitato l'ANPI in una condizione imbarazzate, e questo sin dai tempi del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica: tant'è vero che attorno al 1990 ci fu anche chi parlò di scioglimento dell'ANPI, ed alcune sezioni riversarono per intero gli archivi agli Istituti della rete ISMLI (Istituti per la storia della Resistenza e della società contemporanea in Italia).
Di fronte ai passaggi istituzionali in corso, che con la gestione Renzi sembrano soggetti ad una drammatica accelerazione, l'ANPI rischia di rimanere stritolata. Va rilevato che è proprio il presidente dell'ANPI, Carlo Smuraglia, uno dei più autorevoli critici dei progetti di riforma istituzionale/costituzionale sul tappeto.

Allora che cosa vogliamo dall'ANPI? Vogliamo trasformarla in qualcosa che non è mai stata? Lasciamo che sia cancellata dagli eventi politici e biologici? Mentre gli ultimi partigiani scompaiono, il 70.mo della Liberazione rischia di essere veramente l'anno del "botto" dell'ANPI.
Io credo che dobbiamo rispetto all'ANPI e perciò non le dobbiamo chiedere l'impossibile. Dobbiamo invece porre le questioni su di un piano più generale, che non riguarda solo il destino dell'ANPI bensì anche la sorte dello Stato italiano da un lato e la sorte della storiografia della Resistenza dall'altro

Liberare l'ANPI, liberare la storiografia della Resistenza

Rinnovate forme di "sovversivismo delle classi dirigenti" hanno minato la fondazione antifascista e costituzionale della Repubblica da molti anni oramai: su questo, o si affianca e difende l'ANPI in tutte le sedi associative e politiche possibili, oppure non si può pretendere proprio nulla dall'ANPI. Negli anni si è alzata la voce allarmata di chi ha parlato di tradimento della Resistenza, di chi ha ricordato la persecuzione antipartigiana del dopoguerra... Se l'ANPI non poteva reagire a suo tempo, tantomeno la si può caricare di ogni responsabilità per le sconfitte politiche che abbiamo subito tutti: si tratta casomai di proseguire in ogni sede con le battaglie per la democrazia e la giustizia sociale che i partigiani iniziarono. Anche la battaglia contro le nuove destre, non riguarda solamente l'ANPI e l'ANPI in nessun caso potrebbe farsene carico da sola.
Dunque l'ANPI non deve essere sovraccaricata di funzione politica, bensì eventualmente deve esserne emancipata, poiché è stata la politica che, per troppo tempo, ha "tenuto schiava" l'ANPI.

La questione a mio avviso si pone in maniera esattamente opposta per quanto riguarda la funzione "storiografica" dell'ANPI, che le è stata sottratta e dovrebbe esserle in qualche modo restituita
La politica ha oggettivamente condizionato la scrittura della Storia della Resistenza in Italia, per alcuni versi impedendola. Essa ha costretto l'ANPI a ruoli cerimoniali e ha demandato ad altre sedi la storiografia; ma quali sono queste altre sedi? Nel migliore dei casi sono sedi accademiche e para-accademiche, in particolare la rete ISMLI che, fondata 66 anni fa da Ferruccio Parri, è stata ristrutturata ad hoc a partire dagli anni Settanta, assumendo infine una funzione quasi "totalitaria" di scrittura della Storia della Resistenza attorno agli anni Novanta. Ebbene sulla attività di questi Istituti dell'ISMLI sarebbe necessario sviluppare una riflessione critica non meno importante di quella che riguarda l'ANPI. Da anni è in atto un processo di mutazione, spesso evidenziato dal cambiamento di nome – dalla "Storia della Resistenza" o "del Movimento di Liberazione" alla "Storia Contemporanea" –, per cui si tende ad occuparsi di ogni sorta di questioni che riguardano la contemporaneità e la realtà locale, dalle analisi paesaggistiche alle tradizioni culinarie, creando pesanti discontinuità quando non proprio dismettendo la funzione iniziale. Questo in un contesto in cui, nel corso di settant'anni e ancora oggi, si è sviluppata una rigogliosa sub-letteratura memorialistica locale e individuale sugli eventi della II Guerra Mondiale e sulla Resistenza, che per uno storico è ardua da manipolare ma che rappresenta in troppi casi l'unica fonte, benché secondaria, per la ricostruzione di eventi anche cruciali. Se aggiungiamo che le politiche archivistiche in questo campo sono state assenti o incoerenti, e che da un certo punto in poi si è colpevolmente sostituita una estetizzante ricognizione della "memoria" alla scientifica ricostruzione della Storia, il risultato netto è che la storiografia della Resistenza a 70 anni dagli eventi è lacunosa, dannatamente frammentata e prevalentemente ad uso e consumo delle necessità di portare acqua al mulino di interpretazioni di comodo. 
Cosicché, chiunque si occupi di questi temi incappa in una serie di paurosi "buchi" storiografici. D'altronde, il revisionismo, poi diventato rovescismo, si è innestato sulla narrazione già incompleta di una "guerra di liberazione nazionale" cui si sarebbe dovuto premettere il racconto di crimini di guerra italiani ed affiancare il contesto di una Resistenza che è stata internazionale e internazionalista più ancora che "italiana". Di tutto questo in molti partigiani combattenti c'è (o c'era) perfetta contezza: bisogna restituire a loro la parola, se non materialmente, almeno attraverso le testimonianze che hanno lasciato. 
Bisogna soprattutto restituire la parola ai tanti partigiani che nel dopoguerra sono stati emarginati, costretti alla emigrazione o alla irrilevanza politica, e che in molti casi hanno persino rinunciato a impegnarsi attivamente nell'ANPI o in altre realtà consimili. E' il caso ad esempio di decine di migliaia di partigiani italiani all'estero, le cui vicende sono colpevolmente trascurate, come quelle dei partigiani stranieri in Italia.

Sintesi conclusiva

Dal 1945 in poi si è imposta una chiave di lettura totalizzante per la vicenda della Resistenza in Italia, quella di una lotta di liberazione *nazionale* contro l'occupante *straniero* (tedesco). Questa operazione è stata possibile, e per certi versi anche legittima, nel contesto della Guerra Fredda, in virtù di una convergenza "multi-partisan" che oggi però mostra il segno. Di fronte ad attacchi perduranti rivolti contro *tutta* la memoria partigiana, è perdente e controproducente, oltreché anacronistica, la tendenza a forzare, ancora, la memoria storica nell'angusta strettoia "nazionale". In particolare, l'ANPI può farsi portatrice e promotrice di una visione più complessiva e meno "istituzionale" della vicenda partigiana, allentando i condizionamenti politici e tornando ad avocare a se anche una funzione di tipo storiografico, culturale, didattica e divulgativa. 
Definitivamente abbandonato lo status di associazione combattentistica – dal quale derivano solo vincoli e nessun vantaggio – l'ANPI dovrebbe a mio avviso in primis mantenere la funzione di depositaria della memoria storica dei partigiani combattenti, non solo e non tanto in senso morale-celebrativo quanto proprio nel senso concreto delle storie vissute e della loro documentabilità, recuperando le troppe memorie relegate nell'oblio a causa di contingenze politiche non favorevoli. Solo a queste condizioni l'ANPI può continuare nel proprio percorso, anche dopo la scomparsa della generazione dei partigiani, via via accogliendo anche le memorie degli altri antifascisti del passato e del presente e valorizzandole.
E' solo da tale tesoro di esperienze reali che all'ANPI deriva quella autorità morale per cui può indicare alla pubblica opinione che cosa sono stati il nazifascismo e le sue politiche di guerra, e come e perché il loro riaffacciarsi deve essere scongiurato.


(*) Saggista, co-autore de "I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana" e segretario del Coord. Naz. per la Jugoslavia ONLUS.

(1) Lo scambio tra il saggista Saverio Ferrari e il presidente nazionale dell'ANPI Carlo Smuraglia è riprodotto integralmente di seguito.


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IL TESTO DELL’ARTICOLO DI SAVERIO FERRARI (OSSERVATORIO DEMOCRATICO NUOVE DESTRE) SUL “MANIFESTO” DELLO SCORSO 4 MARZO 2015, LA RISPOSTA DEL PRESIDENTE NAZIONALE DELL'ANPI CARLO SMURAGLIA SU ANPI NEWS E IL COMMENTO FINALE DI FERRARI:

Saverio Ferrari: L’ANPI BATTA UN COLPO VERSO I NUOVI MOVIMENTI

L’antifascismo è oggi sempre più stretto fra due derive opposte. Tra la parte istituzionale, incarnata dall’Anpi, da un lato, e l’antifascismo antagonista e giovanile, dall’altro.
L’Anpi in questi ultimi anni ha cercato di rinnovarsi. Un’operazione riuscita a metà. Sono arrivate nuove iscrizioni, spesso di militanti in fuga dai partiti di sinistra, e si è assistito a una ripresa di vitalità. Ma in diverse situazioni si sono anche manifestate chiusure e indisponibilità al dialogo con le nuove generazioni. Un panorama vario e articolato, città per città. Prevalente è stato però, nel complesso, l’affermarsi di un profilo marcatamente istituzionale, con un’attività di tipo celebrativo quasi esclusivamente rivolta al passato. Lontano dal cogliere nella sua portata l’attualità e il pericolo delle nuove spinte xenofobe e razziste, quanto dell’irrompere sulla scena di nuove destre, nostalgiche e populiste. Emblematico il caso milanese, dove l’Anpi ha considerato “pericoloso” mobilitarsi il 18 ottobre scorso contro la manifestazione nazionale della Lega e di Casa Pound, con migliaia di camicie nere e verdi in piazza Duomo. Sistematica la rinuncia, anche in seguito, a contrastare ulteriori iniziative dell’estrema destra, tra l’altro in piazza Della Scala, sotto il comune, come di recente accaduto. L’opposto di Roma dove, invece, l’Anpi è scesa in piazza, senza tentennamenti, sempre contro Lega e Casa Pound, a fianco dei centri sociali, in un vasto schieramento antifascista, mobilitando decine di migliaia di persone. Due linee.

UNA REPUBBLICA ANCORA ANTIFASCISTA?

Vi sono certamente, sullo sfondo, le difficoltà del gruppo dirigente nazionale dell’Anpi a comprendere appieno alcuni mutamenti in corso nelle stesse istituzioni, sempre meno rispondenti al dettame costituzionale. In tutta Italia si tengono da anni iniziative pubbliche apologetiche del “ventennio”, con il costituirsi di formazioni apertamente neofasciste e neonaziste, con tanto di corollario di atti violenti, senza alcun vero contrasto istituzionale (si perseguono solo “i casi limite”). Ciò a prescindere dal succedersi di governi, ministri dell’interno, questori e prefetti, in una sorta di assoluta continuità. Un dato di fatto. Come la sospensione dell’applicazione di leggi ordinarie, in primis la legge Mancino, istituita proprio per contrastare l’istigazione all’odio razziale, etnico e religioso. Alla stessa Anpi, quando protesta, si replica asserendo la legittimità di tutti a esprimersi, fascisti compresi. Allo stesso modo si risponde alle interrogazioni parlamentari, a volte di deputati e senatori del Pd, paradossalmente da parte di altri esponenti del Pd al governo. Una rilegittimazione dei fascisti ormai avvenuta. Una nuova fase nella storia della Repubblica, al passaggio epocale del cambiamento della sua carta costituzionale. Affidarsi alle istituzioni democratiche per combattere i fenomeni neofascisti sta divenendo un evidente controsenso. Bisognerebbe prenderne coscienza. La crisi dell’antifascismo passa anche da qui.
Lo stesso futuro dell’Anpi appare incerto all’avvicinarsi del suo prossimo congresso nazionale. L’opposizione manifestata alle riforme in campo, sia elettorali sia costituzionali, sta producendo continui tentativi di contenimento, soprattutto attraverso l’azione del Pd ai livelli locali, volta a depotenziare, sfumare, se non apertamente intralciare, la linea ufficiale. Il rinnovo, in programma, del presidente nazionale dell’associazione sarà probabilmente l’occasione per cercare di “riallineare” l’Anpi, confinandola definitivamente a funzioni meramente celebrative. Un’eventualità più che concreta. 

L’ALTRO MOVIMENTO

Lontano dall’antifascismo istituzionale si muove ormai da diversi anni un’area composita di giovani organizzati in centri sociali, collettivi e associazioni, presente su una parte importante del territorio nazionale. Quasi un mondo a parte con cui l’Anpi il più delle volte rifiuta il dialogo. A questa realtà si deve spesso l’iniziativa di contrasto, in tantissime città, delle iniziative razziste e neofasciste. La loro generosità ricorda da vicino i «reietti e gli stranieri» di cui parlava negli anni Sessanta Herbert Marcuse ne L’uomo a una dimensione, quando negli Stati Uniti scendevano nelle strade per chiedere «i più elementari diritti civili», affrontando «cani, pietre e galera», a volte «persino la morte» negli scontri con la polizia. Rappresenta nel suo complesso una realtà antifascista di tipo diverso, per nulla istituzionale e poco propensa al perbenismo, cresciuta con propri simboli (le due bandiere dell’“antifa” sovrapposte, mutuate dalle battaglie di strada dei comunisti tedeschi a cavallo degli anni Trenta contro le squadre d’assalto naziste) e propri modelli storici, gli Arditi del Popolo, in primo luogo, espressione di un’unità dal basso dei militanti di sinistra oltre le appartenenze politiche.
Come nel caso recente di Cremona (gli scontri a gennaio dopo il ferimento quasi mortale di un militante di un centro sociale da parte degli squadristi di casa Pound), quest’area, a volte, fa prevalere l’azione diretta rispetto a ogni altro calcolo politico, restando priva di sbocchi e isolata anche dalla sinistra politica.
L’esigenza di un nuovo movimento antifascista è più che matura. Un movimento necessariamente plurale, aperto alle nuove generazioni, privo di steccati e istituzionalismi fuori tempo, in grado di relazionarsi con il presente e i pericoli rappresentati dagli attuali movimenti razzisti e neofascisti. La stessa capacità di trasmettere la memoria della Resistenza non può che partire da qui, per non ridursi a vuota retorica. Un rischio già presente. Questo nuovo movimento non può che nascere dal confronto e dalla capacità di dialogo fra i diversi antifascismi. Sarebbe il caso che per prima l’Anpi battesse un colpo.

SAVERIO FERRARI

Milano, 3 marzo 2015

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ANPI NEWS n. 157 – 31 marzo/7 aprile 2015:
NOTAZIONI DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI CARLO SMURAGLIA:
Quasi un mese fa, ho letto un articolo di Saverio Ferrari su “il manifesto”, intitolato: “Appello all’ANPI: guardi ai nuovi antifascisti”. Un articolo molto ampio, in cui si fornisce un quadro non proprio esatto dell’ANPI di oggi e del suo antifascismo, contrapponendogli un quadro di “nuovi” movimenti antifascisti, a cui si dovrebbe, praticamente - secondo l’A. - l’unica vera ed efficace iniziativa di contrasto del riemergente neofascismo e neonazismo. Non occorrono molte
parole per confutare un simile assunto.
Anzitutto, ragioniamo sull’immagine dell’ANPI, che avrebbe cercato – senza riuscirci – di innovarsi, mantenendo tuttavia uno spiccato carattere “istituzionale” e “collaborativo”.
Strano che Ferrari, che pure è stato – fino a poco tempo fa – componente anche di un organismo dirigente periferico (dell’ANPI), ci conosca così poco. 
Teniamo viva la memoria, è vero, ma è nostro dovere (altrimenti, chi lo farebbe?), e comunque ci sforziamo di renderla attiva, per aiutare soprattutto a conoscere i fatti della storia, anche perché servano di esempio e di monito per il futuro e favoriscano la riflessione storica.
Ma facciamo anche tante altre attività; ci occupiamo della scuola e della “cittadinanza attiva” (vedi il protocollo di intesa sottoscritto col MIUR il 24 luglio 2014 e in corso di attuazione), ci occupiamo delle stragi nazifasciste degli anni ‘43-‘45, non solo partecipando alle iniziative di ricordo, ma anche promuovendo seminari e convegni per irrobustire, con gli storici, la conoscenza di tutto quanto è accaduto; mettendo in cantiere un “Atlante delle Stragi”, che sarà d’importanza storica e per il quale siamo riusciti ad ottenere un finanziamento da parte della Germania; ci occupiamo delle riforme costituzionali, contrastando con forza ed energia quelle che ci appaiono non come modifiche, ma come stravolgimenti della Carta costituzionale; ci occupiamo di diritti, di pace, di lavoro, esercitando quella “coscienza critica” che ci è stata indicata come un dovere primario da parte del Congresso nazionale del 2011;
ci occupiamo di donne, di emancipazione, di libertà e uguaglianza; e tantissimo, di formazione non solo dei giovani ma anche dei nostri dirigenti. 
E tutto questo non è né statico né tanto meno “istituzionale” (ma cosa vuol dire, alla fine, questa espressione?).
Ci occupiamo, e molto, piaccia o no a chi chiede che l’ANPI “batta un colpo”, di antifascismo, non solo perché siamo sempre attivi nel richiamare gli organi istituzionali ed elettivi al ruolo che loro è assegnato da una Costituzione profondamente e nettamente antifascista, in tutte le sue norme, i suoi princìpi ed i valori che esprime, ma anche perché cerchiamo, in tutte le forme possibili, di contrastare i movimenti neofascisti e neonazisti, che si stanno sempre più
espandendo, nonostante le nostre iniziative e nonostante gli sforzi di quello che Ferrari definisce come “l’altro movimento”.
Non a caso, abbiamo tenuto un Seminario, su questi temi, con l’Istituto Cervi e nella sua sede; non a caso abbiamo tenuto un Convegno, a Roma, nell’aprile 2014 proprio sul modo di contrastare questi fenomeni. A quel Convegno avevamo invitato tutte le istituzioni (dico tutte) e sono venuti solo due parlamentari! Poi abbiamo pubblicato e diffuso un opuscolo che riassume i contenuti di quel Convegno e in cui sono collocate, in appendice, due sentenze
della Corte di Cassazione che considerano reato il saluto romano in luogo pubblico, fornendo così indicazioni precise ai nostri organismi periferici perché si attivino sempre, contattino Sindaci, Prefetti, Questori, facciano denunce all’Autorità giudiziaria, insomma scuotano il silenzio e l’indifferenza con cui il nostro Paese affronta (o meglio, non affronta) un problema che è grave, storicamente e politicamente, e denso di incognite per il futuro.
Certo, noi preferiamo i presìdi agli scontri frontali, evitiamo le occasioni di contrasto violento, cerchiamo di coinvolgere i cittadini e non di allontanarli, ma non manchiamo di adottare, in ogni occasione, le iniziative che riteniamo utili, o anche solo opportune. Bisogna riconoscere che gli esiti di questo impegno sono, a tutt’oggi, ancora limitati. Ma ottiene qualcosa di più “l’altro movimento”? Un corteo, uno scontro, sono più efficaci di un presidio? La realtà ci dice di no e ci insegna che ciò che conta è non rassegnarsi mai e contestare sempre le iniziative neofasciste, assumendo per primi le iniziative necessarie per controbatterle, per ottenere che vengano impedite, per suscitare le reazioni che dovrebbero provenire proprio dagli organi dello Stato e dagli Enti locali.
Tutto questo è un “calcolo politico”, come sembra sostenere l’articolo? Non è così, anche se è ovvio che bisogna dotarsi, contro un fenomeno grave e pericoloso, di una qualche strategia.
Non la intravvedo, questa strategia, nell’articolo, anche se presentata con una certa enfasi, ma in realtà limitata ai cortei, che talora sono utili, se richiamano l’attenzione e coinvolgono i distratti, ma sono semplicemente rischiosi se conducono ad uno scontro, quanto meno privo di effetti positivi. Che sia meglio unire le forze, non è dubitabile, ma bisogna farlo con un minimo di umiltà e di vera disponibilità, senza essere convinti di essere gli unici detentori della verità. Ci si chiede di “battere un colpo”; ma su che cosa, se siamo già in campo da
sempre e continuiamo, doverosamente e quotidianamente, ad interrogarci se quanto facciamo è sufficiente o possiamo e dobbiamo fare qualcosa di più efficace e come?
Io sono convinto che il problema principale stia in questo Stato, che non riesce a diventare antifascista, che non sente la memoria come un valore da coltivare, che non si pronuncia neppure di fronte ai fenomeni più gravi e appariscenti. Sono convinto che se il Ministero degli Interni desse direttive precise e conformi alle linee ed ai valori della Costituzione, se i rappresentanti periferici dello Stato si adeguassero, se tutti i Sindaci facessero capire con chiarezza che nel territorio che amministrano, i fascisti e i nazisti, comunque si chiamino, non sono graditi, qualcosa comincerebbe a cambiare. E sono convinto che bisogna superare quel muro di indifferenza e disimpegno che caratterizza tanta parte degli italiani. Se su questo si è disposti a svolgere un’azione comune, noi siamo già in campo e non abbiamo alcun bisogno di inventare nuovi organismi, mentre sentiamo forte l’esigenza di un antifascismo diffuso.
Non a caso in molte città esistono da tempo “Comitati antifascisti”, nei quali c’è sempre l’ANPI, che cercano di realizzare il coordinamento di azioni e unità di intenti; soprattutto c’è l’ANPI, che ha aperto dal 2006 agli “antifascisti” e ne ha tratto enorme vantaggio, non per i numeri ma per la crescita delle idee, dei confronti, delle proposte, delle iniziative.
Se abbiamo ancora bisogno di “crescere”, come sostiene l’articolo, ci si dia un contributo di idee e di proposte, ma non si pretenda di risolvere il problema contrastando proprio la forza più determinata e forte che è impegnata, su questo terreno, praticamente dalla Liberazione.
Non c’è da inventare nulla di nuovo; abbiamo suggerito di prendere sempre le iniziative più “tempestive”, di organizzare presìdi quando occorre e di fare manifestazioni quando sono idonee non solo a richiamare l’attenzione, ma anche ad allargare il fronte antifascista, anziché rinchiuderlo in un recinto. Abbiamo anche fornito gli strumenti per investire l’Autorità giudiziaria dell’esigenza di far applicare le leggi che ci sono, checché se ne pensi; stiamo organizzando un incontro di riflessione per capire meglio che cosa attrae i giovani e che cosa può suscitare in loro positivi ed efficaci entusiasmi, nel solco della Costituzione. Possiamo sbagliare, possiamo avere incertezze e dubbi sulle iniziative da intraprendere, ma cerchiamo di fare sempre meglio e di più, senza avventure. Se esiste un problema dei giovani (che dobbiamo cercare di capire noi, prima di ogni altra cosa), bisogna affrontarlo con serietà e approfondimento, nello sforzo di individuare una strada, suscitare interessi, proporre precise scelte di campo, rendendoci conto che anche fra loro ci sono differenze, modi di vedere ed agire diversi; e soprattutto che nessuno ne può rivendicare il monopolio. Nelle loro mani sta il futuro del Paese: sono loro che dovranno combattere le battaglie necessarie per preservare la democrazia da ogni pericolo; anche loro, però, dovranno fare le loro riflessioni e mettere in campo ricerche di identità e di prospettive. Noi possiamo confrontarci, anche richiamandoci alle nostre esperienze, per quel che valgono e fornire qualche spunto di riflessione, però con l’umiltà di chi ha sperimentato in concreto il valore e il significato delle “scelte” e non pretende che vengano adottate come modello, ma al più siano oggetto di conoscenza e di riflessione. Siamo di fronte a fenomeni che sembravano inimmaginabili, in una Europa che ha vissuto gli orrori della dittatura, della persecuzione dei “diversi”, della barbarie più disumana.
Tutto questo non è bastato a vaccinarci, tutti, contro il pericolo di ritorni al passato, anche se in forme diverse. Dobbiamo, dunque, fare di più e meglio, dobbiamo capire come e perché nascono certi movimenti e perché suscitano attenzione anche da parte dei giovani; e dobbiamo cercare di combatterli in forme unitarie, ma capaci di ampliare il consenso. Lo facciamo, tutto questo, senza iattanza, ma con convinzione e fermezza e con la ricerca continua di andare oltre gli schemi che già conosciamo, soprattutto per creare, nel Paese, un vero “clima “ antifascista . Siamo pronti, come indica il documento politico del Convegno di Torino, ad essere la “casa degli antifascisti” se sono disponibili anche al confronto e se considerano con attenzione tutto ciò che, talora faticosamente e magari qualche volta sbagliando, cerchiamo di fare. Non c’è bisogno, dunque, di case “nuove”, perché una l’abbiamo già e da molto tempo ed è una casa aperta per tutti coloro che vogliono, sinceramente e lealmente, perseguire l’obiettivo di un Paese più intimamente e profondamente antifascista e caratterizzato da una più solida democrazia.

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COMMENTO FINALE DI SAVERIO FERRARI:

La risposta del presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia in realtà è una non-risposta. Dopo più di un mese si è solo degnato di un commento sul bollettino interno dell’Anpi. Come dire: quell’articolo un dibattito pubblico non lo merita. Un atto di supponenza.
Per altro, con ogni evidenza, l’articolo uscito sul Manifesto, non è stato nemmeno davvero letto, preferendo procedere attraverso il metodo della caricatura. Lo schema è il seguente: da un lato c’è l’Anpi che agisce a tutto campo e che si impegna anche nei confronti delle istituzioni, ammettendo comunque non solo di non aver più sponde politiche in Parlamento, ma anche di non aver in questo campo conseguito alcun risultato, non traendo però l’ovvia conclusione che forse le stesse istituzioni stanno mutando natura (una delle considerazioni su cui si invitava a una riflessione), dall’altro si muove un informe movimento attraversato da pulsioni violente con cui nulla si vuole aver a che fare. 
Conclusione: c’è solo l’Anpi, non esiste nessuna altra realtà antifascista, tantomeno nata fra le nuove generazioni, qualora esistesse, è solo il frutto di un’invenzione o parte di una combriccola di teppisti, rimaniamo nella nostra torre d’avorio, autosufficienti e autoreferenziali. Non discutiamo, infine, con nessuno che ci pone problemi o mette in discussione le nostre certezze.
Peccato. Si tratta dell’ennesima occasione mancata per mettere l’Anpi in sintonia con la realtà. Fino a quando si penserà di poterlo fare?

SAVERIO FERRARI

Milano, 7 aprile 2015