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Divagazioni arancioni

1) Arancione evviva, ma è il colore giusto? / Naranđasto: dobro, ali je li to uprava boja? (E. Remondino)

2) Una scheda su AVAAZ ed il suo creatore Ricken Patel: si allunga il libro paga di Soros...


ALTRI LINK:

Sulla assemblea del movimento "arancione" << Cambiare si può >> si vedano ad esempio i report di Marco Santopadre:


http://www.contropiano.org/it/news-politica/item/13031-“cambiare-si-può”-reazioni-a-sinistra
http://www.contropiano.org/it/news-politica/item/12986-“cambiare-si-può”-cocci-e-buone-intenzioni

ed il commento video di Mario Albanesi:


Sulle attività della lobby di Soros a sostegno del fascismo in Georgia e della distruzione dello Stato laico e sovrano in Siria si veda:

Soros tente de relativiser le jihadisme en Syrie

Billionaires Bond in Tbilisi: Soros Connives with Ivanishvili

Tbilisi: Saakashvili Grants Paymaster Soros Georgian Passport



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Al di là delle posizioni anti-serbe e anti-Milosevic di Remondino, un articolo che vale la pena di leggere. 
Claudia






di Ennio Remondino -
Quel colore caldo. L’arancione è un bellissimo colore, caldo, vivace come il rosso ma più naturale, meno aggressivo nelle differenze con il resto della tavolozza. Arancione sono diventate alcune “rivoluzioni” recenti, in paesi a noi vicini. Ed ecco che la tentazione di riproporlo in chiave italiana prende campo. Del resto chi non avrebbe votato l’arancione del sindaco di Milano Pisapia rispetto all’azzurro ingrigito con cui la sindaco Moratti aveva vestito palazzo Marino? Arancione dell’ex magistrato De Magistris rispetto al pasticcio di un rosso opaco e litigioso nella bella Napoli. O a Genova tra il disorganico Doria rispetto al doppio rosa di apparato. Arancione è mia simpatia personale, ma il riferimento storico lascia perplessi. Almeno quelli di noi che per mestiere e per età qualcosa di più hanno visto e ricordano. Ed ecco un semplice “Amarcord”, promemoria delle vecchie “rivoluzioni arancione” da cui guardarsi, sottolinearne le differenze, prendere le distanze.
Arancioni a stelle e strisce. Il riferimento stampato è dal Manifesto del 30 Dicembre 2004. In Rai c’è senz’altro un Tv7 d’annata. Dai miei Balcani raccontavo di un «Serbo di Novi Sad», uno degli «istruttori» che ha allenato la piazza di Kiev contro il regime. Per idealità, dice, ma anche per soldi. I committenti? I governi Usa ed europei. E’ il «consigliere speciale» per l’Ucraina dell’American Freedom House. Accrediti professionali, Milosevic in galera all’Aja, Shevardnadze deposto in Georgia, e poi Yanukovic rovesciato. Tante trasferte e tanti «seminari sulla non violenza» tenuti da un ex colonnello della Cia, per lui e gli altri trainer. Chi paga?», chiedevo retoricamente allora, intervistando Stanko Lazendic. «Stanko è un giovane che nella vita ne ha viste molte, a cominciare dalla galera, che ha iniziato a frequentare dall’imporsi del regime di Milosevic. Diciassette arresti non sono male per un semplice leader studentesco, se mai Lazarevic è stato soltanto quello».
Storie lontane e utili memorie. Nulla di assimilabile a quanto di bello, di nuovo, di pulito, sta iniziando a muoversi in Italia. Ma ad evitare confusioni cromatiche, un ripassino di storia non guasta. Stanko Lazendic è stato uno dei fondatori del movimento studentesco serbo «Otpor», che vuol dire Resistenza, ed è da lì che parte tutto. Resistenza popolare e non violenta al regime di Milosevic in quel lontano 1998, quando il despota di Belgrado era ancora equivocamente corteggiato da molte cancellerie occidentali incerte fra l’adottarlo e il fargli guerra. Otpor nasce allora, ed è probabilmente l’unico erede del vasto movimento “antipartitico” di piazza che negli anni precedenti aveva quasi dato la spallata decisiva al potere della famiglia Milosevic. Poi i partiti tradizionali, anche quelli democratici, si erano ingoiati sia la «Rivoluzione dei fischietti» dell’ inverno `96-`97, sia le speranze di cambiamento interno senza interventi armati “umanitari”.
La fantasia al potere, ma non solo. Otpor rivoluziona la liturgia della politica, con i colori delle bandiere, nelle parole d’ordine, nella leadership collettiva, nella musica sparata in piazza a tutto volume, e nel costante sberleffo al potere. L’anima slava, sepolta sino allora nell’auto commiserazione, ne approfitta per tirare fuori la prorompente carica d’ironia e auto ironia della sua amara irriverenza. Ce l’avrebbero fatta da soli e prima e meglio, quelli di Otpor, con tutto il popolo serbo, se qualche stratega di Washington non avesse già deciso, in quella metà del 1998, che Milosevic serviva per collaudare la forza militare della Nato come guardiano del fronte Est dell’Impero. Quando, il 24 marzo del 1999 sulla Jugoslavia iniziano a piovere le bombe, Otpor si arruola, assieme a tutta la Serbia, non accanto a Milosevic, ma contro la Nato. Per loro quelle bombe sono insensate. Puntano al despota e colpiscono il popolo serbo e quello kosovaro. Memoria.
Quell’aiutino in più. La fantasia al potere della protesta, ma anche qualche soldino in più per manifesti, striscioni, apparato legale di difesa, bandiere, radio libere e Internet pirata. Molti di quegli studenti ormai abbondantemente fuori corso sembrava avessero studiato molto durante il duro inverno della guerra, lezioni sul come scardinare un rozzo apparato di potere per seppellirlo sotto il ridicolo della sua sostanziale impotenza. Anche Stanko Lazendic aveva studiato. In trasferta a Budapest, nella vicina Ungheria che ancora non chiedeva il visto per i serbi; altri suoi amici nel protettorato Nato della Bosnia o in quello statunitense del Montenegro. «Seminari» li chiamavano gli organizzatori, sulla «Resistenza non violenta». Due le cose interessanti che riesco ad ottenere dalla memoria di Stanko: il nome di almeno un «docente» e le molte sigle di chi pagava i conti di quelle trasferte di «studio». Che centra tutto questo con i nostri “arancioni”? Nulla, solo conoscere.
Rivoluzione col guanto di velluto. Nel marzo del 2000, uno dei docenti di Stanko all’Hilton di Budapest, fu un certo Robert Helvi, già colonnello della Cia, operativo a Rangoon e Burma. Lezioni per ogni movimento anticomunista che si rispetti, tecnica del Colpo di Stato col Guanto di Velluto. Quanti siano «pochi» i soldi che pagano le loro originali prestazioni professionali, Stanko Lazerdic non lo dice. In compenso ci racconta dei suoi committenti. «A volte le organizzazioni studentesche, a volte direttamente i loro finanziatori». La generosità democratica in Serbia, Ucraina, Georgia eccetera, ci dice Stanko Lazendic, esce dai conti correnti di Us Aid, l’organizzazione governativa statunitense, o dall’Iri, l’Istituto Internazionale Repubblicano (il partito allora di Bush), o dal suo gemello Democratico (Ndi), o dalla fondazione Soros, o dalla Freedom House, o dalle tedesche «Friedrich Ebert» e «Konrad Adenauer», o dalla britannica «Westminster». La pecunia che puzza.
Ovviamente è solo storia. Storia che pochi avranno l’opportunità di leggere su libri ufficiali che trattano di quelle ormai lontane (ma non lontanissime) vicende. Rispetto alle iniziative italiane in itinere con l’Arancione come colore simbolo di aggregazione pulita e innovativa, tutto questo valga soltanto come lontano ammonimento o non fidarsi di eventuali amici troppo organizzati. O troppo generosi. Sempre Stanko mi raccontava -documenti alla mano- che contro Shevarndnadze in Georgia, pagava Soros. La serba Otpor in formato esportazione partorì successivamente «Kmara» (Basta) a Tbilisi, e «Pora» (E’ ora) a Kiev. Non soltanto bei colori, ma anche slogan efficaci. Ma è poi così lontano, estraneo alla recente esperienza politica italiana tutto questo astruso e lontano racconto? Da quanto tempo il marketing pubblicitario è entrato in politica e di fatto la condiziona? Quando pesa oggi il web della rabbia e gli slogan dell’indignazione senza una proposta autentica?


Naranđasto: dobro, ali je li to uprava boja?

Ennio Remondino


Ta topla boja. Naranđasto je jako lijepa boja, živahna kao i crvena, ali prirodnija, manje agresivna u odnosu na razlike čitave palete. Naranđaste su nazvane izvjesne «revolucije» u nekim nama susjednim zemljama. I evo javlja se tendencija da ta boja prevlada i na talijanskom tlu.

Uostalom , tko ne bi glasao naranđastu boju milanskog gradonačelnika Pisapia u odnosu na plavu, što se pretvara i izblijedjelo sivu bivše gradonačelnice Moratti, kakva je u njeno vrijeme bila milanska gradska uprava, sa sjedištem u palači Marino? Naranđasto bivšeg suca De Magistrisa u odnosu na crvenu brlju, bez imalo sjaja, u posvađanom Napulju? Ili u Genovi, između Dorie, koji je bio nametnut izvana, u odnosu na dvostruko ružičastu upravnog aparata? Naranđasto je meni lično simpatična boja, ali historijske reference takvog su tipa, da moraju izazvati zapanjenost. Bar kod onih među nama, koji su s razloga profesije ili zbog godina vidjeli malo više i malo više pamte. Evo mog sjećanja, moje verzije fellinijevskog «Amaracorda», potsjetnika na «naranđaste revolucije», koje su se prilično davno dogodile i kojih se i te kako treba čuvati, podvlačiti njihove međusobne razlike i držati se što dalje od njih.

Bile su to naranđaste revolucije sa zvijezdama i sa prugama. Tako je pisao «il Manifesto» 30 decembra 2004. Sigurno u RAI-ju postoju o tome snimljeni zapis iz te godine u rubrici «Tv 7»(dana) . Tada sam s «mog» Balkana pričao o «Srbinu iz Novoga Sada», o jednom od «instruktora», koji je uvježavao istupe protiv režima na ulicama i trgovima Kijeva. Zbog ideje, veli, ali i za novce. A ko su bili naručioci? Vlade SAD-a i Evrope. Tako je postao «spcijalni savjetnik» za Ukrajinu American Freedom House. Imao je profesionalne akreditacije, jer je Milošević bio u zatvoru u Haagu, Shavernadze je bio prisiljen dati ostavku u Gruziji, a zatim je srušen i Yanukovič.

Koliko samo putovanja i koliko seminara «o nenasilju», koje je držao bivši pukovnik CIA-e, za njega i za ostale njegove drugare. «Tko plaća? » -postavio sam tada retoričko pitanje, inervjuirajući Stanka Lazendića. «Ovo je mladić, koji je mnogo toga vidio u životu, počevši od zatvora, u koji je počeo odlaziti vrlo često, otkad je Milošević došao na vlast. Sedamnaest puta bio je hapšen, što uopće nije malo za studentskog vođu, ukoliko je Lazendić ikada jedino to i bio.»

Davne priče i korisna sjećanja.Ne mogu se uopće usporediti s nečim lijepim, novim, čistim, što se počinje dešavati u Italiji. Kako bi se izbjegle kromatske konfuzije, ne škodi malo osvježiti pampćenje. Stanko Lazendić bio je jedan od osnivača srpskog studentskog pokreta «Otpor», što znači Rezistencija, i odastle je sve počelo. Otpor naroda, nenasilni, Miloševićevom režimu te davne 1998 godine, kad su se tom beogradskom despotu licemjerno udvarale mnoge zapadne vladine kancelarije, koje nisu bile baš načisto s tim, da li treba da ga posvoje ili da s njim zarate. Otpor nastaje u tom času i vjerojatno je jedini nasljednik širokog «antistrančkog» pokreta, koji se prijašnjih godina razvio na gradskim ulicama i gotovo da je uspio sam zadati odlučan udarac vlasti porodice Milošević. Zatim su tradicionalne partije, pa čak i one demokratske, progutale i pojele «Revoluciju pištaljki» u zimu 1996-1997, kao i nade na unutrašnji prevrat bez oružanih «humanitarnih» intervencija.

Fantaziju na vlast, ali ne samo nju. Otpor je revolucionirao političku liturgiju, sa bojama svojih zastava, sa svojim parolama i lozinkama, sa kolektivnim vodstvom, s muzikom koja je grmila na trgovima te permanentnim kreveljenjem i izrugivanjem vlasti. Slavenska duša, dotad sahranjena pod naslagama sažaljevanja samih sebe, iskoristila je trenutak, da izbije napolje i ispolji svoju poletnu snagu ironiziranja pa i autoironije i ruganja i sebi i drugima s ogorčenim nepoštovanjem. Bili bi to uradili sami i bili bi to uradili bolje oni iz Otpora, uz pomoć srpskog naroda, da neki vašingtonski strateg nije već bio odlučio, tada - polovinom 1998- kako će Milošević poslužiti za kolaudiranje militarističke ubojne snage NATO-a , kao čuvara istočnog fronta Imperija. Kada marta mjeseca 1999 po Jugoslaviji počinju pljuštati bombe, Otpor se javlja u vojsku, kao i cijela Srbija, ne uz Miloševića, već protiv NATO-a. Za njih su te bombe van pameti. Gađaju despota, a pogađaju srpski narod i narod na Kosovu. No to spada već u sjećanje.

Još jedna mala pomoć pri prisjećanju. Fantazija protesta na vlast, da, ali i ponešto parica za letke, za parole, za plaćanje advokata, za zastave, za slobodne radio stanice i za piratski Internet. Mnogi od tih studenata, koji su već odavna bili apsolvirali, čini se da su jako mnogo učili te zime u kojoj je Otpor zaratio s režimom: učili su kako izglaviti i razmraditi izvjestan grubi aparat moći i sahraniti ga, učinivši ga smješnim, zbog vlastite suštinske nemoći. I StankoLlazendić je također to učio. Premjestivši se u Budimpeštu, u susjednoj Mađarskoj, koja tada još nije tražila vize za srpske građane; i drugi njegovi prijatelji iz NATO-ovog protektorata u Bosni i Hercegovini ili iz američkog protektorata u Crnoj Gori bili su također tamo. Organizatori su to nazivali «seminarima» o «nenasilnom otporu». Dvije stvari uspio sam izvući iz Stankovog pamćenja: ime bar jednog od «docenata» na seminaru i nazive mnogih organizacija, koje su plaćale račune za ta putovanja i «studijske» boravke.

A kakve to veze ima s našim «naračastima»? Nikakve, ali neka se zna.

Revolucija u rukavicama od somota. U martu 2000 godine jedan od «docenata», koji je poučavao Stanka u hotelu Hilton u Budimpešti, bio izvjestni Robert Helvi, koji je kao pukovnik CIA-e , već bio operativac u u Rangoonu i u Burmi. Koliko je to nešto «parica», što su ih dobijali za svoje vrlo originalno profesionalno djelovanje, Stanko Lazendić nije želio kazti. Zato je govorio i opisivao vlastite naručioce. «Rjeđe su to same sudentske organizacije, a češće direktno oni, koji ih financiraju».

Demokratska velikodušnost Srbije, Ukrajine, Gruzije itd, tvrdi nam Stanko Lazendić, proističe direktno sa tekućih računa organizacija kao što je US AID, vladina organizacija Sjedinjenih Država, ili IRI, Internacionalni Republikanski Institut (tada Bushova stranka) ili od njegov rođeni brat, Demokrati (NDI), ili je to fondacija Soros ili pak fondacija Freedom House, ili su to njemačke organizacije «Friedrich Ebert» i «Konrad Adenauer» ili pak britanska «Westminster». Novac koji zaudara.

Naravno ovo je samo historija. Historija, koju će malo njih imati prilike čitati u službenim knjigama i udžbenicima povijesti, koje govore o tim davnim (ali ne predavnim) događanjima. U odnosu na talijanske incijative, koje su pokrenute s Naranđastom bojom, kao simbolom za nova i čista politička zajedništva, sve ovo treba da bude samo upozorenje izdaleka, koliko treba vjerovati izvjesnim malo previše organiziranim prijateljima. Ili prijateljima malo previše široke ruke. Stanko mi je to neprestano ponavljao – s dokumentima u ruci – kako je pobunu protiv Šavernazea u Gruziji platio Soros. Srpski otpor u eksport –formatu potom je porodio «Kmara»(Dosta!) u Tbilisiju i «Porà» (Vrijeme je!) u Kijevu. Nije se samo radilo o krasnim bojama, već i o efikasnim parolama. I, na kraju krajeva, da li je toliko daleka i strana, s obzirom na skorašnja talijanska politička iskustva, ta komplicirana i davna priča? Otkad je reklamni marketing ušao u politiku i otkad je on ustvari uslovljava? Šta danas može učiniti razbješnjeli web i koliko mogu uraditi indignirani slogani, ukoliko ne postoji autentični politički prijedlog?


(prijevod: Jasna Tkalec)



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Da: Raffaele Simonetti

Oggetto: R: [JUGOINFO] Canadian Minister praises Ustasha supporter Stepinac

Data: 30 novembre 2012 18.25.53 GMT+01.00


Cari compagni del CNJ,

questa vostra denuncia del ministro canadese Jason Kenney (senz'altro sacrosanta, presumo) mi ha molto stupito per il semplice fatto che invitiate a firmare la petizione dell'organizzazione Avaaz.

Su Avaaz e sul suo fondatore Ricken Patel allego una scheda (compilata per mio uso personale, non la si trova in rete) che dovrebbe essere di per sé illuminante.

Eventuali residui dubbi dovrebbero essere fugati dal notare che Ricken Patel figura all'89esimo posto nella graduatoria, uscita in questi giorni, del "100 eroi" Foreign Policy:

http://www.foreignpolicy.com/articles/2012/11/26/the_fp_100_global_thinkers?page=0,53#thinker89

saluti
Raffaele Simonetti
(Milano)

P.S.  in relazione alla provvidenziale  TOP 100 di Foreign Policy ho raccolto, più chiaramente, in questa pagina tutti i personaggi della classifica:
http://www.webalice.it/raffaele.simonetti/archives/FP_la_Top_100_2012_dei_pensatori_globali.html
che mi riprometto di arricchire chiosando brevemente i soggetti più interessanti e noti in Italia.
Per adesso ho iniziato con Rick Patel di Avaaz e accennato a Mario Draghi (avevate notato che precede George Soros ma è dietro le Pussy Riot ?).


Ricken Patel / Avaaz.org

Avaaz - Wikipedia

avaaz.org -WHOIS
Created On:01-Oct-1997
Registrant Name:Ricken Patel


Avaaz: Salvare gli oceani, impegnarsi per i rinoceronti, bombardare la Siria - 24 aprile 2012
… Leggo che l''ong è nata nel 2007 per iniziativa di altre organizzazioni, le principali delle quali sono MoveOn e ResPubblica.
La prima è un influente gruppo di azione politica on line presieduta da Eli Paliser (membro anche della seconda), politicamente vicino al partito democratico di Obama e dei Clinton (ministro ed ex presidente), e in passato finanziata (circa 5 milioni di dollari, stando a wikipedia) dal miliardario George Soros. …

Come Avaaz sponsorizza la propaganda di guerra - 7 marzo 2012

Come si abbattono i regimi - Giulietto Chiesa - 18 febbraio 2012

Sostenere il governo USA senza saperlo: il grave esempio di “Avaaz” - 18 febbraio 2012
… “Avaaz” è infatti una ONG creata da Ricken Patel, personaggio politicamente ben schierato a destra che gode del sostegno finanziario del patron della multinazionale informatica “Microsoft” Bill Gates e della Fondazione Rockefeller (il cui ruolo a favore dei governi americani è ben spiegato in quest’altro articolohttp://www.resistenze.org/sito/os/mp/osmp5a13.htm ). Non è tutto: “Avaaz” collabora strettamente con la famosa Fondazione Soros, una struttura vicina all’attuale governo statunitense e ai suoi servizi segreti che viene utilizzata per organizzare disordini e golpi nei paesi che in qualche modo non ubbidiscono ai diktat di Washington oppure che non autorizzano le grandi aziende occidentali a entrare nel loro mercato nazionale. …

Senate report: Funds funneled to private contractors in drug war go untracked - Brian Bennett - 8 giugno 2011
U.N. Secretary-General Ban Ki-moon, center left, accepts a End the War on Drugs petition last week from Ricken Patel, center right, of the advocacy group Avaaz, at U.N headquarters. Also pictured: former Brazilian President Fernando Henrique Cardoso, left, and Virgin Group chief Richard Branson. (Charles Sykes / Associated Press)

Fernando Henrique Cardoso

In this photograph taken by AP Images for Avaaz, UN Secretary-General Ban Ki-moon, center left, accepts the 'End the War on Drugs' petition from Avaaz Executive Director Ricken Patel, center right, accompanied by Richard Branson, right, and Fernando Henrique.

Can Avaaz change the world in a click? - Sarah Bentley 9 febbraio 2011
Patel has probably been preparing for this role all his life. Born in Edmonton, Canada, to a Russian-English mother and a South African-born Indian father it’s no surprise hisaffinity is with a global rather than national idea of citizenship. Aged 3, he knew about theCold War and the structure of the human cell and by 6 was striking up conversationsabout colonialism. He went to school on a Native Indian Reservation where he enduredbullying but, having read about the communities’ plight, claims to have felt empathy withhis persecutors. “I’ve always felt solidarity with people suffering injustice,” he says. “My theory is that my Mum gave me so much love I’ve always had extra to give.”

Kevin Libin: The third party no one talks about - Kevin Libin - 20 settembre 2010

Ricken Patel Bio - luglio 2010
… Ricken was voted "Ultimate Gamechanger in Politics" in 2009 by the Huffington Post and was named a Young Global Leader by the Davos World Economic Forum. Prior to Avaaz he lived in Sierra Leone, Afghanistan and other countries in conflict, and worked for the International Crisis Group, the Rockefeller Foundation, the International Center for Transitional Justice, and Res Publica. …

The new diplomacy: challenges for British foreign policy - 16 luglio 2007
The Rt Hon David Miliband MP, Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs
Co-moderated by Dr Robin Niblett, Director, Chatham House and Ricken Patel, Executive Director, Avaaz.org





Due articoli di Antonio Mazzeo

1) Di Paola va dove porta la guerra (16/11/2012)
2) Patto militare Italia-Israele. Un accordo scellerato e illegale (28/11/2012)


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VENERDÌ 16 NOVEMBRE 2012


Di Paola va dove porta la guerra


Il pomeriggio del 16 novembre 2011 quando giurarono fedeltà alla Costituzione i ministri-tecnici del primo Governo Monti, lui non c’era. “L’ammiraglio Giampaolo Di Paola, alla difesa, è in missione in Afghanistan per conto dell’Alleanza atlantica”, giustificò il premier. Da quel momento in poi il ministro con le stellette non si è fermato un attimo, sempre in giro per il mondo a promuovere la grandeur dell’Italia e l’efficienza del suo complesso militare industriale.

La prima visita ufficiale dell’ex Capo di stato maggiore ed ex presidente del Comitato militare della Nato - tredici giorni dopo l’insediamento - era a Berlino nel nome del ritrovato asse italo-tedesco per lo sviluppo dei missili e dei droni. Poi, una dietro l’altra, le missioni in Mauritania, nuovamente in Afghanistan, Gran Bretagna, Libano, Albania, Tunisia, Belgio, Russia, Stati Uniti (faccia a faccia con il Segretario alla difesa, Leon Edward Panetta, per predisporre il supporto logistico italiano alla missione Onu in Siria e parlare di scudo antimissile Nato e Afghanistan), Giordania, Giappone, Filippine, Francia, una seconda volta in Germania e Libano,Algeria, Lituania, Lettonia, ancora Afghanistan, Cipro, il Comando Nato di Bruxelles per il vertice dei ministri dell’Alleanza, Armenia e, a fine ottobre, a Gerusalemme per il “terzo vertice intergovernativo Italia–Israele” a riprova di una partnership sempre più fatta di esercitazioni congiunte, in Sardegna e nel Tirreno, nel deserto del Negev e nel golfo di Haifa, e di import-export di caccia, missili, satelliti e velivoli spia. Infine, qualche giorno fa, i bis in Algeria e in Francia (più correttamente a Parigi per la riunione con i ministri della difesa e degli esteri di Germania, Francia, Polonia e Spagna).

Quando è rimasto a Roma, l’instancabile ammiraglio è stato disponibile a ricevere in pompa magna una lunga lista di omologhi ministri alla guerra e alti ufficiali Usa e Nato: nell’ordine di arrivo in Italia, quelli di Canada, Sud Africa, Serbia, Filippine, Somalia, Macedonia, il Segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen (all’ordine del giorno“l’impegno in Afghanistan al termine della fase di transizione, la situazione nei Balcani, la difesa missilistica e la riforma dei Comandi e delle Agenzie dell’Alleanza”), Libia, Polonia, Kazakhstan, Somalia bis, Russia, Montenegro, Lettonia, il generale James N. Mattis comandante dell’U.S. Central CommandAfghanistan, Senegal, Slovenia, Vietnam, Azerbaijan, Francia, Colombia. Ovviamente molti dei vertici si sono conclusi con la firma di memorandum e accordi di mutua cooperazione tra le forze armate, war games e addestramenti congiunti, sperimentazione e acquisizioni di sistemi d’arma e attrezzature tecnologiche di alto valore strategico.

Pur consolidando gli impegni nei principali teatri di conflitto internazionale intrapresi dai predecessori (Afghanistan, Libano, Balcani, Corno d’Africa, ecc.), Giampaolo Di Paola ha chiesto di estendere la proiezione militare italiana ai turbolenti scenari del continente africano: innanzitutto la “nuova Libia” uscita esangue dai bombardamenti Nato ed extra-Nato dello scorso anno e a cui già forniamo intelligence, addestratori e consulenti (senza dimenticare il consenso a Washington a lanciare, dalla base di Sigonella, stormi di droni contro Tripoli e Bengasi); il Maghreb (dove la priorità resta la lotta all’immigrazione “clandestina” nel Mediterraneo); l’Uganda (da fine agosto un team dell’esercito a Kampala addestra al combattimento i militari locali destinati al fronte somalo e alla caccia di “terroristi” nella regione dei Grandi Laghi); il Kenya, con cui l’esecutivo Monti ha avviato un’“intesa per consolidare le rispettive capacità difensive e migliorare la comprensione reciproca sulle questioni della sicurezza”; il martoriato Mali (l’Italia ha rassicurato l’Unione europea e gli stati africani che non farà mancare il suo supporto all’ormai prossimo intervento multinazionale d’occupazione).

L’Italia è pronta ad andare ovunque e comunque, è l’assunto del ministro, per difendere i valori e gli interessi del tricolore, specie se questi coincidono con quelli dei manager e degli azionisti delle grandi aziende produttrici di materiale bellico. “Il settore industriale italiano nel campo sicurezza e difesa è ad alta tecnologia e ad alta innovazione, di rilevante importanza per lo sviluppo economico di questo Paese”, ha dichiarato Di Paola durante l’’audizione con la Commissione difesa alla Camera dei deputati, lo scorso 6 novembre. Poi ha aggiunto: Finmeccanica, la più grande delle industrie italiane nel settore ed una tra le più grandi a livello globale, impiega circa 70.000 unità lavorative e ha un fatturato di oltre 16-17 miliardi di euro all’anno e di questo, l’80% viene dal settore sicurezza e difesa. Questa realtà tecnologica e industriale, importantissima anche per l’occupazione e la crescita a cui contribuisce, deve essere sostenuta con investimenti appropriati e collaborazioni internazionali importanti”. E per sostenere Finmeccanica e socie, Di Paola è capace a rimettersi in viaggio tra un meeting e l’altro, visitando le maggiori fiere internazionali degli strumenti di morte, come quella “aerea” di Farnborough, Gran Bretagna (12 luglio) o l’Euronaval di Parigi – Le Bourget (24 ottobre).

Encomiabile il pressing su Monti, media e Parlamento per risparmiare alla Difesa l’offesa dei tagli della spending review“Lo strumento militare e le Forze armate italiane devono disporre di capacità operative e tecnologiche avanzate, tra le quali certamente rientrano quelle nel settore delle forze aeree, come la linea dei cacciabombardieri F-35”, ha spiegato Di Paola in Commissione difesa. “L’ammodernamento dello strumento militare, però, è molto più ampio ed articolato ed investe programmi di rinnovamento delle forze terrestri, quali la Forza NEC (Network Enabled Capabilities), delle unità navali, degli elicotteri, dei sistemi satellitari, di difesa missilistica, di comando, controllo e comunicazione e dei droni, che rappresentano il futuro di questo settore”. Un programma di ammodernamento ad ampio raggio, dunque, con un occhio particolare alla guerra cibernetica, “la nuova frontiera della minaccia”, secondo il ministro.

Così, per sostenere l’impeto riarmista e consolidare il trasferimento di ingenti risorse finanziarie pubbliche alle industrie militari anche in tempi di crisi, Di Paola ha rilanciato la trasformazione del modello “difesa”, dove i “risparmi” per la progressiva riduzione del numero di avieri, marinai e fanti si convertiranno in “investimenti” in caccia, sottomarini, carri armati, droni e apparati elettronici. Il tutto condito da qualche opportuno gioco di prestigio nella predisposizione dei bilanci. Come ad esempio quello di posticipare gli ordini di qualche anno, spalmando le spese su più annualità (i nuovi velivoli blindati “Freccia” di Iveco e Oto Melara sono così slittati dal 2013 al 2016, i due sottomarini U 212 invece del 2016 arriveranno l’anno successivo, gli elicotteri d’attacco NH90 di AugustaWestland dal 2018 al 2021, quelli AW101 dell’Aeronautica dal 2014 al 2017, l’adozione dei missili “Spike” a bordo dei famigerati “Mangusta” dal 2017 al 2014).
Di contro nel 2013 saranno acquistati sistemi di cui nessuno sino ad oggi aveva parlato: 40 blindati multi-uso e anti-mine del consorzio tedesco Iveco-Krauss (costo 120 milioni di euro ma c’è l’opzione per altri 40), un imprecisato numero di mortai da 81 mm (16 milioni), un “velivolo senza pilota tattico UAV” per la Marina militare da utilizzare “per la sorveglianza e le operazioni navali anti-pirateria”, ecc.. All’esordio pure lo “sviluppo” dell’MC-27J, la versione dotata di cannoniere dell’aereo da trasporto C-27J “Spartan” prodotto da Alenia Aermacchi. E che nessuno dica che a Palazzo Baracchini non si operi alacremente…

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MERCOLEDÌ 28 NOVEMBRE 2012


Patto militare Italia-Israele. Un accordo scellerato e illegale


Il Medio oriente è in fiamme. La Siria è in ginocchio, migliaia di profughi fuggono in Libano, in Turchia, in Giordania. Tel Aviv mobilita le forze terrestri, aeree, navali. Minaccia d’intervenire in Golan e di lanciare i suoi missili e i suoi caccia contro decine di “obiettivi strategici” in Iran. Intanto cannoneggia la striscia di Gaza e schiera carri armati e blindati alla frontiera con il Libano. Scenari di guerra che non sembrano intimorire più di tanto le forze politiche e il governo italiano. Quest’ultimo, anzi, trova pure il tempo d’inviare a Gerusalemme una delegazione d’eccezione, il premier con sei ministri, per il terzo summit intergovernativo in meno di due anni. Per rafforzare la partnership politica e militare e moltiplicare affari e scambi commerciali. Il comunicato ufficiale emesso lo scorso 25 ottobre è come sempre laconico. “In occasione del vertice Italia-Israele, al quale ha partecipato il Presidente del Consiglio, Mario Monti, il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola ha incontrato il suo omologo dello Stato di Israele, Ehud Barak. A conferma dei solidi rapporti di amicizia e di collaborazione esistenti tra i due Paesi, sono stati approfonditi i temi inerenti alla cooperazione industriale nel settore della Difesa”.

Il faccia a faccia tra i ministri della guerra è stato preceduto da una serie d’incontri tra i massimi rappresentanti delle rispettive forze armate. Il 7 e l’8 febbraio 2012, il sottocapo di Stato maggiore israeliano, generale Nimrod Sheffer, ha incontrato a Roma i responsabili dell’Aeronautica italiana per “approfondire i processi di trasformazione in atto nelle due aeronautiche, le esperienze maturate nei rispettivi teatri di operazione e le future attività addestrative”. Il successivo 14 giugno è stato il comandante delle forze aeree israeliane, generale Ido Nehushtan, a giungere in Italia in missione ufficiale.

Meeting e visite di cortesia si sono sommate a tre importanti esercitazioni aeronavali bilaterali. Le prime due si sono svolte a fine 2011 in Sardegna (nome in codice Vega) e nel deserto del Negev (Desert Dusk). Durante i war games sono stati simulati combattimenti aerei tra cacciabombardieri F-15 ed F-16 israeliani ed “Eurofighter” e “Tornado” italiani; inoltre sono stati eseguiti veri e propri lanci di missili aria-terra e di bombe a caduta libera. Dal 3 all’8 novembre 2012, nelle acque prospicienti la città di Haifa, si è tenuta invece la prima edizione dell’esercitazione Rising Star a cui hanno partecipato i palombari artificieri del Gruppo operativo subacquei del COMSUBIN (Comando Subacquei ed Incursori) di La Spezia e i Divers (specialisti sommozzatori) della Marina israeliana.

L’accordo che disciplina la partnership militare tra Italia e Israele risale a sette anni fa ed è stato ratificato dal Parlamento italiano il 17 maggio 2005. Nella parte “pubblica” del testo (esisterebbe infatti un memorandum segreto mai sottoposto alla discussione e al voto dei parlamentari) si legge in particolare che la “cooperazione” fra i due paesi riguarderà in particolare “l’industria della difesa, l’importazione, l’esportazione e il transito di materiali militari, le operazioni umanitarie, l’organizzazione delle forze armate e la gestione del personale la formazione e l’addestramento, i servizi medici militari”. Sempre per l’accordo, le attività si svilupperanno grazie “alle riunioni dei ministri della Difesa, dei Comandanti in Capo e di altri ufficiali autorizzati, lo scambio di esperienze fra gli esperti delle due parti, l’organizzazione e l’attuazione delle attività di addestramento e delle esercitazioni, le visite di navi e aeromobili militari e ad impianti, lo scambio di informazioni, pubblicazioni e hardware, la ricerca, lo sviluppo e la produzione di sistemi d’armamento”. “Italia e Israele si adopereranno al massimo per contribuire, ove richiesto, a negoziare licenze, royalties ed informazioni tecniche, scambiate con le rispettive industrie”, recita l’articolo 3 dell’accordo di mutua collaborazione. E ancora: “Le Parti faciliteranno inoltre la concessione delle licenze di esportazione necessarie per la presentazione delle offerte o proposte richieste per dare esecuzione al presente Memorandum”.

Senza troppi giri di parole, l’import e l’export di sistemi d’arma devono essere l’essenza delle consolidate relazioni tra Roma e Tel Aviv, in palese violazione della legge italiana che disciplina il commercio di tecnologie belliche e che vieta le vendite a paesi belligeranti o i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali dei diritti umani. Israele riassume in sé tutte le caratteristiche per dover essere posta al bando dal complesso militare industriale italiano: le sue forze armate sono sistematicamente impegnate su più fronti di guerra e dal 1967 occupano ancora buona parte della West Bank. Inoltre il regime d’apartheid instaurato contro la popolazione palestinese e gli stessi cittadini israeliani di origine araba è stigmatizzato dalle principali organizzazioni non governative internazionali. Non ultimo, Tel Aviv non ha mai firmato il Protocollo di Non Proliferazione Nucleare e da tempo immemorabile, anche grazie la collaborazione tecnico-scientifica di Stati Uniti ed Unione europea, a Dimona, nel deserto del Negev, si costruiscono armi nucleari (secondo gli istituti di ricerca indipendenti Israele sarebbe già in possesso di più di 200 testate).

Nonostante la riesplosione della crisi mediorientale, proprio il 2012 ha rappresentato l’anno chiave nei trasferimenti di sistemi d’arma tra i due paesi. Il 19 luglio, in particolare, il Ministero della difesa italiano e l’omologo israeliano hanno ratificato la fornitura alle forze armate israeliane di 30 velivoli da addestramento avanzato M-346 “Master” prodotti da Alenia Aermacchi. La commessa ha un valore di poco inferiore al miliardo di dollari ma prevede vantaggiose contropartite per le industrie israeliane. Elbit Systems, azienda specializzata nella produzione di tecnologie avanzate, svilupperà il nuovo software che verrà caricato sugli addestratori. Il Virtual Mission Training System (Vmts) “ingannerà i sensori degli M-346 simulando le funzioni di un moderno radar di scoperta attiva capace di gestire numerose funzioni tattiche, nonché scelte d’armamento complesse”, riporta la World Aeronautical Press Agency. “Utilizzando il software una volta in volo, il pilota in addestramento potrà esercitarsi in scenari avanzati, quali la guerra elettronica, la caccia alle installazioni radar e l’uso di sistemi d’arma all’avanguardia”. Alle future guerre le forze aeree israeliane si addestreranno cioè con il made in Italy.

In cambio dei caccia, Tel Aviv ha anche imposto che l’aeronautica militare italiana si doti di due velivoli di pronto allarme “Gulfstream 550” con relativi centri di comando, controllo e sistemi elettronici, prodotti daIsrael Aerospace Industries (IAI) ed Elta Systems (costo complessivo, 800 milioni di dollari circa). Selex Elsag, una controllata di Finmeccanica, s’incaricherà per conto delle aziende israeliane a fornire ai velivoli i “sottosistemi” di comunicazione e link tattici secondo gli standard Nato. Le forze armate italiane dovranno pure acquistare un sistema satellitare elettro-ottico ad alta risoluzione di seconda generazione “Ofeq”, anch’esso di produzione IAI ed Elbit Systems (245 milioni di dollari). Prime contractor degli israeliani sarà Telespazio, azienda controllata in parte da Finmeccanica, che assicurerà entro il 2015 la costruzione del segmento terrestre, il lancio e la messa in orbita del nuovo sistema satellitare.

Quest’anno, l’Aeronautica italiana ha pure deciso d’installare sugli elicotteri EH101 e sugli aerei da trasporto C27J “Spartan” e C130 “Hercules” un nuovo sistema di contromisure a raggi infrarossi, denominato Dircm - Directional infrared countermeasures, co-prodotto da Elettronica Spa di Roma ed Elbit Systems. Venticinque milioni e mezzo di euro la spesa, con consegne che saranno fatte entro la fine del 2013. Gli elicotteri d’attacco AW-129 “Mangusta” di AugustaWestland, in dotazione all’esercito italiano, dal prossimo anno saranno armati invece con i missili aria-terra a corto raggio “Spike” prodotti da un’altra importante azienda militare israeliana, Rafael. I missili, con una gittata tra gli 8 e i 25 km, potranno esseri equipaggiati con tre differenti tipologie di testata bellica a seconda dell’uso: anticarro, antifanteria e per la distruzione di bunker. Roma e Tel Aviv puntano infine a sviluppare congiuntamente nuovi velivoli a pilotaggio remoto UAV (i famigerati droni) e a cooperare nella produzione e nella “gestione logistica” del nuovo cacciabombardiere a capacità nucleare F-35, uno dei programmi più costosi della storia mondiale dell’aviazione da guerra.

Mentre i programmi di riarmo italo-israeliani sono condivisi e sostenuti da tutte le forze politiche presenti in Parlamentare, si sta rafforzando tra alcune forze sociali e no war la convinzione che la solidarietà al popolo palestinese non può essere disgiunta dalla mobilitazione per ottenere l’embargo militare nei confronti di Israele. Singoli cittadini, associazioni e comitati di base hanno dato vita alla Campagna BDSper “il boicottaggio, il disinvestimento e sanzioni nei confronti di Israele” fino a che esso “non porrà termine all’occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe e smantellerà il Muro; riconoscerà i diritti fondamentali dei cittadini Arabo-Palestinesi di Israele alla piena uguaglianza; rispetterà i diritti dei profughi palestinesi al ritorno nelle loro case e nelle loro proprietà come stabilito nella risoluzione 194 dell’ONU”.

Lo scorso 13 ottobre, di fronte allo stabilimento Alenia Aermacchi di Venegono-Varese, si è tenuta la manifestazione nazionale Nessun M346 a Israele per chiedere la revoca della vendita dei caccia addestratori alle forze armate israeliane, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Pax Christi, la Commissione Giustizia e Pace dei Missionari Comboniani, Attac, Arci – Servizio Civile, Assopace e una serie di soggetti che sostengono il popolo palestinese. “Quella di Varese è stata una manifestazione anche contro lo scellerato accordo del 2005 di cooperazione militare, economica e scientifica tra il nostro Paese ed Israele”, ha spiegato Elio Pagani per il Comitato promotore. “Un accordo che non è stato scalfito neppure dall’Operazione piombo fuso del dicembre 2008 - gennaio 2009, che ha visto Israele colpire con il suo potere aereo la popolazione palestinese civile inerme (1.400 uccisi, di cui circa 400 bambini). Un’azione militare brutale, senza giustificazioni, nella quale sono state usate anche armi sconosciute o già vietate dalle Convenzioni internazionali (fosforo bianco, bombe D.I.M.E., uranio impoverito) e nella quale Israele ha commesso crimini di guerra e contro l’umanità”.

 

Articolo pubblicato in Adista, n. 43 dell’1 dicembre 2012




(Di seguito i comunicati della Lega della Gioventù Comunista - SKOJ-NKPJ - e dei Comunisti di Serbia - KS - in occasione del "Dan Republike" cioè il 29.XI., festa nazionale nella RFSJ. Sullo stesso argomento si veda anche il nostro post recente

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http://www.skoj.org.rs/108.html

NKPJ i SKOJ OBELEŽILI 29. NOVEMBAR – DAN REPUBLIKE

28. novembra u susret proslavi Dana Republike, u Beogradu, u sali Novi svet u Ustaničkoj 17, sedištu Nove komunističke partije Jugoslavije i Saveza komunističke omladine Jugoslavije održana je svečana akademija posvećena Danu Republike.

Skupu se obratilo partijsko rukovodstvo, Generalni i Izvršni sekretar, još nekoliko članova sekretarijata, a reč je dobila i jedina živa pripadnica Prve proleterske udarne brigade, inače članica naše Partije, drugarica Nada Gagović.

Drugarice i drugovi su britko govorili o civilizacijskom doprinosu rađanja socijalističke republike, herojskom podvigu onih koji su svoje živote i druge žrtve dali za nju, ali i o aktuelnosti sećanja na datum kada je ona rođena. „Jugoslavija se nije naprosto raspala, ona je u krvi rušena imperijalističkim stremljenjima na Balkanu, a uz saučesništvo domaće pete kolone, tj svih onih koji su videli vlastiti interes u procesu rasturanja Jugoslavije. Pored povampirenih četnika i ustaša, ideološke sabraće, tu petu kolonu, što je bilo još važnije, činilo je samo rukovodstvo tzv. Saveza komunista Jugoslavije, čija je vrhuška koja se klela na vernost Josipu Brozu i zaista nije skretala s puta koji im je on odredio, u celosti stala na stranu kontrarevolucionarnih promena čiji je ultimativni cilj bio rasturanje Jugoslavije i svrgavanje ostataka socijalističkog društvenog uređenja u njoj. Jugoslovensko državno i partijsko rukovodstvo odrođeno od radničkih masa i intersa proletarijata Jugoslavije je postepeno radilo sve što je neminovno išlo ka njenom ukidanju, te otud nije slučajno što su se ciljevi imperijalizma i rezultati politike Saveza komunista podudarili u trenutku kada je konačno izvedena kontrarevolucija a Jugoslavija rasturena pre 20 godina. Taj proces, proces rasturanja Jugoslavije je unekoliko aktuelan i danas. Imperijalisti još uvek nisu pouzdano utvrdili granice novih država koje su na teritoriji Jugoslavije nastale, što suštinski oličava čin političkih pritisaka i ucena u njihovom interesu na tlu Balkana. Ti su pritisci trenutno najaktuelniji u vidu haških nepravdi. Za Haški sud, polugu imperijalizma, Jugoslavija nikako nije neaktuelna, on se njom i te kako zanima, a svakako ne da bi narodi Jugoslavije živeli u miru, slozi, solidarnosti i jedinstvu, već sasvim suprotno. Trenutno su aktuelni i pritisci koje domaće buržoaske vlasti sprovode rehabilitacijama onih koji su tokom revolucije za vreme Drugog svetskog rata činili sve kako do te revolucije, tj rađanja socijalističke republike ne bi došlo. To bi trebalo poručiti svima koji smatraju da je socijalistička Jugoslavija u punom smislu prošlost ili samo banalna stvarnost jugonostalgičara. Takođe treba konstatovati da utisku koji vodi ka banalizaciji aktuelnosti obeležavanja dana formiranja socijalističke republike, odbrane njenih tekovina u doslednom antiimperijalističkom borbenom duhu, održive kritike (a takva je samo marksitičko-lenjinistička) procesa koji otpočinju njenim rasturanjem i borbe protiv istih, doprinose i oni koji svojim nedijalektičnim patetičnim žalopojkama za zemljom koje više nema obeležavaju Dan Republike privatno, kod kuće uz pečenje i rakiju, ljudi u zrelom dobu maskirani u titove pionire ispred spomenika i muzeja, u etnoparku u Zagorju ili u virtuelnom prostoru društvenih mreža“ – poručeno je između ostalog na akademiji.

Dužni smo da se sećamo Dana Republike, ali smo u još većoj obavezi da se danas borimo za novu socijalističku revoluciju koja predstavlja zakonomernu etapu u civilizacijskom napredovanju naroda bivše Jugoslavije.

Nemamo vremena za setne emocije, borba se nastavlja, nema šta da čekaš!

Sekretarijat SKOJ-a,
Beograd, 29. novembar 2012.god.

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http://www.komunistisrbije.rs/29novembar2012.html

ČESTITKA KOMUNISTA SRBIJE POVODOM 29. NOVEMBRA DANA REPUBLIKE

            Dragi drugovi,
 
            povodom jednog od najvećih praznika u istoriji naših naroda i narodnosti čestitamo Vam 29. novembar – Dan republike koji simbolizuje sve naše pobede u slavnoj Narodno-oslobodilačkoj borbi, socijalističkoj revoluciji i četrdesetpetogodišnjoj socijalističkoj izgradnji.
 
            Na žalost, novonastale marionetske države ukinule su obeležavanje ovog velikog praznika naših naroda i narodnosti, ali se time ne mogu izbrisati iz sećanja istorijske činjenice vezane za 29. novembar. Danas živimo u vremenu u kome su gotovo sve vrednosti perioda socijalizma poništene i marginalizovane. Naša ružna stvarnost u kojoj živimo bi morala biti podstrek i obaveza, pre svega komunističkih i radničkih partija sa prostora Jugoslavije, da se što je moguće snažnije izbore za reafirmaciju pozitivnih poruka koje simbolizuje ovaj dan.
 
            Još jednom čestitamo ovaj veliki praznik svim bratskim komunističkim i radničkim partijama sa željom da naša saradnja i borba protiv kapitalizma bude što uspešnija i delotvornija.
 
                                                                                                               U ime Komunista Srbije,
                                                                                                                 Svetozar Markanović




(italiano / english)

Protest against austerity measures in Slovenia /
Sulle recenti proteste contro le politiche di austerità in Slovenia

1) Notizie recenti in lingua italiana
2) Slovenia threatened with national bankruptcy (WSWS 10/9/2012)
3) Protest against austerity measures in Slovenia (WSWS 27/11/2012)
4) FLASHBACK: L'ipoteca clericale che grava sulla Slovenia (2011-2012)


LINKS:

SLOVENIA "INDIPENDENTE": TUTTO IN SVENDITA (2 Agosto 2012)

Slovenia: NO to NATO, NO to austerity measures (8 Luglio 2012)

Slovenia: "cancellati" dalla secessione anagrafica (1 Luglio 2012)

LA GRANDE FESTA DEI DOMOBRANCI (27 Giugno 2012)

Masovni generalni štrajk u Sloveniji (20 Aprile 2012)

Attacchi alla cultura anche in Slovenia (17 Febbraio 2012)


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Slovenia: 30 mila in piazza contro austerità

17 Novembre 2012 - Oltre 30 mila sloveni hanno manifestato oggi a Lubiana per protestare contro la politica di austerità portata avanti dal governo di destra del premier Janez Jansa. 'Vogliamo vivere - Non sopravvivere', 'Il governo perde la testa - La Slovenia la sua giovinezza', 'Politica di austerita' uguale Recessione', questi alcuni degli slogan mostrati dai manifestanti su cartelli e striscioni.
Per Dusan Semolic, leader dell'Alleanza dei sindacati indipendenti sloveni (Zsss), responsabile della crisi attuale è il 'capitalismo avido e selvaggio' che impera in Europa e negli Usa, e che rende vana ogni riforma sociale. La Slovenia, che fa parte della Ue dal 2004 e della zona euro dal 2007, é in piena recessione, con il pil che dovrebbe calare del 2% quest'anno e dell'1,4% nel 2013.
L’iniziativa è stata lanciata dal sindacato del settore pubblico Ksjs, dalla confederazione indipendente Zsss e dall’associazione Knss, insieme all’organizzazione studentesca e all’associazione delle società dei pensionati. Negli ultimi mesi le misure anti-crisi del governo di Janez Jansa sono state oggetto di forti contestazioni, soprattutto quelle che prevedono tagli al settore pubblico. Uno dei provvedimenti più contestati dai sindacati è quello relativo al taglio del 5 per cento degli stipendi del settore pubblico.

(fonte: Redazione Contropiano 


Slovenia, dilaga la rivolta sociale nelle piazze

28 novembre 2012 - La rivolta di piazza si espande in Slovenia a macchia di leopardo. Dopo gli scontri di Maribor a scendere nelle strade è stata la capitale Lubiana. Per proteggere il palazzo del Parlamento e quello del governo la polizia ha schierato un cordone di poliziotti in assetto anti-sommossa. Il motto dei manifestanti è «Gotof je» (è finito) che riecheggia quello scandito nelle strade di Belgrado al momento della cattura di Milosevic e la sua consegna al Tribunale dell’Aja. Altre manifestazioni di piazza sono attese ancora a Lubiana, venerdì, e a Postumia, Capodistria, Murska Sobota, Novo Mesto e Kranj.
 
(fonte “Il Piccolo”)


Slovenia: proteste antiausterity e scontri a Maribor e Lubiana

1 Dicembre 2012 - Anche nella piccola e paciosa Slovenia le condizioni di vita peggiorano di giorno in giorno, scatenando la rabbia dei manifestanti che tentano di irrompere in Parlamento. Scontri e arresti in numerose città alla vigilia del ballottaggio delle presidenziali di domani.
Potremmo dire, per sdrammatizzare, che anche gli sloveni, nel loro piccolo, si incazzano.
E' infatti di parecchi feriti e di una trentina di manifestanti arrestati il bilancio degli scontri avvenuti ieri sera a Lubiana, la capitale della Slovenia, durante una protesta contro la politica di sacrifici e tagli del governo di destra di Janez Jansa e contro la corruzione della ''casta politica''. 
Alle proteste di ieri, che non hanno avuto una convocazione formale ma sono nate dalla mobilitazioni di alcune reti e organizzazioni non partitiche, hanno partecipato almeno 10 mila persone nella capitale e altre decine di migliaia in quasi tutte le principali città del piccolo paese. Rispetto alle proteste indette dai sindacati e dalle opposizioni negli ultimi mesi, inoltre, ieri si è assistito a una radicalizzazione della protesta, segno della maggiore determinazione di alcuni dei promotori della manifestazione e del rapido deteriorarsi delle condizioni di vita in Slovenia.
Contro un gruppo di manifestanti che nella capitale ha tentato di irrompere in Parlamento, la polizia ha usato i manganelli, i gas lacrimogeni e addirittura i cannoni ad acqua, arrestando una trentina di giovani e di lavoratori. 
Alcuni dimostranti hanno risposto alle cariche lanciato contro la polizia petardi, sassi e bottiglia, e secondo alcuni media all’interno del corteo avrebbero fatto la propria comparsa giovani vestiti completamente di nero e incappucciati. 
Le proteste erano iniziate lunedì scorso a Maribor, la seconda città della Slovenia, dove varie migliaia di persone avevano chiesto le dimissioni del sindaco e della giunta comunale, accusati di corruzione e di malgoverno. Anche in quel caso vi erano stati scontri con la polizia con alcuni feriti e arresti, e dopo il duro intervento della Polizia contro i manifestanti di Maribor, collettivi e gruppi sociali hanno invitato a scendere in piazza anche nelle altre città.
È in questo clima esplosivo, inusuale in uno dei paesi ritenuti più tranquilli dell’Europa centro-orientale, che domani in Slovenia si tiene il ballottaggio per le presidenziali fra il presidente uscente di centrosinistra Danilo Turk e lo sfidante, l'ex premier socialdemocratico Borut Pahor, dato per favorito dai sondaggi.
Chi vincerà dovrà gestire un paese in crisi verticale, con l'11,5% di disoccupazione, un'economia troppo dipendente dalle esportazioni e quindi a picco a causa della crisi, e con un governo che cerca di far cassa imponendo tagli verticali a cultura, sanità, istruzione, lavoro pensioni. 

(fonte: Redazione Contropiano 


Slovenia: vince Pahor, socialdemocratico pro-austerity

3 Dicembre 2012 - Affluenza scarsissima al ballottaggio per le presidenziali, vinte da un 'socialdemocratico' alleato della destra che annuncia lacrime e sangue. 
L'ex premier socialdemocratico Borut Pahor è diventato ieri il quarto Presidente della Slovenia, vincendo con ampio margine al ballottaggio nonostante il suo sostegno alle impopolari misure di austerità del governo. 
Pahor ha conquistato il 67,44% dei consensi, contro il 32,56% del suo principale avversario, il Presidente uscente Danilo Turk, liberale ed esponente di centrosinistra critico con le misure annunciate dal vincitore. 
Pahor, 49 anni, ha ottenuto non solo i voti del suo partito, ma anche quelli della 'Lista dei cittadini', espressione della coalizione di governo di centro-destra. 
L'11 novembre scorso, l'ex premier si era imposto al primo turno, con il 39,9% dei voti, smentendo tutti i sondaggi. "Questa vittoria è solo l'inizio di una nuova speranza, di un nuovo tempo - ha detto Pahor quando già gli exit poll lo vedevano in vantaggio - se vinco, questo risultato sarà un messaggio forte per tutti i politici sloveni sul fatto che servono collaborazione e unità per risolvere le difficoltà economiche". 
Ma l'affluenza alle urne è stata appena del 41,95% ieri (il 48,25% al primo turno), la più bassa da quando il piccolo paese si è reso indipendente dalla Iugoslavia nel 1991, scatenando l’implosione dello Stato federale con il sostegno di Austria, Germania e Vaticano. 
I sogni di gloria degli sloveni, entrati nell’Ue nel 2004 e nell’Eurozona nel 2007, si sono presto volatilizzati. Il paese è sull’orlo della bancarotta, con una disoccupazione quasi al 12% e la possibilità di un commissariamento da parte della troika a base di tagli e licenziamenti sulla scia di quanto già accaduto in Grecia, Spagna, Portogallo o Irlanda.
Pahor ha già affermato che collaborerà con il governo di centrodestra del primo ministro Janez Jansa, che, tra l'altro, vuole alzare l'età per andare in pensione, rendere più flessibile il mercato del lavoro facilitando i licenziamenti e precarizzando i contratti, tagliare gli stipendi dei lavoratori pubblici. Il tutto con la scusa di fare fronte ad un deficit di bilancio del 4,2%.
Nei giorni scorsi numerose manifestazioni popolari hanno scosso la relativa tranquillità che regna normalmente nel piccolo paese, e scontri tra manifestanti e polizia si sono avuti a Maribor e poi nella capitale Lubiana, dove migliaia di giovani e lavoratori hanno chiesto le dimissioni di Jansa e la fine delle politiche dei sacrifici a senso unico.

(fonte: Redazione Contropiano 


Slovenia; indignati ancora in piazza, scontri a Maribor

4 dicembre 2012
 - Nuovi scontri, arresti e feriti in Slovenia alle manifestazioni di protesta contro "la corruzione e la casta politica", in particolare a Maribor, seconda città del Paese dove ieri sera hanno protestato tra le 8 e le 10 mila persone, a seconda delle fonti.
Le manifestazioni di ieri sono state le più grandi finora, dal 26 novembre scorso quando è esplosa la rabbia degli “indignati in Slovenia”, organizzati tramite le reti sociali in internet, proteste dirette in particolare contro il sindaco di Maribor, Franc Kangler, preso di mira perché travolto da una serie di scandali di corruzione e clientelismo. Stamane la polizia ha riferito che negli scontri tra i gruppi più violenti e le forze dell’ordine sono rimasti feriti nove poliziotti. In tutto sono state arrestate 120 persone ed è stato fortemente danneggiato il palazzo del municipio, nel quale è stata lanciato un ordigno infiammabile. Danni hanno subito anche altre strutture pubbliche della città.
Manifestazioni si sono tenute anche a Lubiana, Celje ed in molte altre città, ma senza incidenti. Sul gruppo Facebook che raduna ormai circa 50 mila persone favorevoli alle proteste è stato annunciato che si continuerà a scendere in piazza ad oltranza, fino a un cambiamento radicale della politica economica del Paese. L’elezione domenica scorsa di Borut Pahor a presidente della Slovenia, secondo i manifestanti, non cambierà nulla dato che lui “rappresenta una vecchia faccia in una nuova poltrona”. Da parte di alcuni politici forti critiche sono state mosse ai mezzi di comunicazione, specie alla tv pubblica, che sarebbe complice nell’alimentare lo scontento e le proteste con continue dirette delle manifestazioni. La stampa oggi cita anche alcuni analisti secondo i quali l’ondata di proteste potrebbe avere un effetto negativo sul fronte internazionale, dato che le manifestazioni potrebbero destabilizzare il governo conservatore di Janez Jansa e costringerlo ad alleggerire la politica di austerità, ma al contempo alimentare sfiducia
 
(fonte AnsaMed )


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Slovenia threatened with national bankruptcy


By Markus Salzmann 
10 September 2012


Slovenia is likely to be the next candidate for the European bailout scheme. Although the country’s total debt is relatively low at 47 percent of GDP, the crisis gripping Slovenia’s three largest banks threatens to drag the country into the abyss.

In this regard, it is already being talked about as “the Spain of Central Europe.” As in Spain, cheap loans in Slovenia unleashed a huge real estate boom that exploded in 2008 with the global financial crisis. All the country’s major construction companies went bankrupt; the banks were left sitting on billions of euros in bad loans.

Slovenian economist Joze Damjan estimates the total amount of defaulting loans at between €6 billion and €8 billion. Without government assistance the banks cannot survive, but if the state, which owns about 50 percent of the banks, has to pay out for all their bad loans, the budget deficit would climb to 28 percent of GDP.

Slovenian Prime Minister Janez Jansa said at the weekend that Slovenia could be bankrupt in October. If a proposed bond issue for October fails, Slovenia is threatened with insolvency, according to the head of the centre-right coalition in Ljubljana.

Slovenia has been an EU member since 2004 and a member of the euro zone since 2007. The former Yugoslav republic has long been regarded as a paragon among the Eastern European accession countries, but the global financial crisis has brought the rotten foundations of Slovenian capitalism to light. In 2009, GDP fell by more than 8 percent, and last year the country was again in recession.

In the second quarter, economic output declined year-on-year by 3.2 percent. Ratings agency Moody’s downgraded Slovenia’s credit rating to just above junk status. Interest rates on 10-year government bonds are near the critical 7 percent mark.

With 2 million people and a GDP of €35 billion, Slovenia has one of the smallest economies in the EU. According to analysts, a “bailout” would currently cost about €5 billion. The major concern of the international financial elite, however, is the effect on other European countries.

“In the worst-case scenario, Austria is clearly vulnerable because its banking system is most exposed in Slovenia,” William Jackson of the London research firm Capital Economics told the news agency APA.

Jackson regards the further development of Slovenia negatively. The country faces several years of fiscal consolidation, which would lead to a vicious cycle of weak economic growth, lower government revenues and the need for additional consolidation, he said.

Nevertheless, representatives of international financial institutions and the EU are demanding Jansa’s coalition implement radical austerity measures.

Suma Chakrabarti, head of the European Bank, said in an interview with news agency STA that an important step in solving the economic problems for the euro zone member was the slimming down of the state and a much greater role for the private sector. Chakrabarti was referring to the relatively high proportion of state holdings in banks and companies.

OECD Secretary-General Angel Gurria tied aid directly to brutal cuts: “Why do we not talk about a reform of the pension system, labour market, banking sector, a debt ceiling, the privatization of state companies, before we talk about whether aid packages are needed or not?”

Economic analyst Andraz Grahek also pleaded for radical social cutbacks as a “rescue measure.”

In this context, the call for political unity between the right-wing government and the opposition Social Democrats is getting louder. For example, Slovenian Economics Minister Radovan Zerjav appealed: “I have called on the Slovenian political elite to seek a consensus on key issues. Above all, it’s about saving the banks. After all, without that there is no recovery of the Slovenian economy.”

The government needs a two-thirds majority in parliament in order to pass the reform plans, which is only possible with the votes of the opposition.

In recent years, there have been fierce clashes between the Social Democrats, who come in part from the former communist state party, and the right-wing bourgeois parties. There is absolutely no question that the Social Democrats, like the government, will advocate a drastic austerity programme. In December 2011, the Social Democratic government of Prime Minister Borut Paho collapsed.

Jansa and the right wing had prevented the Social Democrats from implementing a pension reform through a referendum. Sections of the current opposition in turn oppose the austerity plans of Jansa, in whose five-party coalition there are considerable disputes. Jansa postponed a vote of confidence in August because he had to reckon with a defeat.

The Jansa government has already prepared a “crisis budget for 2013 and 2014,” providing for the inclusion of a debt ceiling in the constitution and fundamental reforms of the labour market and pension system. The government is also considering the creation of a “bad bank” to rehabilitate the country’s ailing financial institutions at the expense of the state budget. In addition, companies with high levels of public ownership—such as Adria Airways, insurer Triglav, oil company Petrol and the state-owned telecoms corporation—are to be privatized.

In May this year, the government had already approved an austerity package: public spending is to be reduced in 2012 by €800 million and by €750 million in 2013. At the same time, the Slovenian parliament agreed to a reduction in corporation tax, lowering the rate from 20 percent to 18 percent. It will fall by another percentage point every year from now on, reaching 15 percent by 2015.



=== 3 ===


Protest against austerity measures in Slovenia


By Markus Salzmann 
27 November 2012

On November 17, around 30,000 people protested in the Slovenian capital Ljubljana against the austerity policies of the centre-right government of Prime Minister Janez Jansa. Workers, civil servants, pensioners, students and artists demanded an end to the draconian austerity measures introduced by successive governments in recent months and years.

Participants gathered with banners at the city centre and demanded: "Social Security, new jobs and against state repression." Members of the Occupy movement chanted: "We will not pay for your crisis". A large banner with the text "Enough!" was unfurled at the historic castle which stands on a hill overlooking the city,

The right-wing government led by Prime Minister Jansa is planning further cuts in pensions, social benefits and salaries of public employees in order to reduce the federal deficit from its current level of 4.2 percent to three percent. In addition, the government plans to extend the retirement age and significantly restrict employment protection.

Since 2008 the Jansa government and the preceding social democratic government have introduced drastic cuts lowering living standards dramatically. In July, the salaries of public employees were cut by three percent along with the slashing of other allowances.

A few years ago politicians and economists singled out Slovenia as a role model for the European Union. Now it is regarded as the most likely new candidate for a European bailout. As in other European countries the economic crisis has been used to organize a major redistribution of social wealth from the working layers of the population to a wealthy elite.

Slovenian banks, most of them state-owned, are sitting on a mountain of bad loans totalling 6.4 billion euros. According to the Central Bank in Ljubljana, 18 percent of corporate loans were at risk of default at the end of 2011. The collapse of the two country's largest banks was only prevented by multiple injections of public finance.

Slovenia is now mired in recession. Its economy contracted in the second quarter of this year by 3.2 percent. According to the International Monetary Fund (IMF) the government deficit will increase to 52 percent of GDP by the end of the year. In 2008, this rate stood at 22 percent. The rating agency Moody's recently downgraded the country and interest payments on the country's ten-year government bonds are approaching the critical 7 percent mark.

The consequences for the population are devastating. Unemployment has doubled since the 2008 economic crisis and now stands at 12 percent. Youth unemployment stands at 17.7 percent. Despite the fact that the prices for many basic commodities have risen considerably average salaries fell in August by 2.4 percent and in September by 3.8 percent compared to one year earlier.

In October the Slovenian parliament voted to establish a state holding company to promote the privatization of the country's remaining public enterprises. It is assumed that the planned privatisations will lead to thousands of additional redundancies. The Jansa government also plans to establish a bad bank, where the country's troubled banks can deposit their bad loans at public expense.

Plans have been announced to hold referenda opposing the setting up of both the state holding company and the bad bank. In mid-November, parliamentary speaker Gregor Virant gave the green light for a campaign to collect signatures for a referendum against the establishment of a bad bank. Starting on November 19, 40,000 signatures must be collected within 35 days to ensure that the referendum takes place. It could then take place in January next year.

The right-wing government coalition wants to prevent such referenda in future. The coalition currently holds 48 of the 90 parliamentary seats and hopes to achieve in future elections the two-thirds majority necessary to pass a constitutional amendment. All-party talks towards obtaining such majority have been taken place for several months.

The current presidential elections are also dominated by the crisis. In the first ballot the former prime minister and social democrat Borut Pahor won 40 percent of the vote and leads non-party incumbent Danilo Türk who received 36 percent. Milan Zver, who is backed by the Jansa government, received just 24 percent.

Pahor and Türk, who will both take part in the second ballot in December, are both advocates of radical austerity measures. Pahor was forced to resign as prime minister last year because his government collapsed following its inability to implement its desired reform program. Since then Pahor is regarded as politically damaged goods and has little support even in his own party.

The situation is somewhat different for Türk, who can rely on support from Zoran Jankovic, the mayor of Ljubljana and leader of the party "Positive Slovenia". Jankovic's party won the most votes in its first showing in the parliamentary elections held last year but could not form a government. Victory for Türk in the presidential election would in turn be provide a political boost to Jankovic who is waiting in the wings to replace the Jansa government.

Against a background of popular protests, Türk is advocating collaboration with the unions in order to enforce further cuts with the unions and has called for pension and labour market reforms to be introduced "in harmony" with the unions.

The trade union organizations are backing Türk in the presidential election and also fully support the planned austerity measures. The protest on Saturday was prepared by three trade unions together with pensioner and student organizations in order to allow demonstrators to let off steam and thereby prevent independent protests which could genuinely challenge the government.

In the course of the last twenty years the Slovenian trade unions have been faithful servants to the ruling elite. In recent years they have supported the savings programs introduced by large companies such as Telekom Slovenije, the household appliance manufacturer Gorenje and the Petrol energy company—all at the expense of the workforce.

This is why more and more workers are turning their backs on the unions. The largest trade union confederation ZSSS, which emerged in 1990 from the former official communist trade union originally had a total of 400,000 members. Today there are only a little over 200,000 left in the organisation.




=== 4: FLASHBACK ===


Slovenia - 02 maggio 2012
 
http://www.viedellest.eu/news/2012/05/02/turismo/turismo.htm
 
Chiesa e Stato ai ferri corti per l'isolotto del Lago di Bled
 
In Slovenia, Stato e Chiesa sono ai ferri corti per la proprietà degli immobili dell'isolotto sul Lago di Bled. Tutta colpa dell'ex governo di centro-sinistra - leggiamo su Il Piccolo - che nel periodo del suo mandato si è rivolto al Tribunale di Kranj per fare invalidare un precedente accordo sottoscritto nel 2008 dall'allora ministro della Cultura Vasko Simoniti (di centro-destra), in base al quale lo Stato affidava l'isolotto del lago di Bled alla Chiesa e trasferiva la proprietà degli immobili alla parrocchia di Bled, ossia all'arcivescovado di Lubiana. Nel frattempo però l'intraprendente parroco, Janez Ferkolj, ha dato il via alla ristrutturazione del negozio di souvenir e della trattoria presenti sull'isolotto. I lavori sono iniziati a fine gennaio e i nuovi locali sono stati inaugurati all'inizio di aprile. Un investimento da 300mila euro, ottenuti in parte grazie al biglietto di "ingresso" di 3 euro che ciascun turista deve acquistare per accedere all'isolotto, in parte con un mutuo bancario. La scorsa settimana era attesa la decisione togata, ma i giudici hanno deciso di prendersi altro tempo chiedendo alle parti di fornire ulteriore documentazione scritta in difesa delle reciproche posizioni in merito alla vicenda. Scaduti i termini, la corte avrà un mese per emettere la sentenza.



Slovenia: la chiesa tra anime e investimenti in borsa


Se ne è andato per limiti di età. Ma in realtà sul suo commiato pesa un gravissimo crack finanziario della diocesi che guidava dalla metà degli anni '80. E' Franc Kramberger, vescovo di Maribor. La chiesa slovena, dal comunismo all'euforia degli affari
Era entrato in scena tra le polemiche e tra controversie ancora maggiori se ne è andato. Il vescovo di Maribor, Franc Kramberger, era stato nominato a metà degli anni '80 alla guida della seconda, per importanza, diocesi slovena, nell’ambito di una serie di avvicendamenti voluti dal Vaticano. La cosa fece andare su tutte le furie le autorità dell’epoca. Non che si avesse nulla di particolare contro il prelato, ma semplicemente si credeva che quel posto spettasse a Vekoslav Grmič, che per 12 anni era stato vescovo ausiliario della città.
I comunisti infatti apprezzavano le posizioni “progressiste” di quest’ultimo e le sue tesi che volevano il “socialismo più vicino al vangelo”. Per il regime, la manovra aveva chiaramente l’obiettivo di emarginare Grmič e lui stesso non mancò di mandare una lettera risentita al pontefice. Giovanni Paolo II in quel periodo era impegnato a dare un maggiore rigore dottrinario ed uniformità alla chiesa e il “socialista” Grmič non rientrava certamente nei piani del Vaticano.


L'addio

L’uscita di scena di Kramberger non è stata però accompagnata da polemiche di natura ideologica ma da scandali economici. Il prelato ufficialmente se ne è andato per raggiunti limiti d’età, ma nel suo discorso di commiato ha chiesto scusa anche per i suoi errori in campo finanziario.
 
Il pontefice l’ha sollevato dall’incarico agli inizi di febbraio, dopo che sul settimanale italiano “L’Espresso” era uscito un articolo in cui si accusava la sua diocesi, ovvero le società finanziaria ad esse connessa, di aver creato un buco di “un miliardo” di euro. Da Maribor hanno subito precisato che le cifre non reggono, ma non hanno negato la profonda crisi in cui versano le società della diocesi.


Anime ed affari

La storia iniziò già negli anni Novanta quando la chiesa, oltre che ad occuparsi dei fedeli, pensò bene di entrare anche nel mondo degli affari. Con il crollo del regime comunista per i vertici ecclesiastici le cose cambiarono repentinamente. Dopo aver giocato, per quarant’anni, un ruolo marginale finalmente poterono tornare a rinverdire i fasti del passato in tutti i settori della società: anche in quello imprenditoriale.
In Slovenia il clero aveva tradizionalmente avuto un ruolo centrale ed aveva acquisito un notevole patrimonio immobiliare che il regime comunista aveva nazionalizzato in fretta e furia. Dopo l’indipendenza castelli, monasteri, boschi e terreni vennero in gran parte restituiti alla chiesa, che si trovò nuovamente a gestire un cospicuo patrimonio.
La diocesi di Maribor così, cominciò coraggiosamente a muoversi nel mondo della finanza fondando una banca, delle società d’affari e acquisendo un’impresa che operava nel settore delle telecomunicazioni, la T-2. Fare business in Slovenia del resto sembrava cosa “buona e giusta”. Il mercato azionario tirava e investire in borsa pareva un gioco da ragazzi visto che le azioni erano in costante rialzo.
Non furono pochi i piccoli risparmiatori che affidarono i loro soldi alle società controllate dalla chiesa, si parla ora di circa 60.000 persone. Negli anni del boom la T-2 pensò bene di lanciarsi nell’ambizioso progetto di munirsi di una propria rete a fibra ottica. L’impresa offriva ai cittadini connessioni telefoniche ed internet di nuova generazione, nonché un nutrito pacchetto di programmi televisivi via cavo.


Programmi a luci rosse

Proprio a causa della TV ben presto nacquero le prime polemiche. In Slovenia sono molto diffusi vari tipi di collegamento via cavo o satellitari; mentre soltanto 1/3 della popolazione riceve il segnale televisivo attraverso le tradizionali antenne. Nell’offerta delle TV a pagamento, ovviamente, non manca nemmeno una ricca scelta di canali per soli adulti.
Questi ultimi non potevano mancare neppure nel pacchetto della T-2, anche se il fatto che una società di proprietà dei vescovi avesse programmi a luci rosse non mancò di suscitare ilarità o stizzite reazioni. Era sin troppo semplice accusare la chiesa di avere una doppia morale: da una parte difendeva i valori della famiglia tradizionale e chiedeva costumi sessuali morigerati, dall’altra non si preoccupava di offrire filmini pornografici per far cassa. Ad onor del vero la curia avrebbe visto di buon grado la cancellazione di quei programmi, ma si dovevano fare i conti con i circa 100.000 abbonati e con il danno economico che ci sarebbe stato se si fosse deciso di togliere quei canali.
In ogni modo l’allegra gestione delle finanze delle società legate alla diocesi di Maribor è stata presa in esame da un “visitatore apostolico” , inviato dal Papa, che non ha potuto far altro che constatare la gravità della situazione.


Santa sede non informata

Quello che sembra emergere è che la diocesi abbia agito senza tener conto delle severe regole del Vaticano in materia di investimenti e senza che la Santa sede ne fosse informata in alcun modo. Sta di fatto che ora ci sono molti soldi da restituire alle banche, che hanno allegramente concesso finanziamenti alle società dei preti. Per ottenerli sono state date in garanzia azioni, che ora sono poco più che carta straccia e persino qualche edificio di proprietà del clero.
Quello che è più grave, però, è che a rimetterci potrebbero essere i piccoli risparmiatori che hanno affidato i loro soldi alle società dei vescovi. La Conferenza episcopale slovena, che in questi giorni sta cercando di correre ai ripari, sembra compatta nel ribadire che cercherà prima di tutto di tutelarli. Ora si promette di voler far chiarezza e di essere intenzionati a punire esemplarmente i responsabili. Il colpo, comunque, per la chiesa è durissimo ed il danno d’immagine è evidente.
Il clero sloveno del resto, all’inizio di quest’anno ha dovuto già digerire la rimozione del suo più prestigioso rappresentante a Roma. Il cardinale Franc Rode, pur restando uno degli uomini importanti della curia pontificia, ha perso il posto di Prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, ufficialmente per raggiunti limiti d'età. Non sono però mancate velenose speculazioni sulle sue amicizia con Marcial Marciel, il contestato fondatore della congregazione dei Legionari di Cristo.




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(srpskohrvatski / italiano / english)

‘Yugoslav Tribunal’ in hands of organized crime

1) Nikolic: il tribunale deve liberare tutti i serbi
2) ЗЛОЧИНИ ПРОТИВ СРБА СЕ НЕ КАЖЊАВАЈУ ! Izjava Beogradskog Foruma za Svet Ravnopravih
3) ‘Yugoslav Tribunal’ in hands of organized crime


=== 1 ===


Nikolic: il tribunale deve liberare tutti i serbi

29. 11. 2012. - 20:39 -- MRS

Il Presidente della Serbia Tomislav Nikolic ha dichiarato a Kraljevo che dopo la liberazione del leader dell’UCK Ramus Haradinaj da parte del tribunale dell’Aja tutti i serbi devono lasciare il tribunale. Se l’operazione militare dell’esercito croato Tempesta non era un crimine, se Haradinaj non ha commesso nessun crimine, dove saranno trovati i crimini? Dai rappresentanti politici, oppure dai comandanti dell’esercito e della polizia? Tutti i serbi che si trovano nel tribunale dell’Aja devono essere liberati subito, ha detto Nikolic. Non può accadere che i popoli siano in guerra e che soltanto un popolo sia punito per i crimini commessi da tutti. La liberazione di Haradinaj avrà conseguenze pesanti sul processo della riconciliazione dei popoli nella nostra regione. Dopo tutto non potremo mantenere gli stessi rapporti con i Paesi limitrofi come avevamo prima, ha dichiarato il Presidente della Serbia.


=== 2 ===


БЕОГРАДСКИ ФОРУМ ЗА СВЕТ РАВНОПРАВНИХ
29. новембар 2012. године

Ослобађање команданта албанске терористичке „ОВК“ Рамуша Харадинаја за злочине против Срба на Косову и Метохији, након ослобађања хрватских команданата „Олује“ Готовине и  Маркача за етничко чишћење 200.000 и убиство 2.000 Срба,  су најновији показатељи вишедеценијске антисрпске стратегије водећих чланица НАТО и ЕУ.  Те земље користе све полуге да смањују и слабе Себију као политичког и економског фактора на Балкану истовремено награђујући Хрватску, Бошњаке и Албанце. Зато је основно питање да ли ће Србија прихватити стратегијски одговор на такву дугорочну политику, или ће наставити поводљиву политику самопонижавања, самообмањивања и бесконачних уступака на рачун животних националних и државних интереса.


=== 3 ===

Der ursprüngliche Artikel:
»Beweisnotstand«. Den Haag ist fest in Mafia-Hand
Von Werner Pirker - junge Welt, 31.11.2012
oder http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/7504



‘Yugoslav Tribunal’ in hands of organized crime


By John Catalinotto on December 7, 2012 

The following is from an editorial by Werner Pirker in the German daily newspaper, Junge Welt, Nov. 30, translated by John Catalinotto. Pirker writes about the NATO-created Tribunal on the former Yugoslavia, which persecuted President Slobodan Milosevic and other Serb leaders following its creation.


The United Nations Security Council’s unlawfully appointed tribunal for war crimes in the former Yugoslavia — only the U.N. General Assembly should have called it into being — is brazenly flaunting its criminal character. Two weeks ago the Croatian general, Ante Gotovina, who was convicted of war crimes in 2005 and sentenced to 18 years in prison, was acquitted in a second trial. Now the former KLA (“Kosovo Liberation Army”) commander and former Kosovo prime minister, Ramush Haradinaj, whose first trial in 2008 had already ended in an acquittal, left the Hague, Netherlands, as a free man.

Even The Hague judges could not dispute that the KLA committed crimes — not only against Serbs and other non-Albanian Kosovars, but also against pro-Yugoslav Albanians who opposed the insurgents’ ethnocentric terror regime.

The court’s opinion, however, was that there was no evidence proving the guilt of Haradinaj and two of his co-defendants. Had the defendants been Serbs, then the Tribunal would have brought the charges under the guarantee of applying the principle — that it had itself invented — that there was a “joint criminal enterprise” (JCE).

In the case of Croatian massacre generals and that of the KLA commander of Western Kosovo known as “the Butcher,” no assumption was made that the defendant was per se a member of a collective group of murderers. According to the logic of The Hague Tribunal, since they are not Serbs, they therefore could not have been involved in a plan that ranged from ethnic cleansing to genocide.

Gotovina was the supreme commander of “Operation Lightning,” which was involved with massive ethnic cleansing to allow for the integration of the hitherto predominantly Serb-inhabited Krajina province into the Croatian federation.

Haradinaj was one of the most brutal enforcers of the full Albanianisation of the southern Serbian province. The alleged ethnic cleansing of Kosovar Albanians by the Serbs and the threat of genocide were pretexts for the bombing campaign against Yugoslavia in 1999. In reality, the Kosovo residents were fleeing the NATO bombing. After the destruction was completed, the ethnic cleansing began — with the goal of a pure Albanian Kosovo.

The judges of The Hague not only are aware of the crimes committed by the KLA, they also know why they lack of evidence about it. And they said that openly in the justification of their findings. Since everyone who made statements in his first trial that incriminated Haradinaj attracted the murderous arm of the KLA, there were no longer witnesses who would dare to speak out against the organized gang of criminals who were now wielding state power. The Hague Tribunal has apparently subordinated itself to the Mafia’s conception of justice.




(italiano / english / srpskohrvatski)

COMUNISTI CONTRO IL TRIBUNALE DELL'AIA

Una risoluzione del Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia - NKPJ - contro il "Tribunale ad-hoc" dell'Aia è stata approvata al 14esimo Incontro internazionale dei partiti comunisti, tenutosi a Beirut a fine novembre.
Il giornale serbo Danas ha scritto, tra le altre cose, che "il risultato raggiunto all'incontro (l'approvazione della risoluzione) ottiene particolare peso se si considera che la risoluzione è stata approvata anche dal Partito Socialista dei Lavoratori Croato (SRP): 'Loro hanno accettato la risoluzione e hanno adottato lo stesso atteggiamento del nostro
partito. Anche se il SRP non ha influenza parlamentare, esso esprime le posizioni del proletariato croato
', ha detto il segretario esecutivo del NKPJ e delegato dello stesso all'incontro di Beirut, Aleksandar Banjanac" 

(Sintesi a cura di AD; si veda più sotto il testo della Risoluzione)


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3/12/2012 18:14 | Beograd

U Bejrutu usvojena rezolucija na predlog NKPJ


Komunisti protiv Haškog tribunala


AUTOR: MARIJA KOJČIĆ

Beograd - Tribunal u Hagu formiran je kako bi se prikrile činjenice koje vode do glavnih nalogodavaca krvavog rasturanja Jugoslavije, a čiji krvavi imperijalistički trag vodi i do najnovijih ratnih operacija u Gazi, u Siriji, širom Bliskog istoka, do Libije, Iraka, Avganistana - ovako glasi deo teksta rezolucije „Ujedinjeni protiv imperijalističke poluge međunarodnog kriminalnog tribunala za bivšu Jugoslaviju u Hagu“ usvojene na 14. međunarodnom sastanku komunističkih i radničkih partija, koji je ove godine održan u Bejrutu od 22. do 25. novembra.


Rezoluciju je predložila Nova komunistička partija Jugoslavije (NKPJ), jedna od učesnica skupa čiji je domaćin bila Libanska komunistička partija.

Aleksandar Banjanac, izvršni sekretar NKPJ, koji je predstavljao partiju u Bejrutu, izjavio je za Danas da je usvajanje rezolucije izraz solidarnosti s Balkanom, gde je, kako naglašava, rušilački karakter imperijalizma još prisutan, kao i snaženja stava protiv „NATO države“, nezavisnosti Kosova i raspada Jugoslavije. „Rezoluciju su podržale kako male i neuticajne partije u svojim zemljama, tako i one koje vladaju ili su značajne u svojim društvima, na drugom ili trećem mestu po snazi u političkim arenama svojih država. Tako su svoj potpis za usvajanje rezolucije, između ostalih, dale KP Francuske, Španije i Indije“, kazao je Banjanac.

Kako je naglasio, rezultat postignut na sastanku u Bejrutu posebno dobija na težini ako se zna da je rezoluciju podržala i Socijalistička radnička partija iz Hrvatske (SRP). „Oni su prihvatili rezoluciju i zauzeli isti stav prema Tribunalu kao naša partija. Iako SRP nema parlamentarnog uticaja, ona izražava stav hrvatskog proleterijata“, rekao je izvršni sekretar NKPJ.

Međunarodni sastanak komunističkih i radničkih partija održava se krajem svake godine. Ovaj u Bejrutu, čija je tema bila „Osnažimo borbu protiv eskalacije imperijalističke agresivnosti, za zadovoljenje socio-ekonomsko-demokratskih prava i aspiracija ljudi, za socijalizam“, održan je zbog napete situacije na Bliskom istoku, budući da skup uvek demonstrira solidarnost među komunistima, ali i sa narodom u čijoj državi se sastanak održava.

Podrška arapskoj radničkoj klasi

„Ove godine skup na kojem je učestvovalo 60 partija sa svih kontinenata održan je u libanskoj prestonici jer je reč o području gde je situacija napeta, pa je međunarodni komunistički pokret poslao poruku solidarnosti narodu gde je rušilački karakter imperijalizma očigledan i dominantan“, objasnio je Banjanac i dodao da je na sastanku usvojena i finalna Deklaracija iz Bejruta u kojoj se ističe da „je skup predstavljao kontinuiranu solidarnost i podršku borbi radničke klase i narodnih ustanaka u arapskim zemljama protiv imperijalističke agresivnosti i krupnog kapitala“.


--- srpskohrvatski:

UJEDINJENI PROTIV IMPERIJALISTIČKE POLUGE MEĐUNARODNOG KRIMINALNOG TRIBUNLA ZA BIVŠU JUGOSLAVIJU U HAGU

Rezoluciju podnela NKPJ

Tribunal u Hagu predstavlja političku polugu imperijalizma koja je instrument permanentih ucena narodima bivše Jugoslavije. Tribunal u Hagu formiran je kako bi se prikrile činjenice koje vode do glavnih nalogodavaca krvavog rasturanja Jugoslavije, a čiji krvavi imperijalistički trag vodi i do najnovijih ratnih operacija u Gazi, u Siriji, širom Bliskog istoka, do Libije, Iraka, Afganistana... Radom tribunala u Hagu ostavruje se imperijalistički cilj potpune dominacije regionom, razjedinjenja naroda s prostora Jugoslavije, raspirivanje šovinizma, mržnje i nacionalizma koji su oduvek bili saveznici imperijalista, svaljivanje sve krivice gotovo isključivo na Srbe i time zatvoranje jedne totalne istorijske osude u kojoj se ne može naći ni najsitniji trag odgovornosti imerijalističkih faktora za čiju direktnu odgvoronost i umešanost u ratna zbivanja ima na hiljade nepobitnih dokaza.

Presude suda u Hagu ne izražavaju nikakvu istorijsku objektivnost, ne doprinose pomirenju naroda Jugoslavije te otud odbacujemo sve presude koje je donela ova institucija.

Dole sud nepravde, dole poluga imperijalizma, za trajni mir, napredak i solidarnsot među narodima bivše Jugoslavije i Balkana nemogućim bez socijalizma!



--- italiano:

UNITI CONTRO LO STRUMENTO IMPERIALISTA DEL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE DELL'AIA PER L'EX JUGOSLAVIA

Risoluzione presentata dal NKPJ

Il Tribunale dell'Aia rappresenta uno strumento politico dell'imperialismo e di permanente ricatto ai popoli dell'ex Jugoslavia. Il Tribunale dell'Aia è stato costituito per coprire i principali responsabili della sanguinosa spaccatura della Jugoslavia, dei quali le sanguinose tracce imperialiste portano anche alle più recenti operazioni militari a Gaza, in Siria, lungo tutto il Medio Oriente, fino in Libia, Iraq, Afghanistan... Mediante il lavoro del tribunale dell'Aia si realizza l'obiettivo imperialista del dominio totale nella regione, della dissoluzione dei popoli del territorio jugoslavo, dell'incitamento al sciovinismo, all'odio e al nazionalismo (da sempre alleati degli imperialisti), l'addossamento di tutte le colpe quasi esclusivamente ai serbi e con ciò l'epilogo di una condanna esclusivamente storica nella quale non si può trovare nemmeno la più minuscola traccia di responsabilità imperialista per la quale la diretta responsabilità e coinvolgimento nelle vicende di guerra ci sono migliaia di inconfutabili prove.

Le sentenze del tribunale dell'Aia non esprimono alcuna obiettività storica, non contribuiscono alla pacificazione dei popoli della Jugoslavia. Respingiamo dunque tutte le sentenze emanate da questa instituzione.

Abbasso il tribunale dell'ingiustizia, abbasso lo strumento dell'imperialismo, per la pace permanente, per il progresso e la solidarietà tra i popoli della ex Jugoslavia e dei Balcani, possibili solo con il socialismo!

(trad. di AD per JUGOINFO)


--- english:

United Against the Imperialistic Tool- International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia

The Hague Tribunal represents the political lever of imperialism, which is the instrument of permanent blackmailing of people of ex-Yugoslavia. The Hague Tribunal was formed to hide the facts that lead to the key instructing party for bloody dispersal of Yugoslavia, which bloody imperialistic trace goes to the recent war operations in Gaza, Syria, across the Middle East, to the Libya, Iraq, Afghanistan... The existence of the Hague Tribunal enables the accomplishment of imperialistic goals of total dominance over the region, dividing the peoples and nations of the territory of Yugoslavia, continue the chauvinism, hatred and nationalism which has always been an ally of imperialism, to place all the blame on Serbs and in that way to close one complete historical convinction in which is impossible to find even the thinnest trace of responsibility of imperialistic factors for which direct involvment in war events exist the thousands irrefutable evidences.

Verdicts of the Hague Tribunal don’t express any historical objectivity, don’t contribute to the conciliation of people of Yugoslavia, and that is why we reject all the verdict brought by this institution.

Down the court of injustice, down the tool of imperialism, for the lasting peace, for progress and solidarity among peoples of ex-Yugoslavia and Balkans which are all impossible without socialism!

• Algerian Party for Democracy and Socialism
• Communist Party of Bangladesh
• Workers Party of Bangladesh
• Workers Party of Belgium
• Communist Party of Brazil
• Brazilian Communist Party
• Communist Party of Britain
• Communist Party of China
• Socialist Workers Party of Croatia
• German Communist Party
• Communist Party of Greece
• Communist Party of Ireland
• Workers’ Party of Ireland
• Lebanese Communist Party
• Communist Party of Mexico
• Palestinian Communist Party
• Communist Party of the Russian Federation
• Communist Workers Party of Russia - Revolution Party of Communists (RKRP-RPC)
• Communist Party of Soviet Union
• South African Communist Party
• Communist Party of the People of Spain
• Communist Party of Sweden
• Syrian Communist Party
• Communist Party of Tajikistan
• Communist Party of Turkey
• Union of Communists of Ukraine
• Communist Party of USA
• CP of Vietnam





(srpskohrvatski / italiano)

Ricorrevano pochi giorni fa gli anniversari della I Seduta (Bihac 1942) e della II Seduta (Jajce 1943) dell'AVNOJ (Consiglio Antifascista di Liberazione Nazionale della Jugoslavia), cioè in pratica della nascita della Jugoslavia federativa e socialista. In tali occasioni si sono svolti raduni e manifestazioni che, ancor più che in passato, hanno registrato una partecipazione rilevante (quasi 3000 persone convenute con i pullman a Jajce), segno di un allargamento della base di massa delle posizioni jugoslaviste esplicite. Se a tali manifestazioni pubbliche aggiungiamo altri segnali inequivocabili - come i numerosi libri e servizi giornalistici; il fiorire di associazioni, gruppi e partiti jugoslavisti anche in aree in cui fino a pochissimi anni fa si rischiava letteralmente la vita a dichiararsi tali; o l' "esplosione" di blog e siti internet sull'argomento (il solo gruppo Facebook "SFR Jugoslavija - SFR Yugoslavia" registra oggi 138.647 iscritti!) - appare evidente come la direzione del vento sia cambiata dopo gli anni neri (in tutti i sensi) della guerra fratricida per procura imperialista.

Meglio di tutti esprime tale rinnovata atmosfera l'articolo, che riproduciamo più sotto nella traduzione di Jasna Tkalec, sulla apertura a Belgrado della mostra "La Jugoslavia dall'inizio alla fine". (a cura di IS)


=== LINK:

U BIHAĆU

Video: 70. GODIŠNJICA. PROSLAVA, I. ZASEDANJE AVNOJA U BIHAĆU.
http://www.youtube.com/watch?v=-GKbiM7fF3w

Evento FB
http://www.facebook.com/events/290701491039495/

U JAJCU

U Jajcu centralno obilježavanje godišnjice Drugog zasjedanja AVNOJ-a
http://www.klix.ba/vijesti/bih/u-jajcu-centralno-obiljezavanje-godisnjice-drugog-zasjedanja-avnoj-a/121124101
http://www.radiosarajevo.ba/novost/95494/
http://www.novosti.rs/vesti/planeta.300.html:407331-Pocinju-dani-AVNOJ-a-u-Jajcu

Video
http://www.youtube.com/watch?v=4lAVvxm5ZLw
http://www.youtube.com/watch?v=XJaudFV9QuA
http://www.youtube.com/watch?v=jP2Jk75CJRc

Foto in FB
http://www.facebook.com/media/set/?set=a.10151325191903834.523917.36436743833&type=1

DRUSTVA I SAJTOVI

Udruženje "Naša Jugoslavija"
http://www.nasa-jugoslavija.org

SFR Jugoslavija - SFR Yugoslavia
http://www.facebook.com/pages/SFR-Jugoslavija-SFR-Yugoslavia/36436743833

Liga Antifašista Jugoistočne Evrope
http://www.titoslavija.org/


=== 

(ovaj clanak na srpskohrvatskom: Iskra u oku
http://www.vreme.com/cms/view.php?id=1085468 )


Fonte: http://www.vreme.com/cms/view.php?id=1085468

VREME 1143, 29. Novembre 2012. / CULTURA 

Ancora una volta sulla Jugoslavia

La scintilla nell'occhio


Nel museo della Storia jugoslava il primo dicembre, giorno del compleanno della prima Jugoslavia, si è aperta l'esposizione «La Jugoslavia dall'inizio alla fine». In quella settimana cadeva pure il 29 Novembre, Giornata della Repubblica, il compleanno e la festa della seconda Jugoslavia. Ai nostri tempi si tenta di raccontare la Jugoslavia spogliata da ogni contenuto politico. Ma nella politica sta la chiave, la politica detiene una dimensione cruciale nell'idea jugoslava e nel progetto jugoslavo. La Jugoslavia non fu fatta a causa della sua cinematografia, né a causa della sua musica, né a causa del suo calcio: essa fu fatta per ragioni politiche. Diventare soggetto (politico), essere liberi, essere un fattore (politico), non essere una colonia, non essere ridotti a pura risorsa, non essere occupati: per queste ragioni si formò la Jugoslavia. Tutto il resto è venuto dopo.


Poche sono nella lingua le analogie tanto stupide quanto quella fra lo Stato e il matrimonio. Eppure qua, dalle nostre parti, questa analogia è diventata molto frequente, e quindi spesso si sente dire che la Cecoslovacchia ha avuto un divorzio pacifico e civile, mentre la Jugoslavia si è disgregata come si disgregano certi matrimoni poco tranquilli e poco civili, quando marito e moglie rompono posate e piatti, e anzi tirano fuori i coltelli. Allora nella forma giuridica si dice che marito e moglie si dividono a causa di «differenze inconciliabili». E davvero, in tali situazioni, «gli sposi» fino a poco tempo prima, generalmente mostrano pareri assolutamente discordanti a proposito di ogni cosa, a parte una unica proverbiale eccezione: non sanno in nessun modo, caro mio, perché in quella occasione avessero deciso di sposarsi...

A questo punto questa stupida analogia potrebbe far comodo; mentre nelle opinioni pubbliche dei vari statarelli postjugoslavi e nella loro provvisorietà esistono diverse, anche contrapposte, narrazioni dominanti – per usare questo termine che va di moda - che cercano di spiegare perché ci siamo divisi, le teorie dominanti sul perché ci eravamo messi insieme sono assai più conciliabili.


Errore e profitto

Nella Serbia è adesso molto popolare la tesi che considera la Jugoslavia come un tragico errore del popolo serbo. Questa, ad esempio, è la vera ossessione delle opere mature dello scrittore Dobrica Ćosić, e da lui questa visione è stata (ri)presa da una turba numerosa di (pseudo)storici e giornalisti. Questa idea ha sommerso la vita pubblica ed è diventata riconoscibile anche in luoghi dove non è coscientemente radicata in forma di concetto, ma viene scimmiottata con efficacia, visto che rispecchia lo spirito dei tempi. Essa è presente come retroscena politico nel film Montevideo, Bog te video (Montevideo, che ti veda Iddio). Dell’idea jugoslava come storia di un fatale errore si parla in modo esplicito nel libro “Il cerchio culturale serbo 1900-1918” di Petar Pijanović, nel quale l’idea jugoslava di Cvijić e di Sekulić è descritta come un utopismo nocivo. Era sbagliato verso la fine e dopo la Prima guerra mondiale costruire la Jugoslavia, afferma questa tesi, riassunta in modo più breve possibile. Bisognava costruire uno Stato serbo come Stato nazionale, su di un territorio più piccolo della Jugoslavia, ma quanto più grande possibile. Quello che per i serbi rappresenta un fatale errore, per i croati – seguendo la medesima logica - diventa un evidente profitto. I serbi si sarebbero precipitati tutti, sulle ali del destino e dell’entusiasmo, a fare la Jugoslavia, mentre i croati ne hanno tratto un profitto evidente. In questo sono d’accordo sia Dobrica Ćosić che Darko Hudelist, e la visione completa in questi giorni è sintetizzata da Inoslav Bešker, nella polemica con la famigerata frase di Stjepan Radić che rammenta «le oche nella nebbia». I rappresentanti croati nel 1918 non sono stati come oche credulone, dice Bešker, ma si sono preoccupati piuttosto di «minimizzare il danno”. Nel caso che non ci fosse stata la Jugoslavia, la Croazia sarebbe stata divisa fra i suoi aggressivi vicini dell’Occidente e dell’Oriente (Italia e Serbia). Ai croati sarebbe rimasto un paese-tampone, piccolo, piccolo, là, nel bel mezzo fra i due (non è senza interesse il fatto che ai tempi della disgregazione jugoslava Tudjman avrebbe voluto destinare il medesimo ruolo alla Bosnia-Erzegovina). In una simile concezione, la Jugoslavia ci ricorda quel mitico congelatore nel quale sarebbe stato congelato Walt Disney in attesa che si trovi un antidoto alla morte. Ai croati - ma opinioni simili si sentono anche in Slovenia - la Jugoslavia sarebbe servita unicamente come tappa per conseguire l’indipendenza, lungamente desiderata, da conquistare quando le condizioni fossero maturate. Dai montenegrini sentirete più di una volta che la Jugoslavia avrebbe cancellato il loro Stato, il più antico Stato e con la continuità statale più lunga nei Balcani, mentre i musulmani bosniaci vi diranno che essa li illuse con lo slogan della fratellanza e unità, e cosi li avrebbe predisposti allo sterminio e al genocidio. Probabilmente anche i macedoni avrebbero più di un rimprovero, ma per momento non me ne viene in mente nessuno...


Avvoltoi. Banditori. Urlatori.

Bene: per non peccare con l'anima, ammetto che in tutti quei paesetti ex-jugoslavi e anche nelle loro forme provvisorie, come pure nella cosiddetta “diaspora”, esistono piccoli mondi organizzati, che non si scaldano in modo tanto folcloristico per i propri Stati (nazionali). In verità, quegli Stati non gli fanno schifo, ciononostante si appoggiano molto di più a certe fondazioni ed organizzazioni internazionali, e vivono saltellando da un aereo all’altro, da una conferenza internazionale all’altra (conference-hop-ping come direbbero i colleghi della BBC), al contempo versando un mare di lacrime a causa di tutte le ingiustizie e per via di tutti i diseredati e gli emarginati. Anche questi non trovano parole lusinghiere per la Jugoslavia. Essa, per loro, come dice un adagio che ripetono spesso negli ultimi tempi, “avrebbe trovato la propria fine nelle fosse comuni e nei campi di concentramento”. Costoro sono amanti della giustizia e sono naturalmente di sinistra: si occupano e si preoccupano delle questioni mondiali. Il loro atteggiamento verso la Jugoslavia è perfettamente palese in un testo (peraltro schifoso) di Aleksandar Dragoš, critico musicale, che descrive il gruppo musicale Šarlo Akrobata confrontandolo con un altro gruppo musicale chiamato EKV. Citiamo quest'enfatica idiozia: "In breve, Šarlo sta a EKV come i principi del socialismo stanno alla Jugoslavia. Per i primi vale la pena di lottare ancora, mentre la seconda rappresenta il passato, che sarebbe meglio lasciare in pace." Questi tifosi dei principi del socialismo si mettono però in prima fila quando si fa la propaganda per “confrontarsi con il passato.” Affermano il loro impegno è di non permettere che si dimentichino le vittime. Nel caso che non avessimo voglia di passare per bugiardi, questi non sono altro che avvoltoi. Nella settimana in cui sono nate entrambe le Jugoslavie, in cui cade il 29 Novembre, Giornata della Repubblica, e la prima seduta dell’AVNOJ, nonché il 1 Dicembre, giorno in cui fu proclamata la prima Jugoslavia, bisogna leggere le poesie di Miloš Crnjanski e precisamente il poemetto che egli dedicò alla Jugoslavia. Questa poesia è stata scritta nel 1918 a Zagabria ed inizia con questi versi che tutti conoscono:

Nessun bicchiere che si vuota

nessun tricolore che viene proposto

non è il nostro...

In questa poesia si trovano i versi sui "terribili fratelli, di ciglia folte e canzoni tristi". Il verso chiave è il penultimo:

Ma di celebrazione che vino beve

di feste e chiese, cosa vuol che c’ importi?

Le lacrime dall’occhio cadranno fra breve

Mentre il tamburo urla in vece dei morti.”

Ahimè, quanta poesia in questi tamburi e banditori che urlano - peraltro scritta da Crnjanski, il meno turco fra i nostri grandi scrittori! Il banditore, che urla a suon di tamburo, secondo la spiegazione del dizionario, è colui a cui spetta il compito di rendere note cioè di pubblicare le comunicazioni del potere. Gli urlatori - i banditori del nuovo ordine mondiale, impiegati leali e assai ben pagati, e quei banditori che gridano al suon di tamburo di regola lo sono - urlano dunque il suo racconto, la sua narrazione sulla Jugoslavia; la urlano per conto dei morti e, come affermano loro, per i morti. Visto che i vivi, almeno alcuni, possiedono l’abitudine scomoda ad avere memoria, a ricordare, la narrazione dei banditori - urlatori sulla Jugoslavia - è ambivalente. Ecco, dicono i banditori-urlatori, si viveva bene (i principi del socialismo!), ci davano gli alloggi gratis, non si pagava l’istruzione e nemmeno si pagavano le cure mediche, andavamo tutti al mare, Vegeta [prodotto del periodo jugoslavo] era un ingrediente ottimo nella cucina, Zdravko Čolić era un ottimo cantante, Rade Šerbedžija era un ottimo attore... ma tutto ciò è finito nelle fosse comuni e nei campi di concentramento. La sostanza di quella narrazione è chiara: il racconto sulla Jugoslavia deve essere privato di ogni contenuto politico. 

Visto che nella politica sta la chiave, la politica (nel vero senso della parola, non volgarizzata e ridotta alle chiacchiere nei bar, trasformata in intrighi quotidiani e macchinazioni) rimane la dimensione cruciale dell’idea jugoslava e del progetto jugoslavo. Non si è costruita la Jugoslavia a causa della cinematografia, o a causa della musica leggera o a causa del calcio, essa si è costituita per ragioni politiche. Essere un soggetto, essere liberi, essere un fattore (politico), non diventare una colonia, non essere trattati come pura risorsa, non essere occupati - per tutte queste ragioni si è costruita la Jugoslavia. Tutto il resto arrivò, come si dice, come utile collaterale. E la Jugoslavia non fu fatta da calcolatori, da chi soppesava che cosa sarebbe stato meglio e realisticamente più fattibile nel momento dato, da quelli che possedevano soluzioni di riserva, gente carrierista e pragmatica: fu fatta da uomini liberi, che credevano nella poesia e nei sogni.


La stella sulla fronte

Esiste una consuetudine antica nei funerali ebraici, un’abitudine che Boris Davidovič Novski, in un colloquio breve con il suo mentore spirituale Isaak Ilič Rabinovič, aveva riassunto cosi: “Nel momento in cui si preparano a portare il morto fuori dalla Sinagoga per trasportarlo al cimitero, allora un servitore di Gèova si china sul defunto, lo chiama per nome e gli dice ad alta voce: Sappi che sei morto!” Questa consuetudine ha attecchito anche per quanto riguarda la Jugoslavia, ed ha attecchito anche molto bene. Non c’è da meravigliarsi. La gente da noi è molto amante delle consuetudini - esiste anche il proverbio: Meglio distruggere un villaggio intero che una consuetudine. E nel nome della mostra che apre il 1 dicembre nel Museo della storia jugoslava si evidenziano le briciole di quel proverbio, visto che porta il nome “La Jugoslavia dall’inizio fino alla fine”. Il defunto si nomina, lo si chiama per nome e gli si dice: Jugoslavia, è vero, hai avuto un inizio e dunque hai una fine, il che sarebbe una variante di: Sappi che sei morto. Le consuetudini nei funerali esistono e si praticano per i vivi, non per i morti. E questa consuetudine esiste per convincere i vivi che il defunto è morto per davvero. Nel caso jugoslavo, questa consuetudine è perversa al massimo, visto che tutte le varietà di traditori nostrani nonché i fattori stranieri hanno speso un colossale sacco di soldi e di esplosivo per elidere quel nome dalla vita e dalla realtà, per svuotarlo da ogni contenuto, per farlo diventare privo di ogni significato, vuoto come una buccia di noce svuotata. Eppure, a lungo termine, tutto questo non servirà a nulla. Come si dice: è possibile ingannare tutta la gente per un certo tempo, ma non è possibile ingannare tutta la gente per tutto il tempo. Verrà il tempo della verità. La verità è che la Jugoslavia non è finita nelle fosse comuni e nei campi di concentramento. In queste fosse comuni e in questi campi di concentramento hanno avuto inizio i suoi Statarelli-eredi, con le loro entità, con i loro territori provvisori o occupati, sia negli anni Quaranta che negli anni Novanta del secolo scorso.

La Jugoslavia nacque dalla stella sulla fronte e dalla scintilla nell’occhio, dalla piaga del defunto poeta Tin Ujević, dalla tomba fra gli uliveti del poeta Ljubomir Milanović “che passò la maturità a Smederevo", dallo sparo epocale di Gavrilo Princip, autore di versi che anche cento anni dopo restano il migliore commento possibile a proposito della morte della Jugoslavia: Chi vuole vivere, che muoia! Chi vuole morire, che viva!


Muharem Bazdulj


(trad. JT, rev. AM)




QUELLI CHE BIASIMANO LA VIOLENZA... DEGLI ALTRI

Dato che ho inviato questa lettera al quotidiano locale e non è stata pubblicata, ho deciso di diffonderla per altri canali...
Claudia

----- Messaggio inoltrato -----
Da: Claudia Cernigoi
A: piccolo <segreteria.redazione@...>; piccolo ufficio centrale <ufficio.centrale@...>; Piccolo <cronaca@...> 
Inviato: Sabato 24 Novembre 2012 14:36
Oggetto: lettera 

Ci ha colpito la lettera intitolata “Manifestare è un diritto sacro ma non con molotov e mazze”, firmata Paolo Pocecco e pubblicata nelle “Segnalazioni” del “Piccolo” il 24/11/12.
Pocecco “premette” di essere stato “parecchi anni fa” comandante di plotone in un battaglione mobile di carabinieri e di avere operato in servizio di ordine pubblico ritrovandosi spesso coperto di sputi da parte dei manifestanti ai quali, afferma “un calcione negli stinchi non glielo avrebbe evitato nessuno” se fosse stata ordinata una carica.
Dopo questa interessante variante della legge del taglione in materia di ordine pubblico (dente per dente diventa calcio per sputo, inescalation), Pocecco prosegue con altri argomenti, alcuni peraltro condivisibili, sul come e con quali finalità si vada in piazza, e, dopo avere deprecato il fatto che ci si trovi a “strapparsi le vesti” sul fatto che “uno di questi violenti e facinorosi s’è beccato una manganellata sui denti” invece di solidarizzare con chi ha “impedito la devastazione di un ministero”, conclude con un “consiglio”: “quando vedete tafferugli allontanatevi il più celermente possibile”.
Ringraziamo per questo consiglio l’ingegner Pocecco, che conoscevamo come dirigente della ripartizione edilizia del Comune di Trieste, ma che sappiamo essere anche esperto di questioni di ordine pubblico. Ciò che gli vorremmo invece chiedere, è, in base a questa lettera, perché ritenga deprecabile la violenza dei “facinorosi” che vanno in piazza a creare scontri mentre è per lui motivo di orgoglio avere fatto parte dell’organizzazione Gladio, con la quale (citiamo da un’intervista rilasciata da Pocecco al giornalista Silvio Maranzana e pubblicata sul “Piccolo” del 16/1/10) aveva organizzato “sbarco con gommoni alla Costa dei barbari e collocamento di esplosivi nella galleria ferroviaria di Santa Croce con commando francesi, accompagnamento di commando belgi in incursioni notturne sul Molo Settimo e nel cantiere di Monfalcone”. Ma l’intervento di Pocecco ci sembra ancora più interessante se ricordiamo che la Gladio aveva messo in atto l’esercitazione Delfino nella primavera del 1966 a Trieste, esercitazione così descritta nel 1992 dal giornalista Antonio Garzotto (ferito nel 1977 da un commando del Fronte comunista combattente, quindi non suscettibile di simpatie filocomuniste): “agenti della Gladio avrebbero dovuto infiltrarsi sia nelle file e nelle manifestazioni del Pci, ma pure nelle frange della sinistra estrema per provocare "azioni violente, moti di piazza, uccisioni". Fare, insomma, "insorgenza", in modo tale da sollecitare una forte reazione, la "controinsorgenza", e legittimare un intervento di "stabilizzazione del potere" da parte dell'Autorità di Governo”.

Claudia Cernigoi
Trieste




“Più Europa” uguale meno democrazia


di Mauricio Miguel | da “Avante”, settimanale del Partito Comunista Portoghese

Traduzione a cura di Marx21.it

La crisi viene utilizzata dal potere politico per scatenare un brutale attacco alla democrazia politica, inseparabile dal tentativo di imporre una battuta d'arresto nei diritti e nelle conquiste sociali dei lavoratori e dei popoli.

Con l'accentuazione del processo di concentrazione e centralizzazione del capitale nell'UE, le grandi potenze e i monopoli capitalisti che lo controllano tentano di distruggere le sovranità nazionali e quello che dovrebbe essere un regime democratico, per instaurare un regime autoritario. Le misure, azioni, tentativi e progetti che pretenderebbero di “salvare” l'euro e l'UE mirano a trasferire il potere politico degli organi di sovranità nazionale alle cosiddette “istituzioni europee”, svuotandone le competenze, esautorando i popoli dall'esercizio del potere, limitando e anche impedendo la loro partecipazione nei processi politici, per imporre sempre di più una politica contraria ai loro interessi e aspirazioni.
La sottomissione e la tutela degli stati nazionali da parte del potere politico – di cui il patto di aggressione delle troike nazionale e straniera è solo un esempio – mirano alla distruzione dei meccanismi di controllo dell'esercizio del potere politico che la lotta dei lavoratori e dei popoli ha conquistato in ogni paese alle borghesie nazionali.

Si tende a impedire la partecipazione diretta dei popoli nei processi politici e li si priva in modo crescente dei meccanismi di controllo del potere politico – persino con la distruzione dei meccanismi esistenti –, per assicurare la propria impunità.

Si vuole imporre modelli politico-istituzionali “funzionali” basati sulla sottrazione delle sovranità nazionali e sulle inevitabilità politiche, economiche e sociali, mai confermate, discusse e chiarite, ma, al contrario, smentite dalla realtà e dalle contraddizioni insanabili che sono proprie alla natura del capitalismo.

Vogliono imporre un modello unico che emargini o elimini le opposizioni, non attraverso la brutalità degli “stivali chiodati” del passato dominio fascista, ma attraverso l'egemonia ideologica che sta creando strumenti politici – come la stessa UE – per assicurare il dominio di classe.

In questo senso va il rafforzamento del potere delle grandi potenze nel Consiglio Europeo, nel Parlamento Europeo e nella Commissione Europea. O la sottrazione della politica monetaria a favore della Banca Centrale Europea e della sua falsa indipendenza – senza mandato né controllo democratici. O il tentativo di imporre le proprie priorità nei bilanci di ogni paese, sottraendo tale competenza ai parlamenti nazionali, imponendo in forma diretta i propri interessi di classe. E anche il tentativo di togliere prerogative al potere locale democratico, ridurre il numero dei municipi e delle province, limitare la loro capacità di iniziativa, con lo strangolamento delle loro finanze. E anche la limitazione del diritto di sciopero, di azione e organizzazione dei lavoratori nelle imprese.

Un effettivo regime di libertà, democrazia e partecipazione politica e sociale è inseparabile dall'esistenza di condizioni materiali e culturali per il loro esercizio e dall'uguaglianza di diritti, doveri e opportunità. L'impoverimento e lo sfruttamento crescente dei lavoratori e degli altri ceti popolari, le limitazioni all'esercizio di diritti fondamentali nei settori della sicurezza sociale, della salute, dell'educazione, dell'abitazione, della cultura si ripercuotono nella perdita di libertà fondamentali, in limitazioni alla partecipazione e all'attività politiche e alla libertà del popolo di poter decidere sul proprio destino. Sa bene questo potere politico che l'esautorazione e la limitazione della partecipazione nell'esercizio del potere è condizione per perpetuare questa politica e prolungare lo sfruttamento.

Nell'agire in questo modo, cercando di distruggere le sovranità nazionali e i regimi democratici, mette in causa la sua legittimità. Il potere politico emergente nell'UE si scontra ancora di più con gli interessi e le aspirazioni delle classi popolari. Spetta ai lavoratori e al popolo sconfiggere questa politica e restituire la legittimità a chi effettivamente la possiede.

Le conquiste di domani saranno difficili, ma sono possibili e necessarie. Non conquisteremo nulla senza molto sudore, lacrime e sangue. Ci incoraggia essere dalla parte giusta della barricata della lotta di classe: a fianco della classe operaia e di tutti i lavoratori. Ci incoraggia il sentimento patriottico e la difesa degli interessi e delle aspirazioni del nostro popolo. Ci incoraggia voler farla finita con lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, senza la cui eliminazione non sarà possibile una società veramente democratica.




[ Cet article en langue française: 
Thierry Meyssan : « Des terroristes syriens ont été formés par l’UCK au Kosovo »
Thierry Meyssan répond aux questions du news magazine serbe Geopolitika. Il revient sur son interprétation du 11-Septembre, sur les événements en Syrie, et sur la situation actuelle de la Serbie...

Ovaj članak na cirilicom:
ТЈЕРИ МЕЈСАН, АУТОР КЊИГЕ „ВЕЛИ КАЛАЖ“, О 11. СЕПТЕМБРУ, ОСНИВАЧ И АНАЛИТИЧАР МРЕЖЕ „ВОЛТЕР“, ГОВОРИ ЗА ГЕОПОЛИТИКУ
Слободан Ерић - ГЕОПОЛИТИКА децембар 2012.


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ENTREVISTA CON LA REVISTA SERBIA GEOPOLITIKA


Thierry Meyssan: «Terroristas sirios fueron entrenados por el UCK en Kosovo»


Al responder a las preguntas de la publicación informativa serbia Geopolitika, Thierry Meyssan pasa en revista su interpretación de los hechos del 11 de septiembre de 2001, los acontecimientos en Siria y la actual situación en Serbia.

RED VOLTAIRE | BELGRADO (SERBIA)  | 4 DE DICIEMBRE DE 2012


GeopolitikaSeñor Meyssan, usted se hizo mundialmente célebre cuando publicó el libro La Gran Impostura que pone en duda la versión oficial de las autoridades estadounidenses sobre los atentados terroristas del 11 de septiembre de 2001. Su libro estimuló a otros intelectuales a expresar sus propias dudas sobre aquellos trágicos acontecimientos. ¿Pudiera usted explicar brevemente a nuestros lectores lo que realmente sucedió aquel 11 de septiembre? ¿Qué fue lo que realmente impactó o explotó en la sede del Pentágono? ¿Fue un avión u otra cosa? ¿Qué pasó con los aviones que chocaron contra las Torres Gemelas? Sobre todo, ¿qué pasó con el tercer edificio, cercano a esas torres? ¿Cuál es el contexto más profundo de esos atentados, que tuvieron repercusiones mundiales y que tanto han modificado el mundo?
Thierry Meyssan: Es sorprendente que la prensa mundial haya adoptado la versión oficial, de un lado porque esa versión es absurda y, por otro lado, porque esa versión deja sin explicación una parte de los hechos.
La idea de que un fanático, desde una cueva en Afganistán, y una veintena de individuos armados con cortapapeles hayan podido destruir el World Trade Centery asestar un golpe al Pentágono sin que el ejército más poderoso del mundo lograse evitarlo no es ni siquiera digna de un comic. Pero mientras más grotesca es la historia menos preguntan los periodistas occidentales.
Por otro lado, la versión oficial no menciona la especulación bursátil sobre las compañías víctimas de los atentados, ni el incendio del anexo de la Casa Blanca, ni el derrumbe de un tercer rascacielos del World Trade Center, hecho que se produjo al mediodía. Todos esos hechos ni siquiera se mencionan en el informe final de la investigación presidencial.
Además, nunca se habla de lo único importante entre todo lo que sucedió aquel día. Después del atentado delWorld Trace Center, el plan de continuidad del gobierno fue activado ilegalmente. Existe un procedimiento, aplicable en caso de guerra nuclear. Si se comprueba la aniquilación de las autoridades civiles, el mando pasa a un gobierno militar alternativo. Hacia las 10h30, ese plan fue activado a pesar de que las autoridades civiles se mantenían en capacidad de ejercer sus responsabilidades. El poder pasó a los militares, que no lo restituyeron a los civiles hasta las 16h30. Durante todo ese tiempo, se activaron comandos que fueron a buscar a casi todos los miembros del Congreso y del gobierno para ponerlos a buen recaudo en refugios antiatómicos. Hubo, por lo tanto, un golpe de Estado militar que duró varias horas, justo el tiempo necesario para que los golpistas impusieran su propia línea política: estado de urgencia interno e imperialismo global en el exterior.
El 13 de septiembre se presentó al Senado la Patriot Act, que no es una ley sino un amplio Código antiterrorista redactado en secreto a lo largo de los 2 o 3 años anteriores. El 15 de septiembre, el presidente Bush dio su aval al plan de la «matriz mundial», que instituye un amplio sistema de secuestros, de prisiones secretas, de torturas y asesinatos. En ese misma reunión [Bush] dio también su aval a un plan que preveía ataques sucesivos contra Afganistán, Irak, el Líbano, Libia, Siria, Somalia, Sudán e Irán. Como puede verse, ya se ha concretado la mitad de ese programa.
Aquellos atentados, aquel golpe de Estado y los posteriores crímenes fueron organizados por algo que podemos llamar el Estado profundo (en el mismo sentido en que se usa esa expresión para describir el poder militar secreto en Turquía o en Argelia). Todos esos acontecimientos fueron planeados por un grupo muy cerrado: los straussianos, o sea los discípulos del filósofo Leo Strauss.
Se trata de los mismos individuos que, en 1995, empujaron el Congreso estadounidense hacia el rearme y que organizaron el desmembramiento de Yugoslavia. Tenemos que recordar, por ejemplo, que Alija Izetbegovic tuvo como consejero político a Richard Perle, como consejero militar a Osama Ben Laden y como consejero mediático a Bernard-Henri Lévy.
GeopolitikaEl libro que usted escribió y la actitud antiamericana que usted ha expresado libremente a través de su red independiente Voltaire le valieron una serie de problemas que usted tuvo personalmente con la administración del ex presidente francés Nicolas Sarkozy. ¿Pudiera hablarnos un poco más sobre esto? En el artículo que usted escribió sobre el señor Sarkozy, titulado «Operación Sarkozy: Cómo la CIA puso a uno de sus agentes en la presidencia de la República Francesa», usted publicó información muy delicada, que nos recuerda las obras de suspense político-criminales.
Thierry Meyssan: Yo no soy antiamericano. Soy antiimperialista y pienso que el pueblo de Estados Unidos también es víctima de la política de sus propios dirigentes.
En cuanto a Nicolas Sarkozy, yo revelé que fue educado durante su adolescencia, en Nueva York, por el embajador [estadounidense] Frank Wisner Jr. Ese personaje es uno de los cuadros más importantes de la CIA, que a su vez fue fundada por su padre Frank Wisner Sr. El resultado es que la carrera de Nicolas Sarkozy estuvo completamente determinada por la CIA. Así que nada tiene de sorprendente que, ya convertido en presidente de la República Francesa, Sarkozy haya defendido los intereses de Washington en vez de defender los intereses de los franceses.
Los serbios conocen muy bien a Frank Wisner Jr. Fue él quien organizó la independencia unilateral de Kosovo, como representante especial del presidente de Estados Unidos.
Yo expliqué todo eso detalladamente en una intervención en el Eurasian Media Forum (en Kazajstán) y me pidieron que desarrollara ese tema en un artículo paraOdnako (publicación rusa). Y resultó que, por pura casualidad, el artículo se publicó durante la guerra de Georgia, en el momento en que Sarkozy visitaba Moscú. El primer ministro Vladimir Putin puso la publicación encima de la mesa, antes de comenzar la conversación con él. Por supuesto que eso no mejoró mis relaciones con Sarkozy.
GeopolitikaSeñor Meyssan, ¿cuál es la situación actual en Siria, la situación en el frente y la situación en la sociedad siria? ¿Están cerca de alcanzar su objetivo Arabia Saudita y Qatar, así como los países occidentales que quieren derrocar por la fuerza el sistema político del presidente Bachar al-Assad?
Thierry Meyssan: De los 23 millones de sirios, alrededor de 2 millones o 2 millones y medio apoyan a los grupos armados que están tratando de desestabilizar el país y de debilitar su ejército. Estos han tomado el control de algunas aglomeraciones y de amplias zonas rurales. Pero es imposible que esos grupos armados logren derrocar el régimen.
El plan occidental inicial preveía que las acciones terroristas engendraran un ciclo de provocación/represión que justificaría una intervención internacional, siguiendo el modelo del terrorismo del UCK [Ejército de Liberación de Kosovo. NdT] y de la represión ulterior de Slobodan Milosevic, a los que siguió la intervención de la OTAN. Hay que señalar de paso que está comprobado que grupos combatientes en Siria recibieron entrenamiento como terroristas de parte de miembros del UCK y en territorio de Kosovo.
Ese plan fracasó porque la Rusia de Vladimir Putin no es la Boris Yeltsin. Moscú y Pekín prohibieron la intervención de la OTAN y la situación se mantiene sin resolver.
Geopolitika¿Qué pretenden obtener Estados Unidos, Francia, Gran Bretaña, Arabia Saudita y Qatar con el derrocamiento del presidente al-Assad?
Thierry Meyssan: Cada uno de los Estados miembros de la coalición tiene sus propios intereses en esa guerra y cree poder satisfacerlos, cuando en realidad son intereses que se contradicen entre sí.
En el plano político existe la voluntad de romper el «Eje de la Resistencia contra el sionismo» (Irán-Irak-Siria-Hezbollah-Palestina). También existe la voluntad de proseguir el «rediseño del Medio Oriente Ampliado».
Pero lo más importante es el factor económico. Se han descubierto inmensas reservas de gas natural en el sudeste del Mediterráneo. El centro de ese yacimiento está cerca de Homs, en Siria (más exactamente en Qara).
Geopolitika¿Podría usted hablarnos un poco más sobre la rebelión de al-Qaeda en Siria, movimiento cuyas relaciones con Estados Unidos parecen contradictorias a la vista de sus acciones en el terreno? Usted dijo en una entrevista que las relaciones entre Abdelhakim Belhadj y la OTAN estaban prácticamente institucionalizadas. En realidad, ¿para quién hace la guerra al-Qaeda?
Thierry Meyssan: Al principio, al-Qaeda no era más que el nombre de una base de datos, del fichero informático donde figuraban los muyahidín árabes enviados a luchar contra los soviéticos en Afganistán. Por extensión, se dio el nombre de al-Qaeda al medio yihadista en el que se reclutaba a aquellos mercenarios. Después, se designó como al-Qaeda a los combatientes agrupados alrededor de Ben Laden y, por extensión, a todos los grupos del mundo que dicen inspirarse en la ideología de Ben Laden.
Según el momento y las necesidades, esa nebulosa se hizo más o menos numerosa. Durante la primera guerra de Afganistán, la guerra de Bosnia y las guerras de Chechenia estos mercenarios eran considerados «combatientes de la libertad», porque luchaban contra los eslavos. Posteriormente, durante la segunda de Afganistán y la invasión de Irak, fueron considerados «terroristas» porque atacaban a los soldados estadounidenses. Desde la muerte oficial de Ben Laden, se han convertido nuevamente en «combatientes de la libertad», en las guerras contra Libia y contra Siria, porque ahora luchan del lado de la OTAN.
La realidad es que esos mercenarios siempre estuvieron bajo el control de los Sudairis, la facción proestadounidense y archireaccionaria de la familia real de Arabia Saudita, específicamente bajo el control del príncipe Bandar Ben Sultán. Este último, a quien George Bush padre presentó siempre como su «hijo adoptivo» –o sea, como el hijo varón inteligente que le habría gustado tener– actuó siempre por cuenta de la CIA. Incluso en la época en que al-Qaeda luchaba contra los soldados estadounidenses, en Afganistán y en Irak, lo hacía en interés de Estados Unidos en la medida en que aquello permitía justificar la presencia militar estadounidense.
En los últimos años los libios se han hecho mayoritarios en al-Qaeda, así que la OTAN los utilizó para derrocar el régimen de Moummar el-Kadhafi. Cuando lograron derribarlo, nombraron gobernador militar de Trípoli al número 2 de la organización, Abdelhakim Belhaj, a pesar de que la justicia española reclama su captura debido a su presunta responsabilidad en los atentados de Madrid. Posteriormente lo enviaron a Siria, junto con sus hombres. Para trasladarlos [a Siria], la CIA utilizó los medios del Alto Comisariado para los Refugiados, gracias a Ian Martin, el representante especial de Ban ki-Moon [el secretario general de la ONU] en Libia. Los supuestos refugiados fueron trasladados a varios campamentos en Turquía que sirvieron como bases de retaguardia para atacar Siria y a los que no han podido tener acceso los parlamentarios turcos ni la prensa.
Ian Martin es otro conocido de los lectores deGeopolitika. Fue secretario general de Amnistía Internacional y después fue representante del Alto Comisario para los Derechos Humanos en Bosnia-Herzegovina.
GeopolitikaSiria se ha convertido en teatro no sólo de una guerra civil sino también de una guerra mediática y de manipulaciones. Como testigo directo, como alguien que está en el lugar de los hechos, queremos preguntarle a usted ¿qué sucedió verdaderamente en Homs y en Hula?
Thierry Meyssan: Yo no soy testigo directo de lo pasó en Hula. Pero fui tercera parte de confianza en las negociaciones entre las autoridades sirias y las autoridades francesas durante el asedio del Emirato Islámico de Baba Amro. Los yihadistas se habían atrincherado en ese barrio de Homs, de donde expulsaron a los infieles (los cristianos) y a los herejes (los chiitas). En realidad, sólo unas 40 familias sunnitas se habían quedado allí, en medio de unos 3 000 combatientes. Aquella gente había instaurado la charia y un «tribunal revolucionario» condenó a más de 150 personas a ser degolladas en público.
Aquel Emirato autoproclamado era dirigido en secreto por oficiales franceses. Las autoridades sirias querían evitar ordenar el asalto y negociaron con las autoridades francesas para lograr la rendición de los rebeldes. En definitiva, los franceses lograron salir de la ciudad durante la noche y huir hacia el Líbano, mientras que las fuerzas leales entraban en el Emirato y los combatientes se rendían. Así se evitó el baño de sangre y al final hubo menos de 50 muertos en la operación.
GeopolitikaAdemás de los alauitas, en Siria los cristianos también se han convertido en blanco. ¿Podría hablarnos usted un poco más de la persecución contra los cristianos en ese país y de por qué la supuesta civilización occidental, cuyas raíces son precisamente cristianas, no da muestras de la menor solidaridad hacia sus correligionarios?
Thierry Meyssan: Los yihadistas arremeten prioritariamente contra quienes más cerca están de ellos: en primer lugar, contra los sunnitas progresistas; luego contra los chiitas (incluyendo a los alauitas) y sólo después están los cristianos. Generalmente torturan y matan bastante pocos cristianos. Pero los expulsan sistemáticamente y roban todos sus bienes. En la región próxima a la frontera norte del Líbano, el Ejército Sirio Libre dio una semana a los cristianos para que huyeran de allí. Se ha producido un éxodo brutal de 80 000 personas. Los que no huyeron a tiempo han sido masacrados.
El cristianismo fue fundado en Damasco por San Pablo. Las comunidades sirias son anteriores a las de Occidente. Han conservado los ritos antiguos y una fe extremadamente fuertes. La mayoría son ortodoxas. Las que están vinculadas a Roma han conservado sus ritos ancestrales. En tiempos de las Cruzadas, los cristianos del Oriente lucharon junto a los otros árabes en contra de la soldadesca enviada por el Papa. Hoy en día están luchando junto a sus conciudadanos, contra los yihadistas enviados por la OTAN.
Geopolitika¿Puede esperarse un ataque contra Irán el año próximo y, de producirse una intervención militar, cuál sería el papel de Israel? ¿El ataque contra las instalaciones nucleares es realmente un objetivo de Tel Aviv o existe una estructura mundialista, interesada en desestabilizar profundamente las relaciones internacionales, que está empujando a Israel hacia esa aventura?
Thierry Meyssan: Lo que sucede es que Irán es portador de una Revolución. Es el único gran país que propone actualmente un modelo de organización social que constituye una alternativa al American Way of Life. Los iraníes son un pueblo místico y persistente. Ellos han enseñado a los árabes el arte de la Resistencia y se oponen a los proyectos del sionismo, no solo en la región, sino en el mundo.
Sin embargo, a pesar de sus bravatas, Israel es incapaz de atacar Irán. Y los propios Estados Unidos han renunciado a atacarlo. Es un país de 75 millones de habitantes deseosos todos de morir por su patria. Mientras que el ejército israelí se compone de jóvenes cuya experiencia militar se limita a la represión contra los palestinos y el ejército estadounidense se compone de desempleados que no tienen intenciones de morir por una paga miserable.
Geopolitika¿Cómo ve usted el papel de Rusia en el conflicto sirio y el papel del presidente de Rusia, Vladimir Putin, ampliamente demonizado por la prensa occidental?
Thierry Meyssan: La demonización del presidente Putin por parte de la prensa occidental es el homenaje del vicio a la virtud. Después de haber levantado de nuevo su país, Vladimir Putin quiere devolverle su lugar en las relaciones internacionales y ha basado su estrategia en el control de lo que está llamado a ser la principal fuente de energía del siglo XXI: el gas. Gazprom ya se convirtió en la primera compañía mundial de gas y Rosneft en la primera compañía petrolera. Es evidente que Putin no tiene intenciones de permitir que Estados Unidos se apodere del gas sirio ni tampoco de dejar que Irán explote su propio gas sin control. Por lo tanto, tenía que intervenir y aliarse con Irán.
Además, Rusia está convirtiéndose en el principal garante del Derecho Internacional, mientras que los occidentales justifican, en nombre de una moral de pacotilla, la violación de la soberanía de las naciones. Así que no hay que temer el poderío ruso porque está al servicio del Derecho y de la Paz.
En junio pasado, Serguei Lavrov negoció en Ginebra un plan de paz, que Estados Unidos pospuso unilateralmente pero que Barack Obama debería en definitiva concretar durante su segundo mandato. Ese plan prevé el despliegue de una Fuerza de Paz de la ONU, conformada principalmente con tropas de la OTSC [la Organización del Tratado de Seguridad Colectiva]. También incluye que Bachar al-Assad se mantenga en el poder si el pueblo sirio así lo decide a través de las urnas.
Geopolitika¿Qué piensa usted de la situación en Serbia y del difícil camino que ha recorrido Serbia en los dos últimos decenios?
Thierry Meyssan: La serie de guerras que Serbia tuvo que enfrentar agotó a ese país, sobre todo la conquista de Kosovo por parte de la OTAN. Esa fue en realidad una guerra de conquista ya que concluyó con la amputación del país y con el reconocimiento que los miembros de la OTAN otorgaron a la independencia de Camp Bondsteel, o sea de una base de la OTAN.
Una mayoría de serbios creyó que tenía que acercarse a la Unión Europea. Eso es ignorar que la Unión Europea es la cara civil de una entidad única cuya cara militar es la OTAN. Históricamente, la Unión Europea fue creada en aplicación de las cláusulas secretas del Plan Marshall, o sea que es anterior a la OTAN. Pero no por eso deja de ser un elemento del mismo proyecto de dominación anglosajón.
Es posible que la crisis del euro desemboque en una dislocación de la Unión Europea. En ese caso, Estados como Grecia y Serbia se volverán espontáneamente hacia Rusia, país que comparte con ellos numerosos elementos culturales y una misma exigencia de justicia.
GeopolitikaHay quienes, de manera más o menos directa, sugieren a Serbia que renuncie a Kosovo para poder entrar a la Unión Europea. Usted tiene gran experiencia en materia de relaciones internacionales, así que le preguntamos sinceramente si tiene usted algún consejo sobre lo que deberían hacer los serbios en materia de política interna y de política exterior.
Thierry Meyssan: Yo no soy quien para dar consejos a nadie. Por mi parte, deploro que ciertos Estados hayan reconocido la conquista de Kosovo por parte de la OTAN. Kosovo se ha convertido desde entonces en un puente para la distribución en Europa de las drogas que se cultivan en Afganistán bajo la vigilante protección de las tropas estadounidenses. Ningún pueblo se ha beneficiado en nada con esa independencia, y muchísimo menos la población de Kosovo, que ahora vive bajo el yugo de una mafia.
GeopolitikaEntre Francia y Serbia existía una fuerte alianza que dejó de tener sentido cuando Francia participó en los bombardeos contra Serbia, en 1999, en el marco de la OTAN. Existen, sin embargo, tanto en Francia como en Serbia, personas que no olvidan «la amistad de las armas» de la Primera Guerra Mundial y que piensan que habría que reactivar esas relaciones culturales hoy rotas. ¿Comparte usted ese punto de vista?
Thierry Meyssan: Uno de mis amigos, con quien escribí Le Pentagate, sobre el ataque del 11 de septiembre contra el Pentágono –con un misil y no con un avión fantasma–, es el comandante Pierre-Henri Bunel. Durante la guerra, la OTAN lo arrestó por espionaje a favor de Serbia. Posteriormente, lo entregaron a Francia, que lo juzgó y lo condenó a 2 años de cárcel en vez de cadena perpetua. Ese veredicto demuestra que en realidad actuó por órdenes de sus superiores.
Francia, como país miembro de la OTAN, se vio obligada a participar en la agresión contra Serbia. Pero lo hizo de mala gana y ayudando a Serbia más a menudo de lo que la bombardeaba.
Actualmente Francia está en una situación aún peor, gobernada por una élite que, para proteger sus propios beneficios económicos, se ha puesto al servicio de Washington y de Tel Aviv. Yo espero que mis compatriotas, que comparten una larga historia revolucionaria, acabarán expulsando del poder a esas élites corruptas. Y espero que, para ese momento, Serbia habrá recuperado su verdadera independencia. Se producirá entonces el reencuentro espontáneo entre nuestros dos pueblos.
GeopolitikaMuchas gracias por el tiempo que nos ha concedido.




(Dopo i criminali ustascia Ante Gotovina e Mladen Markac, il "Tribunale ad hoc" dell'Aia ha assolto anche uno dei peggiori capibanda del terrorismo razzista pan-albanese, Ramush Haradinaj. La cosa non sorprende: se avessero dovuto processare Adolf Hitler, di sicuro avrebbero assolto anche lui in quanto campione e capostipite dell'odio antiserbo. IS)


Da: Y.&K.Truempy 

Oggetto: Den Haag: Tribunal DER Kriegsverbrecher

Data: 19 novembre 2012 18.14.31 GMT+01.00


Der kroatische General Ante Gotovina wurde (zusammen mit einem weiteren General) am Freitag (16.11.12) von der Berufungskammer des UNO-Kriegsverbrechertribunals in Den Haag freigesprochen, nachdem er 2011 wegen Kriegsverbrechen und Verbrechen gegen die Menschlichkeit beim Vorgehen gegen die serbische Bevölkerung in Kroatien zu 24 Jahren Haft verurteilt worden war. In den hiesigen Medien hörte man nur wenig über diesen unglaublichen, aber EU-kompatiblen Vorgang. Dazu schreibt Werner Pirker in der jW Rubrik Xyz-des-Tages :

 

Massakerheld des Tages: Ante Gotovina


Hätte es eines weiteren Beweises bedurft, daß das Haager Jugoslawien-Tribunal zur Ahndung von Kriegsverbrechen eine Einrichtung von Kriegsverbrechern ist, dann hätte der Freispruch für den kroatischen General Ante Gotovina den endgültigen Beweis dafür erbracht. Gotovina hatte 1995 die Operation »Sturm« befehligt, in deren Verlauf die im Bestand Kroatiens befindliche Provinz Krajina fast völlig von ihrer angestammten serbischen Bevölkerung gesäubert wurde. Zweck des mörderischen Unternehmens, bei dem Hunderte Serben getötet und mehr als 200000 vertrieben wurden, war die Kroatisierung der Provinz, um so die aus dem jugoslawischen Vielvölkerstaat hervorgegangene Republik Kroatien einer ethnischen Homogenisierung zuzuführen. Denn im Gegensatz zu Serbien, das sich als Republik der Bürger Serbiens konstituierte, ist Kroatien als »Staat des kroatischen Volkes« definiert. Diesem völkischen Wahn folgte die ethnische Säuberung der Krajina, die größte Massenvertreibung in der Geschichte der jugoslawischen Nachfolgekriege.

Die vom Jugoslawien-Tribunal in Den Haag betriebene juristische Kriegsführung der antiserbischen Aggressionsgemeinschaft hält indessen unbeirrbar an der verlogenen These einer serbischen Aggression zur Schaffung Großserbiens fest. Dieser Vorverurteilung Serbiens als Verursacher der postjugoslawischen Bürgerkriege entsprach die juristische »Aufarbeitung« von Kriegsverbrechen, die überwiegend der serbischen Seite angelastet wurden. Daß der Kroate Ante Gotowina für seinen mörderischen Feldzug gegen die serbisch besiedelte Krajina in erster Instanz 24 Jahre bekam, geschah außerhalb der üblichen Norm. Dieser »Irrtum« ist nun behoben worden. (wp)
 
junge Welt, 17.12.2012

 

 

 

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»Beweisnotstand«


Den Haag ist fest in Mafia-Hand


Von Werner Pirker

Das vom UN-Sicherheitsrat widerrechtlich eingerichtete Tribunal für Kriegsverbrechen im ehemaligen Jugoslawien – einzig die UNO-Vollversammlung wäre dazu berufen gewesen – trägt sein kriminelles Wesen immer unverschämter zur Schau. Nachdem vor zwei Wochen der kroatische General Ante Gotovina, der 2005 wegen Kriegsverbrechen zu 18 Jahren Haft verurteilt worden war, in einem zweiten Prozeß freigesprochen wurde, verläßt nun auch der frühere UCK-Kommandant und ehemalige Kosovo-Regierungschef Ramush Haradinaj, dessen erster Prozeß 2008 bereits mit einem Freispruch geendet hatte, als freier Mann Den Haag.

Daß seitens der UCK Verbrechen begangen wurden – nicht nur gegen Serben und andere nichtalbanische Kosovaren, sondern auch gegen projugoslawische Albaner, die sich gegen das ethnozentristische Terrorregime der Freischärler wandten, konnte auch von den Haager Richtern nicht bestritten werden. Beweise für die Schuld Haradinajs und zwei seiner Mitangeklagten gebe es jedoch nicht, lautete die Urteilsbegründung. Wären die Angeklagten Serben gewesen, dann hätte das Tribunal unter Garantie das von ihm erfundene Prinzip eines »gemeinsamen kriminellen Unternehmens« (JCE) zur Anwendung gebracht. Im Fall des kroatischen Massakergenerals und des als Schlächter bekannten UCK-Kommandierenden für den Westen des Kosovos galt diese Annahme, die Angeklagte per se zu Angehörigen eines Mörderkollektives stempelt, nicht. Sie sind ja auch keine Serben und konnten deshalb gemäß Haager Logik nicht in einen Plan involviert gewesen sein, der von ethnischen Vertreibungen bis zum Genozid reichte.

Gotovina war der Oberkommandierende der mit massiven ethnischen Vertreibungen verbundenen »Operation Blitz« zur Eingliederung der bis dahin überwiegend serbisch besiedelten Provinz Krajina in den kroatischen Staatsverband. Haradinaj war einer der grausamsten Vollstrecker der vollständigen Albanisierung der südserbischen Provinz. Die angebliche ethnische Vertreibung der Kosovo-Albaner durch die Serben und ein drohender Völkermord waren die vorgeschobenen Gründe für den Bombenkrieg 1999 gegen Jugoslawien. In Wirklichkeit flohen die Kosovo-Bewohner vor den NATO-Bomben. Nach vollbrachtem Zerstörungswerk begannen die ethnischen Säuberungen – mit dem Ziel eines rein albanischen Kosovo.

Die Richter von Den Haag wissen nicht nur Bescheid über die von der UCK begangenen Verbrechen, sie wissen auch über die Ursachen ihrer Beweisnot Bescheid. Und sie sagten das auch in ihrer Urteilsbegründung. Da alle im ersten Prozeß gegen Haradinaj getätigten Aussagen den mörderischen Arm der UCK auf sich zogen, fanden sich keine Zeugen mehr, die es gewagt hätten, gegen die zur Staatsmacht gewordene organisierte Kriminalität auszusagen. Das Den Haager Tribunal hat sich dem Mafia-Rechtsverständnis offenbar voll unterworfen.

 

junge Welt, 31.11.2012




(Domani 1 dicembre apre a Belgrado, nel Museo di Storia della Jugoslavia, la mostra "La Jugoslavia dall'inizio alla fine"...)


VREME 1143, 29. novembar 2012. / KULTURA 

Još jedanput o Jugoslaviji:


Iskra u oku

U Muzeju istorije Jugoslavije prvog decembra, na rođendan prve Jugoslavije, otvara se izložba "Jugoslavija od početka do kraja". Ove nedelje pada i dvadeset deveti novembar, Dan Republike, rođendan druge Jugoslavije. U naše vreme priča o Jugoslaviji pokušava da se liši svakogpolitičkog sadržaja. A u politici je ključ, politika je krucijalna dimenzija jugoslovenske ideje i jugoslovenskog projekta. Nije se Jugoslavija sastavljala zbog kinematografije, popularne muzike ili fudbala, sastavljala se iz političkih razloga. Biti subjekt, biti slobodan, biti (politički) faktor, ne biti kolonija, ne biti resurs, ne biti okupiran – zbog toga se sastavljala Jugoslavija. Sve drugo dolazi posle


Malo je u jeziku glupljih analogija od one između države i braka. A ipak, ovdje, na našim stranama, ta je analogija vrlo frekventna, pa se, eto, često kaže kako je disolucija Čehoslovačke bila kao miran i civilizovan razvod, dok se Jugoslavija raspala na način na koji se raspadaju neki manje mirni i civilizovani brakovi, s razbijanjem čaša i tanjira te potezanjem noževa. Formalnopravno se onda kaže da se dotadašnji supružnici razvode zbog "nepomirljivih razlika". I zbilja, u takvim situacijama doskorašnji "bračni drugovi" obično imaju različito mišljenje o apsolutno svemu, uz tek jedan poslovični izuzetak: ne znaju, brate, zašto su se onomad uopšte i vjenčavali. Na toj tački i glupa analogija može zgodno da posluži; dok u javnostima postjugoslovenskih državica i provizorijuma postoji nekoliko dominantnih, međusobno suprotstavljenih – hajde da iskoristimo taj pomodni termin – narativa o tome zašto smo se rastavljali, najpopularnije vladajuće teorije o tome zašto smo se(uopštesastavljali mnogo su lakše uskladive.

ZABLUDA I PROFIT: U Srbiji je, recimo, trenutačno jako popularna teza o Jugoslaviji kao tragičnoj grešci srpskog naroda. To je, recimo, opsesivna tema zrele faze u stvaralaštvu Dobrice Ćosića od kojeg ju je preuzela cijela gomila (para)istoričara i publicista. Ta se ideja razlila u javnost i može ju se prepoznati i tamo gdje vjerovatno nije svjesno i tendenciozno usađena, nego tek efektno preuzima duh vremena. Prisutna je, recimo, kao politički kontekst i pozadina u filmu Montevideo,Bog te video. Eksplicitno se o jugoslovenstvu kao "istoriji jedne zablude" govori, recimo, u knjizi "Srpski kulturni krug 1900-1918" Petra Pijanovića u kojoj se jugoslovenstvo Cvijića i Skerlića, primjerice, proglašava štetnim utopizmom. Pogrešno je bilo na kraju i poslije Prvog svjetskog rata stvarati Jugoslaviju, kaže ova teza ako je sumiramo na najkraći mogući način, trebalo je stvarati Srbiju kao nacionalnu državu, na prostoru manjem od Jugoslavije, a što je moguće većem. Ono što je za Srbe greška, za Hrvate je, naravno, u takvom načinu razmišljanja, profit. Srbi su stihijski pohrlili u Jugoslaviju, a Hrvati su profitirali, oko toga su se složili Dobrica Ćosić i Darko Hudelist, a cijelu stvar ovih dana prigodno sažima i Inoslav Bešker polemišući sa onom davnom sintagmom Stjepana Radića o "guskama u magli". Nisu hrvatski predstavnici 1918. godine bili naivne guske, poručuje Bešker, oni su se bavili "kontrolom štete". Da nije bilo Jugoslavije, Hrvatsku bi podijelili njeni agresivni zapadni i istočni susjed (Italija i Srbija), a Hrvatima bi, eventualno, ostala nekakva tampon-zemljica Hrvatska u sredini (zanimljivo, u vrijeme raspada Jugoslavije, Tuđman će sličnu sudbinu da namijeni Bosni i Hercegovini). U toj viziji, Jugoslavija podsjeća na onaj fabulozni zamrzivač u kojem, kao, leži Volt Dizni čekajući da se pronađe lijek protiv smrti. Hrvatima je, dakle, a slični se stavovi daju čuti i u Sloveniji, Jugoslavija poslužila tek da se pripreme za dugo željenu nezavisnost i da je ostvare kad se steknu uslovi. Od Crnogoraca ćete katkad čuti da im je Jugoslavija oduzela državnost, najstariju i najkontinuiraniju na Balkanu, od bosanskih muslimana da ih je uljuljkala u iluziju o bratstvu i jedinstvu i tako ih pripremila za klanje i genocid, a vjerovatno joj i Makedonci imaju neku zamjerku, koje sada ne mogu da se sjetim.

LEŠINARITELALI: Dobro, da ne griješim dušu, ima u svim tim postjugoslovenskim zemljicama i provizorijumima, kao i u takozvanoj dijaspori, i nekog organizovanog svijeta što se ne loži toliko folklorno na svoje (nacionalne) države. Ne gade se njima, istini za volju, ni te države, ali finansijski su ipak više naslonjeni na različite međunarodne fondacije, pa avionski skakuću s konferencije na konferenciju (conference-hopping, što bi rekle kolege sa BBC-ja) lijući suze zbog nepravdi i obespravljenosti svih mogućih ugroženih marginalaca. Ipak, nemaju ni oni za Jugoslaviju pretjeranih riječi hvale. Ona je za njih, kako veli stih koji u posljednje vrijeme strašno često citiraju, "završila u masovnim grobnicama i koncentracionim logorima". Oni su pravdoljubivi ljevičari koje zanimaju globalna pitanja. Njihov stav o Jugoslaviji upravo je savršeno, makar i nesvjesno, zipovao muzički kritičar Aleksandar Dragaš poredeći u jednom (odvratnom) tekstu grupe Šarlo Akrobata i EKV. Citirajmo ovdje tu emfatičnu budalaštinu: "Ukratko, Šarlo je u odnosu na EKV poput načela socijalizma u odnosu na Jugoslaviju. Za prvo vrijedi boriti se i danas, drugo je tek prošlost koju valja ostaviti na miru." Ovi fanovi načela socijalizma prvi su u redu kad se propagira "suočavanje s prošlošću". Oni, kao, ne daju da se zaborave žrtve. Oni su, da se ne lažemo, lešinari. Treba ove sedmice, u kojoj su i 29. novembar, Dan Republike, prvi dan Drugog zasjedanja AVNOJ-a i 1. decembar, dan na koji je proglašena prva Jugoslavija, u kojoj su, dakle, rođendani i prve i druge Jugoslavije, čitati pjesmu Miloša Crnjanskog koja se zove Jugoslaviji. Napisana je ta

pjesma u Zagrebu 1918. godine i počinje onim stihovima koje svi znaju: Nijedna čaša što se pije,/nijedna trobojka što se vije,/ naša nije. U njoj su i stihovi o strašnoj braći gustih obrvamutna oka,tužnih pesama. Ključna je strofa, međutim, pretposljednja:

A svetkovina što vino pije,
slave i crkve šta nas se tiču
Suza sa oka još kanula nije
još telali mesto mrtvih viču.

Joj, koliko je poezije u ovim telalima, pa još kod Crnjanskog, najmanje turskog među našim velikim piscima! Znamo svi šta je telal, ali nije loše ponekad potegnuti rječničku definiciju: objavljivač i oglašivač saopštenja vlasti. Telali novog svjetskog poretka, lojalni i dobro plaćeni službenici, što telali po pravilu jesu, telale tako svoju priču, svoj narativ, o Jugoslaviji, telale umjesto mrtvih, jer se, kao, zalažu za mrtve. A pošto živi, bar neki od njih, imaju nezgodnu naviku da pamte, telalski narativ o Jugoslaviji ima dva sloja. Eto, kažu telali, lijepo se živjelo (načelo socijalizma!), dobivalo smo stanove, besplatno školstvo, besplatno zdravstvo, išli smo na more, Vegeta je dobar začin, Zdravko Čolić je dobar pjevač, Rade Šerbedžija je dobar glumac, ali sve je to završilo u masovnim grobnicama i koncentracionim logorima. Suština narativa je jasna: treba priču o Jugoslaviji lišiti svakog političkog sadržaja. Jer u politici je ključ, politika (u osnovnom značenju riječi, ne u kafanskoj vulgarizaciji koja politiku svodi na dnevno-operativne spletke i mahinacije) je krucijalna dimenzija jugoslovenske ideje i jugoslovenskog projekta. Nije se Jugoslavija sastavljala zbog kinematografije, popularne muzike ili fudbala, sastavljala se iz političkih razloga. Biti subjekt, biti slobodan, biti (politički) faktor, ne biti kolonija, ne biti resurs, ne biti okupiran – zbog toga se sastavljala Jugoslavija. Sve drugo dolazi poslije kao, kako se to kaže, kolateralna korist. I nisu Jugoslaviju pravili kalkulanti, oni što su vagali šta je najbolje i najrealnije moguće u datom trenutku, oni što su imali rezervne varijante, karijeristi i pragmatičari; pravili su je slobodni ljudi, frajeri, što su vjerovali u pjesme i snove.

ZVEZDA NA ČELU: Postoji stari običaj pri jevrejskim sahranama, običaj koji je Boris Davidovič Novski u jednom kratkom razgovoru sa svojim nekadašnjim duhovnim mentorom Isakom Iličem Rabinovičem ovako sumirao: "U trenutku kada se spremaju da iznesu mrtvaca iz sinagoge da bi ga odneli na groblje, jedan se službenik Jahvin nagne nad pokojnikom, zovne ga po imenu i kaže mu glasno: Znaj da si mrtav!" Primio se ovaj običaj u kontekstu Jugoslavije, baš se, ono, primio. Nije ni čudo, vole ovdje ljudi običaje; pa i poslovicu imaju: Bolje da propadne selo, nego adet. I u nazivu izložbe koja se prvog decembra otvara u Muzeju istorije Jugoslavije – a naziv joj je "Jugoslavija od početka do kraja" – ima natruha tog običaja; pokojnik se oslovi, zovne ga se po imenu, kaže se, dakle, Jugoslavijo, pa joj se kaže, je li, imala si početak i imala si kraj, što je samo varijacija na ono:Znaj da si mrtav. Ipak, svi se pogrebni običaji prave zbog živih, ne zbog mrtvih. I ovaj običaj služi da se žive uvjeri da je mrtvac stvarno mrtav. U jugoslovenskom slučaju to je naročito perverzna vrsta egzorcizma. Mislim na to insistiranje na glasnom oslovljavanju, nakon što su i sve fele domaćih izdajnika i strani faktor potrošili silesiju novca i eksploziva da to ime uklone iz stvarnosti i iz života, da ga potpuno isprazne od sadržaja, da od njega načine ljusku šupljeg oraha. Dugoročno, međutim, od toga neće biti ništa. Kako ono kažu, možeš sve ljudi lagati neko vrijeme, možeš neke ljudi varati sve vrijeme, ali ne možeš sve ljude varati sve vrijeme. Doći će vrijeme i za istinu. A istina je da nije Jugoslavija završila u masovnim grobnicama i koncentracionim logorima. U njima su počele njene državice-nasljednice, entiteti, provizorijumi i okupirane teritorije, i četrdesetih i devedesetih godina dvadesetog vijeka. Jugoslavija se rodila iz zvijezde na čelu i iskre u oku, iz rane u srcu mrtvog Ujevića, iz groba među maslinama Ljubomira Milanovića "svršenog maturanta iz Smedereva", iz eha pucnja Gavrila Principa, onog koji je napisao stihove što su i poslije stotinjak godina najbolji komentar na priču o smrti Jugoslavije: Ko hoće da živi nek mre/ ko hoće da mre nek živi.

Muharem Bazdulj