Informazione



Lunedì 10 Dicembre 2012 09:56

Monti e la Siria. Vogliamo parlarne?


di  Francesco Santoianni*

Gli inquietanti sviluppi della guerra in Siria pongono tutti noi di fronte a scelte precise. 
Gli ultimi sviluppi della guerra dell’Occidente e delle Petromonarchie alla Siria (sofisticati armamenti consegnati ai “ribelli”, dispiegamento di missili Patriot in Turchia, invio - ormai alla luce del sole - di “istruttori militari”....) e la recente, agghiacciante, dichiarazione di Napolitano al 
Consiglio supremo della Difesa pongono i compagni e le organizzazioni, che parteciperanno all’assemblea del 15 dicembre a Roma e che promettevano il loro impegno qualora si fosse manifestato un “attacco esterno” alla Siria, di fronte a precise scelte.

Una è continuare a far finta che in Siria sia in corso un’altra “primavera araba”, per sostenere la quale la principale (e l’unica) cosa da fare è abbaiare – insieme al Governo Monti, i suoi partiti e i suoi mass media – contro il “regime di Assad”, additando nel contempo come “rossobruni” coloro che non si uniscono al coro; un’altra è aderire ad uno dei tanti ineffabili appelli che si limitano ad invocare per la Siria una generica “fine delle violenze” e/o “l’invio di una delegazione internazionale composta da personalità di alto livello allo scopo di discutere con i principali attori politici per aprire la strada a una soluzione politica del conflitto armato”; l’altra è mobilitarsi contro il Governo Monti anche per quello che sta facendo alla Siria.

Una scelta quest’ultima, ancora oggi, fatta da pochissimi compagni. 

Eppure il Governo Monti ha dapprima rotto le relazioni diplomatiche con Damasco, poi comminato sanzioni (anche per alimenti e apparecchiature medicali!), poi riconosciuto ufficialmente i “ribelli” (prima quelli del CNS ora quelli della Coalizione) quali “legittimi rappresentanti del popolo siriano”, poi – seguendo lo stesso copione della guerra alla Libia – ha inviato, più o meno nascostamente, soldi, armi e mercenari (come i quattro arrestati ad agosto alla frontiera con il Libano), poi ha negato il visto di ingresso a parlamentari siriani venuti ad incontrare loro colleghi italiani, poi ha spalleggiato la Turchia nelle sue provocazioni....

E tutto questo mentre notizie di “armi di distruzioni di massa” in mano ad Assad e di “bombardamenti indiscriminati sulla popolazione” continuano ad inondare i nostri mass media. Quasi a sottacere le ormai centinaia di autobombe fatte esplodere (nei mercati, nelle strade, davanti gli ospedali...) dai “ribelli”; le migliaia di civili inermi assassinati dai “ribelli” per non essersi schierati contro Assad; le centinaia di migliaia di profughi che scappano dalla guerra e dalla pulizia etnica e religiosa imposta dai “ribelli”.

Eppure la denuncia di questo massacro, ordito anche dal Governo Monti, ha trovato poco spazio in manifestazioni come Il NoMontiDay del 27 ottobre, nonostante l’invito rivolto dalla Rete NoWar.

Sarebbe più che mai opportuno uscire da ambiguità, resistenze e reticenze – sostanzialmente, le stesse di quelle che, un anno fa, hanno impedito il nascere di un movimento di massa contro la guerra alla Libia - che trovano il loro essere nella illusione che, in un modo o nell’altro, la distruzione di uno “stato canaglia”, pur se per mano dell’Occidente, può sprigionare un movimento di massa, un’altra “primavera araba”. La sorte toccata alla Libia è sotto gli occhi di tutti.

E sono stati proprio gli orrori della Libia (e dell’Iraq, e dell’Afghanistan...) a cementare, purtroppo, la stragrande maggioranza della popolazione siriana in oceaniche manifestazioni pro Assad. Non a caso per la Siria, il copione imposto dall’Occidente, si è concretizzato subito, (già dal marzo 2011) in assalti militari condotti da mercenari; un ininterrotto crudele stillicidio di attentati, esecuzioni, assalti.... mirante a far collassare la Siria. Altro che “manifestanti, a mani nude, repressi dal regime” idolatrati, in Italia, in qualche manifestazione. 

Fermiamo la guerra di Monti alla Siria. 

Se ci riuscissimo, acquisiremmo nei riguardi del popolo siriano quella credibilità indispensabile per fortificare le istanze di democrazia che hanno animato le vere “primavere arabe”. Se, invece, non facciamo nulla, se fingiamo che la Siria - come ieri la Libia - non esista, la prossima vittima sacrificale sarà l’Iran e poi la Bielorussia, e poi il Venezuela e poi Cuba... E forse, l’intero pianeta, con una nuova guerra mondiale.

Fermiamo la guerra di Monti alla Siria. 

Una guerra di aggressione che è doppiamente funzionale, all'apparato industriale e militare, alla rapina di risorse e a creare intorno a questa  un sistema di consenso funzionale alla democrazia delle bombe.

Fermiamo la guerra di Monti alla Siria. 

P.S. Ovviamente “Monti” o “Bersani”, la cosa non cambia.

* rete No War di Napoli



Lunedì 10 Dicembre 2012 09:26

Accelera l’escalation contro la Siria delle potenze occidentali, che sembrano decise a intervenire direttamente contro il paese dilaniato da una guerra civile che dura da quasi due anni senza che il sostegno internazionale ai ribelli abbia determinato la caduta del regime di Assad.

In particolare la stampa internazionale dà conto, nelle ultime ore, dell’attività frenetica di Gran Bretagna, Stati Uniti e Israele. Ieri il quotidiano britannico Sunday Times, citando fonti israeliane, ha scritto che unità speciali dell’esercito di Tel Aviv stanno agendo come ‘ricognitori’ in Siria con il compito di individuare armi chimiche e biologiche e di seguirne gli eventuali spostamenti. ''Nell'ultima settimana – dice la fonte, rimasta anonima - abbiamo avuto segnali di spostamenti e anche di munizioni che sono già state armate per colpire e abbiamo urgente bisogno di localizzarle''. La stessa fonte afferma che grazie ai suoi apparati di spionaggio – satelliti e droni – Israele è da anni a conoscenza dell’esatta collocazione delle armi chimiche e biologiche siriane. Ad affiancare Israele è il governo della Gran Bretagna, che da giorni ripete il mantra 'del pericolo rappresentato dalle armi chimiche in possesso di Assad'.

Ma un’altra fonte israeliana, questa volta rappresentata dal vicepremier Moshe Yaalon, contraddice questa versione dei fatti, affermando che “Non ci sono segnali che il regime siriano possa usare armi chimiche contro Israele”. Il che vorrebbe dire che i commando israeliani infiltrati in territorio siriano siano stati inviati a preparare una eventuale invasione del paese.

Rivela infatti ancora il Sunday Times che ha già preso il via un'operazione degli Stati Uniti per armare i ribelli siriani. Per la prima volta, secondo il giornale - che cita fonti diplomatiche bene informate - si avrebbero indicazioni precise sull'effettivo invio di armi agli insorti direttamente in territorio siriano. Secondo il domenicale britannico, mortai, granate e missili anti-tank viaggeranno attraverso paesi mediorientali ''amici'' che già sostengono i ribelli. Si tratterebbe per la maggior parte di armi recuperate (acquistate anche) dagli americani dagli arsenali libici di Muammar Gheddafi, deposto e assassinato un anno fa dopo l’intervento della Nato contro la Libia. Tra le armi consegnato all’Esercito Siriano Libero anche i missili anti-aerei portatili di fabbricazione russa Sa-7 'Strela', in grado di cambiare lo scenario sul terreno perché non consentirebbero più alle forze armate governative di colpire indisturbate dall'alto i miliziani ribelli.

L’altro ieri il governo siriano ha denunciato in una lettera all'Onu che ''alcuni Paesi'' potrebbero fornire armi chimiche ai ribelli spingendoli ad utilizzarle, per affermare poi che ''il governo siriano le ha usate''. Così come avvenne per l'Iraq, accusato di possedere armi di distruzione di massa – la famosa fialetta sventolata da Colin Powell all’Onu - che invece non esistevano, proprio per giustificare l'intervento armato contro il paese poi occupato e distrutto.



[ Este artículo en español: Thierry Meyssan: «Terroristas sirios fueron entrenados por el UCK en Kosovo»

Ovaj članak na cirilicom:
ТЈЕРИ МЕЈСАН, АУТОР КЊИГЕ „ВЕЛИ КАЛАЖ“, О 11. СЕПТЕМБРУ, ОСНИВАЧ И АНАЛИТИЧАР МРЕЖЕ „ВОЛТЕР“, ГОВОРИ ЗА ГЕОПОЛИТИКУ
Слободан Ерић - ГЕОПОЛИТИКА децембар 2012.



INTERVISTA ALLA RIVISTA SERBA GEOPOLITIKA

Thierry Meyssan: "I terroristi siriani sono stati addestrati dall’UCK in Kosovo"


Thierry Meyssan risponde alle domande della rivista serba Geopolitika. Ritornando sulla sua interpretazione dell’11 settembre, degli eventi in Siria e della situazione attuale in Serbia

RETE VOLTAIRE | BELGRADE (SERBIE)  | 5 DICEMBRE 2012

Geopolitika : signor Meyssan, siete diventato famoso in tutto il mondo quando è stato pubblicato il libro L’Incredibile Menzogna che mette in discussione la versione ufficiale delle autorità statunitensi sull’attentato terroristico dell’11 settembre 2001. Il suo libro ha incoraggiato altri intellettuali ad esprimere i loro dubbi su questo tragico evento. Potrebbe brevemente dire ai nostri lettori che cosa è realmente accaduto l’11 settembre, cosa è successo o cosa è esploso sul Pentagono: si trattava di un aereo, che vi si è schiantato, o di qualcosa d’altro? Che cosa è successo con gli aerei che si sono schiantati contro le torri gemelle, e in particolare nel terzo edificio vicino alle torri? Qual è il contesto più profondo dell’attacco, che ha avuto un impatto globale e ha cambiato il Mondo?
Thierry Meyssan: E’ sorprendente che la stampa mondiale abbia ripreso la versione ufficiale, da un lato perché è assurdo, dall’altra parte perché non riesce a spiegare alcuni fatti. L’idea che un tossicodipendente, nascosto in una grotta in Afghanistan, e venti individui, armati di taglierini, possano distruggere il World Trade Center e colpire il Pentagono prima che l’esercito più potente del Mondo avesse il tempo di reagire, non è nemmeno degna di un fumetto.
Ma la storia più grottesca è che pochi giornalisti occidentali si pongono delle domande. Inoltre, la versione ufficiale ignora la speculazione sul mercato azionario sulle aziende vittime degli attacchi, l’incendio di un edificio annesso alla Casa Bianca, o il crollo della terza torre del World Trade Center, quel pomeriggio. Tutti eventi che non sono nemmeno menzionati nella relazione finale della Commissione presidenziale d’inchiesta.
Nel merito, non si parla della cosa più importante di quel giorno: dopo l’attacco al World Trade Center, il piano di continuità del governo è stato attivato illegalmente. Esiste una procedura in caso di guerra nucleare. Se vi fosse l’annientamento delle autorità civili e militari, verrebbe instaurato un governo alternativo. Intorno alle 10:30, il piano venne attivato anche se le autorità civili erano ancora in grado di esercitare le loro responsabilità. Il potere passò ai militari che lo restituirono ai civili solo intorno alle 16:30.
Durante questo periodo, dei commando raccolsero quasi tutti i membri del Congresso e i funzionari di governo, per metterli in salvo nei rifugi nucleari. Quindi ci fu un colpo di stato militare di un paio d’ore, giusto il tempo per i golpisti per imporre una propria linea politica: uno stato di emergenza permanente all’interno e l’imperialismo globale all’estero.
Il 13 settembre, il Patriot Act venne presentato al Senato. E non si tratta di una legge, ma di un sostanzioso codice antiterrorismo la cui redazione venne effettuata in segreto per due o tre anni. Il 15 settembre, il presidente Bush approvò il piano della "matrice mondiale", che istituiva un sistema globale di rapimenti, prigioni segrete, torture e omicidi. Nella stessa riunione, venne approvato un piano di attacchi in successione a Afghanistan, Iraq, Libano, Libia, Siria, Somalia, Sudan e Iran. Si può vedere che la metà del programma è già stata completata. Questi attacchi, il colpo di stato e i crimini successivi sono stati organizzati da quello che dovrebbe essere chiamato Stato profondo (questa espressione viene usata per descrivere il potere segreto militare in Turchia o in Algeria).
Questi eventi sono stati progettati da un gruppo molto ristretto: gli straussiani, vale a dire, i discepoli del filosofo Leo Strauss. Queste sono le stesse persone che hanno indotto il Congresso degli Stati Uniti al riarmo nel 1995, e che ha organizzato lo smembramento della Jugoslavia. Dobbiamo ricordare, ad esempio, che Alija Itzetbegovic ebbe come consulente politico Richard Perle, come consigliere militare Usama bin Ladin e come consulente mediatico Bernard-Henri Lévy.
Geopolitika: Il suo libro e il suo atteggiamento anti-americano, espresso liberamente sulla rete indipendente Voltaire, sono stati la fonte di problemi che avete avuto personalmente con l’amministrazione dell’ex presidente francese, Nicolas Sarkozy. Puoi dirci un po’ di più? Infatti, nell’articolo che ha scritto su Sarkozy, dal titolo "Operazione Sarkozy: come la CIA ha messo uno dei suoi agenti alla presidenza della Repubblica francese", ha inserito informazioni sensibili che ricordano dei thriller politico-criminali.
Thierry Meyssan: Non sono antiamericano. Io sono un antiimperialista e penso che anche il popolo degli Stati Uniti sia una vittima dei suoi leader politici. Ho scoperto che Nicolas Sarkozy ha vissuto la sua adolescenza a New York, presso l’ambasciatore Frank Wisner Jr. Questo personaggio è uno dei più grandi dirigenti della CIA, che è stata fondata dal padre, Frank Wisner Sr. Ne consegue che la carriera di Nicolas Sarkozy è stata interamente determinata dalla CIA. Non vi è quindi da stupirsi che, diventato presidente della Repubblica francese, abbia difeso gli interessi di Washington e non quelli francesi.
I Serbi hanno familiarità con Frank Wisner Jr., è lui che ha organizzato l’indipendenza unilaterale del Kosovo come rappresentante speciale del Presidente degli Stati Uniti. Ho spiegato tutto questo in dettaglio nel corso di un discorso al Media Forum Euroasiatico (in Kazakistan) e mi è stato chiesto di svilupparlo in un articolo per Odnako (Russia). Accadde che, per un capriccio del momento, venisse pubblicato durante la guerra in Georgia, quando Sarkozy si recò a Mosca. Il primo ministro Vladimir Putin mise la rivista sul tavolo prima di iniziare a chiacchierare con lui. Questo, ovviamente, non ha migliorato il mio rapporto con Sarkozy.
Geopolitika: signor Meyssan, qual è la situazione attuale in Siria, la situazione sul fronte e la situazione nella società siriana? L’Arabia Saudita e il Qatar, così come i paesi occidentali, che vogliono rovesciare il sistema politico del presidente Bashar Assad con forza, sono vicine a realizzare il loro obiettivo?
Thierry Meyssan: dei 23 milioni di siriani, 2-2,5 milioni sosterrebbero i gruppi armati che cercano di destabilizzare il paese e indebolire il suo esercito. Hanno preso il controllo di diverse città e vaste zone rurali. In ogni caso, questi gruppi armati non saranno in grado di rovesciare il regime. Il piano prevedeva che le prime azioni terroristiche occidentali creassero un ciclo di provocazione/repressione per giustificare un intervento internazionale, sul modello terrorismo dell’UCK e repressione di Slobodan Milosevic, seguito dall’intervento della NATO.
Indichiamo di passaggio, che è stato dimostrato che dei gruppi che combattono in Siria sono stati addestrati al terrorismo dai membri dell’UCK in Kosovo. Questo piano non è riuscito perché la Russia di Vladimir Putin non è quella di Boris Eltsin. Mosca e Pechino non hanno permesso alla NATO di intervenire e da allora la situazione marcisce.
Geopolitika: Che cosa otterrebbero Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Arabia Saudita e Qatar, abbattendo il presidente al-Assad?
Thierry Meyssan: ciascuno Stato membro della coalizione ha un suo interesse in questa guerra, e ritiene di poterlo soddisfare, anche se questi interessi sono talvolta contraddittori.
A livello politico, c’è il desiderio di spezzare l’"Asse della resistenza al sionismo" (Iran-Iraq-Siria-Hezbollah-Palestina). C’è anche il desiderio di continuare il "rimodellamento del Grande Medio Oriente." Ma la cosa più importante è di natura economica: si sono scoperte enormi riserve di gas naturale nella parte sud-orientale del Mediterraneo. Il centro di questo giacimento è vicino Homs in Siria (più precisamente, Qara).
Geopolitika: Puoi dirci un po’ di più della ribellione di al-Qaida in Siria, i cui rapporti con gli Stati Uniti sono in contraddizione, a dir poco, se si guardano le loro azioni sul campo? Lei ha detto in un’intervista che il rapporto tra Abdelhakim Belhadj e la NATO è stato quasi istituzionalizzato. Al-Qaida per chi combatte in realtà?
Thierry Meyssan: Al-Qaida era in origine il nome dei database, dei file di computer, dei mujahidin arabi inviati a combattere in Afghanistan contro i sovietici. Per estensione, si sono denominati al-Qaida gli ambienti jihadisti in cui sono stati reclutati questi mercenari.
Poi con al-Qaida è stata designata la cerchia di bin Ladin e, per estensione, tutti i gruppi che nel Mondo sostengono l’ideologia di bin Ladin. Secondo il momento e le esigenze, questo movimento è stato più o meno numeroso. Durante la prima guerra in Afghanistan, la guerra in Bosnia e le guerre in Cecenia, questi mercenari erano dei "combattenti per la libertà", poiché combattevano contro gli slavi. Poi, durante la seconda guerra in Afghanistan e l’invasione dell’Iraq, erano dei "terroristi" perché stavano attaccando i GI.
Dopo la morte ufficiale di bin Ladin, sono ancora una volta diventati "combattenti per la libertà" durante le guerre in Libia e Siria, perché combattono a fianco della NATO. In realtà, questi mercenari sono sempre stati controllati dal clan Sudeiri, la fazione pro-USA e arci-reazionaria della famiglia reale saudita, e più in particolare, dal principe Bandar bin Sultan. Uno che George Bush padre ha sempre presentato come il suo "figlio adottivo" (vale a dire, il figlio intelligente che il padre avrebbe voluto avere), che non mai smesso di lavorare per conto della CIA.
Anche quando al-Qaida combatteva i soldati in Afghanistan e in Iraq, lo era ancora nell’interesse degli Stati Uniti perché poteva giustificarne la presenza militare. Si scopre che negli ultimi anni, i libici hanno formato l’ossatura di al-Qaida. La NATO naturalmente li ha utilizzati per rovesciare il regime di Muammar al-Gheddafi.
Una volta che questo è stato fatto, hanno nominato il numero due dell’organizzazione, Abdelhakim Belhaj, governatore militare di Tripoli, anche se è ricercato dalla giustizia spagnola per la sua presunta responsabilità negli attentati di Madrid. In seguito, hanno mandato i suoi uomini a combattere in Siria. Per trasportarli, la CIA ha usato le risorse del Commissariato per i Rifugiati di Ian Martin, rappresentante speciale di Ban Ki-Moon in Libia.
I cosiddetti rifugiati sono stati portati in Turchia, nei campi che servono come basi per attaccare la Siria e il cui accesso è stato vietato ai parlamentari e alla stampa turchi. Ian Martin è noto anche ai vostri lettori: è stato il Segretario Generale di Amnesty International e Alto rappresentante del Commissario per i diritti umani in Bosnia-Erzegovina.
Geopolitika: La Siria è al centro non solo di una guerra civile, ma della manipolazione e della guerra mediatica. Vi chiediamo come testimone diretto, presente sul terreno, cosa è realmente accaduto a Homs e Hula?
Thierry Meyssan: Non sono un testimone diretto di ciò che è successo a Houla. Per contro, mi sono fidato di terze parti, nei negoziati tra le autorità siriane e francesi, durante l’assedio dell’emirato islamico di Bab Amr. I jihadisti erano trincerati in questa zona di Homs, da cui avevano cacciato gli infedeli (cristiani) e gli eretici (sciiti). In effetti, solo 40 famiglie sunnite sono state lasciate tra circa 3.000 combattenti. Avevano introdotto la sharia, e un "tribunale rivoluzionario" ha condannato più di 150 persone, che furono uccise in pubblico.
Quest’auto-proclamato emirato era segretamente gestito da ufficiali francesi. Le autorità siriane volevano evitare il bombardamento e negoziarono con le autorità francesi affinché i ribelli si arrendessero. In definitiva, i francesi poterono lasciare la città di notte e fuggire in Libano, mentre le forze lealiste entravano nell’emirato e i combattenti si arrendevano. Lo spargimento di sangue fu evitato, ci furono meno di 50 morti, in ultima analisi, durante l’operazione.
Geopolitika: A parte gli alawiti, anche i cristiani vengono presi di mira in Siria. Puoi dirci un po’ di più sulla persecuzione dei cristiani in questo paese e perché la cosiddetta civiltà occidentale, le cui radici sono cristiane, non si mostra solidale con i propri correligionari?
Thierry Meyssan: I jihadisti per primo aggrediscono coloro che sono più vicini a loro: in primo luogo i sunniti e sciiti (compresi alawiti) progressisti, e solo dopo i cristiani. In generale, torturano e uccidono pochi cristiani. Per contro, li espellono e li derubano sistematicamente. Nella regione in prossimità del confine con il nord del Libano, l’esercito libero siriano ha concesso una settimana ai cristiani per fuggire. C’è stato un esodo di 80.000 persone. Coloro che non sono fuggiti in tempo sono stati massacrati. Il cristianesimo è stato fondato da San Paolo a Damasco. Le comunità siriane sono più antiche di quelle occidentali.
Hanno mantenuto gli antichi riti e una fede molto forte. La maggior parte è ortodossa. Coloro che sono legati a Roma hanno mantenuto i loro riti ancestrali.
Durante le Crociate, i cristiani d’Oriente combatterono con gli altri arabi contro i soldati inviati dal Papa. Oggi, stanno combattendo con i loro compagni contro i jihadisti inviati dalla NATO.
Geopolitika: E’ possibile aspettarsi un attacco contro l’Iran il prossimo anno, e in caso di un intervento militare, quale sarà il ruolo di Israele? Un attacco nucleare è il vero scopo di Tel Aviv, o Israele viene spinto in questa avventura da una struttura globalista, interessata a una ampia destabilizzazione delle relazioni internazionali?
Thierry Meyssan: L’Iran supporta una rivoluzione. Questo è l’unico grande paese che offre un modello alternativo di organizzazione sociale all’American Way of Life. Gli iraniani sono un popolo mistico e perseverante. Ha insegnato agli arabi l’arte della resistenza e dell’opposizione al progetto sionista, non solo nella regione, ma in tutto il Mondo. Detto questo, nonostante la sua furia, Israele non è in grado di attaccare l’Iran. E gli Stati Uniti hanno rinunciato ad attaccarlo. Si tratta di una nazione di 75 milioni di abitanti, dove tutti aspirano a morire per il proprio paese. Mentre l’esercito israeliano è composto da giovani la cui esperienza militare si limita al tormento dei palestinesi, e l’esercito statunitense è composto da disoccupati che non hanno intenzione di morire per una paga misera.
Geopolitika: Come vede il ruolo della Russia nel conflitto siriano e come vede il ruolo del presidente della Russia, Vladimir Putin, che viene ampiamente demonizzato dai media occidentali?
Thierry Meyssan: La demonizzazione del presidente Putin sulla stampa occidentale è l’omaggio del vizio alla virtù. Dopo aver raddrizzato il suo paese, Vladimir Putin intende rimetterlo al suo posto nelle relazioni internazionali. Ha basato la sua strategia sul controllo di quello che dovrebbe essere la principale fonte di energia nel XXI secolo: il gas. Già Gazprom è diventata la prima società gasifera mondiale e la Rosneft è la prima petrolifera. Ovviamente, non ha intenzione di lasciare che gli Stati Uniti mettano le mani sul gas siriano, e non lascerà che l’Iran utilizzi il proprio gas senza controllo. Di conseguenza, è dovuto intervenire in Siria e allearsi con l’Iran. Inoltre, la Russia sta diventando il principale garante del diritto internazionale, mentre gli occidentali sostengono, in nome della paccottiglia moralistica, di poter violare la sovranità delle nazioni.
Quindi non bisogna temere la potenza russa, perché serve la legge e la pace. A giugno, Sergej Lavrov ha negoziato un piano di pace a Ginevra. E’ stato rinviato unilateralmente dagli Stati Uniti, ma in definitiva dovrebbe essere attuato da Barack Obama durante il suo secondo mandato. Esso prevede il dispiegamento di una forza di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, composto prevalentemente da truppe della CSTO. Inoltre, permette la continuazione del potere di Bashar al-Assad, se il popolo siriano lo decide attraverso le urne.
Geopolitika: Cosa ne pensa della situazione in Serbia e del difficile cammino percorso dai serbi negli ultimi due decenni?
Thierry Meyssan: la Serbia è stata esaurita da una serie di guerre che ha affrontato, in particolare la conquista del Kosovo da parte della NATO. E’ davvero una guerra di conquista, in quanto si concluse con l’amputazione del paese e il riconoscimento unilaterale da parte della NATO dell’indipendenza di Camp Bondsteel, vale a dire di una base della NATO. La maggioranza dei serbi ha pensato a un avvicinamento all’Unione europea. Ignorando che l’Unione europea è la faccia civile di un’unica entità di cui la NATO è la faccia militare.
Storicamente l’UE è stata creata in riferimento alle clausole segrete del Piano Marshall, che precedette la NATO, ma è comunque parte dello stesso piano di dominio anglosassone. Può essere che la crisi dell’euro porti alla dissoluzione dell’Unione europea. In questo caso, Stati come Grecia e Serbia si volgeranno spontaneamente verso la Russia, con la quali condividono molti elementi culturali e la stessa domanda di giustizia.
Geopolitika: Si consiglia alla Serbia, in modo più o meno diretto, a rinunciare al Kosovo per poter entrare nell’Unione europea. Lei ha una grande esperienza delle relazioni internazionali, e noi sinceramente Le chiediamo se può darci consigli su cosa dovrebbero fare i serbi in politica interna ed estera?
Thierry Meyssan: Non ho consigli da dare a nessuno. Da parte mia mi dispiace che alcuni Stati abbiano riconosciuto la conquista del Kosovo da parte della NATO. Dal momento che il Kosovo è diventato il fulcro, per lo più, della diffusione in Europa della droga coltivata in Afghanistan sotto la vigile protezione delle truppe statunitensi. Nessun popolo otterrà nulla da questa indipendenza e di certo non i kosovari, ormai ridotti in schiavitù dalla mafia.
Geopolitika: Esisteva tra la Francia e la Serbia una forte alleanza che ha perso senso, quando la Francia ha partecipato al bombardamento della Serbia nel 1999, nel quadro della NATO. Tuttavia, in Francia e Serbia vi sono ancora persone che non hanno dimenticato "l’amicizia delle armi" della prima guerra mondiale, e che pensano che dovrebbero ripristinare la vita spezzata di queste relazioni culturali. Lei condivide questo punto di vista?
Thierry Meyssan: Sapete che uno dei miei amici, con i quali ho scritto Pentagate: L’attacco al Pentagono dell’11 settembre con un missile e non con un aereo fantasma, è il comandante Pierre-Henri Bunel. Venne arrestato durante la guerra della NATO per spionaggio a favore della Serbia. Successivamente, è stato estradato in Francia, processato e condannato a due anni di carcere, invece che a vita. Questo verdetto dimostra che in realtà ha agito su ordine dei suoi superiori.
La Francia, membro della NATO, è stata costretta a partecipare all’attacco alla Serbia. Ma lo ha fatto di malavoglia e spesso aiutando segretamente la Serbia che ha bombardato. Oggi, la Francia è in una situazione ancora peggiore. E’ governata da una élite che per proteggere i propri vantaggi economici, si è posta al servizio di Washington e Tel Aviv. Spero che i miei compatrioti, che hanno una lunga storia rivoluzionaria, alla fine caccino queste élite corrotte. E nello stesso tempo, la Serbia riacquisti un’indipendenza effettiva. Così i nostri due popoli si ritroveranno spontaneamente.
Geopolitika: La ringrazio molto per il tempo concessoci.



(english / francais / srpskohrvatski.

A proposito del paradossale conferimento del Premio Nobel per la Pace alla Unione Europea, il Consiglio Mondiale per la Pace -WPC- ha emesso un duro comunicato nel quale si stigmatizza il carattere imperialista della stessa UE. Sull'argomento pubblichiamo anche una intervista alla storica Annie Lacroix-Riz ed il secco comunicato del PC d'Irlanda. Rimandiamo inoltre ai nostri post recenti:


Na dodjelu Nobelove nagrade Europskoj Uniji

1) Reakcija Svjetskog Mirovnog Vijeća (WPC) na dodjelu Nobelove nagrade za mir Europskoj Uniji: "EU se ponaša kao imperijalistička sila"
2) Statement of the WPC Regional Meeting, held in Brussels October 29-30, 2012, on the award of the Nobel Peace Prize to the European Union
3) Annie Lacroix-Riz éclaire l’absurdité du Prix Nobel de la paix attribué à l’UE
4) Communist Party of Ireland Statement: Words mean what I want them to mean say EU elites


=== 1 ===

Isto procitaj: Kapuralin: Dodjela Nobelove nagrade za mir EU upitna!



Reakcija Svjetskog Mirovnog Vijeća (WPC) na dodjelu Nobelove nagrade za mir Europskoj Uniji: "EU se ponaša kao imperijalistička sila"


advance.hr
vrijeme objave: Ponedjeljak - 10. Prosinac 2012


O DODJELI NOBELOVE NAGRADE ZA MIR EUROPSKOJ UNIJI

U reakciji na najavu o dodjeli Nobelove nagrade za mir Europskoj uniji, članice organizacije Svjetskog mirovnog vijeća WPC (World Peace Council) ne mogu a da ne podsjete:

- Da je tijekom posljednjih nekoliko desetljeća Europska unija sprovodila proces militarizacije, koji je ubrzan 1999.godine, nakon što je odigrala presudnu ulogu u brutalnom raspadu Jugoslavije i kasnije, u brutalnoj vojnoj agresiji protiv nje, koji je kulminirao procesom secesije srpske provincije Kosovo protivno međunarodnom pravu;

- Da je nakon NATO samita održanog u Washingtonu 1999. godine, Europskoj uniji dodijeljena stupna uloga tog vojno-političkog bloka predvođenog Sjedinjenim američkim državama. Ta je uloga od tada učvršćivana i jačana, od 2002. godine primjenom Lisabonskog ugovora. Treba imati na umu da je 21 zemlja Europske unije ujedno i članica NATO saveza;

- Da je tijekom proteklih nekoliko desetljeća Europska unija vodila i potpirala sve vojne agresije NATO-a i/ili njegovih članica protiv suvereniteta i nacionalne neovisnosti raznih zemalja, poput Jugoslavije, Iraka, Afganistana, Libije i Sirije koja je sada u toku, kao i brutalni režim sankcija koji su teško pogodili narode više zemalja;

- Da se Europska Unija zalaže i poduzima akcije, koje su u suprotnosti sa Poveljom Ujedinjenih Naroda o poštivanju suvereniteta i nemješanja u unutarnje poslove zemalja, naprotiv, promiče i jača nemilosrdnu militarizaciju u međunarodnim odnosima, popuštajući pred kršenjem ljudskih prava, poput tzv. "CIA-inih letova" i njihovim kriminalnim otmicama i aktima mučenja; 

U tom kontekstu naša organizacija smatra, u najmanju ruku, upitnom dodjelu Nobelove nagrade za mir Europskoj uniji za njen doprinos unapređenju mira i pomirbe, demokracije i ljudskih prava u Europi, kako što je naveo Norveški Nobelov komitet prilikom objave priznanja.

Štoviše, u vrijeme kad se u Europi suočavamo sa razvojem situacije koja rezultira rastom nejednakosti i socijalne nepravde, a odnosi među državama temelje na ekonomskoj, pa čak i političkoj dominaciji jednih država nad drugima, stvarnost je daleko od bratstva među nacijama ili kongresa mira, o čemu Alfred Nobel govori kao o kriterijima za dodjelu Nobelove nagrade, u svojoj oporuci 1895. Godine. 

Europska Unija je daleko od ostvarenja tzv. misije propagiranog mira,demokracije,ljudskih prava u ostalim dijelovima svijeta, što si pripisuju, upravo suprotno, Europska Unija ponaša se kao imperijalistička sila. 

Mir u Europi uslijedio je nakon pobjede naroda u II sv. ratu, za kojim su čeznuli milijuni ljudi, mnogi od njih uključeni u snažan i široki mirovni pokret, koji je započet i razvijan nakon 1945. Godine.

Stvarnost i svrha objave Europske Unije je daleko od vrijednosti i principa proklamiranih i utvrđenih na historijskoj konferenciji održanoj u Helsinkiju 1975. Godine, kao što su: poštivanje suverenosti, suzdržavanje od prijetnje upotrebe sile, poštivanje teritorijalnog integriteta, mirno rješavanje sukoba, nemiješanje u unutrašnje poslove zemalja, poštivanje ljudskih prava i temeljnih sloboda, pravo samo-opredjeljenja naroda i suradnja među državama zasnovana na vrijednostima i načelima povelje Ujedinjenih Naroda.

Upravo poput 2009. Godine, prilikom predaje Nobelove nagrade za mir Baracku Obami, novoizabranom predsjedniku SAD, sadašnja Nobelova nagrada za mir dodijeljena Europskoj Uniji ne doprinosi vjerodostojnosti i ugledu ove nagrade. 


Apendix:

Izjava je usvojena na regionalnoj konferenciji WPC za Europu, održanoj od 29-30 listopada u Bruxellesu. 

U mnoštvu različitih subjekata koji se suprotstavljaju globalnim hegemonima, koji proizvode i generiraju krize, institucionalni terorizam, nasilna svrgavanja legalnih vlasti u suverenim državama, koje imaju za cilj ovladavanje prirodnih resursa pojedinih zemalja i čitavih regija uz pomoć instaliranih poslušnika, svojom se masovnošću i organiziranošću ističe World Peace Concil – WPC, odnosno Svjetsko mirovno vijeće.
World Peace Concil je međunarodna mirovna anti-imperijalistička organizacija koja se zalaže za mirnu koegzistenciju među državama i narodima, razoružanje, zabranu oružja za masovno uništenje. Dio je međunarodnog mirovnog pokreta i djeluje u suradnji sa drugim međunarodnim i nacionalnim pokretima sa sjedištem u više od 100 država. Pod sadašnjim imenom djeluje od 1950. Godine, mada derivira iz nekoliko mirovnih kongresa održanih u razdoblju od 1948 – 1949 u Wroclawu, Parizu i Pragu.
Prvi predsjednik bio je Jean Frédéric Joliot-Curie, zet Pierra i Marie Curie i dobitnik Nobelove nagrade za kemiju 1935. Godine.
Aktualna predsjednica je Socorro Gomes iz brazilskog Centra za solidarnost među narodima i borbe za mir - CEBRAPAZ. Sjedište organizacije je od 1999. Godine u Grčkoj.

Socijalistička radnička partija jedini je subjekt iz Hrvatske, koji održava tijesnu višegodišnju suradnju sa WPC. Ukoliko postoji još organizacija i udruga u Hrvatskoj ili okruženju koje to žele, voljni smo pomoći pri uspostavi kontakta.

9. XII 2012.
Kapuralin Vladimir


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Statement of the WPC Regional Meeting, held in Brussels October 29-30,2012 

On the award of the Nobel Peace Prize to the European Union


In reaction to the announcement of the award of the Nobel Peace prize to the European Union, the World Peace Council member organizations, cannot fail to recall:

That during the past decades the European Union has led a process of militarisation, sped up since 1999, after having played a crucial role in the violent breakup of Yugoslavia and, later on, in the brutal military aggression against this country, culminating in a process of secession of the Serbian Province of Kosovo in defiance of international law.

That since the NATO Summit held in Washington, in 1999, the European Union has been given the role of the European pillar of this political­military bloc led by the USA. A role that since then has been asserting itself and strengthening, namely since 2002 and with the adoption of the Lisbon Treaty. It should be remembered that 21 European Union countries are NATO members.

That over the past decades, the European Union has led and supported all military aggressions by NATO and/or its members against the sovereignty and national independence of various States, like Yugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libya and now Syria, as well as violent regimes of sanctions that hit hard the peoples of several countries;

That the European Union has taken stands and actions that go against the principles set down in the United Nations Charter of respect for the sovereignty of the States and non­intervention in their internal affairs, and on the contrary, promote an increasing and relentless militarisation of international relations, being complaisant with the violation of human rights as was the case, for example, of the so­called «CIA flights» ­their criminal kidnappings and acts of torture; In this context, our organizations consider, to call the least, questionable the award of the Nobel Peace prize to the European Union (EU) for its contribution to the advancement of peace and reconciliation, democracy and human rights in Europe, as stated by the Norwegian Nobel Committee when it announced the prize.

Much more so, at a time when in the European Union we have the growth of a number of situations and developments that have resulted in an increase of inequalities and social injustice and of relations among States based on economic, and even, political domination by some States over others a reality far from the proclaimed fraternity among nations or the congress of peace that Alfred Nobel spoke about as a criterion for the Nobel Peace Prize in his 1895 will.

The European Union is far from accomplishing the so­called mission of propagating peace, democracy, human rights in the rest of the world that some claim to attribute, quite the contrary, the European Union behaves as an imperialist force. Peace in Europe was a victory of the peoples following World War II, in which weighed the aspiration for peace of millions of citizens, many of them activists from the strong and broad movement for peace that began and developed after 1945.

The reality and purposes anounced by the European Union are far removed from the values and principles proclaimed and established by the historic Helsinki Conference, held in 1975, such as: respect for sovereignty; refraining from the threat or use of force; respect for the territorial integrity of the States; peaceful settlement of conflicts; non­intervention in the internal affairs of the States; respect for human rights and fundamental freedoms; right to self­determination of the peoples; and cooperation among States values and principles set down in the United Nations Charter.

Just as in 2009, with the handing of the Nobel Peace prize to Barack Obama, then newly elected President of the USA, the Nobel Peace prize now awarded to the European Union does not contribute to give credibility and prestige to this award.


The Organisations of the European section of the WPC voice their protest against the award of the 2012 Nobel Peace Prize to the European Union, and call on all WPC member and friendly organizations to also voice their protest, namely on December 10th when the award is presented.



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Une historienne éclaire l’absurdité du Prix Nobel de la paix attribué à l’UE


Annie Lacroix-Riz, historienne, est professeur émérite d’histoire contemporaine à l’Université Paris-VII – Denis Diderot. Auteur de nombreux ouvrages, elle a notamment étudié les origines et les parrains de la Communauté européenne (lire en particulier : L'intégration européenne de la France : la tutelle de l'Allemagne et des États-Unis, Paris, Le Temps des Cerises, 2007). Lorsque jury Nobel de la paix a annoncé le 12 octobre que son choix se portait cette année sur l’Union européenne, BRN a souhaité recueillir sa réaction et son éclairage.



Interview publiée dans le mensuel Bastille-République-Nations daté du 29/10/12

Informations et abonnements : www.brn-presse.fr

 

BRN – L’Union européenne s’est vu décerner cette année le Prix Nobel de la paix. Quelle a été votre première réaction à l’annonce du jury d’Oslo ?

 

ALR – L’information pouvait d’abord être prise pour un canular. Mais dans notre univers de l’absurde, une telle distinction est dans la droite ligne des choix du jury Nobel dans la dernière période. Cette décision n’en bat pas moins des records de ridicule, tant au regard des pratiques actuelles que des origines de l’UE.

 

BRN – Des pratiques actuelles que vous jugez bellicistes…

 

ALR – Pour l’heure, elle joue le rôle de petit soldat de l’OTAN, comme elle l’a fait dès sa naissance. L’UE en tant que telle ou nombre de ses membres sont impliqués dans quasiment toutes les guerres dites périphériques depuis vingt ans.

 

BRN – Cependant, en tant qu’historienne, vous insistez plus particulièrement sur les origines tout sauf pacifiques de l’UE. Pourriez-vous préciser cette analyse ?

 

ALR – Les archives, sources par excellence de la recherche historique, permettent seules de décortiquer ses véritables origines et objectifs, qui excluent la thèse d’une prétendue « dérive » récente de l’UE, dont on nous rebat les oreilles.

 

BRN – Vous évoquez en particulier la « déclaration Schuman », du 9 mai 1950, souvent décrite comme l’acte fondateur de l’« aventure européenne »…

 

ALR – Oui, et ses circonstances précises méritent examen. Le lendemain même – le 10 mai 1950, donc – devait avoir lieu à Londres une très importante réunion de la jeune OTAN (organisation de l’Alliance atlantique, elle-même fondée un an plus tôt). A l’ordre du jour figurait le feu vert officiel au réarmement de la République fédérale d’Allemagne (RFA), que Washington réclamait bruyamment depuis deux ans (1948). Les structures et officiers de la Wehrmacht avaient été maintenus dans diverses associations de façade. Mais quatre ans après l’écrasement du nazisme, un tel feu vert atlantique était quasi impossible à faire avaler aux populations, en France notamment. La création de la Communauté du charbon et de l’acier (CECA) annoncée par le ministre français des Affaires étrangères Robert Schuman a ainsi permis d’esquiver ou de retarder l’annonce officielle, requise par les dirigeants américains, du réarmement en cours.

 

BRN – Qu’est-ce qui motivait cette stratégie américaine ?

 

ALR – Dès mars 1947, dans son célèbre « discours au Congrès », le président Truman demanda des crédits pour sauver la Grèce et la Turquie « attaquées », forcément par l’URSS (dont le nom n’était pas prononcé). Ce faisant, il entamait en grand l’encerclement politico-militaire de cette dernière. De fait, c’est entre 1942 et 1945 que Washington avait préparé l’affrontement futur contre ce pays, pour l’heure allié militaire crucial pour vaincre l’Allemagne (1). Une pièce majeure de cet affrontement était la constitution d’une Europe occidentale intégrée.

 

BRN – Ce sont donc les dirigeants américains qui ont poussé à l’intégration européenne ?

 

ALR – Oui. Washington entendait imposer une Europe unifiée sous tutelle de la RFA, pays dont les structures capitalistiques étaient les plus concentrées, les plus modernes, les plus liées aux Etats-Unis (qui y avaient investi des milliards de dollars dans l’entre-deux-guerres) et les moins détruites (80% du potentiel industriel était intact en 1945). Cette Europe serait dépourvue de toute protection à l’égard des exportations et des capitaux américains : les motivations des dirigeants d’outre-Atlantique étaient non seulement géostratégiques mais aussi économiques.

 

BRN – Comment ces derniers s’y sont-ils pris ?

 

ALR – Ils ont harcelé leurs alliés ouest-européens, pas vraiment enthousiastes à l’idée d’être aussi vite réunis avec l’ennemi d’hier. Et ils ont sans répit usé de l’arme financière, en conditionnant l’octroi des crédits du « Plan Marshall » à la formation d’une « entité » européenne intégrée, condition clairement formulée par le discours de Harvard du 5 juin 1947.

 

BRN – Mais quel était l’état d’esprit des dirigeants ouest-allemands ?

 

ALR – De 1945 à 1948, avant même la création officielle de la RFA, ils n’ont eu de cesse de se poser en « meilleurs élèves de l’Europe », suivant une stratégie mûrement calculée : toute avancée de l’intégration européenne équivalait à un effacement progressif de la défaite, et constituait un gage de récupération de la puissance perdue. Ainsi ressurgissait le thème de l’« égalité des droits » de l’après-guerre précédent.

 

BRN – Voilà une affirmation audacieuse…

 

ALR – C’était l’analyse des diplomates français d’alors, en poste en général depuis l’avant-guerre et lucides sur ce qu’ils ressentaient comme un péril, comme le montrent leurs notes et mises en gardeofficieuses. Car, officiellement, le discours était de saluer l’horizon européen radieux.

 

BRN – Pouvez-vous préciser cet « effacement progressif de la défaite » attendu par les élites de Bonn ?

 

ALR – Celles-ci ont vite obtenu l’abandon des limitations de production imposées par les accords de Yalta et de Potsdam : en fait, dès 1945 dans les zones occidentales ; en droit, dès le lancement publicitaire du Plan Marshall, à l’été 1947. Les dirigeants ouest-allemands ont repris le discours d’entre-deux-guerres de Gustav Stresemann (ministre des Affaires étrangères de 1923 à 1929) et du maire de Cologne Adenauer : les « accords de Locarno » (1925) garantirent – sur le papier – les frontières occidentales de l’Allemagne (pas les orientales), motivant l’attribution à Stresemann, en 1926, et à son collègue français Briand… du Prix Nobel de la paix. Berlin entonna le refrain du rapprochement européen avec pour condition expresse l’égalité des droits (« Gleichberechtigung »). C’est à dire l’abandon des clauses territoriales et militaires du traité de Versailles : récupération des territoires perdus en 1918 (et Anschluss prétendument « européen » de l’Autriche), et levée de l’interdiction des industries de guerre.

 

BRN – Peut-on pour autant établir le parallèle avec la RFA d’après la seconde guerre mondiale ?

 

ALR – Le diplomate français Armand Bérard câble à Schuman en février 1952 que Konrad Adenauer (premier chancelier de la RFA, de 1949 à 1963) pourra, en s’appuyant sur la « force supérieure (mise…) en ligne  » par les Américains contre l’URSS, contraindre celle-ci « à un règlement dans lequel elle abandonnera les territoires d’Europe centrale et orientale qu’elle domine actuellement » (RDA et Autriche incluses). Extraordinaire prévision de ce qui se réalisa près de quatre décennies plus tard…

 

BRN – Si l’on reprend votre analyse, l’Union européenne a donc été lancée sur injonction américaine, et soutenue avec détermination par les dirigeants ouest-allemands pour leurs objectifs propres…

 

ALR – Oui, ce qui nous place à des années-lumière des contes à l’eau de rose en vogue sur les « pères de l’Europe » taraudés par le « plus jamais ça » et exclusivement soucieux de construire l’« espace de paix » que les jurés Nobel ont cru bon d’honorer. A cet égard, il faut prendre en compte d’autres acteurs, au rôle déterminant dans l’intégration européenne.

 

BRN – Le Vatican ?

 

ALR – On évoque peu son rôle géopolitique dans la « construction européenne » du XXe siècle, mais après la seconde guerre mondiale, les dirigeants américains l’ont, encore plus qu’après la première, considéré comme un auxiliaire crucial. En outre, depuis la fin du XIXe siècle, et plus que jamais depuis la Première Guerre mondiale avec Benoît XV (pape de 1914 à 1922), les liens entre Reich et Vatican ont façonné le continent (Est compris), comme je l’ai montré dans l’ouvrage Le Vatican, l'Europe et le Reich. Globalement avec l’aval des Etats-Unis – sauf quand les rivalités (économiques) germano-américaines devenaient trop fortes. De fait, les relations du trio se compliquent quand les intérêts des dirigeants d’Outre-Atlantique et d’Outre-Rhin divergent trop. Dans ce cas, la préférence du Vatican va toujours à l’Allemagne. Le maximum de tension a donc été atteint au cours des deux guerres mondiales.

 

BRN – Précisément, vous décrivez une Europe voulue par Washington et Bonn (puis Berlin). Mais ces deux puissances n’ont pas nécessairement des intérêts qui coïncident…

 

ALR – Absolument. Et ces contradictions, perceptibles dans les guerres des Balkans de 1992 à 1999 (Michel Collon l’a écrit dans son ouvrage de 1997, Le grand échiquier), s’intensifient avec l’aggravation de la crise. Raison supplémentaire pour douter des effets « pacifiques » de l’intégration européenne.

 

BRN – Celle-ci est également promue par des dirigeants d’autres pays, comme la France.

 

ALR – François Bloch-Lainé, haut fonctionnaire des Finances devenu grand banquier, fustigeait en 1976 la grande bourgeoisie toujours prompte à « exploiter les malheurs de la patrie ». Du Congrès de Vienne (1815) à la Collaboration, en passant par les Versaillais s’alliant avec le chancelier prussien Bismarck contre la Commune, du modèle allemand d’avant-guerre au modèle américain d’après-guerre, cette classe dirigeante cherche à l’étranger un « bouclier socio-politique » contre son peuple.

 

BRN – Ce serait également une fonction de l’Union européenne ?


(srpskohrvatski / italiano / english)

Divagazioni arancioni

1) Arancione evviva, ma è il colore giusto? / Naranđasto: dobro, ali je li to uprava boja? (E. Remondino)

2) Una scheda su AVAAZ ed il suo creatore Ricken Patel: si allunga il libro paga di Soros...


ALTRI LINK:

Sulla assemblea del movimento "arancione" << Cambiare si può >> si vedano ad esempio i report di Marco Santopadre:


http://www.contropiano.org/it/news-politica/item/13031-“cambiare-si-può”-reazioni-a-sinistra
http://www.contropiano.org/it/news-politica/item/12986-“cambiare-si-può”-cocci-e-buone-intenzioni

ed il commento video di Mario Albanesi:


Sulle attività della lobby di Soros a sostegno del fascismo in Georgia e della distruzione dello Stato laico e sovrano in Siria si veda:

Soros tente de relativiser le jihadisme en Syrie

Billionaires Bond in Tbilisi: Soros Connives with Ivanishvili

Tbilisi: Saakashvili Grants Paymaster Soros Georgian Passport



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Al di là delle posizioni anti-serbe e anti-Milosevic di Remondino, un articolo che vale la pena di leggere. 
Claudia






di Ennio Remondino -
Quel colore caldo. L’arancione è un bellissimo colore, caldo, vivace come il rosso ma più naturale, meno aggressivo nelle differenze con il resto della tavolozza. Arancione sono diventate alcune “rivoluzioni” recenti, in paesi a noi vicini. Ed ecco che la tentazione di riproporlo in chiave italiana prende campo. Del resto chi non avrebbe votato l’arancione del sindaco di Milano Pisapia rispetto all’azzurro ingrigito con cui la sindaco Moratti aveva vestito palazzo Marino? Arancione dell’ex magistrato De Magistris rispetto al pasticcio di un rosso opaco e litigioso nella bella Napoli. O a Genova tra il disorganico Doria rispetto al doppio rosa di apparato. Arancione è mia simpatia personale, ma il riferimento storico lascia perplessi. Almeno quelli di noi che per mestiere e per età qualcosa di più hanno visto e ricordano. Ed ecco un semplice “Amarcord”, promemoria delle vecchie “rivoluzioni arancione” da cui guardarsi, sottolinearne le differenze, prendere le distanze.
Arancioni a stelle e strisce. Il riferimento stampato è dal Manifesto del 30 Dicembre 2004. In Rai c’è senz’altro un Tv7 d’annata. Dai miei Balcani raccontavo di un «Serbo di Novi Sad», uno degli «istruttori» che ha allenato la piazza di Kiev contro il regime. Per idealità, dice, ma anche per soldi. I committenti? I governi Usa ed europei. E’ il «consigliere speciale» per l’Ucraina dell’American Freedom House. Accrediti professionali, Milosevic in galera all’Aja, Shevardnadze deposto in Georgia, e poi Yanukovic rovesciato. Tante trasferte e tanti «seminari sulla non violenza» tenuti da un ex colonnello della Cia, per lui e gli altri trainer. Chi paga?», chiedevo retoricamente allora, intervistando Stanko Lazendic. «Stanko è un giovane che nella vita ne ha viste molte, a cominciare dalla galera, che ha iniziato a frequentare dall’imporsi del regime di Milosevic. Diciassette arresti non sono male per un semplice leader studentesco, se mai Lazarevic è stato soltanto quello».
Storie lontane e utili memorie. Nulla di assimilabile a quanto di bello, di nuovo, di pulito, sta iniziando a muoversi in Italia. Ma ad evitare confusioni cromatiche, un ripassino di storia non guasta. Stanko Lazendic è stato uno dei fondatori del movimento studentesco serbo «Otpor», che vuol dire Resistenza, ed è da lì che parte tutto. Resistenza popolare e non violenta al regime di Milosevic in quel lontano 1998, quando il despota di Belgrado era ancora equivocamente corteggiato da molte cancellerie occidentali incerte fra l’adottarlo e il fargli guerra. Otpor nasce allora, ed è probabilmente l’unico erede del vasto movimento “antipartitico” di piazza che negli anni precedenti aveva quasi dato la spallata decisiva al potere della famiglia Milosevic. Poi i partiti tradizionali, anche quelli democratici, si erano ingoiati sia la «Rivoluzione dei fischietti» dell’ inverno `96-`97, sia le speranze di cambiamento interno senza interventi armati “umanitari”.
La fantasia al potere, ma non solo. Otpor rivoluziona la liturgia della politica, con i colori delle bandiere, nelle parole d’ordine, nella leadership collettiva, nella musica sparata in piazza a tutto volume, e nel costante sberleffo al potere. L’anima slava, sepolta sino allora nell’auto commiserazione, ne approfitta per tirare fuori la prorompente carica d’ironia e auto ironia della sua amara irriverenza. Ce l’avrebbero fatta da soli e prima e meglio, quelli di Otpor, con tutto il popolo serbo, se qualche stratega di Washington non avesse già deciso, in quella metà del 1998, che Milosevic serviva per collaudare la forza militare della Nato come guardiano del fronte Est dell’Impero. Quando, il 24 marzo del 1999 sulla Jugoslavia iniziano a piovere le bombe, Otpor si arruola, assieme a tutta la Serbia, non accanto a Milosevic, ma contro la Nato. Per loro quelle bombe sono insensate. Puntano al despota e colpiscono il popolo serbo e quello kosovaro. Memoria.
Quell’aiutino in più. La fantasia al potere della protesta, ma anche qualche soldino in più per manifesti, striscioni, apparato legale di difesa, bandiere, radio libere e Internet pirata. Molti di quegli studenti ormai abbondantemente fuori corso sembrava avessero studiato molto durante il duro inverno della guerra, lezioni sul come scardinare un rozzo apparato di potere per seppellirlo sotto il ridicolo della sua sostanziale impotenza. Anche Stanko Lazendic aveva studiato. In trasferta a Budapest, nella vicina Ungheria che ancora non chiedeva il visto per i serbi; altri suoi amici nel protettorato Nato della Bosnia o in quello statunitense del Montenegro. «Seminari» li chiamavano gli organizzatori, sulla «Resistenza non violenta». Due le cose interessanti che riesco ad ottenere dalla memoria di Stanko: il nome di almeno un «docente» e le molte sigle di chi pagava i conti di quelle trasferte di «studio». Che centra tutto questo con i nostri “arancioni”? Nulla, solo conoscere.
Rivoluzione col guanto di velluto. Nel marzo del 2000, uno dei docenti di Stanko all’Hilton di Budapest, fu un certo Robert Helvi, già colonnello della Cia, operativo a Rangoon e Burma. Lezioni per ogni movimento anticomunista che si rispetti, tecnica del Colpo di Stato col Guanto di Velluto. Quanti siano «pochi» i soldi che pagano le loro originali prestazioni professionali, Stanko Lazerdic non lo dice. In compenso ci racconta dei suoi committenti. «A volte le organizzazioni studentesche, a volte direttamente i loro finanziatori». La generosità democratica in Serbia, Ucraina, Georgia eccetera, ci dice Stanko Lazendic, esce dai conti correnti di Us Aid, l’organizzazione governativa statunitense, o dall’Iri, l’Istituto Internazionale Repubblicano (il partito allora di Bush), o dal suo gemello Democratico (Ndi), o dalla fondazione Soros, o dalla Freedom House, o dalle tedesche «Friedrich Ebert» e «Konrad Adenauer», o dalla britannica «Westminster». La pecunia che puzza.
Ovviamente è solo storia. Storia che pochi avranno l’opportunità di leggere su libri ufficiali che trattano di quelle ormai lontane (ma non lontanissime) vicende. Rispetto alle iniziative italiane in itinere con l’Arancione come colore simbolo di aggregazione pulita e innovativa, tutto questo valga soltanto come lontano ammonimento o non fidarsi di eventuali amici troppo organizzati. O troppo generosi. Sempre Stanko mi raccontava -documenti alla mano- che contro Shevarndnadze in Georgia, pagava Soros. La serba Otpor in formato esportazione partorì successivamente «Kmara» (Basta) a Tbilisi, e «Pora» (E’ ora) a Kiev. Non soltanto bei colori, ma anche slogan efficaci. Ma è poi così lontano, estraneo alla recente esperienza politica italiana tutto questo astruso e lontano racconto? Da quanto tempo il marketing pubblicitario è entrato in politica e di fatto la condiziona? Quando pesa oggi il web della rabbia e gli slogan dell’indignazione senza una proposta autentica?


Naranđasto: dobro, ali je li to uprava boja?

Ennio Remondino


Ta topla boja. Naranđasto je jako lijepa boja, živahna kao i crvena, ali prirodnija, manje agresivna u odnosu na razlike čitave palete. Naranđaste su nazvane izvjesne «revolucije» u nekim nama susjednim zemljama. I evo javlja se tendencija da ta boja prevlada i na talijanskom tlu.

Uostalom , tko ne bi glasao naranđastu boju milanskog gradonačelnika Pisapia u odnosu na plavu, što se pretvara i izblijedjelo sivu bivše gradonačelnice Moratti, kakva je u njeno vrijeme bila milanska gradska uprava, sa sjedištem u palači Marino? Naranđasto bivšeg suca De Magistrisa u odnosu na crvenu brlju, bez imalo sjaja, u posvađanom Napulju? Ili u Genovi, između Dorie, koji je bio nametnut izvana, u odnosu na dvostruko ružičastu upravnog aparata? Naranđasto je meni lično simpatična boja, ali historijske reference takvog su tipa, da moraju izazvati zapanjenost. Bar kod onih među nama, koji su s razloga profesije ili zbog godina vidjeli malo više i malo više pamte. Evo mog sjećanja, moje verzije fellinijevskog «Amaracorda», potsjetnika na «naranđaste revolucije», koje su se prilično davno dogodile i kojih se i te kako treba čuvati, podvlačiti njihove međusobne razlike i držati se što dalje od njih.

Bile su to naranđaste revolucije sa zvijezdama i sa prugama. Tako je pisao «il Manifesto» 30 decembra 2004. Sigurno u RAI-ju postoju o tome snimljeni zapis iz te godine u rubrici «Tv 7»(dana) . Tada sam s «mog» Balkana pričao o «Srbinu iz Novoga Sada», o jednom od «instruktora», koji je uvježavao istupe protiv režima na ulicama i trgovima Kijeva. Zbog ideje, veli, ali i za novce. A ko su bili naručioci? Vlade SAD-a i Evrope. Tako je postao «spcijalni savjetnik» za Ukrajinu American Freedom House. Imao je profesionalne akreditacije, jer je Milošević bio u zatvoru u Haagu, Shavernadze je bio prisiljen dati ostavku u Gruziji, a zatim je srušen i Yanukovič.

Koliko samo putovanja i koliko seminara «o nenasilju», koje je držao bivši pukovnik CIA-e, za njega i za ostale njegove drugare. «Tko plaća? » -postavio sam tada retoričko pitanje, inervjuirajući Stanka Lazendića. «Ovo je mladić, koji je mnogo toga vidio u životu, počevši od zatvora, u koji je počeo odlaziti vrlo često, otkad je Milošević došao na vlast. Sedamnaest puta bio je hapšen, što uopće nije malo za studentskog vođu, ukoliko je Lazendić ikada jedino to i bio.»

Davne priče i korisna sjećanja.Ne mogu se uopće usporediti s nečim lijepim, novim, čistim, što se počinje dešavati u Italiji. Kako bi se izbjegle kromatske konfuzije, ne škodi malo osvježiti pampćenje. Stanko Lazendić bio je jedan od osnivača srpskog studentskog pokreta «Otpor», što znači Rezistencija, i odastle je sve počelo. Otpor naroda, nenasilni, Miloševićevom režimu te davne 1998 godine, kad su se tom beogradskom despotu licemjerno udvarale mnoge zapadne vladine kancelarije, koje nisu bile baš načisto s tim, da li treba da ga posvoje ili da s njim zarate. Otpor nastaje u tom času i vjerojatno je jedini nasljednik širokog «antistrančkog» pokreta, koji se prijašnjih godina razvio na gradskim ulicama i gotovo da je uspio sam zadati odlučan udarac vlasti porodice Milošević. Zatim su tradicionalne partije, pa čak i one demokratske, progutale i pojele «Revoluciju pištaljki» u zimu 1996-1997, kao i nade na unutrašnji prevrat bez oružanih «humanitarnih» intervencija.

Fantaziju na vlast, ali ne samo nju. Otpor je revolucionirao političku liturgiju, sa bojama svojih zastava, sa svojim parolama i lozinkama, sa kolektivnim vodstvom, s muzikom koja je grmila na trgovima te permanentnim kreveljenjem i izrugivanjem vlasti. Slavenska duša, dotad sahranjena pod naslagama sažaljevanja samih sebe, iskoristila je trenutak, da izbije napolje i ispolji svoju poletnu snagu ironiziranja pa i autoironije i ruganja i sebi i drugima s ogorčenim nepoštovanjem. Bili bi to uradili sami i bili bi to uradili bolje oni iz Otpora, uz pomoć srpskog naroda, da neki vašingtonski strateg nije već bio odlučio, tada - polovinom 1998- kako će Milošević poslužiti za kolaudiranje militarističke ubojne snage NATO-a , kao čuvara istočnog fronta Imperija. Kada marta mjeseca 1999 po Jugoslaviji počinju pljuštati bombe, Otpor se javlja u vojsku, kao i cijela Srbija, ne uz Miloševića, već protiv NATO-a. Za njih su te bombe van pameti. Gađaju despota, a pogađaju srpski narod i narod na Kosovu. No to spada već u sjećanje.

Još jedna mala pomoć pri prisjećanju. Fantazija protesta na vlast, da, ali i ponešto parica za letke, za parole, za plaćanje advokata, za zastave, za slobodne radio stanice i za piratski Internet. Mnogi od tih studenata, koji su već odavna bili apsolvirali, čini se da su jako mnogo učili te zime u kojoj je Otpor zaratio s režimom: učili su kako izglaviti i razmraditi izvjestan grubi aparat moći i sahraniti ga, učinivši ga smješnim, zbog vlastite suštinske nemoći. I StankoLlazendić je također to učio. Premjestivši se u Budimpeštu, u susjednoj Mađarskoj, koja tada još nije tražila vize za srpske građane; i drugi njegovi prijatelji iz NATO-ovog protektorata u Bosni i Hercegovini ili iz američkog protektorata u Crnoj Gori bili su također tamo. Organizatori su to nazivali «seminarima» o «nenasilnom otporu». Dvije stvari uspio sam izvući iz Stankovog pamćenja: ime bar jednog od «docenata» na seminaru i nazive mnogih organizacija, koje su plaćale račune za ta putovanja i «studijske» boravke.

A kakve to veze ima s našim «naračastima»? Nikakve, ali neka se zna.

Revolucija u rukavicama od somota. U martu 2000 godine jedan od «docenata», koji je poučavao Stanka u hotelu Hilton u Budimpešti, bio izvjestni Robert Helvi, koji je kao pukovnik CIA-e , već bio operativac u u Rangoonu i u Burmi. Koliko je to nešto «parica», što su ih dobijali za svoje vrlo originalno profesionalno djelovanje, Stanko Lazendić nije želio kazti. Zato je govorio i opisivao vlastite naručioce. «Rjeđe su to same sudentske organizacije, a češće direktno oni, koji ih financiraju».

Demokratska velikodušnost Srbije, Ukrajine, Gruzije itd, tvrdi nam Stanko Lazendić, proističe direktno sa tekućih računa organizacija kao što je US AID, vladina organizacija Sjedinjenih Država, ili IRI, Internacionalni Republikanski Institut (tada Bushova stranka) ili od njegov rođeni brat, Demokrati (NDI), ili je to fondacija Soros ili pak fondacija Freedom House, ili su to njemačke organizacije «Friedrich Ebert» i «Konrad Adenauer» ili pak britanska «Westminster». Novac koji zaudara.

Naravno ovo je samo historija. Historija, koju će malo njih imati prilike čitati u službenim knjigama i udžbenicima povijesti, koje govore o tim davnim (ali ne predavnim) događanjima. U odnosu na talijanske incijative, koje su pokrenute s Naranđastom bojom, kao simbolom za nova i čista politička zajedništva, sve ovo treba da bude samo upozorenje izdaleka, koliko treba vjerovati izvjesnim malo previše organiziranim prijateljima. Ili prijateljima malo previše široke ruke. Stanko mi je to neprestano ponavljao – s dokumentima u ruci – kako je pobunu protiv Šavernazea u Gruziji platio Soros. Srpski otpor u eksport –formatu potom je porodio «Kmara»(Dosta!) u Tbilisiju i «Porà» (Vrijeme je!) u Kijevu. Nije se samo radilo o krasnim bojama, već i o efikasnim parolama. I, na kraju krajeva, da li je toliko daleka i strana, s obzirom na skorašnja talijanska politička iskustva, ta komplicirana i davna priča? Otkad je reklamni marketing ušao u politiku i otkad je on ustvari uslovljava? Šta danas može učiniti razbješnjeli web i koliko mogu uraditi indignirani slogani, ukoliko ne postoji autentični politički prijedlog?


(prijevod: Jasna Tkalec)



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Da: Raffaele Simonetti

Oggetto: R: [JUGOINFO] Canadian Minister praises Ustasha supporter Stepinac

Data: 30 novembre 2012 18.25.53 GMT+01.00


Cari compagni del CNJ,

questa vostra denuncia del ministro canadese Jason Kenney (senz'altro sacrosanta, presumo) mi ha molto stupito per il semplice fatto che invitiate a firmare la petizione dell'organizzazione Avaaz.

Su Avaaz e sul suo fondatore Ricken Patel allego una scheda (compilata per mio uso personale, non la si trova in rete) che dovrebbe essere di per sé illuminante.

Eventuali residui dubbi dovrebbero essere fugati dal notare che Ricken Patel figura all'89esimo posto nella graduatoria, uscita in questi giorni, del "100 eroi" Foreign Policy:

http://www.foreignpolicy.com/articles/2012/11/26/the_fp_100_global_thinkers?page=0,53#thinker89

saluti
Raffaele Simonetti
(Milano)

P.S.  in relazione alla provvidenziale  TOP 100 di Foreign Policy ho raccolto, più chiaramente, in questa pagina tutti i personaggi della classifica:
http://www.webalice.it/raffaele.simonetti/archives/FP_la_Top_100_2012_dei_pensatori_globali.html
che mi riprometto di arricchire chiosando brevemente i soggetti più interessanti e noti in Italia.
Per adesso ho iniziato con Rick Patel di Avaaz e accennato a Mario Draghi (avevate notato che precede George Soros ma è dietro le Pussy Riot ?).


Ricken Patel / Avaaz.org

Avaaz - Wikipedia

avaaz.org -WHOIS
Created On:01-Oct-1997
Registrant Name:Ricken Patel


Avaaz: Salvare gli oceani, impegnarsi per i rinoceronti, bombardare la Siria - 24 aprile 2012
… Leggo che l''ong è nata nel 2007 per iniziativa di altre organizzazioni, le principali delle quali sono MoveOn e ResPubblica.
La prima è un influente gruppo di azione politica on line presieduta da Eli Paliser (membro anche della seconda), politicamente vicino al partito democratico di Obama e dei Clinton (ministro ed ex presidente), e in passato finanziata (circa 5 milioni di dollari, stando a wikipedia) dal miliardario George Soros. …

Come Avaaz sponsorizza la propaganda di guerra - 7 marzo 2012

Come si abbattono i regimi - Giulietto Chiesa - 18 febbraio 2012

Sostenere il governo USA senza saperlo: il grave esempio di “Avaaz” - 18 febbraio 2012
… “Avaaz” è infatti una ONG creata da Ricken Patel, personaggio politicamente ben schierato a destra che gode del sostegno finanziario del patron della multinazionale informatica “Microsoft” Bill Gates e della Fondazione Rockefeller (il cui ruolo a favore dei governi americani è ben spiegato in quest’altro articolohttp://www.resistenze.org/sito/os/mp/osmp5a13.htm ). Non è tutto: “Avaaz” collabora strettamente con la famosa Fondazione Soros, una struttura vicina all’attuale governo statunitense e ai suoi servizi segreti che viene utilizzata per organizzare disordini e golpi nei paesi che in qualche modo non ubbidiscono ai diktat di Washington oppure che non autorizzano le grandi aziende occidentali a entrare nel loro mercato nazionale. …

Senate report: Funds funneled to private contractors in drug war go untracked - Brian Bennett - 8 giugno 2011
U.N. Secretary-General Ban Ki-moon, center left, accepts a End the War on Drugs petition last week from Ricken Patel, center right, of the advocacy group Avaaz, at U.N headquarters. Also pictured: former Brazilian President Fernando Henrique Cardoso, left, and Virgin Group chief Richard Branson. (Charles Sykes / Associated Press)

Fernando Henrique Cardoso

In this photograph taken by AP Images for Avaaz, UN Secretary-General Ban Ki-moon, center left, accepts the 'End the War on Drugs' petition from Avaaz Executive Director Ricken Patel, center right, accompanied by Richard Branson, right, and Fernando Henrique.

Can Avaaz change the world in a click? - Sarah Bentley 9 febbraio 2011
Patel has probably been preparing for this role all his life. Born in Edmonton, Canada, to a Russian-English mother and a South African-born Indian father it’s no surprise hisaffinity is with a global rather than national idea of citizenship. Aged 3, he knew about theCold War and the structure of the human cell and by 6 was striking up conversationsabout colonialism. He went to school on a Native Indian Reservation where he enduredbullying but, having read about the communities’ plight, claims to have felt empathy withhis persecutors. “I’ve always felt solidarity with people suffering injustice,” he says. “My theory is that my Mum gave me so much love I’ve always had extra to give.”

Kevin Libin: The third party no one talks about - Kevin Libin - 20 settembre 2010

Ricken Patel Bio - luglio 2010
… Ricken was voted "Ultimate Gamechanger in Politics" in 2009 by the Huffington Post and was named a Young Global Leader by the Davos World Economic Forum. Prior to Avaaz he lived in Sierra Leone, Afghanistan and other countries in conflict, and worked for the International Crisis Group, the Rockefeller Foundation, the International Center for Transitional Justice, and Res Publica. …

The new diplomacy: challenges for British foreign policy - 16 luglio 2007
The Rt Hon David Miliband MP, Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs
Co-moderated by Dr Robin Niblett, Director, Chatham House and Ricken Patel, Executive Director, Avaaz.org





Due articoli di Antonio Mazzeo

1) Di Paola va dove porta la guerra (16/11/2012)
2) Patto militare Italia-Israele. Un accordo scellerato e illegale (28/11/2012)


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VENERDÌ 16 NOVEMBRE 2012


Di Paola va dove porta la guerra


Il pomeriggio del 16 novembre 2011 quando giurarono fedeltà alla Costituzione i ministri-tecnici del primo Governo Monti, lui non c’era. “L’ammiraglio Giampaolo Di Paola, alla difesa, è in missione in Afghanistan per conto dell’Alleanza atlantica”, giustificò il premier. Da quel momento in poi il ministro con le stellette non si è fermato un attimo, sempre in giro per il mondo a promuovere la grandeur dell’Italia e l’efficienza del suo complesso militare industriale.

La prima visita ufficiale dell’ex Capo di stato maggiore ed ex presidente del Comitato militare della Nato - tredici giorni dopo l’insediamento - era a Berlino nel nome del ritrovato asse italo-tedesco per lo sviluppo dei missili e dei droni. Poi, una dietro l’altra, le missioni in Mauritania, nuovamente in Afghanistan, Gran Bretagna, Libano, Albania, Tunisia, Belgio, Russia, Stati Uniti (faccia a faccia con il Segretario alla difesa, Leon Edward Panetta, per predisporre il supporto logistico italiano alla missione Onu in Siria e parlare di scudo antimissile Nato e Afghanistan), Giordania, Giappone, Filippine, Francia, una seconda volta in Germania e Libano,Algeria, Lituania, Lettonia, ancora Afghanistan, Cipro, il Comando Nato di Bruxelles per il vertice dei ministri dell’Alleanza, Armenia e, a fine ottobre, a Gerusalemme per il “terzo vertice intergovernativo Italia–Israele” a riprova di una partnership sempre più fatta di esercitazioni congiunte, in Sardegna e nel Tirreno, nel deserto del Negev e nel golfo di Haifa, e di import-export di caccia, missili, satelliti e velivoli spia. Infine, qualche giorno fa, i bis in Algeria e in Francia (più correttamente a Parigi per la riunione con i ministri della difesa e degli esteri di Germania, Francia, Polonia e Spagna).

Quando è rimasto a Roma, l’instancabile ammiraglio è stato disponibile a ricevere in pompa magna una lunga lista di omologhi ministri alla guerra e alti ufficiali Usa e Nato: nell’ordine di arrivo in Italia, quelli di Canada, Sud Africa, Serbia, Filippine, Somalia, Macedonia, il Segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen (all’ordine del giorno“l’impegno in Afghanistan al termine della fase di transizione, la situazione nei Balcani, la difesa missilistica e la riforma dei Comandi e delle Agenzie dell’Alleanza”), Libia, Polonia, Kazakhstan, Somalia bis, Russia, Montenegro, Lettonia, il generale James N. Mattis comandante dell’U.S. Central CommandAfghanistan, Senegal, Slovenia, Vietnam, Azerbaijan, Francia, Colombia. Ovviamente molti dei vertici si sono conclusi con la firma di memorandum e accordi di mutua cooperazione tra le forze armate, war games e addestramenti congiunti, sperimentazione e acquisizioni di sistemi d’arma e attrezzature tecnologiche di alto valore strategico.

Pur consolidando gli impegni nei principali teatri di conflitto internazionale intrapresi dai predecessori (Afghanistan, Libano, Balcani, Corno d’Africa, ecc.), Giampaolo Di Paola ha chiesto di estendere la proiezione militare italiana ai turbolenti scenari del continente africano: innanzitutto la “nuova Libia” uscita esangue dai bombardamenti Nato ed extra-Nato dello scorso anno e a cui già forniamo intelligence, addestratori e consulenti (senza dimenticare il consenso a Washington a lanciare, dalla base di Sigonella, stormi di droni contro Tripoli e Bengasi); il Maghreb (dove la priorità resta la lotta all’immigrazione “clandestina” nel Mediterraneo); l’Uganda (da fine agosto un team dell’esercito a Kampala addestra al combattimento i militari locali destinati al fronte somalo e alla caccia di “terroristi” nella regione dei Grandi Laghi); il Kenya, con cui l’esecutivo Monti ha avviato un’“intesa per consolidare le rispettive capacità difensive e migliorare la comprensione reciproca sulle questioni della sicurezza”; il martoriato Mali (l’Italia ha rassicurato l’Unione europea e gli stati africani che non farà mancare il suo supporto all’ormai prossimo intervento multinazionale d’occupazione).

L’Italia è pronta ad andare ovunque e comunque, è l’assunto del ministro, per difendere i valori e gli interessi del tricolore, specie se questi coincidono con quelli dei manager e degli azionisti delle grandi aziende produttrici di materiale bellico. “Il settore industriale italiano nel campo sicurezza e difesa è ad alta tecnologia e ad alta innovazione, di rilevante importanza per lo sviluppo economico di questo Paese”, ha dichiarato Di Paola durante l’’audizione con la Commissione difesa alla Camera dei deputati, lo scorso 6 novembre. Poi ha aggiunto: Finmeccanica, la più grande delle industrie italiane nel settore ed una tra le più grandi a livello globale, impiega circa 70.000 unità lavorative e ha un fatturato di oltre 16-17 miliardi di euro all’anno e di questo, l’80% viene dal settore sicurezza e difesa. Questa realtà tecnologica e industriale, importantissima anche per l’occupazione e la crescita a cui contribuisce, deve essere sostenuta con investimenti appropriati e collaborazioni internazionali importanti”. E per sostenere Finmeccanica e socie, Di Paola è capace a rimettersi in viaggio tra un meeting e l’altro, visitando le maggiori fiere internazionali degli strumenti di morte, come quella “aerea” di Farnborough, Gran Bretagna (12 luglio) o l’Euronaval di Parigi – Le Bourget (24 ottobre).

Encomiabile il pressing su Monti, media e Parlamento per risparmiare alla Difesa l’offesa dei tagli della spending review“Lo strumento militare e le Forze armate italiane devono disporre di capacità operative e tecnologiche avanzate, tra le quali certamente rientrano quelle nel settore delle forze aeree, come la linea dei cacciabombardieri F-35”, ha spiegato Di Paola in Commissione difesa. “L’ammodernamento dello strumento militare, però, è molto più ampio ed articolato ed investe programmi di rinnovamento delle forze terrestri, quali la Forza NEC (Network Enabled Capabilities), delle unità navali, degli elicotteri, dei sistemi satellitari, di difesa missilistica, di comando, controllo e comunicazione e dei droni, che rappresentano il futuro di questo settore”. Un programma di ammodernamento ad ampio raggio, dunque, con un occhio particolare alla guerra cibernetica, “la nuova frontiera della minaccia”, secondo il ministro.

Così, per sostenere l’impeto riarmista e consolidare il trasferimento di ingenti risorse finanziarie pubbliche alle industrie militari anche in tempi di crisi, Di Paola ha rilanciato la trasformazione del modello “difesa”, dove i “risparmi” per la progressiva riduzione del numero di avieri, marinai e fanti si convertiranno in “investimenti” in caccia, sottomarini, carri armati, droni e apparati elettronici. Il tutto condito da qualche opportuno gioco di prestigio nella predisposizione dei bilanci. Come ad esempio quello di posticipare gli ordini di qualche anno, spalmando le spese su più annualità (i nuovi velivoli blindati “Freccia” di Iveco e Oto Melara sono così slittati dal 2013 al 2016, i due sottomarini U 212 invece del 2016 arriveranno l’anno successivo, gli elicotteri d’attacco NH90 di AugustaWestland dal 2018 al 2021, quelli AW101 dell’Aeronautica dal 2014 al 2017, l’adozione dei missili “Spike” a bordo dei famigerati “Mangusta” dal 2017 al 2014).
Di contro nel 2013 saranno acquistati sistemi di cui nessuno sino ad oggi aveva parlato: 40 blindati multi-uso e anti-mine del consorzio tedesco Iveco-Krauss (costo 120 milioni di euro ma c’è l’opzione per altri 40), un imprecisato numero di mortai da 81 mm (16 milioni), un “velivolo senza pilota tattico UAV” per la Marina militare da utilizzare “per la sorveglianza e le operazioni navali anti-pirateria”, ecc.. All’esordio pure lo “sviluppo” dell’MC-27J, la versione dotata di cannoniere dell’aereo da trasporto C-27J “Spartan” prodotto da Alenia Aermacchi. E che nessuno dica che a Palazzo Baracchini non si operi alacremente…

=== 2 ===


MERCOLEDÌ 28 NOVEMBRE 2012


Patto militare Italia-Israele. Un accordo scellerato e illegale


Il Medio oriente è in fiamme. La Siria è in ginocchio, migliaia di profughi fuggono in Libano, in Turchia, in Giordania. Tel Aviv mobilita le forze terrestri, aeree, navali. Minaccia d’intervenire in Golan e di lanciare i suoi missili e i suoi caccia contro decine di “obiettivi strategici” in Iran. Intanto cannoneggia la striscia di Gaza e schiera carri armati e blindati alla frontiera con il Libano. Scenari di guerra che non sembrano intimorire più di tanto le forze politiche e il governo italiano. Quest’ultimo, anzi, trova pure il tempo d’inviare a Gerusalemme una delegazione d’eccezione, il premier con sei ministri, per il terzo summit intergovernativo in meno di due anni. Per rafforzare la partnership politica e militare e moltiplicare affari e scambi commerciali. Il comunicato ufficiale emesso lo scorso 25 ottobre è come sempre laconico. “In occasione del vertice Italia-Israele, al quale ha partecipato il Presidente del Consiglio, Mario Monti, il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola ha incontrato il suo omologo dello Stato di Israele, Ehud Barak. A conferma dei solidi rapporti di amicizia e di collaborazione esistenti tra i due Paesi, sono stati approfonditi i temi inerenti alla cooperazione industriale nel settore della Difesa”.

Il faccia a faccia tra i ministri della guerra è stato preceduto da una serie d’incontri tra i massimi rappresentanti delle rispettive forze armate. Il 7 e l’8 febbraio 2012, il sottocapo di Stato maggiore israeliano, generale Nimrod Sheffer, ha incontrato a Roma i responsabili dell’Aeronautica italiana per “approfondire i processi di trasformazione in atto nelle due aeronautiche, le esperienze maturate nei rispettivi teatri di operazione e le future attività addestrative”. Il successivo 14 giugno è stato il comandante delle forze aeree israeliane, generale Ido Nehushtan, a giungere in Italia in missione ufficiale.

Meeting e visite di cortesia si sono sommate a tre importanti esercitazioni aeronavali bilaterali. Le prime due si sono svolte a fine 2011 in Sardegna (nome in codice Vega) e nel deserto del Negev (Desert Dusk). Durante i war games sono stati simulati combattimenti aerei tra cacciabombardieri F-15 ed F-16 israeliani ed “Eurofighter” e “Tornado” italiani; inoltre sono stati eseguiti veri e propri lanci di missili aria-terra e di bombe a caduta libera. Dal 3 all’8 novembre 2012, nelle acque prospicienti la città di Haifa, si è tenuta invece la prima edizione dell’esercitazione Rising Star a cui hanno partecipato i palombari artificieri del Gruppo operativo subacquei del COMSUBIN (Comando Subacquei ed Incursori) di La Spezia e i Divers (specialisti sommozzatori) della Marina israeliana.

L’accordo che disciplina la partnership militare tra Italia e Israele risale a sette anni fa ed è stato ratificato dal Parlamento italiano il 17 maggio 2005. Nella parte “pubblica” del testo (esisterebbe infatti un memorandum segreto mai sottoposto alla discussione e al voto dei parlamentari) si legge in particolare che la “cooperazione” fra i due paesi riguarderà in particolare “l’industria della difesa, l’importazione, l’esportazione e il transito di materiali militari, le operazioni umanitarie, l’organizzazione delle forze armate e la gestione del personale la formazione e l’addestramento, i servizi medici militari”. Sempre per l’accordo, le attività si svilupperanno grazie “alle riunioni dei ministri della Difesa, dei Comandanti in Capo e di altri ufficiali autorizzati, lo scambio di esperienze fra gli esperti delle due parti, l’organizzazione e l’attuazione delle attività di addestramento e delle esercitazioni, le visite di navi e aeromobili militari e ad impianti, lo scambio di informazioni, pubblicazioni e hardware, la ricerca, lo sviluppo e la produzione di sistemi d’armamento”. “Italia e Israele si adopereranno al massimo per contribuire, ove richiesto, a negoziare licenze, royalties ed informazioni tecniche, scambiate con le rispettive industrie”, recita l’articolo 3 dell’accordo di mutua collaborazione. E ancora: “Le Parti faciliteranno inoltre la concessione delle licenze di esportazione necessarie per la presentazione delle offerte o proposte richieste per dare esecuzione al presente Memorandum”.

Senza troppi giri di parole, l’import e l’export di sistemi d’arma devono essere l’essenza delle consolidate relazioni tra Roma e Tel Aviv, in palese violazione della legge italiana che disciplina il commercio di tecnologie belliche e che vieta le vendite a paesi belligeranti o i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali dei diritti umani. Israele riassume in sé tutte le caratteristiche per dover essere posta al bando dal complesso militare industriale italiano: le sue forze armate sono sistematicamente impegnate su più fronti di guerra e dal 1967 occupano ancora buona parte della West Bank. Inoltre il regime d’apartheid instaurato contro la popolazione palestinese e gli stessi cittadini israeliani di origine araba è stigmatizzato dalle principali organizzazioni non governative internazionali. Non ultimo, Tel Aviv non ha mai firmato il Protocollo di Non Proliferazione Nucleare e da tempo immemorabile, anche grazie la collaborazione tecnico-scientifica di Stati Uniti ed Unione europea, a Dimona, nel deserto del Negev, si costruiscono armi nucleari (secondo gli istituti di ricerca indipendenti Israele sarebbe già in possesso di più di 200 testate).

Nonostante la riesplosione della crisi mediorientale, proprio il 2012 ha rappresentato l’anno chiave nei trasferimenti di sistemi d’arma tra i due paesi. Il 19 luglio, in particolare, il Ministero della difesa italiano e l’omologo israeliano hanno ratificato la fornitura alle forze armate israeliane di 30 velivoli da addestramento avanzato M-346 “Master” prodotti da Alenia Aermacchi. La commessa ha un valore di poco inferiore al miliardo di dollari ma prevede vantaggiose contropartite per le industrie israeliane. Elbit Systems, azienda specializzata nella produzione di tecnologie avanzate, svilupperà il nuovo software che verrà caricato sugli addestratori. Il Virtual Mission Training System (Vmts) “ingannerà i sensori degli M-346 simulando le funzioni di un moderno radar di scoperta attiva capace di gestire numerose funzioni tattiche, nonché scelte d’armamento complesse”, riporta la World Aeronautical Press Agency. “Utilizzando il software una volta in volo, il pilota in addestramento potrà esercitarsi in scenari avanzati, quali la guerra elettronica, la caccia alle installazioni radar e l’uso di sistemi d’arma all’avanguardia”. Alle future guerre le forze aeree israeliane si addestreranno cioè con il made in Italy.

In cambio dei caccia, Tel Aviv ha anche imposto che l’aeronautica militare italiana si doti di due velivoli di pronto allarme “Gulfstream 550” con relativi centri di comando, controllo e sistemi elettronici, prodotti daIsrael Aerospace Industries (IAI) ed Elta Systems (costo complessivo, 800 milioni di dollari circa). Selex Elsag, una controllata di Finmeccanica, s’incaricherà per conto delle aziende israeliane a fornire ai velivoli i “sottosistemi” di comunicazione e link tattici secondo gli standard Nato. Le forze armate italiane dovranno pure acquistare un sistema satellitare elettro-ottico ad alta risoluzione di seconda generazione “Ofeq”, anch’esso di produzione IAI ed Elbit Systems (245 milioni di dollari). Prime contractor degli israeliani sarà Telespazio, azienda controllata in parte da Finmeccanica, che assicurerà entro il 2015 la costruzione del segmento terrestre, il lancio e la messa in orbita del nuovo sistema satellitare.

Quest’anno, l’Aeronautica italiana ha pure deciso d’installare sugli elicotteri EH101 e sugli aerei da trasporto C27J “Spartan” e C130 “Hercules” un nuovo sistema di contromisure a raggi infrarossi, denominato Dircm - Directional infrared countermeasures, co-prodotto da Elettronica Spa di Roma ed Elbit Systems. Venticinque milioni e mezzo di euro la spesa, con consegne che saranno fatte entro la fine del 2013. Gli elicotteri d’attacco AW-129 “Mangusta” di AugustaWestland, in dotazione all’esercito italiano, dal prossimo anno saranno armati invece con i missili aria-terra a corto raggio “Spike” prodotti da un’altra importante azienda militare israeliana, Rafael. I missili, con una gittata tra gli 8 e i 25 km, potranno esseri equipaggiati con tre differenti tipologie di testata bellica a seconda dell’uso: anticarro, antifanteria e per la distruzione di bunker. Roma e Tel Aviv puntano infine a sviluppare congiuntamente nuovi velivoli a pilotaggio remoto UAV (i famigerati droni) e a cooperare nella produzione e nella “gestione logistica” del nuovo cacciabombardiere a capacità nucleare F-35, uno dei programmi più costosi della storia mondiale dell’aviazione da guerra.

Mentre i programmi di riarmo italo-israeliani sono condivisi e sostenuti da tutte le forze politiche presenti in Parlamentare, si sta rafforzando tra alcune forze sociali e no war la convinzione che la solidarietà al popolo palestinese non può essere disgiunta dalla mobilitazione per ottenere l’embargo militare nei confronti di Israele. Singoli cittadini, associazioni e comitati di base hanno dato vita alla Campagna BDSper “il boicottaggio, il disinvestimento e sanzioni nei confronti di Israele” fino a che esso “non porrà termine all’occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe e smantellerà il Muro; riconoscerà i diritti fondamentali dei cittadini Arabo-Palestinesi di Israele alla piena uguaglianza; rispetterà i diritti dei profughi palestinesi al ritorno nelle loro case e nelle loro proprietà come stabilito nella risoluzione 194 dell’ONU”.

Lo scorso 13 ottobre, di fronte allo stabilimento Alenia Aermacchi di Venegono-Varese, si è tenuta la manifestazione nazionale Nessun M346 a Israele per chiedere la revoca della vendita dei caccia addestratori alle forze armate israeliane, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Pax Christi, la Commissione Giustizia e Pace dei Missionari Comboniani, Attac, Arci – Servizio Civile, Assopace e una serie di soggetti che sostengono il popolo palestinese. “Quella di Varese è stata una manifestazione anche contro lo scellerato accordo del 2005 di cooperazione militare, economica e scientifica tra il nostro Paese ed Israele”, ha spiegato Elio Pagani per il Comitato promotore. “Un accordo che non è stato scalfito neppure dall’Operazione piombo fuso del dicembre 2008 - gennaio 2009, che ha visto Israele colpire con il suo potere aereo la popolazione palestinese civile inerme (1.400 uccisi, di cui circa 400 bambini). Un’azione militare brutale, senza giustificazioni, nella quale sono state usate anche armi sconosciute o già vietate dalle Convenzioni internazionali (fosforo bianco, bombe D.I.M.E., uranio impoverito) e nella quale Israele ha commesso crimini di guerra e contro l’umanità”.

 

Articolo pubblicato in Adista, n. 43 dell’1 dicembre 2012




(Di seguito i comunicati della Lega della Gioventù Comunista - SKOJ-NKPJ - e dei Comunisti di Serbia - KS - in occasione del "Dan Republike" cioè il 29.XI., festa nazionale nella RFSJ. Sullo stesso argomento si veda anche il nostro post recente

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http://www.skoj.org.rs/108.html

NKPJ i SKOJ OBELEŽILI 29. NOVEMBAR – DAN REPUBLIKE

28. novembra u susret proslavi Dana Republike, u Beogradu, u sali Novi svet u Ustaničkoj 17, sedištu Nove komunističke partije Jugoslavije i Saveza komunističke omladine Jugoslavije održana je svečana akademija posvećena Danu Republike.

Skupu se obratilo partijsko rukovodstvo, Generalni i Izvršni sekretar, još nekoliko članova sekretarijata, a reč je dobila i jedina živa pripadnica Prve proleterske udarne brigade, inače članica naše Partije, drugarica Nada Gagović.

Drugarice i drugovi su britko govorili o civilizacijskom doprinosu rađanja socijalističke republike, herojskom podvigu onih koji su svoje živote i druge žrtve dali za nju, ali i o aktuelnosti sećanja na datum kada je ona rođena. „Jugoslavija se nije naprosto raspala, ona je u krvi rušena imperijalističkim stremljenjima na Balkanu, a uz saučesništvo domaće pete kolone, tj svih onih koji su videli vlastiti interes u procesu rasturanja Jugoslavije. Pored povampirenih četnika i ustaša, ideološke sabraće, tu petu kolonu, što je bilo još važnije, činilo je samo rukovodstvo tzv. Saveza komunista Jugoslavije, čija je vrhuška koja se klela na vernost Josipu Brozu i zaista nije skretala s puta koji im je on odredio, u celosti stala na stranu kontrarevolucionarnih promena čiji je ultimativni cilj bio rasturanje Jugoslavije i svrgavanje ostataka socijalističkog društvenog uređenja u njoj. Jugoslovensko državno i partijsko rukovodstvo odrođeno od radničkih masa i intersa proletarijata Jugoslavije je postepeno radilo sve što je neminovno išlo ka njenom ukidanju, te otud nije slučajno što su se ciljevi imperijalizma i rezultati politike Saveza komunista podudarili u trenutku kada je konačno izvedena kontrarevolucija a Jugoslavija rasturena pre 20 godina. Taj proces, proces rasturanja Jugoslavije je unekoliko aktuelan i danas. Imperijalisti još uvek nisu pouzdano utvrdili granice novih država koje su na teritoriji Jugoslavije nastale, što suštinski oličava čin političkih pritisaka i ucena u njihovom interesu na tlu Balkana. Ti su pritisci trenutno najaktuelniji u vidu haških nepravdi. Za Haški sud, polugu imperijalizma, Jugoslavija nikako nije neaktuelna, on se njom i te kako zanima, a svakako ne da bi narodi Jugoslavije živeli u miru, slozi, solidarnosti i jedinstvu, već sasvim suprotno. Trenutno su aktuelni i pritisci koje domaće buržoaske vlasti sprovode rehabilitacijama onih koji su tokom revolucije za vreme Drugog svetskog rata činili sve kako do te revolucije, tj rađanja socijalističke republike ne bi došlo. To bi trebalo poručiti svima koji smatraju da je socijalistička Jugoslavija u punom smislu prošlost ili samo banalna stvarnost jugonostalgičara. Takođe treba konstatovati da utisku koji vodi ka banalizaciji aktuelnosti obeležavanja dana formiranja socijalističke republike, odbrane njenih tekovina u doslednom antiimperijalističkom borbenom duhu, održive kritike (a takva je samo marksitičko-lenjinistička) procesa koji otpočinju njenim rasturanjem i borbe protiv istih, doprinose i oni koji svojim nedijalektičnim patetičnim žalopojkama za zemljom koje više nema obeležavaju Dan Republike privatno, kod kuće uz pečenje i rakiju, ljudi u zrelom dobu maskirani u titove pionire ispred spomenika i muzeja, u etnoparku u Zagorju ili u virtuelnom prostoru društvenih mreža“ – poručeno je između ostalog na akademiji.

Dužni smo da se sećamo Dana Republike, ali smo u još većoj obavezi da se danas borimo za novu socijalističku revoluciju koja predstavlja zakonomernu etapu u civilizacijskom napredovanju naroda bivše Jugoslavije.

Nemamo vremena za setne emocije, borba se nastavlja, nema šta da čekaš!

Sekretarijat SKOJ-a,
Beograd, 29. novembar 2012.god.

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http://www.komunistisrbije.rs/29novembar2012.html

ČESTITKA KOMUNISTA SRBIJE POVODOM 29. NOVEMBRA DANA REPUBLIKE

            Dragi drugovi,
 
            povodom jednog od najvećih praznika u istoriji naših naroda i narodnosti čestitamo Vam 29. novembar – Dan republike koji simbolizuje sve naše pobede u slavnoj Narodno-oslobodilačkoj borbi, socijalističkoj revoluciji i četrdesetpetogodišnjoj socijalističkoj izgradnji.
 
            Na žalost, novonastale marionetske države ukinule su obeležavanje ovog velikog praznika naših naroda i narodnosti, ali se time ne mogu izbrisati iz sećanja istorijske činjenice vezane za 29. novembar. Danas živimo u vremenu u kome su gotovo sve vrednosti perioda socijalizma poništene i marginalizovane. Naša ružna stvarnost u kojoj živimo bi morala biti podstrek i obaveza, pre svega komunističkih i radničkih partija sa prostora Jugoslavije, da se što je moguće snažnije izbore za reafirmaciju pozitivnih poruka koje simbolizuje ovaj dan.
 
            Još jednom čestitamo ovaj veliki praznik svim bratskim komunističkim i radničkim partijama sa željom da naša saradnja i borba protiv kapitalizma bude što uspešnija i delotvornija.
 
                                                                                                               U ime Komunista Srbije,
                                                                                                                 Svetozar Markanović




(italiano / english)

Protest against austerity measures in Slovenia /
Sulle recenti proteste contro le politiche di austerità in Slovenia

1) Notizie recenti in lingua italiana
2) Slovenia threatened with national bankruptcy (WSWS 10/9/2012)
3) Protest against austerity measures in Slovenia (WSWS 27/11/2012)
4) FLASHBACK: L'ipoteca clericale che grava sulla Slovenia (2011-2012)


LINKS:

SLOVENIA "INDIPENDENTE": TUTTO IN SVENDITA (2 Agosto 2012)

Slovenia: NO to NATO, NO to austerity measures (8 Luglio 2012)

Slovenia: "cancellati" dalla secessione anagrafica (1 Luglio 2012)

LA GRANDE FESTA DEI DOMOBRANCI (27 Giugno 2012)

Masovni generalni štrajk u Sloveniji (20 Aprile 2012)

Attacchi alla cultura anche in Slovenia (17 Febbraio 2012)


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Slovenia: 30 mila in piazza contro austerità

17 Novembre 2012 - Oltre 30 mila sloveni hanno manifestato oggi a Lubiana per protestare contro la politica di austerità portata avanti dal governo di destra del premier Janez Jansa. 'Vogliamo vivere - Non sopravvivere', 'Il governo perde la testa - La Slovenia la sua giovinezza', 'Politica di austerita' uguale Recessione', questi alcuni degli slogan mostrati dai manifestanti su cartelli e striscioni.
Per Dusan Semolic, leader dell'Alleanza dei sindacati indipendenti sloveni (Zsss), responsabile della crisi attuale è il 'capitalismo avido e selvaggio' che impera in Europa e negli Usa, e che rende vana ogni riforma sociale. La Slovenia, che fa parte della Ue dal 2004 e della zona euro dal 2007, é in piena recessione, con il pil che dovrebbe calare del 2% quest'anno e dell'1,4% nel 2013.
L’iniziativa è stata lanciata dal sindacato del settore pubblico Ksjs, dalla confederazione indipendente Zsss e dall’associazione Knss, insieme all’organizzazione studentesca e all’associazione delle società dei pensionati. Negli ultimi mesi le misure anti-crisi del governo di Janez Jansa sono state oggetto di forti contestazioni, soprattutto quelle che prevedono tagli al settore pubblico. Uno dei provvedimenti più contestati dai sindacati è quello relativo al taglio del 5 per cento degli stipendi del settore pubblico.

(fonte: Redazione Contropiano 


Slovenia, dilaga la rivolta sociale nelle piazze

28 novembre 2012 - La rivolta di piazza si espande in Slovenia a macchia di leopardo. Dopo gli scontri di Maribor a scendere nelle strade è stata la capitale Lubiana. Per proteggere il palazzo del Parlamento e quello del governo la polizia ha schierato un cordone di poliziotti in assetto anti-sommossa. Il motto dei manifestanti è «Gotof je» (è finito) che riecheggia quello scandito nelle strade di Belgrado al momento della cattura di Milosevic e la sua consegna al Tribunale dell’Aja. Altre manifestazioni di piazza sono attese ancora a Lubiana, venerdì, e a Postumia, Capodistria, Murska Sobota, Novo Mesto e Kranj.
 
(fonte “Il Piccolo”)


Slovenia: proteste antiausterity e scontri a Maribor e Lubiana

1 Dicembre 2012 - Anche nella piccola e paciosa Slovenia le condizioni di vita peggiorano di giorno in giorno, scatenando la rabbia dei manifestanti che tentano di irrompere in Parlamento. Scontri e arresti in numerose città alla vigilia del ballottaggio delle presidenziali di domani.
Potremmo dire, per sdrammatizzare, che anche gli sloveni, nel loro piccolo, si incazzano.
E' infatti di parecchi feriti e di una trentina di manifestanti arrestati il bilancio degli scontri avvenuti ieri sera a Lubiana, la capitale della Slovenia, durante una protesta contro la politica di sacrifici e tagli del governo di destra di Janez Jansa e contro la corruzione della ''casta politica''. 
Alle proteste di ieri, che non hanno avuto una convocazione formale ma sono nate dalla mobilitazioni di alcune reti e organizzazioni non partitiche, hanno partecipato almeno 10 mila persone nella capitale e altre decine di migliaia in quasi tutte le principali città del piccolo paese. Rispetto alle proteste indette dai sindacati e dalle opposizioni negli ultimi mesi, inoltre, ieri si è assistito a una radicalizzazione della protesta, segno della maggiore determinazione di alcuni dei promotori della manifestazione e del rapido deteriorarsi delle condizioni di vita in Slovenia.
Contro un gruppo di manifestanti che nella capitale ha tentato di irrompere in Parlamento, la polizia ha usato i manganelli, i gas lacrimogeni e addirittura i cannoni ad acqua, arrestando una trentina di giovani e di lavoratori. 
Alcuni dimostranti hanno risposto alle cariche lanciato contro la polizia petardi, sassi e bottiglia, e secondo alcuni media all’interno del corteo avrebbero fatto la propria comparsa giovani vestiti completamente di nero e incappucciati. 
Le proteste erano iniziate lunedì scorso a Maribor, la seconda città della Slovenia, dove varie migliaia di persone avevano chiesto le dimissioni del sindaco e della giunta comunale, accusati di corruzione e di malgoverno. Anche in quel caso vi erano stati scontri con la polizia con alcuni feriti e arresti, e dopo il duro intervento della Polizia contro i manifestanti di Maribor, collettivi e gruppi sociali hanno invitato a scendere in piazza anche nelle altre città.
È in questo clima esplosivo, inusuale in uno dei paesi ritenuti più tranquilli dell’Europa centro-orientale, che domani in Slovenia si tiene il ballottaggio per le presidenziali fra il presidente uscente di centrosinistra Danilo Turk e lo sfidante, l'ex premier socialdemocratico Borut Pahor, dato per favorito dai sondaggi.
Chi vincerà dovrà gestire un paese in crisi verticale, con l'11,5% di disoccupazione, un'economia troppo dipendente dalle esportazioni e quindi a picco a causa della crisi, e con un governo che cerca di far cassa imponendo tagli verticali a cultura, sanità, istruzione, lavoro pensioni. 

(fonte: Redazione Contropiano 


Slovenia: vince Pahor, socialdemocratico pro-austerity

3 Dicembre 2012 - Affluenza scarsissima al ballottaggio per le presidenziali, vinte da un 'socialdemocratico' alleato della destra che annuncia lacrime e sangue. 
L'ex premier socialdemocratico Borut Pahor è diventato ieri il quarto Presidente della Slovenia, vincendo con ampio margine al ballottaggio nonostante il suo sostegno alle impopolari misure di austerità del governo. 
Pahor ha conquistato il 67,44% dei consensi, contro il 32,56% del suo principale avversario, il Presidente uscente Danilo Turk, liberale ed esponente di centrosinistra critico con le misure annunciate dal vincitore. 
Pahor, 49 anni, ha ottenuto non solo i voti del suo partito, ma anche quelli della 'Lista dei cittadini', espressione della coalizione di governo di centro-destra. 
L'11 novembre scorso, l'ex premier si era imposto al primo turno, con il 39,9% dei voti, smentendo tutti i sondaggi. "Questa vittoria è solo l'inizio di una nuova speranza, di un nuovo tempo - ha detto Pahor quando già gli exit poll lo vedevano in vantaggio - se vinco, questo risultato sarà un messaggio forte per tutti i politici sloveni sul fatto che servono collaborazione e unità per risolvere le difficoltà economiche". 
Ma l'affluenza alle urne è stata appena del 41,95% ieri (il 48,25% al primo turno), la più bassa da quando il piccolo paese si è reso indipendente dalla Iugoslavia nel 1991, scatenando l’implosione dello Stato federale con il sostegno di Austria, Germania e Vaticano. 
I sogni di gloria degli sloveni, entrati nell’Ue nel 2004 e nell’Eurozona nel 2007, si sono presto volatilizzati. Il paese è sull’orlo della bancarotta, con una disoccupazione quasi al 12% e la possibilità di un commissariamento da parte della troika a base di tagli e licenziamenti sulla scia di quanto già accaduto in Grecia, Spagna, Portogallo o Irlanda.
Pahor ha già affermato che collaborerà con il governo di centrodestra del primo ministro Janez Jansa, che, tra l'altro, vuole alzare l'età per andare in pensione, rendere più flessibile il mercato del lavoro facilitando i licenziamenti e precarizzando i contratti, tagliare gli stipendi dei lavoratori pubblici. Il tutto con la scusa di fare fronte ad un deficit di bilancio del 4,2%.
Nei giorni scorsi numerose manifestazioni popolari hanno scosso la relativa tranquillità che regna normalmente nel piccolo paese, e scontri tra manifestanti e polizia si sono avuti a Maribor e poi nella capitale Lubiana, dove migliaia di giovani e lavoratori hanno chiesto le dimissioni di Jansa e la fine delle politiche dei sacrifici a senso unico.

(fonte: Redazione Contropiano 


Slovenia; indignati ancora in piazza, scontri a Maribor

4 dicembre 2012
 - Nuovi scontri, arresti e feriti in Slovenia alle manifestazioni di protesta contro "la corruzione e la casta politica", in particolare a Maribor, seconda città del Paese dove ieri sera hanno protestato tra le 8 e le 10 mila persone, a seconda delle fonti.
Le manifestazioni di ieri sono state le più grandi finora, dal 26 novembre scorso quando è esplosa la rabbia degli “indignati in Slovenia”, organizzati tramite le reti sociali in internet, proteste dirette in particolare contro il sindaco di Maribor, Franc Kangler, preso di mira perché travolto da una serie di scandali di corruzione e clientelismo. Stamane la polizia ha riferito che negli scontri tra i gruppi più violenti e le forze dell’ordine sono rimasti feriti nove poliziotti. In tutto sono state arrestate 120 persone ed è stato fortemente danneggiato il palazzo del municipio, nel quale è stata lanciato un ordigno infiammabile. Danni hanno subito anche altre strutture pubbliche della città.
Manifestazioni si sono tenute anche a Lubiana, Celje ed in molte altre città, ma senza incidenti. Sul gruppo Facebook che raduna ormai circa 50 mila persone favorevoli alle proteste è stato annunciato che si continuerà a scendere in piazza ad oltranza, fino a un cambiamento radicale della politica economica del Paese. L’elezione domenica scorsa di Borut Pahor a presidente della Slovenia, secondo i manifestanti, non cambierà nulla dato che lui “rappresenta una vecchia faccia in una nuova poltrona”. Da parte di alcuni politici forti critiche sono state mosse ai mezzi di comunicazione, specie alla tv pubblica, che sarebbe complice nell’alimentare lo scontento e le proteste con continue dirette delle manifestazioni. La stampa oggi cita anche alcuni analisti secondo i quali l’ondata di proteste potrebbe avere un effetto negativo sul fronte internazionale, dato che le manifestazioni potrebbero destabilizzare il governo conservatore di Janez Jansa e costringerlo ad alleggerire la politica di austerità, ma al contempo alimentare sfiducia
 
(fonte AnsaMed )


=== 2 ===


Slovenia threatened with national bankruptcy


By Markus Salzmann 
10 September 2012


Slovenia is likely to be the next candidate for the European bailout scheme. Although the country’s total debt is relatively low at 47 percent of GDP, the crisis gripping Slovenia’s three largest banks threatens to drag the country into the abyss.

In this regard, it is already being talked about as “the Spain of Central Europe.” As in Spain, cheap loans in Slovenia unleashed a huge real estate boom that exploded in 2008 with the global financial crisis. All the country’s major construction companies went bankrupt; the banks were left sitting on billions of euros in bad loans.

Slovenian economist Joze Damjan estimates the total amount of defaulting loans at between €6 billion and €8 billion. Without government assistance the banks cannot survive, but if the state, which owns about 50 percent of the banks, has to pay out for all their bad loans, the budget deficit would climb to 28 percent of GDP.

Slovenian Prime Minister Janez Jansa said at the weekend that Slovenia could be bankrupt in October. If a proposed bond issue for October fails, Slovenia is threatened with insolvency, according to the head of the centre-right coalition in Ljubljana.

Slovenia has been an EU member since 2004 and a member of the euro zone since 2007. The former Yugoslav republic has long been regarded as a paragon among the Eastern European accession countries, but the global financial crisis has brought the rotten foundations of Slovenian capitalism to light. In 2009, GDP fell by more than 8 percent, and last year the country was again in recession.

In the second quarter, economic output declined year-on-year by 3.2 percent. Ratings agency Moody’s downgraded Slovenia’s credit rating to just above junk status. Interest rates on 10-year government bonds are near the critical 7 percent mark.

With 2 million people and a GDP of €35 billion, Slovenia has one of the smallest economies in the EU. According to analysts, a “bailout” would currently cost about €5 billion. The major concern of the international financial elite, however, is the effect on other European countries.

“In the worst-case scenario, Austria is clearly vulnerable because its banking system is most exposed in Slovenia,” William Jackson of the London research firm Capital Economics told the news agency APA.

Jackson regards the further development of Slovenia negatively. The country faces several years of fiscal consolidation, which would lead to a vicious cycle of weak economic growth, lower government revenues and the need for additional consolidation, he said.

Nevertheless, representatives of international financial institutions and the EU are demanding Jansa’s coalition implement radical austerity measures.

Suma Chakrabarti, head of the European Bank, said in an interview with news agency STA that an important step in solving the economic problems for the euro zone member was the slimming down of the state and a much greater role for the private sector. Chakrabarti was referring to the relatively high proportion of state holdings in banks and companies.

OECD Secretary-General Angel Gurria tied aid directly to brutal cuts: “Why do we not talk about a reform of the pension system, labour market, banking sector, a debt ceiling, the privatization of state companies, before we talk about whether aid packages are needed or not?”

Economic analyst Andraz Grahek also pleaded for radical social cutbacks as a “rescue measure.”

In this context, the call for political unity between the right-wing government and the opposition Social Democrats is getting louder. For example, Slovenian Economics Minister Radovan Zerjav appealed: “I have called on the Slovenian political elite to seek a consensus on key issues. Above all, it’s about saving the banks. After all, without that there is no recovery of the Slovenian economy.”

The government needs a two-thirds majority in parliament in order to pass the reform plans, which is only possible with the votes of the opposition.

In recent years, there have been fierce clashes between the Social Democrats, who come in part from the former communist state party, and the right-wing bourgeois parties. There is absolutely no question that the Social Democrats, like the government, will advocate a drastic austerity programme. In December 2011, the Social Democratic government of Prime Minister Borut Paho collapsed.

Jansa and the right wing had prevented the Social Democrats from implementing a pension reform through a referendum. Sections of the current opposition in turn oppose the austerity plans of Jansa, in whose five-party coalition there are considerable disputes. Jansa postponed a vote of confidence in August because he had to reckon with a defeat.

The Jansa government has already prepared a “crisis budget for 2013 and 2014,” providing for the inclusion of a debt ceiling in the constitution and fundamental reforms of the labour market and pension system. The government is also considering the creation of a “bad bank” to rehabilitate the country’s ailing financial institutions at the expense of the state budget. In addition, companies with high levels of public ownership—such as Adria Airways, insurer Triglav, oil company Petrol and the state-owned telecoms corporation—are to be privatized.

In May this year, the government had already approved an austerity package: public spending is to be reduced in 2012 by €800 million and by €750 million in 2013. At the same time, the Slovenian parliament agreed to a reduction in corporation tax, lowering the rate from 20 percent to 18 percent. It will fall by another percentage point every year from now on, reaching 15 percent by 2015.



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Protest against austerity measures in Slovenia


By Markus Salzmann 
27 November 2012

On November 17, around 30,000 people protested in the Slovenian capital Ljubljana against the austerity policies of the centre-right government of Prime Minister Janez Jansa. Workers, civil servants, pensioners, students and artists demanded an end to the draconian austerity measures introduced by successive governments in recent months and years.

Participants gathered with banners at the city centre and demanded: "Social Security, new jobs and against state repression." Members of the Occupy movement chanted: "We will not pay for your crisis". A large banner with the text "Enough!" was unfurled at the historic castle which stands on a hill overlooking the city,

The right-wing government led by Prime Minister Jansa is planning further cuts in pensions, social benefits and salaries of public employees in order to reduce the federal deficit from its current level of 4.2 percent to three percent. In addition, the government plans to extend the retirement age and significantly restrict employment protection.

Since 2008 the Jansa government and the preceding social democratic government have introduced drastic cuts lowering living standards dramatically. In July, the salaries of public employees were cut by three percent along with the slashing of other allowances.

A few years ago politicians and economists singled out Slovenia as a role model for the European Union. Now it is regarded as the most likely new candidate for a European bailout. As in other European countries the economic crisis has been used to organize a major redistribution of social wealth from the working layers of the population to a wealthy elite.

Slovenian banks, most of them state-owned, are sitting on a mountain of bad loans totalling 6.4 billion euros. According to the Central Bank in Ljubljana, 18 percent of corporate loans were at risk of default at the end of 2011. The collapse of the two country's largest banks was only prevented by multiple injections of public finance.

Slovenia is now mired in recession. Its economy contracted in the second quarter of this year by 3.2 percent. According to the International Monetary Fund (IMF) the government deficit will increase to 52 percent of GDP by the end of the year. In 2008, this rate stood at 22 percent. The rating agency Moody's recently downgraded the country and interest payments on the country's ten-year government bonds are approaching the critical 7 percent mark.

The consequences for the population are devastating. Unemployment has doubled since the 2008 economic crisis and now stands at 12 percent. Youth unemployment stands at 17.7 percent. Despite the fact that the prices for many basic commodities have risen considerably average salaries fell in August by 2.4 percent and in September by 3.8 percent compared to one year earlier.

In October the Slovenian parliament voted to establish a state holding company to promote the privatization of the country's remaining public enterprises. It is assumed that the planned privatisations will lead to thousands of additional redundancies. The Jansa government also plans to establish a bad bank, where the country's troubled banks can deposit their bad loans at public expense.

Plans have been announced to hold referenda opposing the setting up of both the state holding company and the bad bank. In mid-November, parliamentary speaker Gregor Virant gave the green light for a campaign to collect signatures for a referendum against the establishment of a bad bank. Starting on November 19, 40,000 signatures must be collected within 35 days to ensure that the referendum takes place. It could then take place in January next year.

The right-wing government coalition wants to prevent such referenda in future. The coalition currently holds 48 of the 90 parliamentary seats and hopes to achieve in future elections the two-thirds majority necessary to pass a constitutional amendment. All-party talks towards obtaining such majority have been taken place for several months.

The current presidential elections are also dominated by the crisis. In the first ballot the former prime minister and social democrat Borut Pahor won 40 percent of the vote and leads non-party incumbent Danilo Türk who received 36 percent. Milan Zver, who is backed by the Jansa government, received just 24 percent.

Pahor and Türk, who will both take part in the second ballot in December, are both advocates of radical austerity measures. Pahor was forced to resign as prime minister last year because his government collapsed following its inability to implement its desired reform program. Since then Pahor is regarded as politically damaged goods and has little support even in his own party.

The situation is somewhat different for Türk, who can rely on support from Zoran Jankovic, the mayor of Ljubljana and leader of the party "Positive Slovenia". Jankovic's party won the most votes in its first showing in the parliamentary elections held last year but could not form a government. Victory for Türk in the presidential election would in turn be provide a political boost to Jankovic who is waiting in the wings to replace the Jansa government.

Against a background of popular protests, Türk is advocating collaboration with the unions in order to enforce further cuts with the unions and has called for pension and labour market reforms to be introduced "in harmony" with the unions.

The trade union organizations are backing Türk in the presidential election and also fully support the planned austerity measures. The protest on Saturday was prepared by three trade unions together with pensioner and student organizations in order to allow demonstrators to let off steam and thereby prevent independent protests which could genuinely challenge the government.

In the course of the last twenty years the Slovenian trade unions have been faithful servants to the ruling elite. In recent years they have supported the savings programs introduced by large companies such as Telekom Slovenije, the household appliance manufacturer Gorenje and the Petrol energy company—all at the expense of the workforce.

This is why more and more workers are turning their backs on the unions. The largest trade union confederation ZSSS, which emerged in 1990 from the former official communist trade union originally had a total of 400,000 members. Today there are only a little over 200,000 left in the organisation.




=== 4: FLASHBACK ===


Slovenia - 02 maggio 2012
 
http://www.viedellest.eu/news/2012/05/02/turismo/turismo.htm
 
Chiesa e Stato ai ferri corti per l'isolotto del Lago di Bled
 
In Slovenia, Stato e Chiesa sono ai ferri corti per la proprietà degli immobili dell'isolotto sul Lago di Bled. Tutta colpa dell'ex governo di centro-sinistra - leggiamo su Il Piccolo - che nel periodo del suo mandato si è rivolto al Tribunale di Kranj per fare invalidare un precedente accordo sottoscritto nel 2008 dall'allora ministro della Cultura Vasko Simoniti (di centro-destra), in base al quale lo Stato affidava l'isolotto del lago di Bled alla Chiesa e trasferiva la proprietà degli immobili alla parrocchia di Bled, ossia all'arcivescovado di Lubiana. Nel frattempo però l'intraprendente parroco, Janez Ferkolj, ha dato il via alla ristrutturazione del negozio di souvenir e della trattoria presenti sull'isolotto. I lavori sono iniziati a fine gennaio e i nuovi locali sono stati inaugurati all'inizio di aprile. Un investimento da 300mila euro, ottenuti in parte grazie al biglietto di "ingresso" di 3 euro che ciascun turista deve acquistare per accedere all'isolotto, in parte con un mutuo bancario. La scorsa settimana era attesa la decisione togata, ma i giudici hanno deciso di prendersi altro tempo chiedendo alle parti di fornire ulteriore documentazione scritta in difesa delle reciproche posizioni in merito alla vicenda. Scaduti i termini, la corte avrà un mese per emettere la sentenza.



Slovenia: la chiesa tra anime e investimenti in borsa


Se ne è andato per limiti di età. Ma in realtà sul suo commiato pesa un gravissimo crack finanziario della diocesi che guidava dalla metà degli anni '80. E' Franc Kramberger, vescovo di Maribor. La chiesa slovena, dal comunismo all'euforia degli affari
Era entrato in scena tra le polemiche e tra controversie ancora maggiori se ne è andato. Il vescovo di Maribor, Franc Kramberger, era stato nominato a metà degli anni '80 alla guida della seconda, per importanza, diocesi slovena, nell’ambito di una serie di avvicendamenti voluti dal Vaticano. La cosa fece andare su tutte le furie le autorità dell’epoca. Non che si avesse nulla di particolare contro il prelato, ma semplicemente si credeva che quel posto spettasse a Vekoslav Grmič, che per 12 anni era stato vescovo ausiliario della città.
I comunisti infatti apprezzavano le posizioni “progressiste” di quest’ultimo e le sue tesi che volevano il “socialismo più vicino al vangelo”. Per il regime, la manovra aveva chiaramente l’obiettivo di emarginare Grmič e lui stesso non mancò di mandare una lettera risentita al pontefice. Giovanni Paolo II in quel periodo era impegnato a dare un maggiore rigore dottrinario ed uniformità alla chiesa e il “socialista” Grmič non rientrava certamente nei piani del Vaticano.


L'addio

L’uscita di scena di Kramberger non è stata però accompagnata da polemiche di natura ideologica ma da scandali economici. Il prelato ufficialmente se ne è andato per raggiunti limiti d’età, ma nel suo discorso di commiato ha chiesto scusa anche per i suoi errori in campo finanziario.
 
Il pontefice l’ha sollevato dall’incarico agli inizi di febbraio, dopo che sul settimanale italiano “L’Espresso” era uscito un articolo in cui si accusava la sua diocesi, ovvero le società finanziaria ad esse connessa, di aver creato un buco di “un miliardo” di euro. Da Maribor hanno subito precisato che le cifre non reggono, ma non hanno negato la profonda crisi in cui versano le società della diocesi.


Anime ed affari

La storia iniziò già negli anni Novanta quando la chiesa, oltre che ad occuparsi dei fedeli, pensò bene di entrare anche nel mondo degli affari. Con il crollo del regime comunista per i vertici ecclesiastici le cose cambiarono repentinamente. Dopo aver giocato, per quarant’anni, un ruolo marginale finalmente poterono tornare a rinverdire i fasti del passato in tutti i settori della società: anche in quello imprenditoriale.
In Slovenia il clero aveva tradizionalmente avuto un ruolo centrale ed aveva acquisito un notevole patrimonio immobiliare che il regime comunista aveva nazionalizzato in fretta e furia. Dopo l’indipendenza castelli, monasteri, boschi e terreni vennero in gran parte restituiti alla chiesa, che si trovò nuovamente a gestire un cospicuo patrimonio.
La diocesi di Maribor così, cominciò coraggiosamente a muoversi nel mondo della finanza fondando una banca, delle società d’affari e acquisendo un’impresa che operava nel settore delle telecomunicazioni, la T-2. Fare business in Slovenia del resto sembrava cosa “buona e giusta”. Il mercato azionario tirava e investire in borsa pareva un gioco da ragazzi visto che le azioni erano in costante rialzo.
Non furono pochi i piccoli risparmiatori che affidarono i loro soldi alle società controllate dalla chiesa, si parla ora di circa 60.000 persone. Negli anni del boom la T-2 pensò bene di lanciarsi nell’ambizioso progetto di munirsi di una propria rete a fibra ottica. L’impresa offriva ai cittadini connessioni telefoniche ed internet di nuova generazione, nonché un nutrito pacchetto di programmi televisivi via cavo.


Programmi a luci rosse

Proprio a causa della TV ben presto nacquero le prime polemiche. In Slovenia sono molto diffusi vari tipi di collegamento via cavo o satellitari; mentre soltanto 1/3 della popolazione riceve il segnale televisivo attraverso le tradizionali antenne. Nell’offerta delle TV a pagamento, ovviamente, non manca nemmeno una ricca scelta di canali per soli adulti.
Questi ultimi non potevano mancare neppure nel pacchetto della T-2, anche se il fatto che una società di proprietà dei vescovi avesse programmi a luci rosse non mancò di suscitare ilarità o stizzite reazioni. Era sin troppo semplice accusare la chiesa di avere una doppia morale: da una parte difendeva i valori della famiglia tradizionale e chiedeva costumi sessuali morigerati, dall’altra non si preoccupava di offrire filmini pornografici per far cassa. Ad onor del vero la curia avrebbe visto di buon grado la cancellazione di quei programmi, ma si dovevano fare i conti con i circa 100.000 abbonati e con il danno economico che ci sarebbe stato se si fosse deciso di togliere quei canali.
In ogni modo l’allegra gestione delle finanze delle società legate alla diocesi di Maribor è stata presa in esame da un “visitatore apostolico” , inviato dal Papa, che non ha potuto far altro che constatare la gravità della situazione.


Santa sede non informata

Quello che sembra emergere è che la diocesi abbia agito senza tener conto delle severe regole del Vaticano in materia di investimenti e senza che la Santa sede ne fosse informata in alcun modo. Sta di fatto che ora ci sono molti soldi da restituire alle banche, che hanno allegramente concesso finanziamenti alle società dei preti. Per ottenerli sono state date in garanzia azioni, che ora sono poco più che carta straccia e persino qualche edificio di proprietà del clero.
Quello che è più grave, però, è che a rimetterci potrebbero essere i piccoli risparmiatori che hanno affidato i loro soldi alle società dei vescovi. La Conferenza episcopale slovena, che in questi giorni sta cercando di correre ai ripari, sembra compatta nel ribadire che cercherà prima di tutto di tutelarli. Ora si promette di voler far chiarezza e di essere intenzionati a punire esemplarmente i responsabili. Il colpo, comunque, per la chiesa è durissimo ed il danno d’immagine è evidente.
Il clero sloveno del resto, all’inizio di quest’anno ha dovuto già digerire la rimozione del suo più prestigioso rappresentante a Roma. Il cardinale Franc Rode, pur restando uno degli uomini importanti della curia pontificia, ha perso il posto di Prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, ufficialmente per raggiunti limiti d'età. Non sono però mancate velenose speculazioni sulle sue amicizia con Marcial Marciel, il contestato fondatore della congregazione dei Legionari di Cristo.




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(srpskohrvatski / italiano / english)

‘Yugoslav Tribunal’ in hands of organized crime

1) Nikolic: il tribunale deve liberare tutti i serbi
2) ЗЛОЧИНИ ПРОТИВ СРБА СЕ НЕ КАЖЊАВАЈУ ! Izjava Beogradskog Foruma za Svet Ravnopravih
3) ‘Yugoslav Tribunal’ in hands of organized crime


=== 1 ===


Nikolic: il tribunale deve liberare tutti i serbi

29. 11. 2012. - 20:39 -- MRS

Il Presidente della Serbia Tomislav Nikolic ha dichiarato a Kraljevo che dopo la liberazione del leader dell’UCK Ramus Haradinaj da parte del tribunale dell’Aja tutti i serbi devono lasciare il tribunale. Se l’operazione militare dell’esercito croato Tempesta non era un crimine, se Haradinaj non ha commesso nessun crimine, dove saranno trovati i crimini? Dai rappresentanti politici, oppure dai comandanti dell’esercito e della polizia? Tutti i serbi che si trovano nel tribunale dell’Aja devono essere liberati subito, ha detto Nikolic. Non può accadere che i popoli siano in guerra e che soltanto un popolo sia punito per i crimini commessi da tutti. La liberazione di Haradinaj avrà conseguenze pesanti sul processo della riconciliazione dei popoli nella nostra regione. Dopo tutto non potremo mantenere gli stessi rapporti con i Paesi limitrofi come avevamo prima, ha dichiarato il Presidente della Serbia.


=== 2 ===


БЕОГРАДСКИ ФОРУМ ЗА СВЕТ РАВНОПРАВНИХ
29. новембар 2012. године

Ослобађање команданта албанске терористичке „ОВК“ Рамуша Харадинаја за злочине против Срба на Косову и Метохији, након ослобађања хрватских команданата „Олује“ Готовине и  Маркача за етничко чишћење 200.000 и убиство 2.000 Срба,  су најновији показатељи вишедеценијске антисрпске стратегије водећих чланица НАТО и ЕУ.  Те земље користе све полуге да смањују и слабе Себију као политичког и економског фактора на Балкану истовремено награђујући Хрватску, Бошњаке и Албанце. Зато је основно питање да ли ће Србија прихватити стратегијски одговор на такву дугорочну политику, или ће наставити поводљиву политику самопонижавања, самообмањивања и бесконачних уступака на рачун животних националних и државних интереса.


=== 3 ===

Der ursprüngliche Artikel:
»Beweisnotstand«. Den Haag ist fest in Mafia-Hand
Von Werner Pirker - junge Welt, 31.11.2012
oder http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/7504



‘Yugoslav Tribunal’ in hands of organized crime


By John Catalinotto on December 7, 2012 

The following is from an editorial by Werner Pirker in the German daily newspaper, Junge Welt, Nov. 30, translated by John Catalinotto. Pirker writes about the NATO-created Tribunal on the former Yugoslavia, which persecuted President Slobodan Milosevic and other Serb leaders following its creation.


The United Nations Security Council’s unlawfully appointed tribunal for war crimes in the former Yugoslavia — only the U.N. General Assembly should have called it into being — is brazenly flaunting its criminal character. Two weeks ago the Croatian general, Ante Gotovina, who was convicted of war crimes in 2005 and sentenced to 18 years in prison, was acquitted in a second trial. Now the former KLA (“Kosovo Liberation Army”) commander and former Kosovo prime minister, Ramush Haradinaj, whose first trial in 2008 had already ended in an acquittal, left the Hague, Netherlands, as a free man.

Even The Hague judges could not dispute that the KLA committed crimes — not only against Serbs and other non-Albanian Kosovars, but also against pro-Yugoslav Albanians who opposed the insurgents’ ethnocentric terror regime.

The court’s opinion, however, was that there was no evidence proving the guilt of Haradinaj and two of his co-defendants. Had the defendants been Serbs, then the Tribunal would have brought the charges under the guarantee of applying the principle — that it had itself invented — that there was a “joint criminal enterprise” (JCE).

In the case of Croatian massacre generals and that of the KLA commander of Western Kosovo known as “the Butcher,” no assumption was made that the defendant was per se a member of a collective group of murderers. According to the logic of The Hague Tribunal, since they are not Serbs, they therefore could not have been involved in a plan that ranged from ethnic cleansing to genocide.

Gotovina was the supreme commander of “Operation Lightning,” which was involved with massive ethnic cleansing to allow for the integration of the hitherto predominantly Serb-inhabited Krajina province into the Croatian federation.

Haradinaj was one of the most brutal enforcers of the full Albanianisation of the southern Serbian province. The alleged ethnic cleansing of Kosovar Albanians by the Serbs and the threat of genocide were pretexts for the bombing campaign against Yugoslavia in 1999. In reality, the Kosovo residents were fleeing the NATO bombing. After the destruction was completed, the ethnic cleansing began — with the goal of a pure Albanian Kosovo.

The judges of The Hague not only are aware of the crimes committed by the KLA, they also know why they lack of evidence about it. And they said that openly in the justification of their findings. Since everyone who made statements in his first trial that incriminated Haradinaj attracted the murderous arm of the KLA, there were no longer witnesses who would dare to speak out against the organized gang of criminals who were now wielding state power. The Hague Tribunal has apparently subordinated itself to the Mafia’s conception of justice.




(italiano / english / srpskohrvatski)

COMUNISTI CONTRO IL TRIBUNALE DELL'AIA

Una risoluzione del Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia - NKPJ - contro il "Tribunale ad-hoc" dell'Aia è stata approvata al 14esimo Incontro internazionale dei partiti comunisti, tenutosi a Beirut a fine novembre.
Il giornale serbo Danas ha scritto, tra le altre cose, che "il risultato raggiunto all'incontro (l'approvazione della risoluzione) ottiene particolare peso se si considera che la risoluzione è stata approvata anche dal Partito Socialista dei Lavoratori Croato (SRP): 'Loro hanno accettato la risoluzione e hanno adottato lo stesso atteggiamento del nostro
partito. Anche se il SRP non ha influenza parlamentare, esso esprime le posizioni del proletariato croato
', ha detto il segretario esecutivo del NKPJ e delegato dello stesso all'incontro di Beirut, Aleksandar Banjanac" 

(Sintesi a cura di AD; si veda più sotto il testo della Risoluzione)


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3/12/2012 18:14 | Beograd

U Bejrutu usvojena rezolucija na predlog NKPJ


Komunisti protiv Haškog tribunala


AUTOR: MARIJA KOJČIĆ

Beograd - Tribunal u Hagu formiran je kako bi se prikrile činjenice koje vode do glavnih nalogodavaca krvavog rasturanja Jugoslavije, a čiji krvavi imperijalistički trag vodi i do najnovijih ratnih operacija u Gazi, u Siriji, širom Bliskog istoka, do Libije, Iraka, Avganistana - ovako glasi deo teksta rezolucije „Ujedinjeni protiv imperijalističke poluge međunarodnog kriminalnog tribunala za bivšu Jugoslaviju u Hagu“ usvojene na 14. međunarodnom sastanku komunističkih i radničkih partija, koji je ove godine održan u Bejrutu od 22. do 25. novembra.


Rezoluciju je predložila Nova komunistička partija Jugoslavije (NKPJ), jedna od učesnica skupa čiji je domaćin bila Libanska komunistička partija.

Aleksandar Banjanac, izvršni sekretar NKPJ, koji je predstavljao partiju u Bejrutu, izjavio je za Danas da je usvajanje rezolucije izraz solidarnosti s Balkanom, gde je, kako naglašava, rušilački karakter imperijalizma još prisutan, kao i snaženja stava protiv „NATO države“, nezavisnosti Kosova i raspada Jugoslavije. „Rezoluciju su podržale kako male i neuticajne partije u svojim zemljama, tako i one koje vladaju ili su značajne u svojim društvima, na drugom ili trećem mestu po snazi u političkim arenama svojih država. Tako su svoj potpis za usvajanje rezolucije, između ostalih, dale KP Francuske, Španije i Indije“, kazao je Banjanac.

Kako je naglasio, rezultat postignut na sastanku u Bejrutu posebno dobija na težini ako se zna da je rezoluciju podržala i Socijalistička radnička partija iz Hrvatske (SRP). „Oni su prihvatili rezoluciju i zauzeli isti stav prema Tribunalu kao naša partija. Iako SRP nema parlamentarnog uticaja, ona izražava stav hrvatskog proleterijata“, rekao je izvršni sekretar NKPJ.

Međunarodni sastanak komunističkih i radničkih partija održava se krajem svake godine. Ovaj u Bejrutu, čija je tema bila „Osnažimo borbu protiv eskalacije imperijalističke agresivnosti, za zadovoljenje socio-ekonomsko-demokratskih prava i aspiracija ljudi, za socijalizam“, održan je zbog napete situacije na Bliskom istoku, budući da skup uvek demonstrira solidarnost među komunistima, ali i sa narodom u čijoj državi se sastanak održava.

Podrška arapskoj radničkoj klasi

„Ove godine skup na kojem je učestvovalo 60 partija sa svih kontinenata održan je u libanskoj prestonici jer je reč o području gde je situacija napeta, pa je međunarodni komunistički pokret poslao poruku solidarnosti narodu gde je rušilački karakter imperijalizma očigledan i dominantan“, objasnio je Banjanac i dodao da je na sastanku usvojena i finalna Deklaracija iz Bejruta u kojoj se ističe da „je skup predstavljao kontinuiranu solidarnost i podršku borbi radničke klase i narodnih ustanaka u arapskim zemljama protiv imperijalističke agresivnosti i krupnog kapitala“.


--- srpskohrvatski:

UJEDINJENI PROTIV IMPERIJALISTIČKE POLUGE MEĐUNARODNOG KRIMINALNOG TRIBUNLA ZA BIVŠU JUGOSLAVIJU U HAGU

Rezoluciju podnela NKPJ

Tribunal u Hagu predstavlja političku polugu imperijalizma koja je instrument permanentih ucena narodima bivše Jugoslavije. Tribunal u Hagu formiran je kako bi se prikrile činjenice koje vode do glavnih nalogodavaca krvavog rasturanja Jugoslavije, a čiji krvavi imperijalistički trag vodi i do najnovijih ratnih operacija u Gazi, u Siriji, širom Bliskog istoka, do Libije, Iraka, Afganistana... Radom tribunala u Hagu ostavruje se imperijalistički cilj potpune dominacije regionom, razjedinjenja naroda s prostora Jugoslavije, raspirivanje šovinizma, mržnje i nacionalizma koji su oduvek bili saveznici imperijalista, svaljivanje sve krivice gotovo isključivo na Srbe i time zatvoranje jedne totalne istorijske osude u kojoj se ne može naći ni najsitniji trag odgovornosti imerijalističkih faktora za čiju direktnu odgvoronost i umešanost u ratna zbivanja ima na hiljade nepobitnih dokaza.

Presude suda u Hagu ne izražavaju nikakvu istorijsku objektivnost, ne doprinose pomirenju naroda Jugoslavije te otud odbacujemo sve presude koje je donela ova institucija.

Dole sud nepravde, dole poluga imperijalizma, za trajni mir, napredak i solidarnsot među narodima bivše Jugoslavije i Balkana nemogućim bez socijalizma!



--- italiano:

UNITI CONTRO LO STRUMENTO IMPERIALISTA DEL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE DELL'AIA PER L'EX JUGOSLAVIA

Risoluzione presentata dal NKPJ

Il Tribunale dell'Aia rappresenta uno strumento politico dell'imperialismo e di permanente ricatto ai popoli dell'ex Jugoslavia. Il Tribunale dell'Aia è stato costituito per coprire i principali responsabili della sanguinosa spaccatura della Jugoslavia, dei quali le sanguinose tracce imperialiste portano anche alle più recenti operazioni militari a Gaza, in Siria, lungo tutto il Medio Oriente, fino in Libia, Iraq, Afghanistan... Mediante il lavoro del tribunale dell'Aia si realizza l'obiettivo imperialista del dominio totale nella regione, della dissoluzione dei popoli del territorio jugoslavo, dell'incitamento al sciovinismo, all'odio e al nazionalismo (da sempre alleati degli imperialisti), l'addossamento di tutte le colpe quasi esclusivamente ai serbi e con ciò l'epilogo di una condanna esclusivamente storica nella quale non si può trovare nemmeno la più minuscola traccia di responsabilità imperialista per la quale la diretta responsabilità e coinvolgimento nelle vicende di guerra ci sono migliaia di inconfutabili prove.

Le sentenze del tribunale dell'Aia non esprimono alcuna obiettività storica, non contribuiscono alla pacificazione dei popoli della Jugoslavia. Respingiamo dunque tutte le sentenze emanate da questa instituzione.

Abbasso il tribunale dell'ingiustizia, abbasso lo strumento dell'imperialismo, per la pace permanente, per il progresso e la solidarietà tra i popoli della ex Jugoslavia e dei Balcani, possibili solo con il socialismo!

(trad. di AD per JUGOINFO)


--- english:

United Against the Imperialistic Tool- International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia

The Hague Tribunal represents the political lever of imperialism, which is the instrument of permanent blackmailing of people of ex-Yugoslavia. The Hague Tribunal was formed to hide the facts that lead to the key instructing party for bloody dispersal of Yugoslavia, which bloody imperialistic trace goes to the recent war operations in Gaza, Syria, across the Middle East, to the Libya, Iraq, Afghanistan... The existence of the Hague Tribunal enables the accomplishment of imperialistic goals of total dominance over the region, dividing the peoples and nations of the territory of Yugoslavia, continue the chauvinism, hatred and nationalism which has always been an ally of imperialism, to place all the blame on Serbs and in that way to close one complete historical convinction in which is impossible to find even the thinnest trace of responsibility of imperialistic factors for which direct involvment in war events exist the thousands irrefutable evidences.

Verdicts of the Hague Tribunal don’t express any historical objectivity, don’t contribute to the conciliation of people of Yugoslavia, and that is why we reject all the verdict brought by this institution.

Down the court of injustice, down the tool of imperialism, for the lasting peace, for progress and solidarity among peoples of ex-Yugoslavia and Balkans which are all impossible without socialism!

• Algerian Party for Democracy and Socialism
• Communist Party of Bangladesh
• Workers Party of Bangladesh
• Workers Party of Belgium
• Communist Party of Brazil
• Brazilian Communist Party
• Communist Party of Britain
• Communist Party of China
• Socialist Workers Party of Croatia
• German Communist Party
• Communist Party of Greece
• Communist Party of Ireland
• Workers’ Party of Ireland
• Lebanese Communist Party
• Communist Party of Mexico
• Palestinian Communist Party
• Communist Party of the Russian Federation
• Communist Workers Party of Russia - Revolution Party of Communists (RKRP-RPC)
• Communist Party of Soviet Union
• South African Communist Party
• Communist Party of the People of Spain
• Communist Party of Sweden
• Syrian Communist Party
• Communist Party of Tajikistan
• Communist Party of Turkey
• Union of Communists of Ukraine
• Communist Party of USA
• CP of Vietnam





(srpskohrvatski / italiano)

Ricorrevano pochi giorni fa gli anniversari della I Seduta (Bihac 1942) e della II Seduta (Jajce 1943) dell'AVNOJ (Consiglio Antifascista di Liberazione Nazionale della Jugoslavia), cioè in pratica della nascita della Jugoslavia federativa e socialista. In tali occasioni si sono svolti raduni e manifestazioni che, ancor più che in passato, hanno registrato una partecipazione rilevante (quasi 3000 persone convenute con i pullman a Jajce), segno di un allargamento della base di massa delle posizioni jugoslaviste esplicite. Se a tali manifestazioni pubbliche aggiungiamo altri segnali inequivocabili - come i numerosi libri e servizi giornalistici; il fiorire di associazioni, gruppi e partiti jugoslavisti anche in aree in cui fino a pochissimi anni fa si rischiava letteralmente la vita a dichiararsi tali; o l' "esplosione" di blog e siti internet sull'argomento (il solo gruppo Facebook "SFR Jugoslavija - SFR Yugoslavia" registra oggi 138.647 iscritti!) - appare evidente come la direzione del vento sia cambiata dopo gli anni neri (in tutti i sensi) della guerra fratricida per procura imperialista.

Meglio di tutti esprime tale rinnovata atmosfera l'articolo, che riproduciamo più sotto nella traduzione di Jasna Tkalec, sulla apertura a Belgrado della mostra "La Jugoslavia dall'inizio alla fine". (a cura di IS)


=== LINK:

U BIHAĆU

Video: 70. GODIŠNJICA. PROSLAVA, I. ZASEDANJE AVNOJA U BIHAĆU.
http://www.youtube.com/watch?v=-GKbiM7fF3w

Evento FB
http://www.facebook.com/events/290701491039495/

U JAJCU

U Jajcu centralno obilježavanje godišnjice Drugog zasjedanja AVNOJ-a
http://www.klix.ba/vijesti/bih/u-jajcu-centralno-obiljezavanje-godisnjice-drugog-zasjedanja-avnoj-a/121124101
http://www.radiosarajevo.ba/novost/95494/
http://www.novosti.rs/vesti/planeta.300.html:407331-Pocinju-dani-AVNOJ-a-u-Jajcu

Video
http://www.youtube.com/watch?v=4lAVvxm5ZLw
http://www.youtube.com/watch?v=XJaudFV9QuA
http://www.youtube.com/watch?v=jP2Jk75CJRc

Foto in FB
http://www.facebook.com/media/set/?set=a.10151325191903834.523917.36436743833&type=1

DRUSTVA I SAJTOVI

Udruženje "Naša Jugoslavija"
http://www.nasa-jugoslavija.org

SFR Jugoslavija - SFR Yugoslavia
http://www.facebook.com/pages/SFR-Jugoslavija-SFR-Yugoslavia/36436743833

Liga Antifašista Jugoistočne Evrope
http://www.titoslavija.org/


=== 

(ovaj clanak na srpskohrvatskom: Iskra u oku
http://www.vreme.com/cms/view.php?id=1085468 )


Fonte: http://www.vreme.com/cms/view.php?id=1085468

VREME 1143, 29. Novembre 2012. / CULTURA 

Ancora una volta sulla Jugoslavia

La scintilla nell'occhio


Nel museo della Storia jugoslava il primo dicembre, giorno del compleanno della prima Jugoslavia, si è aperta l'esposizione «La Jugoslavia dall'inizio alla fine». In quella settimana cadeva pure il 29 Novembre, Giornata della Repubblica, il compleanno e la festa della seconda Jugoslavia. Ai nostri tempi si tenta di raccontare la Jugoslavia spogliata da ogni contenuto politico. Ma nella politica sta la chiave, la politica detiene una dimensione cruciale nell'idea jugoslava e nel progetto jugoslavo. La Jugoslavia non fu fatta a causa della sua cinematografia, né a causa della sua musica, né a causa del suo calcio: essa fu fatta per ragioni politiche. Diventare soggetto (politico), essere liberi, essere un fattore (politico), non essere una colonia, non essere ridotti a pura risorsa, non essere occupati: per queste ragioni si formò la Jugoslavia. Tutto il resto è venuto dopo.


Poche sono nella lingua le analogie tanto stupide quanto quella fra lo Stato e il matrimonio. Eppure qua, dalle nostre parti, questa analogia è diventata molto frequente, e quindi spesso si sente dire che la Cecoslovacchia ha avuto un divorzio pacifico e civile, mentre la Jugoslavia si è disgregata come si disgregano certi matrimoni poco tranquilli e poco civili, quando marito e moglie rompono posate e piatti, e anzi tirano fuori i coltelli. Allora nella forma giuridica si dice che marito e moglie si dividono a causa di «differenze inconciliabili». E davvero, in tali situazioni, «gli sposi» fino a poco tempo prima, generalmente mostrano pareri assolutamente discordanti a proposito di ogni cosa, a parte una unica proverbiale eccezione: non sanno in nessun modo, caro mio, perché in quella occasione avessero deciso di sposarsi...

A questo punto questa stupida analogia potrebbe far comodo; mentre nelle opinioni pubbliche dei vari statarelli postjugoslavi e nella loro provvisorietà esistono diverse, anche contrapposte, narrazioni dominanti – per usare questo termine che va di moda - che cercano di spiegare perché ci siamo divisi, le teorie dominanti sul perché ci eravamo messi insieme sono assai più conciliabili.


Errore e profitto

Nella Serbia è adesso molto popolare la tesi che considera la Jugoslavia come un tragico errore del popolo serbo. Questa, ad esempio, è la vera ossessione delle opere mature dello scrittore Dobrica Ćosić, e da lui questa visione è stata (ri)presa da una turba numerosa di (pseudo)storici e giornalisti. Questa idea ha sommerso la vita pubblica ed è diventata riconoscibile anche in luoghi dove non è coscientemente radicata in forma di concetto, ma viene scimmiottata con efficacia, visto che rispecchia lo spirito dei tempi. Essa è presente come retroscena politico nel film Montevideo, Bog te video (Montevideo, che ti veda Iddio). Dell’idea jugoslava come storia di un fatale errore si parla in modo esplicito nel libro “Il cerchio culturale serbo 1900-1918” di Petar Pijanović, nel quale l’idea jugoslava di Cvijić e di Sekulić è descritta come un utopismo nocivo. Era sbagliato verso la fine e dopo la Prima guerra mondiale costruire la Jugoslavia, afferma questa tesi, riassunta in modo più breve possibile. Bisognava costruire uno Stato serbo come Stato nazionale, su di un territorio più piccolo della Jugoslavia, ma quanto più grande possibile. Quello che per i serbi rappresenta un fatale errore, per i croati – seguendo la medesima logica - diventa un evidente profitto. I serbi si sarebbero precipitati tutti, sulle ali del destino e dell’entusiasmo, a fare la Jugoslavia, mentre i croati ne hanno tratto un profitto evidente. In questo sono d’accordo sia Dobrica Ćosić che Darko Hudelist, e la visione completa in questi giorni è sintetizzata da Inoslav Bešker, nella polemica con la famigerata frase di Stjepan Radić che rammenta «le oche nella nebbia». I rappresentanti croati nel 1918 non sono stati come oche credulone, dice Bešker, ma si sono preoccupati piuttosto di «minimizzare il danno”. Nel caso che non ci fosse stata la Jugoslavia, la Croazia sarebbe stata divisa fra i suoi aggressivi vicini dell’Occidente e dell’Oriente (Italia e Serbia). Ai croati sarebbe rimasto un paese-tampone, piccolo, piccolo, là, nel bel mezzo fra i due (non è senza interesse il fatto che ai tempi della disgregazione jugoslava Tudjman avrebbe voluto destinare il medesimo ruolo alla Bosnia-Erzegovina). In una simile concezione, la Jugoslavia ci ricorda quel mitico congelatore nel quale sarebbe stato congelato Walt Disney in attesa che si trovi un antidoto alla morte. Ai croati - ma opinioni simili si sentono anche in Slovenia - la Jugoslavia sarebbe servita unicamente come tappa per conseguire l’indipendenza, lungamente desiderata, da conquistare quando le condizioni fossero maturate. Dai montenegrini sentirete più di una volta che la Jugoslavia avrebbe cancellato il loro Stato, il più antico Stato e con la continuità statale più lunga nei Balcani, mentre i musulmani bosniaci vi diranno che essa li illuse con lo slogan della fratellanza e unità, e cosi li avrebbe predisposti allo sterminio e al genocidio. Probabilmente anche i macedoni avrebbero più di un rimprovero, ma per momento non me ne viene in mente nessuno...


Avvoltoi. Banditori. Urlatori.

Bene: per non peccare con l'anima, ammetto che in tutti quei paesetti ex-jugoslavi e anche nelle loro forme provvisorie, come pure nella cosiddetta “diaspora”, esistono piccoli mondi organizzati, che non si scaldano in modo tanto folcloristico per i propri Stati (nazionali). In verità, quegli Stati non gli fanno schifo, ciononostante si appoggiano molto di più a certe fondazioni ed organizzazioni internazionali, e vivono saltellando da un aereo all’altro, da una conferenza internazionale all’altra (conference-hop-ping come direbbero i colleghi della BBC), al contempo versando un mare di lacrime a causa di tutte le ingiustizie e per via di tutti i diseredati e gli emarginati. Anche questi non trovano parole lusinghiere per la Jugoslavia. Essa, per loro, come dice un adagio che ripetono spesso negli ultimi tempi, “avrebbe trovato la propria fine nelle fosse comuni e nei campi di concentramento”. Costoro sono amanti della giustizia e sono naturalmente di sinistra: si occupano e si preoccupano delle questioni mondiali. Il loro atteggiamento verso la Jugoslavia è perfettamente palese in un testo (peraltro schifoso) di Aleksandar Dragoš, critico musicale, che descrive il gruppo musicale Šarlo Akrobata confrontandolo con un altro gruppo musicale chiamato EKV. Citiamo quest'enfatica idiozia: "In breve, Šarlo sta a EKV come i principi del socialismo stanno alla Jugoslavia. Per i primi vale la pena di lottare ancora, mentre la seconda rappresenta il passato, che sarebbe meglio lasciare in pace." Questi tifosi dei principi del socialismo si mettono però in prima fila quando si fa la propaganda per “confrontarsi con il passato.” Affermano il loro impegno è di non permettere che si dimentichino le vittime. Nel caso che non avessimo voglia di passare per bugiardi, questi non sono altro che avvoltoi. Nella settimana in cui sono nate entrambe le Jugoslavie, in cui cade il 29 Novembre, Giornata della Repubblica, e la prima seduta dell’AVNOJ, nonché il 1 Dicembre, giorno in cui fu proclamata la prima Jugoslavia, bisogna leggere le poesie di Miloš Crnjanski e precisamente il poemetto che egli dedicò alla Jugoslavia. Questa poesia è stata scritta nel 1918 a Zagabria ed inizia con questi versi che tutti conoscono:

Nessun bicchiere che si vuota

nessun tricolore che viene proposto

non è il nostro...

In questa poesia si trovano i versi sui "terribili fratelli, di ciglia folte e canzoni tristi". Il verso chiave è il penultimo:

Ma di celebrazione che vino beve

di feste e chiese, cosa vuol che c’ importi?

Le lacrime dall’occhio cadranno fra breve

Mentre il tamburo urla in vece dei morti.”

Ahimè, quanta poesia in questi tamburi e banditori che urlano - peraltro scritta da Crnjanski, il meno turco fra i nostri grandi scrittori! Il banditore, che urla a suon di tamburo, secondo la spiegazione del dizionario, è colui a cui spetta il compito di rendere note cioè di pubblicare le comunicazioni del potere. Gli urlatori - i banditori del nuovo ordine mondiale, impiegati leali e assai ben pagati, e quei banditori che gridano al suon di tamburo di regola lo sono - urlano dunque il suo racconto, la sua narrazione sulla Jugoslavia; la urlano per conto dei morti e, come affermano loro, per i morti. Visto che i vivi, almeno alcuni, possiedono l’abitudine scomoda ad avere memoria, a ricordare, la narrazione dei banditori - urlatori sulla Jugoslavia - è ambivalente. Ecco, dicono i banditori-urlatori, si viveva bene (i principi del socialismo!), ci davano gli alloggi gratis, non si pagava l’istruzione e nemmeno si pagavano le cure mediche, andavamo tutti al mare, Vegeta [prodotto del periodo jugoslavo] era un ingrediente ottimo nella cucina, Zdravko Čolić era un ottimo cantante, Rade Šerbedžija era un ottimo attore... ma tutto ciò è finito nelle fosse comuni e nei campi di concentramento. La sostanza di quella narrazione è chiara: il racconto sulla Jugoslavia deve essere privato di ogni contenuto politico. 

Visto che nella politica sta la chiave, la politica (nel vero senso della parola, non volgarizzata e ridotta alle chiacchiere nei bar, trasformata in intrighi quotidiani e macchinazioni) rimane la dimensione cruciale dell’idea jugoslava e del progetto jugoslavo. Non si è costruita la Jugoslavia a causa della cinematografia, o a causa della musica leggera o a causa del calcio, essa si è costituita per ragioni politiche. Essere un soggetto, essere liberi, essere un fattore (politico), non diventare una colonia, non essere trattati come pura risorsa, non essere occupati - per tutte queste ragioni si è costruita la Jugoslavia. Tutto il resto arrivò, come si dice, come utile collaterale. E la Jugoslavia non fu fatta da calcolatori, da chi soppesava che cosa sarebbe stato meglio e realisticamente più fattibile nel momento dato, da quelli che possedevano soluzioni di riserva, gente carrierista e pragmatica: fu fatta da uomini liberi, che credevano nella poesia e nei sogni.


La stella sulla fronte

Esiste una consuetudine antica nei funerali ebraici, un’abitudine che Boris Davidovič Novski, in un colloquio breve con il suo mentore spirituale Isaak Ilič Rabinovič, aveva riassunto cosi: “Nel momento in cui si preparano a portare il morto fuori dalla Sinagoga per trasportarlo al cimitero, allora un servitore di Gèova si china sul defunto, lo chiama per nome e gli dice ad alta voce: Sappi che sei morto!” Questa consuetudine ha attecchito anche per quanto riguarda la Jugoslavia, ed ha attecchito anche molto bene. Non c’è da meravigliarsi. La gente da noi è molto amante delle consuetudini - esiste anche il proverbio: Meglio distruggere un villaggio intero che una consuetudine. E nel nome della mostra che apre il 1 dicembre nel Museo della storia jugoslava si evidenziano le briciole di quel proverbio, visto che porta il nome “La Jugoslavia dall’inizio fino alla fine”. Il defunto si nomina, lo si chiama per nome e gli si dice: Jugoslavia, è vero, hai avuto un inizio e dunque hai una fine, il che sarebbe una variante di: Sappi che sei morto. Le consuetudini nei funerali esistono e si praticano per i vivi, non per i morti. E questa consuetudine esiste per convincere i vivi che il defunto è morto per davvero. Nel caso jugoslavo, questa consuetudine è perversa al massimo, visto che tutte le varietà di traditori nostrani nonché i fattori stranieri hanno speso un colossale sacco di soldi e di esplosivo per elidere quel nome dalla vita e dalla realtà, per svuotarlo da ogni contenuto, per farlo diventare privo di ogni significato, vuoto come una buccia di noce svuotata. Eppure, a lungo termine, tutto questo non servirà a nulla. Come si dice: è possibile ingannare tutta la gente per un certo tempo, ma non è possibile ingannare tutta la gente per tutto il tempo. Verrà il tempo della verità. La verità è che la Jugoslavia non è finita nelle fosse comuni e nei campi di concentramento. In queste fosse comuni e in questi campi di concentramento hanno avuto inizio i suoi Statarelli-eredi, con le loro entità, con i loro territori provvisori o occupati, sia negli anni Quaranta che negli anni Novanta del secolo scorso.

La Jugoslavia nacque dalla stella sulla fronte e dalla scintilla nell’occhio, dalla piaga del defunto poeta Tin Ujević, dalla tomba fra gli uliveti del poeta Ljubomir Milanović “che passò la maturità a Smederevo", dallo sparo epocale di Gavrilo Princip, autore di versi che anche cento anni dopo restano il migliore commento possibile a proposito della morte della Jugoslavia: Chi vuole vivere, che muoia! Chi vuole morire, che viva!


Muharem Bazdulj


(trad. JT, rev. AM)




QUELLI CHE BIASIMANO LA VIOLENZA... DEGLI ALTRI

Dato che ho inviato questa lettera al quotidiano locale e non è stata pubblicata, ho deciso di diffonderla per altri canali...
Claudia

----- Messaggio inoltrato -----
Da: Claudia Cernigoi
A: piccolo <segreteria.redazione@...>; piccolo ufficio centrale <ufficio.centrale@...>; Piccolo <cronaca@...> 
Inviato: Sabato 24 Novembre 2012 14:36
Oggetto: lettera 

Ci ha colpito la lettera intitolata “Manifestare è un diritto sacro ma non con molotov e mazze”, firmata Paolo Pocecco e pubblicata nelle “Segnalazioni” del “Piccolo” il 24/11/12.
Pocecco “premette” di essere stato “parecchi anni fa” comandante di plotone in un battaglione mobile di carabinieri e di avere operato in servizio di ordine pubblico ritrovandosi spesso coperto di sputi da parte dei manifestanti ai quali, afferma “un calcione negli stinchi non glielo avrebbe evitato nessuno” se fosse stata ordinata una carica.
Dopo questa interessante variante della legge del taglione in materia di ordine pubblico (dente per dente diventa calcio per sputo, inescalation), Pocecco prosegue con altri argomenti, alcuni peraltro condivisibili, sul come e con quali finalità si vada in piazza, e, dopo avere deprecato il fatto che ci si trovi a “strapparsi le vesti” sul fatto che “uno di questi violenti e facinorosi s’è beccato una manganellata sui denti” invece di solidarizzare con chi ha “impedito la devastazione di un ministero”, conclude con un “consiglio”: “quando vedete tafferugli allontanatevi il più celermente possibile”.
Ringraziamo per questo consiglio l’ingegner Pocecco, che conoscevamo come dirigente della ripartizione edilizia del Comune di Trieste, ma che sappiamo essere anche esperto di questioni di ordine pubblico. Ciò che gli vorremmo invece chiedere, è, in base a questa lettera, perché ritenga deprecabile la violenza dei “facinorosi” che vanno in piazza a creare scontri mentre è per lui motivo di orgoglio avere fatto parte dell’organizzazione Gladio, con la quale (citiamo da un’intervista rilasciata da Pocecco al giornalista Silvio Maranzana e pubblicata sul “Piccolo” del 16/1/10) aveva organizzato “sbarco con gommoni alla Costa dei barbari e collocamento di esplosivi nella galleria ferroviaria di Santa Croce con commando francesi, accompagnamento di commando belgi in incursioni notturne sul Molo Settimo e nel cantiere di Monfalcone”. Ma l’intervento di Pocecco ci sembra ancora più interessante se ricordiamo che la Gladio aveva messo in atto l’esercitazione Delfino nella primavera del 1966 a Trieste, esercitazione così descritta nel 1992 dal giornalista Antonio Garzotto (ferito nel 1977 da un commando del Fronte comunista combattente, quindi non suscettibile di simpatie filocomuniste): “agenti della Gladio avrebbero dovuto infiltrarsi sia nelle file e nelle manifestazioni del Pci, ma pure nelle frange della sinistra estrema per provocare "azioni violente, moti di piazza, uccisioni". Fare, insomma, "insorgenza", in modo tale da sollecitare una forte reazione, la "controinsorgenza", e legittimare un intervento di "stabilizzazione del potere" da parte dell'Autorità di Governo”.

Claudia Cernigoi
Trieste




“Più Europa” uguale meno democrazia


di Mauricio Miguel | da “Avante”, settimanale del Partito Comunista Portoghese

Traduzione a cura di Marx21.it

La crisi viene utilizzata dal potere politico per scatenare un brutale attacco alla democrazia politica, inseparabile dal tentativo di imporre una battuta d'arresto nei diritti e nelle conquiste sociali dei lavoratori e dei popoli.

Con l'accentuazione del processo di concentrazione e centralizzazione del capitale nell'UE, le grandi potenze e i monopoli capitalisti che lo controllano tentano di distruggere le sovranità nazionali e quello che dovrebbe essere un regime democratico, per instaurare un regime autoritario. Le misure, azioni, tentativi e progetti che pretenderebbero di “salvare” l'euro e l'UE mirano a trasferire il potere politico degli organi di sovranità nazionale alle cosiddette “istituzioni europee”, svuotandone le competenze, esautorando i popoli dall'esercizio del potere, limitando e anche impedendo la loro partecipazione nei processi politici, per imporre sempre di più una politica contraria ai loro interessi e aspirazioni.
La sottomissione e la tutela degli stati nazionali da parte del potere politico – di cui il patto di aggressione delle troike nazionale e straniera è solo un esempio – mirano alla distruzione dei meccanismi di controllo dell'esercizio del potere politico che la lotta dei lavoratori e dei popoli ha conquistato in ogni paese alle borghesie nazionali.

Si tende a impedire la partecipazione diretta dei popoli nei processi politici e li si priva in modo crescente dei meccanismi di controllo del potere politico – persino con la distruzione dei meccanismi esistenti –, per assicurare la propria impunità.

Si vuole imporre modelli politico-istituzionali “funzionali” basati sulla sottrazione delle sovranità nazionali e sulle inevitabilità politiche, economiche e sociali, mai confermate, discusse e chiarite, ma, al contrario, smentite dalla realtà e dalle contraddizioni insanabili che sono proprie alla natura del capitalismo.

Vogliono imporre un modello unico che emargini o elimini le opposizioni, non attraverso la brutalità degli “stivali chiodati” del passato dominio fascista, ma attraverso l'egemonia ideologica che sta creando strumenti politici – come la stessa UE – per assicurare il dominio di classe.

In questo senso va il rafforzamento del potere delle grandi potenze nel Consiglio Europeo, nel Parlamento Europeo e nella Commissione Europea. O la sottrazione della politica monetaria a favore della Banca Centrale Europea e della sua falsa indipendenza – senza mandato né controllo democratici. O il tentativo di imporre le proprie priorità nei bilanci di ogni paese, sottraendo tale competenza ai parlamenti nazionali, imponendo in forma diretta i propri interessi di classe. E anche il tentativo di togliere prerogative al potere locale democratico, ridurre il numero dei municipi e delle province, limitare la loro capacità di iniziativa, con lo strangolamento delle loro finanze. E anche la limitazione del diritto di sciopero, di azione e organizzazione dei lavoratori nelle imprese.

Un effettivo regime di libertà, democrazia e partecipazione politica e sociale è inseparabile dall'esistenza di condizioni materiali e culturali per il loro esercizio e dall'uguaglianza di diritti, doveri e opportunità. L'impoverimento e lo sfruttamento crescente dei lavoratori e degli altri ceti popolari, le limitazioni all'esercizio di diritti fondamentali nei settori della sicurezza sociale, della salute, dell'educazione, dell'abitazione, della cultura si ripercuotono nella perdita di libertà fondamentali, in limitazioni alla partecipazione e all'attività politiche e alla libertà del popolo di poter decidere sul proprio destino. Sa bene questo potere politico che l'esautorazione e la limitazione della partecipazione nell'esercizio del potere è condizione per perpetuare questa politica e prolungare lo sfruttamento.

Nell'agire in questo modo, cercando di distruggere le sovranità nazionali e i regimi democratici, mette in causa la sua legittimità. Il potere politico emergente nell'UE si scontra ancora di più con gli interessi e le aspirazioni delle classi popolari. Spetta ai lavoratori e al popolo sconfiggere questa politica e restituire la legittimità a chi effettivamente la possiede.

Le conquiste di domani saranno difficili, ma sono possibili e necessarie. Non conquisteremo nulla senza molto sudore, lacrime e sangue. Ci incoraggia essere dalla parte giusta della barricata della lotta di classe: a fianco della classe operaia e di tutti i lavoratori. Ci incoraggia il sentimento patriottico e la difesa degli interessi e delle aspirazioni del nostro popolo. Ci incoraggia voler farla finita con lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, senza la cui eliminazione non sarà possibile una società veramente democratica.