Thierry Meyssan risponde alle domande della rivista serba Geopolitika. Ritornando sulla sua interpretazione dell’11 settembre, degli eventi in Siria e della situazione attuale in Serbia
Informazione
Monti e la Siria. Vogliamo parlarne?
di Francesco Santoianni*
Gli ultimi sviluppi della guerra dell’Occidente e delle Petromonarchie alla Siria (sofisticati armamenti consegnati ai “ribelli”, dispiegamento di missili Patriot in Turchia, invio - ormai alla luce del sole - di “istruttori militari”....) e la recente, agghiacciante, dichiarazione di Napolitano al Consiglio supremo della Difesa pongono i compagni e le organizzazioni, che parteciperanno all’assemblea del 15 dicembre a Roma e che promettevano il loro impegno qualora si fosse manifestato un “attacco esterno” alla Siria, di fronte a precise scelte.
Una è continuare a far finta che in Siria sia in corso un’altra “primavera araba”, per sostenere la quale la principale (e l’unica) cosa da fare è abbaiare – insieme al Governo Monti, i suoi partiti e i suoi mass media – contro il “regime di Assad”, additando nel contempo come “rossobruni” coloro che non si uniscono al coro; un’altra è aderire ad uno dei tanti ineffabili appelli che si limitano ad invocare per la Siria una generica “fine delle violenze” e/o “l’invio di una delegazione internazionale composta da personalità di alto livello allo scopo di discutere con i principali attori politici per aprire la strada a una soluzione politica del conflitto armato”; l’altra è mobilitarsi contro il Governo Monti anche per quello che sta facendo alla Siria.
Una scelta quest’ultima, ancora oggi, fatta da pochissimi compagni.
Eppure il Governo Monti ha dapprima rotto le relazioni diplomatiche con Damasco, poi comminato sanzioni (anche per alimenti e apparecchiature medicali!), poi riconosciuto ufficialmente i “ribelli” (prima quelli del CNS ora quelli della Coalizione) quali “legittimi rappresentanti del popolo siriano”, poi – seguendo lo stesso copione della guerra alla Libia – ha inviato, più o meno nascostamente, soldi, armi e mercenari (come i quattro arrestati ad agosto alla frontiera con il Libano), poi ha negato il visto di ingresso a parlamentari siriani venuti ad incontrare loro colleghi italiani, poi ha spalleggiato la Turchia nelle sue provocazioni....
E tutto questo mentre notizie di “armi di distruzioni di massa” in mano ad Assad e di “bombardamenti indiscriminati sulla popolazione” continuano ad inondare i nostri mass media. Quasi a sottacere le ormai centinaia di autobombe fatte esplodere (nei mercati, nelle strade, davanti gli ospedali...) dai “ribelli”; le migliaia di civili inermi assassinati dai “ribelli” per non essersi schierati contro Assad; le centinaia di migliaia di profughi che scappano dalla guerra e dalla pulizia etnica e religiosa imposta dai “ribelli”.
Eppure la denuncia di questo massacro, ordito anche dal Governo Monti, ha trovato poco spazio in manifestazioni come Il NoMontiDay del 27 ottobre, nonostante l’invito rivolto dalla Rete NoWar.
Sarebbe più che mai opportuno uscire da ambiguità, resistenze e reticenze – sostanzialmente, le stesse di quelle che, un anno fa, hanno impedito il nascere di un movimento di massa contro la guerra alla Libia - che trovano il loro essere nella illusione che, in un modo o nell’altro, la distruzione di uno “stato canaglia”, pur se per mano dell’Occidente, può sprigionare un movimento di massa, un’altra “primavera araba”. La sorte toccata alla Libia è sotto gli occhi di tutti.
E sono stati proprio gli orrori della Libia (e dell’Iraq, e dell’Afghanistan...) a cementare, purtroppo, la stragrande maggioranza della popolazione siriana in oceaniche manifestazioni pro Assad. Non a caso per la Siria, il copione imposto dall’Occidente, si è concretizzato subito, (già dal marzo 2011) in assalti militari condotti da mercenari; un ininterrotto crudele stillicidio di attentati, esecuzioni, assalti.... mirante a far collassare la Siria. Altro che “manifestanti, a mani nude, repressi dal regime” idolatrati, in Italia, in qualche manifestazione.
Fermiamo la guerra di Monti alla Siria.
Se ci riuscissimo, acquisiremmo nei riguardi del popolo siriano quella credibilità indispensabile per fortificare le istanze di democrazia che hanno animato le vere “primavere arabe”. Se, invece, non facciamo nulla, se fingiamo che la Siria - come ieri la Libia - non esista, la prossima vittima sacrificale sarà l’Iran e poi la Bielorussia, e poi il Venezuela e poi Cuba... E forse, l’intero pianeta, con una nuova guerra mondiale.
Fermiamo la guerra di Monti alla Siria.
Una guerra di aggressione che è doppiamente funzionale, all'apparato industriale e militare, alla rapina di risorse e a creare intorno a questa un sistema di consenso funzionale alla democrazia delle bombe.
Fermiamo la guerra di Monti alla Siria.
P.S. Ovviamente “Monti” o “Bersani”, la cosa non cambia.
* rete No War di Napoli
Siria: commando israeliani in azione, Usa armano i ribelli
di Redazione Contropiano
In particolare la stampa internazionale dà conto, nelle ultime ore, dell’attività frenetica di Gran Bretagna, Stati Uniti e Israele. Ieri il quotidiano britannico Sunday Times, citando fonti israeliane, ha scritto che unità speciali dell’esercito di Tel Aviv stanno agendo come ‘ricognitori’ in Siria con il compito di individuare armi chimiche e biologiche e di seguirne gli eventuali spostamenti. ''Nell'ultima settimana – dice la fonte, rimasta anonima - abbiamo avuto segnali di spostamenti e anche di munizioni che sono già state armate per colpire e abbiamo urgente bisogno di localizzarle''. La stessa fonte afferma che grazie ai suoi apparati di spionaggio – satelliti e droni – Israele è da anni a conoscenza dell’esatta collocazione delle armi chimiche e biologiche siriane. Ad affiancare Israele è il governo della Gran Bretagna, che da giorni ripete il mantra 'del pericolo rappresentato dalle armi chimiche in possesso di Assad'.
Ma un’altra fonte israeliana, questa volta rappresentata dal vicepremier Moshe Yaalon, contraddice questa versione dei fatti, affermando che “Non ci sono segnali che il regime siriano possa usare armi chimiche contro Israele”. Il che vorrebbe dire che i commando israeliani infiltrati in territorio siriano siano stati inviati a preparare una eventuale invasione del paese.
Rivela infatti ancora il Sunday Times che ha già preso il via un'operazione degli Stati Uniti per armare i ribelli siriani. Per la prima volta, secondo il giornale - che cita fonti diplomatiche bene informate - si avrebbero indicazioni precise sull'effettivo invio di armi agli insorti direttamente in territorio siriano. Secondo il domenicale britannico, mortai, granate e missili anti-tank viaggeranno attraverso paesi mediorientali ''amici'' che già sostengono i ribelli. Si tratterebbe per la maggior parte di armi recuperate (acquistate anche) dagli americani dagli arsenali libici di Muammar Gheddafi, deposto e assassinato un anno fa dopo l’intervento della Nato contro la Libia. Tra le armi consegnato all’Esercito Siriano Libero anche i missili anti-aerei portatili di fabbricazione russa Sa-7 'Strela', in grado di cambiare lo scenario sul terreno perché non consentirebbero più alle forze armate governative di colpire indisturbate dall'alto i miliziani ribelli.
L’altro ieri il governo siriano ha denunciato in una lettera all'Onu che ''alcuni Paesi'' potrebbero fornire armi chimiche ai ribelli spingendoli ad utilizzarle, per affermare poi che ''il governo siriano le ha usate''. Così come avvenne per l'Iraq, accusato di possedere armi di distruzione di massa – la famosa fialetta sventolata da Colin Powell all’Onu - che invece non esistevano, proprio per giustificare l'intervento armato contro il paese poi occupato e distrutto.
Thierry Meyssan: "I terroristi siriani sono stati addestrati dall’UCK in Kosovo"
Reakcija Svjetskog Mirovnog Vijeća (WPC) na dodjelu Nobelove nagrade za mir Europskoj Uniji: "EU se ponaša kao imperijalistička sila"
- Da je tijekom posljednjih nekoliko desetljeća Europska unija sprovodila proces militarizacije, koji je ubrzan 1999.godine, nakon što je odigrala presudnu ulogu u brutalnom raspadu Jugoslavije i kasnije, u brutalnoj vojnoj agresiji protiv nje, koji je kulminirao procesom secesije srpske provincije Kosovo protivno međunarodnom pravu;
- Da je nakon NATO samita održanog u Washingtonu 1999. godine, Europskoj uniji dodijeljena stupna uloga tog vojno-političkog bloka predvođenog Sjedinjenim američkim državama. Ta je uloga od tada učvršćivana i jačana, od 2002. godine primjenom Lisabonskog ugovora. Treba imati na umu da je 21 zemlja Europske unije ujedno i članica NATO saveza;
- Da je tijekom proteklih nekoliko desetljeća Europska unija vodila i potpirala sve vojne agresije NATO-a i/ili njegovih članica protiv suvereniteta i nacionalne neovisnosti raznih zemalja, poput Jugoslavije, Iraka, Afganistana, Libije i Sirije koja je sada u toku, kao i brutalni režim sankcija koji su teško pogodili narode više zemalja;
- Da se Europska Unija zalaže i poduzima akcije, koje su u suprotnosti sa Poveljom Ujedinjenih Naroda o poštivanju suvereniteta i nemješanja u unutarnje poslove zemalja, naprotiv, promiče i jača nemilosrdnu militarizaciju u međunarodnim odnosima, popuštajući pred kršenjem ljudskih prava, poput tzv. "CIA-inih letova" i njihovim kriminalnim otmicama i aktima mučenja;
U tom kontekstu naša organizacija smatra, u najmanju ruku, upitnom dodjelu Nobelove nagrade za mir Europskoj uniji za njen doprinos unapređenju mira i pomirbe, demokracije i ljudskih prava u Europi, kako što je naveo Norveški Nobelov komitet prilikom objave priznanja.
Štoviše, u vrijeme kad se u Europi suočavamo sa razvojem situacije koja rezultira rastom nejednakosti i socijalne nepravde, a odnosi među državama temelje na ekonomskoj, pa čak i političkoj dominaciji jednih država nad drugima, stvarnost je daleko od bratstva među nacijama ili kongresa mira, o čemu Alfred Nobel govori kao o kriterijima za dodjelu Nobelove nagrade, u svojoj oporuci 1895. Godine.
Europska Unija je daleko od ostvarenja tzv. misije propagiranog mira,demokracije,ljudskih prava u ostalim dijelovima svijeta, što si pripisuju, upravo suprotno, Europska Unija ponaša se kao imperijalistička sila.
Mir u Europi uslijedio je nakon pobjede naroda u II sv. ratu, za kojim su čeznuli milijuni ljudi, mnogi od njih uključeni u snažan i široki mirovni pokret, koji je započet i razvijan nakon 1945. Godine.
Stvarnost i svrha objave Europske Unije je daleko od vrijednosti i principa proklamiranih i utvrđenih na historijskoj konferenciji održanoj u Helsinkiju 1975. Godine, kao što su: poštivanje suverenosti, suzdržavanje od prijetnje upotrebe sile, poštivanje teritorijalnog integriteta, mirno rješavanje sukoba, nemiješanje u unutrašnje poslove zemalja, poštivanje ljudskih prava i temeljnih sloboda, pravo samo-opredjeljenja naroda i suradnja među državama zasnovana na vrijednostima i načelima povelje Ujedinjenih Naroda.
Upravo poput 2009. Godine, prilikom predaje Nobelove nagrade za mir Baracku Obami, novoizabranom predsjedniku SAD, sadašnja Nobelova nagrada za mir dodijeljena Europskoj Uniji ne doprinosi vjerodostojnosti i ugledu ove nagrade.
Apendix:
Izjava je usvojena na regionalnoj konferenciji WPC za Europu, održanoj od 29-30 listopada u Bruxellesu.
U mnoštvu različitih subjekata koji se suprotstavljaju globalnim hegemonima, koji proizvode i generiraju krize, institucionalni terorizam, nasilna svrgavanja legalnih vlasti u suverenim državama, koje imaju za cilj ovladavanje prirodnih resursa pojedinih zemalja i čitavih regija uz pomoć instaliranih poslušnika, svojom se masovnošću i organiziranošću ističe World Peace Concil – WPC, odnosno Svjetsko mirovno vijeće.
World Peace Concil je međunarodna mirovna anti-imperijalistička organizacija koja se zalaže za mirnu koegzistenciju među državama i narodima, razoružanje, zabranu oružja za masovno uništenje. Dio je međunarodnog mirovnog pokreta i djeluje u suradnji sa drugim međunarodnim i nacionalnim pokretima sa sjedištem u više od 100 država. Pod sadašnjim imenom djeluje od 1950. Godine, mada derivira iz nekoliko mirovnih kongresa održanih u razdoblju od 1948 – 1949 u Wroclawu, Parizu i Pragu.
Prvi predsjednik bio je Jean Frédéric Joliot-Curie, zet Pierra i Marie Curie i dobitnik Nobelove nagrade za kemiju 1935. Godine.
Aktualna predsjednica je Socorro Gomes iz brazilskog Centra za solidarnost među narodima i borbe za mir - CEBRAPAZ. Sjedište organizacije je od 1999. Godine u Grčkoj.
Socijalistička radnička partija jedini je subjekt iz Hrvatske, koji održava tijesnu višegodišnju suradnju sa WPC. Ukoliko postoji još organizacija i udruga u Hrvatskoj ili okruženju koje to žele, voljni smo pomoći pri uspostavi kontakta.
9. XII 2012.
Kapuralin Vladimir
Statement of the WPC Regional Meeting, held in Brussels October 29-30,2012
On the award of the Nobel Peace Prize to the European Union
In reaction to the announcement of the award of the Nobel Peace prize to the European Union, the World Peace Council member organizations, cannot fail to recall:
That during the past decades the European Union has led a process of militarisation, sped up since 1999, after having played a crucial role in the violent breakup of Yugoslavia and, later on, in the brutal military aggression against this country, culminating in a process of secession of the Serbian Province of Kosovo in defiance of international law.
That since the NATO Summit held in Washington, in 1999, the European Union has been given the role of the European pillar of this politicalmilitary bloc led by the USA. A role that since then has been asserting itself and strengthening, namely since 2002 and with the adoption of the Lisbon Treaty. It should be remembered that 21 European Union countries are NATO members.
That over the past decades, the European Union has led and supported all military aggressions by NATO and/or its members against the sovereignty and national independence of various States, like Yugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libya and now Syria, as well as violent regimes of sanctions that hit hard the peoples of several countries;
That the European Union has taken stands and actions that go against the principles set down in the United Nations Charter of respect for the sovereignty of the States and nonintervention in their internal affairs, and on the contrary, promote an increasing and relentless militarisation of international relations, being complaisant with the violation of human rights as was the case, for example, of the socalled «CIA flights» their criminal kidnappings and acts of torture; In this context, our organizations consider, to call the least, questionable the award of the Nobel Peace prize to the European Union (EU) for its contribution to the advancement of peace and reconciliation, democracy and human rights in Europe, as stated by the Norwegian Nobel Committee when it announced the prize.
Much more so, at a time when in the European Union we have the growth of a number of situations and developments that have resulted in an increase of inequalities and social injustice and of relations among States based on economic, and even, political domination by some States over others a reality far from the proclaimed fraternity among nations or the congress of peace that Alfred Nobel spoke about as a criterion for the Nobel Peace Prize in his 1895 will.
The European Union is far from accomplishing the socalled mission of propagating peace, democracy, human rights in the rest of the world that some claim to attribute, quite the contrary, the European Union behaves as an imperialist force. Peace in Europe was a victory of the peoples following World War II, in which weighed the aspiration for peace of millions of citizens, many of them activists from the strong and broad movement for peace that began and developed after 1945.
The reality and purposes anounced by the European Union are far removed from the values and principles proclaimed and established by the historic Helsinki Conference, held in 1975, such as: respect for sovereignty; refraining from the threat or use of force; respect for the territorial integrity of the States; peaceful settlement of conflicts; nonintervention in the internal affairs of the States; respect for human rights and fundamental freedoms; right to selfdetermination of the peoples; and cooperation among States values and principles set down in the United Nations Charter.
Just as in 2009, with the handing of the Nobel Peace prize to Barack Obama, then newly elected President of the USA, the Nobel Peace prize now awarded to the European Union does not contribute to give credibility and prestige to this award.
The Organisations of the European section of the WPC voice their protest against the award of the 2012 Nobel Peace Prize to the European Union, and call on all WPC member and friendly organizations to also voice their protest, namely on December 10th when the award is presented.
Annie Lacroix-Riz, historienne, est professeur émérite d’histoire contemporaine à l’Université Paris-VII – Denis Diderot. Auteur de nombreux ouvrages, elle a notamment étudié les origines et les parrains de la Communauté européenne (lire en particulier : L'intégration européenne de la France : la tutelle de l'Allemagne et des États-Unis, Paris, Le Temps des Cerises, 2007). Lorsque jury Nobel de la paix a annoncé le 12 octobre que son choix se portait cette année sur l’Union européenne, BRN a souhaité recueillir sa réaction et son éclairage.
Interview publiée dans le mensuel Bastille-République-Nations daté du 29/10/12
Informations et abonnements : www.brn-presse.fr
BRN – L’Union européenne s’est vu décerner cette année le Prix Nobel de la paix. Quelle a été votre première réaction à l’annonce du jury d’Oslo ?
ALR – L’information pouvait d’abord être prise pour un canular. Mais dans notre univers de l’absurde, une telle distinction est dans la droite ligne des choix du jury Nobel dans la dernière période. Cette décision n’en bat pas moins des records de ridicule, tant au regard des pratiques actuelles que des origines de l’UE.
BRN – Des pratiques actuelles que vous jugez bellicistes…
ALR – Pour l’heure, elle joue le rôle de petit soldat de l’OTAN, comme elle l’a fait dès sa naissance. L’UE en tant que telle ou nombre de ses membres sont impliqués dans quasiment toutes les guerres dites périphériques depuis vingt ans.
BRN – Cependant, en tant qu’historienne, vous insistez plus particulièrement sur les origines tout sauf pacifiques de l’UE. Pourriez-vous préciser cette analyse ?
ALR – Les archives, sources par excellence de la recherche historique, permettent seules de décortiquer ses véritables origines et objectifs, qui excluent la thèse d’une prétendue « dérive » récente de l’UE, dont on nous rebat les oreilles.
BRN – Vous évoquez en particulier la « déclaration Schuman », du 9 mai 1950, souvent décrite comme l’acte fondateur de l’« aventure européenne »…
ALR – Oui, et ses circonstances précises méritent examen. Le lendemain même – le 10 mai 1950, donc – devait avoir lieu à Londres une très importante réunion de la jeune OTAN (organisation de l’Alliance atlantique, elle-même fondée un an plus tôt). A l’ordre du jour figurait le feu vert officiel au réarmement de la République fédérale d’Allemagne (RFA), que Washington réclamait bruyamment depuis deux ans (1948). Les structures et officiers de la Wehrmacht avaient été maintenus dans diverses associations de façade. Mais quatre ans après l’écrasement du nazisme, un tel feu vert atlantique était quasi impossible à faire avaler aux populations, en France notamment. La création de la Communauté du charbon et de l’acier (CECA) annoncée par le ministre français des Affaires étrangères Robert Schuman a ainsi permis d’esquiver ou de retarder l’annonce officielle, requise par les dirigeants américains, du réarmement en cours.
BRN – Qu’est-ce qui motivait cette stratégie américaine ?
ALR – Dès mars 1947, dans son célèbre « discours au Congrès », le président Truman demanda des crédits pour sauver la Grèce et la Turquie « attaquées », forcément par l’URSS (dont le nom n’était pas prononcé). Ce faisant, il entamait en grand l’encerclement politico-militaire de cette dernière. De fait, c’est entre 1942 et 1945 que Washington avait préparé l’affrontement futur contre ce pays, pour l’heure allié militaire crucial pour vaincre l’Allemagne (1). Une pièce majeure de cet affrontement était la constitution d’une Europe occidentale intégrée.
BRN – Ce sont donc les dirigeants américains qui ont poussé à l’intégration européenne ?
ALR – Oui. Washington entendait imposer une Europe unifiée sous tutelle de la RFA, pays dont les structures capitalistiques étaient les plus concentrées, les plus modernes, les plus liées aux Etats-Unis (qui y avaient investi des milliards de dollars dans l’entre-deux-guerres) et les moins détruites (80% du potentiel industriel était intact en 1945). Cette Europe serait dépourvue de toute protection à l’égard des exportations et des capitaux américains : les motivations des dirigeants d’outre-Atlantique étaient non seulement géostratégiques mais aussi économiques.
BRN – Comment ces derniers s’y sont-ils pris ?
ALR – Ils ont harcelé leurs alliés ouest-européens, pas vraiment enthousiastes à l’idée d’être aussi vite réunis avec l’ennemi d’hier. Et ils ont sans répit usé de l’arme financière, en conditionnant l’octroi des crédits du « Plan Marshall » à la formation d’une « entité » européenne intégrée, condition clairement formulée par le discours de Harvard du 5 juin 1947.
BRN – Mais quel était l’état d’esprit des dirigeants ouest-allemands ?
ALR – De 1945 à 1948, avant même la création officielle de la RFA, ils n’ont eu de cesse de se poser en « meilleurs élèves de l’Europe », suivant une stratégie mûrement calculée : toute avancée de l’intégration européenne équivalait à un effacement progressif de la défaite, et constituait un gage de récupération de la puissance perdue. Ainsi ressurgissait le thème de l’« égalité des droits » de l’après-guerre précédent.
BRN – Voilà une affirmation audacieuse…
ALR – C’était l’analyse des diplomates français d’alors, en poste en général depuis l’avant-guerre et lucides sur ce qu’ils ressentaient comme un péril, comme le montrent leurs notes et mises en gardeofficieuses. Car, officiellement, le discours était de saluer l’horizon européen radieux.
BRN – Pouvez-vous préciser cet « effacement progressif de la défaite » attendu par les élites de Bonn ?
ALR – Celles-ci ont vite obtenu l’abandon des limitations de production imposées par les accords de Yalta et de Potsdam : en fait, dès 1945 dans les zones occidentales ; en droit, dès le lancement publicitaire du Plan Marshall, à l’été 1947. Les dirigeants ouest-allemands ont repris le discours d’entre-deux-guerres de Gustav Stresemann (ministre des Affaires étrangères de 1923 à 1929) et du maire de Cologne Adenauer : les « accords de Locarno » (1925) garantirent – sur le papier – les frontières occidentales de l’Allemagne (pas les orientales), motivant l’attribution à Stresemann, en 1926, et à son collègue français Briand… du Prix Nobel de la paix. Berlin entonna le refrain du rapprochement européen avec pour condition expresse l’égalité des droits (« Gleichberechtigung »). C’est à dire l’abandon des clauses territoriales et militaires du traité de Versailles : récupération des territoires perdus en 1918 (et Anschluss prétendument « européen » de l’Autriche), et levée de l’interdiction des industries de guerre.
BRN – Peut-on pour autant établir le parallèle avec la RFA d’après la seconde guerre mondiale ?
ALR – Le diplomate français Armand Bérard câble à Schuman en février 1952 que Konrad Adenauer (premier chancelier de la RFA, de 1949 à 1963) pourra, en s’appuyant sur la « force supérieure (mise…) en ligne » par les Américains contre l’URSS, contraindre celle-ci « à un règlement dans lequel elle abandonnera les territoires d’Europe centrale et orientale qu’elle domine actuellement » (RDA et Autriche incluses). Extraordinaire prévision de ce qui se réalisa près de quatre décennies plus tard…
BRN – Si l’on reprend votre analyse, l’Union européenne a donc été lancée sur injonction américaine, et soutenue avec détermination par les dirigeants ouest-allemands pour leurs objectifs propres…
ALR – Oui, ce qui nous place à des années-lumière des contes à l’eau de rose en vogue sur les « pères de l’Europe » taraudés par le « plus jamais ça » et exclusivement soucieux de construire l’« espace de paix » que les jurés Nobel ont cru bon d’honorer. A cet égard, il faut prendre en compte d’autres acteurs, au rôle déterminant dans l’intégration européenne.
BRN – Le Vatican ?
ALR – On évoque peu son rôle géopolitique dans la « construction européenne » du XXe siècle, mais après la seconde guerre mondiale, les dirigeants américains l’ont, encore plus qu’après la première, considéré comme un auxiliaire crucial. En outre, depuis la fin du XIXe siècle, et plus que jamais depuis la Première Guerre mondiale avec Benoît XV (pape de 1914 à 1922), les liens entre Reich et Vatican ont façonné le continent (Est compris), comme je l’ai montré dans l’ouvrage Le Vatican, l'Europe et le Reich. Globalement avec l’aval des Etats-Unis – sauf quand les rivalités (économiques) germano-américaines devenaient trop fortes. De fait, les relations du trio se compliquent quand les intérêts des dirigeants d’Outre-Atlantique et d’Outre-Rhin divergent trop. Dans ce cas, la préférence du Vatican va toujours à l’Allemagne. Le maximum de tension a donc été atteint au cours des deux guerres mondiales.
BRN – Précisément, vous décrivez une Europe voulue par Washington et Bonn (puis Berlin). Mais ces deux puissances n’ont pas nécessairement des intérêts qui coïncident…
ALR – Absolument. Et ces contradictions, perceptibles dans les guerres des Balkans de 1992 à 1999 (Michel Collon l’a écrit dans son ouvrage de 1997, Le grand échiquier), s’intensifient avec l’aggravation de la crise. Raison supplémentaire pour douter des effets « pacifiques » de l’intégration européenne.
BRN – Celle-ci est également promue par des dirigeants d’autres pays, comme la France.
ALR – François Bloch-Lainé, haut fonctionnaire des Finances devenu grand banquier, fustigeait en 1976 la grande bourgeoisie toujours prompte à « exploiter les malheurs de la patrie ». Du Congrès de Vienne (1815) à la Collaboration, en passant par les Versaillais s’alliant avec le chancelier prussien Bismarck contre la Commune, du modèle allemand d’avant-guerre au modèle américain d’après-guerre, cette classe dirigeante cherche à l’étranger un « bouclier socio-politique » contre son peuple.
BRN – Ce serait également une fonction de l’Union européenne ?
Sulla assemblea del movimento "arancione" << Cambiare si può >> si vedano ad esempio i report di Marco Santopadre:
Naranđasto: dobro, ali je li to uprava boja?
Ennio Remondino
Ta topla boja. Naranđasto je jako lijepa boja, živahna kao i crvena, ali prirodnija, manje agresivna u odnosu na razlike čitave palete. Naranđaste su nazvane izvjesne «revolucije» u nekim nama susjednim zemljama. I evo javlja se tendencija da ta boja prevlada i na talijanskom tlu.
Uostalom , tko ne bi glasao naranđastu boju milanskog gradonačelnika Pisapia u odnosu na plavu, što se pretvara i izblijedjelo sivu bivše gradonačelnice Moratti, kakva je u njeno vrijeme bila milanska gradska uprava, sa sjedištem u palači Marino? Naranđasto bivšeg suca De Magistrisa u odnosu na crvenu brlju, bez imalo sjaja, u posvađanom Napulju? Ili u Genovi, između Dorie, koji je bio nametnut izvana, u odnosu na dvostruko ružičastu upravnog aparata? Naranđasto je meni lično simpatična boja, ali historijske reference takvog su tipa, da moraju izazvati zapanjenost. Bar kod onih među nama, koji su s razloga profesije ili zbog godina vidjeli malo više i malo više pamte. Evo mog sjećanja, moje verzije fellinijevskog «Amaracorda», potsjetnika na «naranđaste revolucije», koje su se prilično davno dogodile i kojih se i te kako treba čuvati, podvlačiti njihove međusobne razlike i držati se što dalje od njih.
Bile su to naranđaste revolucije sa zvijezdama i sa prugama. Tako je pisao «il Manifesto» 30 decembra 2004. Sigurno u RAI-ju postoju o tome snimljeni zapis iz te godine u rubrici «Tv 7»(dana) . Tada sam s «mog» Balkana pričao o «Srbinu iz Novoga Sada», o jednom od «instruktora», koji je uvježavao istupe protiv režima na ulicama i trgovima Kijeva. Zbog ideje, veli, ali i za novce. A ko su bili naručioci? Vlade SAD-a i Evrope. Tako je postao «spcijalni savjetnik» za Ukrajinu American Freedom House. Imao je profesionalne akreditacije, jer je Milošević bio u zatvoru u Haagu, Shavernadze je bio prisiljen dati ostavku u Gruziji, a zatim je srušen i Yanukovič.
Koliko samo putovanja i koliko seminara «o nenasilju», koje je držao bivši pukovnik CIA-e, za njega i za ostale njegove drugare. «Tko plaća? » -postavio sam tada retoričko pitanje, inervjuirajući Stanka Lazendića. «Ovo je mladić, koji je mnogo toga vidio u životu, počevši od zatvora, u koji je počeo odlaziti vrlo često, otkad je Milošević došao na vlast. Sedamnaest puta bio je hapšen, što uopće nije malo za studentskog vođu, ukoliko je Lazendić ikada jedino to i bio.»
Davne priče i korisna sjećanja.Ne mogu se uopće usporediti s nečim lijepim, novim, čistim, što se počinje dešavati u Italiji. Kako bi se izbjegle kromatske konfuzije, ne škodi malo osvježiti pampćenje. Stanko Lazendić bio je jedan od osnivača srpskog studentskog pokreta «Otpor», što znači Rezistencija, i odastle je sve počelo. Otpor naroda, nenasilni, Miloševićevom režimu te davne 1998 godine, kad su se tom beogradskom despotu licemjerno udvarale mnoge zapadne vladine kancelarije, koje nisu bile baš načisto s tim, da li treba da ga posvoje ili da s njim zarate. Otpor nastaje u tom času i vjerojatno je jedini nasljednik širokog «antistrančkog» pokreta, koji se prijašnjih godina razvio na gradskim ulicama i gotovo da je uspio sam zadati odlučan udarac vlasti porodice Milošević. Zatim su tradicionalne partije, pa čak i one demokratske, progutale i pojele «Revoluciju pištaljki» u zimu 1996-1997, kao i nade na unutrašnji prevrat bez oružanih «humanitarnih» intervencija.
Fantaziju na vlast, ali ne samo nju. Otpor je revolucionirao političku liturgiju, sa bojama svojih zastava, sa svojim parolama i lozinkama, sa kolektivnim vodstvom, s muzikom koja je grmila na trgovima te permanentnim kreveljenjem i izrugivanjem vlasti. Slavenska duša, dotad sahranjena pod naslagama sažaljevanja samih sebe, iskoristila je trenutak, da izbije napolje i ispolji svoju poletnu snagu ironiziranja pa i autoironije i ruganja i sebi i drugima s ogorčenim nepoštovanjem. Bili bi to uradili sami i bili bi to uradili bolje oni iz Otpora, uz pomoć srpskog naroda, da neki vašingtonski strateg nije već bio odlučio, tada - polovinom 1998- kako će Milošević poslužiti za kolaudiranje militarističke ubojne snage NATO-a , kao čuvara istočnog fronta Imperija. Kada marta mjeseca 1999 po Jugoslaviji počinju pljuštati bombe, Otpor se javlja u vojsku, kao i cijela Srbija, ne uz Miloševića, već protiv NATO-a. Za njih su te bombe van pameti. Gađaju despota, a pogađaju srpski narod i narod na Kosovu. No to spada već u sjećanje.
Još jedna mala pomoć pri prisjećanju. Fantazija protesta na vlast, da, ali i ponešto parica za letke, za parole, za plaćanje advokata, za zastave, za slobodne radio stanice i za piratski Internet. Mnogi od tih studenata, koji su već odavna bili apsolvirali, čini se da su jako mnogo učili te zime u kojoj je Otpor zaratio s režimom: učili su kako izglaviti i razmraditi izvjestan grubi aparat moći i sahraniti ga, učinivši ga smješnim, zbog vlastite suštinske nemoći. I StankoLlazendić je također to učio. Premjestivši se u Budimpeštu, u susjednoj Mađarskoj, koja tada još nije tražila vize za srpske građane; i drugi njegovi prijatelji iz NATO-ovog protektorata u Bosni i Hercegovini ili iz američkog protektorata u Crnoj Gori bili su također tamo. Organizatori su to nazivali «seminarima» o «nenasilnom otporu». Dvije stvari uspio sam izvući iz Stankovog pamćenja: ime bar jednog od «docenata» na seminaru i nazive mnogih organizacija, koje su plaćale račune za ta putovanja i «studijske» boravke.
A kakve to veze ima s našim «naračastima»? Nikakve, ali neka se zna.
Revolucija u rukavicama od somota. U martu 2000 godine jedan od «docenata», koji je poučavao Stanka u hotelu Hilton u Budimpešti, bio izvjestni Robert Helvi, koji je kao pukovnik CIA-e , već bio operativac u u Rangoonu i u Burmi. Koliko je to nešto «parica», što su ih dobijali za svoje vrlo originalno profesionalno djelovanje, Stanko Lazendić nije želio kazti. Zato je govorio i opisivao vlastite naručioce. «Rjeđe su to same sudentske organizacije, a češće direktno oni, koji ih financiraju».
Demokratska velikodušnost Srbije, Ukrajine, Gruzije itd, tvrdi nam Stanko Lazendić, proističe direktno sa tekućih računa organizacija kao što je US AID, vladina organizacija Sjedinjenih Država, ili IRI, Internacionalni Republikanski Institut (tada Bushova stranka) ili od njegov rođeni brat, Demokrati (NDI), ili je to fondacija Soros ili pak fondacija Freedom House, ili su to njemačke organizacije «Friedrich Ebert» i «Konrad Adenauer» ili pak britanska «Westminster». Novac koji zaudara.
Naravno ovo je samo historija. Historija, koju će malo njih imati prilike čitati u službenim knjigama i udžbenicima povijesti, koje govore o tim davnim (ali ne predavnim) događanjima. U odnosu na talijanske incijative, koje su pokrenute s Naranđastom bojom, kao simbolom za nova i čista politička zajedništva, sve ovo treba da bude samo upozorenje izdaleka, koliko treba vjerovati izvjesnim malo previše organiziranim prijateljima. Ili prijateljima malo previše široke ruke. Stanko mi je to neprestano ponavljao – s dokumentima u ruci – kako je pobunu protiv Šavernazea u Gruziji platio Soros. Srpski otpor u eksport –formatu potom je porodio «Kmara»(Dosta!) u Tbilisiju i «Porà» (Vrijeme je!) u Kijevu. Nije se samo radilo o krasnim bojama, već i o efikasnim parolama. I, na kraju krajeva, da li je toliko daleka i strana, s obzirom na skorašnja talijanska politička iskustva, ta komplicirana i davna priča? Otkad je reklamni marketing ušao u politiku i otkad je on ustvari uslovljava? Šta danas može učiniti razbješnjeli web i koliko mogu uraditi indignirani slogani, ukoliko ne postoji autentični politički prijedlog?
(prijevod: Jasna Tkalec)
Oggetto: R: [JUGOINFO] Canadian Minister praises Ustasha supporter Stepinac
Data: 30 novembre 2012 18.25.53 GMT+01.00
questa vostra denuncia del ministro canadese Jason Kenney (senz'altro sacrosanta, presumo) mi ha molto stupito per il semplice fatto che invitiate a firmare la petizione dell'organizzazione Avaaz.
Su Avaaz e sul suo fondatore Ricken Patel allego una scheda (compilata per mio uso personale, non la si trova in rete) che dovrebbe essere di per sé illuminante.
Eventuali residui dubbi dovrebbero essere fugati dal notare che Ricken Patel figura all'89esimo posto nella graduatoria, uscita in questi giorni, del "100 eroi" Foreign Policy:
http://www.foreignpolicy.com/articles/2012/11/26/the_fp_100_global_thinkers?page=0,53#thinker89
saluti
Raffaele Simonetti
(Milano)
che mi riprometto di arricchire chiosando brevemente i soggetti più interessanti e noti in Italia.
Per adesso ho iniziato con Rick Patel di Avaaz e accennato a Mario Draghi (avevate notato che precede George Soros ma è dietro le Pussy Riot ?).
Registrant Name:Ricken Patel
La prima è un influente gruppo di azione politica on line presieduta da Eli Paliser (membro anche della seconda), politicamente vicino al partito democratico di Obama e dei Clinton (ministro ed ex presidente), e in passato finanziata (circa 5 milioni di dollari, stando a wikipedia) dal miliardario George Soros. …
In this photograph taken by AP Images for Avaaz, UN Secretary-General Ban Ki-moon, center left, accepts the 'End the War on Drugs' petition from Avaaz Executive Director Ricken Patel, center right, accompanied by Richard Branson, right, and Fernando Henrique.
Co-moderated by Dr Robin Niblett, Director, Chatham House and Ricken Patel, Executive Director, Avaaz.org
VENERDÌ 16 NOVEMBRE 2012
MERCOLEDÌ 28 NOVEMBRE 2012
Il Medio oriente è in fiamme. La Siria è in ginocchio, migliaia di profughi fuggono in Libano, in Turchia, in Giordania. Tel Aviv mobilita le forze terrestri, aeree, navali. Minaccia d’intervenire in Golan e di lanciare i suoi missili e i suoi caccia contro decine di “obiettivi strategici” in Iran. Intanto cannoneggia la striscia di Gaza e schiera carri armati e blindati alla frontiera con il Libano. Scenari di guerra che non sembrano intimorire più di tanto le forze politiche e il governo italiano. Quest’ultimo, anzi, trova pure il tempo d’inviare a Gerusalemme una delegazione d’eccezione, il premier con sei ministri, per il terzo summit intergovernativo in meno di due anni. Per rafforzare la partnership politica e militare e moltiplicare affari e scambi commerciali. Il comunicato ufficiale emesso lo scorso 25 ottobre è come sempre laconico. “In occasione del vertice Italia-Israele, al quale ha partecipato il Presidente del Consiglio, Mario Monti, il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola ha incontrato il suo omologo dello Stato di Israele, Ehud Barak. A conferma dei solidi rapporti di amicizia e di collaborazione esistenti tra i due Paesi, sono stati approfonditi i temi inerenti alla cooperazione industriale nel settore della Difesa”.
Il faccia a faccia tra i ministri della guerra è stato preceduto da una serie d’incontri tra i massimi rappresentanti delle rispettive forze armate. Il 7 e l’8 febbraio 2012, il sottocapo di Stato maggiore israeliano, generale Nimrod Sheffer, ha incontrato a Roma i responsabili dell’Aeronautica italiana per “approfondire i processi di trasformazione in atto nelle due aeronautiche, le esperienze maturate nei rispettivi teatri di operazione e le future attività addestrative”. Il successivo 14 giugno è stato il comandante delle forze aeree israeliane, generale Ido Nehushtan, a giungere in Italia in missione ufficiale.
Meeting e visite di cortesia si sono sommate a tre importanti esercitazioni aeronavali bilaterali. Le prime due si sono svolte a fine 2011 in Sardegna (nome in codice Vega) e nel deserto del Negev (Desert Dusk). Durante i war games sono stati simulati combattimenti aerei tra cacciabombardieri F-15 ed F-16 israeliani ed “Eurofighter” e “Tornado” italiani; inoltre sono stati eseguiti veri e propri lanci di missili aria-terra e di bombe a caduta libera. Dal 3 all’8 novembre 2012, nelle acque prospicienti la città di Haifa, si è tenuta invece la prima edizione dell’esercitazione Rising Star a cui hanno partecipato i palombari artificieri del Gruppo operativo subacquei del COMSUBIN (Comando Subacquei ed Incursori) di La Spezia e i Divers (specialisti sommozzatori) della Marina israeliana.
L’accordo che disciplina la partnership militare tra Italia e Israele risale a sette anni fa ed è stato ratificato dal Parlamento italiano il 17 maggio 2005. Nella parte “pubblica” del testo (esisterebbe infatti un memorandum segreto mai sottoposto alla discussione e al voto dei parlamentari) si legge in particolare che la “cooperazione” fra i due paesi riguarderà in particolare “l’industria della difesa, l’importazione, l’esportazione e il transito di materiali militari, le operazioni umanitarie, l’organizzazione delle forze armate e la gestione del personale la formazione e l’addestramento, i servizi medici militari”. Sempre per l’accordo, le attività si svilupperanno grazie “alle riunioni dei ministri della Difesa, dei Comandanti in Capo e di altri ufficiali autorizzati, lo scambio di esperienze fra gli esperti delle due parti, l’organizzazione e l’attuazione delle attività di addestramento e delle esercitazioni, le visite di navi e aeromobili militari e ad impianti, lo scambio di informazioni, pubblicazioni e hardware, la ricerca, lo sviluppo e la produzione di sistemi d’armamento”. “Italia e Israele si adopereranno al massimo per contribuire, ove richiesto, a negoziare licenze, royalties ed informazioni tecniche, scambiate con le rispettive industrie”, recita l’articolo 3 dell’accordo di mutua collaborazione. E ancora: “Le Parti faciliteranno inoltre la concessione delle licenze di esportazione necessarie per la presentazione delle offerte o proposte richieste per dare esecuzione al presente Memorandum”.
Senza troppi giri di parole, l’import e l’export di sistemi d’arma devono essere l’essenza delle consolidate relazioni tra Roma e Tel Aviv, in palese violazione della legge italiana che disciplina il commercio di tecnologie belliche e che vieta le vendite a paesi belligeranti o i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali dei diritti umani. Israele riassume in sé tutte le caratteristiche per dover essere posta al bando dal complesso militare industriale italiano: le sue forze armate sono sistematicamente impegnate su più fronti di guerra e dal 1967 occupano ancora buona parte della West Bank. Inoltre il regime d’apartheid instaurato contro la popolazione palestinese e gli stessi cittadini israeliani di origine araba è stigmatizzato dalle principali organizzazioni non governative internazionali. Non ultimo, Tel Aviv non ha mai firmato il Protocollo di Non Proliferazione Nucleare e da tempo immemorabile, anche grazie la collaborazione tecnico-scientifica di Stati Uniti ed Unione europea, a Dimona, nel deserto del Negev, si costruiscono armi nucleari (secondo gli istituti di ricerca indipendenti Israele sarebbe già in possesso di più di 200 testate).
Nonostante la riesplosione della crisi mediorientale, proprio il 2012 ha rappresentato l’anno chiave nei trasferimenti di sistemi d’arma tra i due paesi. Il 19 luglio, in particolare, il Ministero della difesa italiano e l’omologo israeliano hanno ratificato la fornitura alle forze armate israeliane di 30 velivoli da addestramento avanzato M-346 “Master” prodotti da Alenia Aermacchi. La commessa ha un valore di poco inferiore al miliardo di dollari ma prevede vantaggiose contropartite per le industrie israeliane. Elbit Systems, azienda specializzata nella produzione di tecnologie avanzate, svilupperà il nuovo software che verrà caricato sugli addestratori. Il Virtual Mission Training System (Vmts) “ingannerà i sensori degli M-346 simulando le funzioni di un moderno radar di scoperta attiva capace di gestire numerose funzioni tattiche, nonché scelte d’armamento complesse”, riporta la World Aeronautical Press Agency. “Utilizzando il software una volta in volo, il pilota in addestramento potrà esercitarsi in scenari avanzati, quali la guerra elettronica, la caccia alle installazioni radar e l’uso di sistemi d’arma all’avanguardia”. Alle future guerre le forze aeree israeliane si addestreranno cioè con il made in Italy.
In cambio dei caccia, Tel Aviv ha anche imposto che l’aeronautica militare italiana si doti di due velivoli di pronto allarme “Gulfstream 550” con relativi centri di comando, controllo e sistemi elettronici, prodotti daIsrael Aerospace Industries (IAI) ed Elta Systems (costo complessivo, 800 milioni di dollari circa). Selex Elsag, una controllata di Finmeccanica, s’incaricherà per conto delle aziende israeliane a fornire ai velivoli i “sottosistemi” di comunicazione e link tattici secondo gli standard Nato. Le forze armate italiane dovranno pure acquistare un sistema satellitare elettro-ottico ad alta risoluzione di seconda generazione “Ofeq”, anch’esso di produzione IAI ed Elbit Systems (245 milioni di dollari). Prime contractor degli israeliani sarà Telespazio, azienda controllata in parte da Finmeccanica, che assicurerà entro il 2015 la costruzione del segmento terrestre, il lancio e la messa in orbita del nuovo sistema satellitare.
Quest’anno, l’Aeronautica italiana ha pure deciso d’installare sugli elicotteri EH101 e sugli aerei da trasporto C27J “Spartan” e C130 “Hercules” un nuovo sistema di contromisure a raggi infrarossi, denominato Dircm - Directional infrared countermeasures, co-prodotto da Elettronica Spa di Roma ed Elbit Systems. Venticinque milioni e mezzo di euro la spesa, con consegne che saranno fatte entro la fine del 2013. Gli elicotteri d’attacco AW-129 “Mangusta” di AugustaWestland, in dotazione all’esercito italiano, dal prossimo anno saranno armati invece con i missili aria-terra a corto raggio “Spike” prodotti da un’altra importante azienda militare israeliana, Rafael. I missili, con una gittata tra gli 8 e i 25 km, potranno esseri equipaggiati con tre differenti tipologie di testata bellica a seconda dell’uso: anticarro, antifanteria e per la distruzione di bunker. Roma e Tel Aviv puntano infine a sviluppare congiuntamente nuovi velivoli a pilotaggio remoto UAV (i famigerati droni) e a cooperare nella produzione e nella “gestione logistica” del nuovo cacciabombardiere a capacità nucleare F-35, uno dei programmi più costosi della storia mondiale dell’aviazione da guerra.
Mentre i programmi di riarmo italo-israeliani sono condivisi e sostenuti da tutte le forze politiche presenti in Parlamentare, si sta rafforzando tra alcune forze sociali e no war la convinzione che la solidarietà al popolo palestinese non può essere disgiunta dalla mobilitazione per ottenere l’embargo militare nei confronti di Israele. Singoli cittadini, associazioni e comitati di base hanno dato vita alla Campagna BDSper “il boicottaggio, il disinvestimento e sanzioni nei confronti di Israele” fino a che esso “non porrà termine all’occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe e smantellerà il Muro; riconoscerà i diritti fondamentali dei cittadini Arabo-Palestinesi di Israele alla piena uguaglianza; rispetterà i diritti dei profughi palestinesi al ritorno nelle loro case e nelle loro proprietà come stabilito nella risoluzione 194 dell’ONU”.
Lo scorso 13 ottobre, di fronte allo stabilimento Alenia Aermacchi di Venegono-Varese, si è tenuta la manifestazione nazionale Nessun M346 a Israele per chiedere la revoca della vendita dei caccia addestratori alle forze armate israeliane, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Pax Christi, la Commissione Giustizia e Pace dei Missionari Comboniani, Attac, Arci – Servizio Civile, Assopace e una serie di soggetti che sostengono il popolo palestinese. “Quella di Varese è stata una manifestazione anche contro lo scellerato accordo del 2005 di cooperazione militare, economica e scientifica tra il nostro Paese ed Israele”, ha spiegato Elio Pagani per il Comitato promotore. “Un accordo che non è stato scalfito neppure dall’Operazione piombo fuso del dicembre 2008 - gennaio 2009, che ha visto Israele colpire con il suo potere aereo la popolazione palestinese civile inerme (1.400 uccisi, di cui circa 400 bambini). Un’azione militare brutale, senza giustificazioni, nella quale sono state usate anche armi sconosciute o già vietate dalle Convenzioni internazionali (fosforo bianco, bombe D.I.M.E., uranio impoverito) e nella quale Israele ha commesso crimini di guerra e contro l’umanità”.
Articolo pubblicato in Adista, n. 43 dell’1 dicembre 2012
NKPJ i SKOJ OBELEŽILI 29. NOVEMBAR – DAN REPUBLIKE
28. novembra u susret proslavi Dana Republike, u Beogradu, u sali Novi svet u Ustaničkoj 17, sedištu Nove komunističke partije Jugoslavije i Saveza komunističke omladine Jugoslavije održana je svečana akademija posvećena Danu Republike.
Skupu se obratilo partijsko rukovodstvo, Generalni i Izvršni sekretar, još nekoliko članova sekretarijata, a reč je dobila i jedina živa pripadnica Prve proleterske udarne brigade, inače članica naše Partije, drugarica Nada Gagović.
Drugarice i drugovi su britko govorili o civilizacijskom doprinosu rađanja socijalističke republike, herojskom podvigu onih koji su svoje živote i druge žrtve dali za nju, ali i o aktuelnosti sećanja na datum kada je ona rođena. „Jugoslavija se nije naprosto raspala, ona je u krvi rušena imperijalističkim stremljenjima na Balkanu, a uz saučesništvo domaće pete kolone, tj svih onih koji su videli vlastiti interes u procesu rasturanja Jugoslavije. Pored povampirenih četnika i ustaša, ideološke sabraće, tu petu kolonu, što je bilo još važnije, činilo je samo rukovodstvo tzv. Saveza komunista Jugoslavije, čija je vrhuška koja se klela na vernost Josipu Brozu i zaista nije skretala s puta koji im je on odredio, u celosti stala na stranu kontrarevolucionarnih promena čiji je ultimativni cilj bio rasturanje Jugoslavije i svrgavanje ostataka socijalističkog društvenog uređenja u njoj. Jugoslovensko državno i partijsko rukovodstvo odrođeno od radničkih masa i intersa proletarijata Jugoslavije je postepeno radilo sve što je neminovno išlo ka njenom ukidanju, te otud nije slučajno što su se ciljevi imperijalizma i rezultati politike Saveza komunista podudarili u trenutku kada je konačno izvedena kontrarevolucija a Jugoslavija rasturena pre 20 godina. Taj proces, proces rasturanja Jugoslavije je unekoliko aktuelan i danas. Imperijalisti još uvek nisu pouzdano utvrdili granice novih država koje su na teritoriji Jugoslavije nastale, što suštinski oličava čin političkih pritisaka i ucena u njihovom interesu na tlu Balkana. Ti su pritisci trenutno najaktuelniji u vidu haških nepravdi. Za Haški sud, polugu imperijalizma, Jugoslavija nikako nije neaktuelna, on se njom i te kako zanima, a svakako ne da bi narodi Jugoslavije živeli u miru, slozi, solidarnosti i jedinstvu, već sasvim suprotno. Trenutno su aktuelni i pritisci koje domaće buržoaske vlasti sprovode rehabilitacijama onih koji su tokom revolucije za vreme Drugog svetskog rata činili sve kako do te revolucije, tj rađanja socijalističke republike ne bi došlo. To bi trebalo poručiti svima koji smatraju da je socijalistička Jugoslavija u punom smislu prošlost ili samo banalna stvarnost jugonostalgičara. Takođe treba konstatovati da utisku koji vodi ka banalizaciji aktuelnosti obeležavanja dana formiranja socijalističke republike, odbrane njenih tekovina u doslednom antiimperijalističkom borbenom duhu, održive kritike (a takva je samo marksitičko-lenjinistička) procesa koji otpočinju njenim rasturanjem i borbe protiv istih, doprinose i oni koji svojim nedijalektičnim patetičnim žalopojkama za zemljom koje više nema obeležavaju Dan Republike privatno, kod kuće uz pečenje i rakiju, ljudi u zrelom dobu maskirani u titove pionire ispred spomenika i muzeja, u etnoparku u Zagorju ili u virtuelnom prostoru društvenih mreža“ – poručeno je između ostalog na akademiji.
Dužni smo da se sećamo Dana Republike, ali smo u još većoj obavezi da se danas borimo za novu socijalističku revoluciju koja predstavlja zakonomernu etapu u civilizacijskom napredovanju naroda bivše Jugoslavije.
Nemamo vremena za setne emocije, borba se nastavlja, nema šta da čekaš!
Sekretarijat SKOJ-a,
Beograd, 29. novembar 2012.god.
ČESTITKA KOMUNISTA SRBIJE POVODOM 29. NOVEMBRA DANA REPUBLIKE
Dragi drugovi,
povodom jednog od najvećih praznika u istoriji naših naroda i narodnosti čestitamo Vam 29. novembar – Dan republike koji simbolizuje sve naše pobede u slavnoj Narodno-oslobodilačkoj borbi, socijalističkoj revoluciji i četrdesetpetogodišnjoj socijalističkoj izgradnji.
Na žalost, novonastale marionetske države ukinule su obeležavanje ovog velikog praznika naših naroda i narodnosti, ali se time ne mogu izbrisati iz sećanja istorijske činjenice vezane za 29. novembar. Danas živimo u vremenu u kome su gotovo sve vrednosti perioda socijalizma poništene i marginalizovane. Naša ružna stvarnost u kojoj živimo bi morala biti podstrek i obaveza, pre svega komunističkih i radničkih partija sa prostora Jugoslavije, da se što je moguće snažnije izbore za reafirmaciju pozitivnih poruka koje simbolizuje ovaj dan.
Još jednom čestitamo ovaj veliki praznik svim bratskim komunističkim i radničkim partijama sa željom da naša saradnja i borba protiv kapitalizma bude što uspešnija i delotvornija.
U ime Komunista Srbije,
Svetozar Markanović
L’iniziativa è stata lanciata dal sindacato del settore pubblico Ksjs, dalla confederazione indipendente Zsss e dall’associazione Knss, insieme all’organizzazione studentesca e all’associazione delle società dei pensionati. Negli ultimi mesi le misure anti-crisi del governo di Janez Jansa sono state oggetto di forti contestazioni, soprattutto quelle che prevedono tagli al settore pubblico. Uno dei provvedimenti più contestati dai sindacati è quello relativo al taglio del 5 per cento degli stipendi del settore pubblico.
28 novembre 2012 - La rivolta di piazza si espande in Slovenia a macchia di leopardo. Dopo gli scontri di Maribor a scendere nelle strade è stata la capitale Lubiana. Per proteggere il palazzo del Parlamento e quello del governo la polizia ha schierato un cordone di poliziotti in assetto anti-sommossa. Il motto dei manifestanti è «Gotof je» (è finito) che riecheggia quello scandito nelle strade di Belgrado al momento della cattura di Milosevic e la sua consegna al Tribunale dell’Aja. Altre manifestazioni di piazza sono attese ancora a Lubiana, venerdì, e a Postumia, Capodistria, Murska Sobota, Novo Mesto e Kranj.
(fonte “Il Piccolo”)
E' infatti di parecchi feriti e di una trentina di manifestanti arrestati il bilancio degli scontri avvenuti ieri sera a Lubiana, la capitale della Slovenia, durante una protesta contro la politica di sacrifici e tagli del governo di destra di Janez Jansa e contro la corruzione della ''casta politica''.
Alle proteste di ieri, che non hanno avuto una convocazione formale ma sono nate dalla mobilitazioni di alcune reti e organizzazioni non partitiche, hanno partecipato almeno 10 mila persone nella capitale e altre decine di migliaia in quasi tutte le principali città del piccolo paese. Rispetto alle proteste indette dai sindacati e dalle opposizioni negli ultimi mesi, inoltre, ieri si è assistito a una radicalizzazione della protesta, segno della maggiore determinazione di alcuni dei promotori della manifestazione e del rapido deteriorarsi delle condizioni di vita in Slovenia.
Contro un gruppo di manifestanti che nella capitale ha tentato di irrompere in Parlamento, la polizia ha usato i manganelli, i gas lacrimogeni e addirittura i cannoni ad acqua, arrestando una trentina di giovani e di lavoratori.
Alcuni dimostranti hanno risposto alle cariche lanciato contro la polizia petardi, sassi e bottiglia, e secondo alcuni media all’interno del corteo avrebbero fatto la propria comparsa giovani vestiti completamente di nero e incappucciati.
Le proteste erano iniziate lunedì scorso a Maribor, la seconda città della Slovenia, dove varie migliaia di persone avevano chiesto le dimissioni del sindaco e della giunta comunale, accusati di corruzione e di malgoverno. Anche in quel caso vi erano stati scontri con la polizia con alcuni feriti e arresti, e dopo il duro intervento della Polizia contro i manifestanti di Maribor, collettivi e gruppi sociali hanno invitato a scendere in piazza anche nelle altre città.
È in questo clima esplosivo, inusuale in uno dei paesi ritenuti più tranquilli dell’Europa centro-orientale, che domani in Slovenia si tiene il ballottaggio per le presidenziali fra il presidente uscente di centrosinistra Danilo Turk e lo sfidante, l'ex premier socialdemocratico Borut Pahor, dato per favorito dai sondaggi.
Chi vincerà dovrà gestire un paese in crisi verticale, con l'11,5% di disoccupazione, un'economia troppo dipendente dalle esportazioni e quindi a picco a causa della crisi, e con un governo che cerca di far cassa imponendo tagli verticali a cultura, sanità, istruzione, lavoro pensioni.
Pahor ha conquistato il 67,44% dei consensi, contro il 32,56% del suo principale avversario, il Presidente uscente Danilo Turk, liberale ed esponente di centrosinistra critico con le misure annunciate dal vincitore.
Pahor, 49 anni, ha ottenuto non solo i voti del suo partito, ma anche quelli della 'Lista dei cittadini', espressione della coalizione di governo di centro-destra.
L'11 novembre scorso, l'ex premier si era imposto al primo turno, con il 39,9% dei voti, smentendo tutti i sondaggi. "Questa vittoria è solo l'inizio di una nuova speranza, di un nuovo tempo - ha detto Pahor quando già gli exit poll lo vedevano in vantaggio - se vinco, questo risultato sarà un messaggio forte per tutti i politici sloveni sul fatto che servono collaborazione e unità per risolvere le difficoltà economiche".
Ma l'affluenza alle urne è stata appena del 41,95% ieri (il 48,25% al primo turno), la più bassa da quando il piccolo paese si è reso indipendente dalla Iugoslavia nel 1991, scatenando l’implosione dello Stato federale con il sostegno di Austria, Germania e Vaticano.
I sogni di gloria degli sloveni, entrati nell’Ue nel 2004 e nell’Eurozona nel 2007, si sono presto volatilizzati. Il paese è sull’orlo della bancarotta, con una disoccupazione quasi al 12% e la possibilità di un commissariamento da parte della troika a base di tagli e licenziamenti sulla scia di quanto già accaduto in Grecia, Spagna, Portogallo o Irlanda.
Pahor ha già affermato che collaborerà con il governo di centrodestra del primo ministro Janez Jansa, che, tra l'altro, vuole alzare l'età per andare in pensione, rendere più flessibile il mercato del lavoro facilitando i licenziamenti e precarizzando i contratti, tagliare gli stipendi dei lavoratori pubblici. Il tutto con la scusa di fare fronte ad un deficit di bilancio del 4,2%.
Nei giorni scorsi numerose manifestazioni popolari hanno scosso la relativa tranquillità che regna normalmente nel piccolo paese, e scontri tra manifestanti e polizia si sono avuti a Maribor e poi nella capitale Lubiana, dove migliaia di giovani e lavoratori hanno chiesto le dimissioni di Jansa e la fine delle politiche dei sacrifici a senso unico.
4 dicembre 2012 - Nuovi scontri, arresti e feriti in Slovenia alle manifestazioni di protesta contro "la corruzione e la casta politica", in particolare a Maribor, seconda città del Paese dove ieri sera hanno protestato tra le 8 e le 10 mila persone, a seconda delle fonti.
Le manifestazioni di ieri sono state le più grandi finora, dal 26 novembre scorso quando è esplosa la rabbia degli “indignati in Slovenia”, organizzati tramite le reti sociali in internet, proteste dirette in particolare contro il sindaco di Maribor, Franc Kangler, preso di mira perché travolto da una serie di scandali di corruzione e clientelismo. Stamane la polizia ha riferito che negli scontri tra i gruppi più violenti e le forze dell’ordine sono rimasti feriti nove poliziotti. In tutto sono state arrestate 120 persone ed è stato fortemente danneggiato il palazzo del municipio, nel quale è stata lanciato un ordigno infiammabile. Danni hanno subito anche altre strutture pubbliche della città.
Manifestazioni si sono tenute anche a Lubiana, Celje ed in molte altre città, ma senza incidenti. Sul gruppo Facebook che raduna ormai circa 50 mila persone favorevoli alle proteste è stato annunciato che si continuerà a scendere in piazza ad oltranza, fino a un cambiamento radicale della politica economica del Paese. L’elezione domenica scorsa di Borut Pahor a presidente della Slovenia, secondo i manifestanti, non cambierà nulla dato che lui “rappresenta una vecchia faccia in una nuova poltrona”. Da parte di alcuni politici forti critiche sono state mosse ai mezzi di comunicazione, specie alla tv pubblica, che sarebbe complice nell’alimentare lo scontento e le proteste con continue dirette delle manifestazioni. La stampa oggi cita anche alcuni analisti secondo i quali l’ondata di proteste potrebbe avere un effetto negativo sul fronte internazionale, dato che le manifestazioni potrebbero destabilizzare il governo conservatore di Janez Jansa e costringerlo ad alleggerire la politica di austerità, ma al contempo alimentare sfiducia
(fonte AnsaMed )
Slovenia threatened with national bankruptcy
By Markus Salzmann
10 September 2012
Slovenia is likely to be the next candidate for the European bailout scheme. Although the country’s total debt is relatively low at 47 percent of GDP, the crisis gripping Slovenia’s three largest banks threatens to drag the country into the abyss.
In this regard, it is already being talked about as “the Spain of Central Europe.” As in Spain, cheap loans in Slovenia unleashed a huge real estate boom that exploded in 2008 with the global financial crisis. All the country’s major construction companies went bankrupt; the banks were left sitting on billions of euros in bad loans.
Slovenian economist Joze Damjan estimates the total amount of defaulting loans at between €6 billion and €8 billion. Without government assistance the banks cannot survive, but if the state, which owns about 50 percent of the banks, has to pay out for all their bad loans, the budget deficit would climb to 28 percent of GDP.
Slovenian Prime Minister Janez Jansa said at the weekend that Slovenia could be bankrupt in October. If a proposed bond issue for October fails, Slovenia is threatened with insolvency, according to the head of the centre-right coalition in Ljubljana.
Slovenia has been an EU member since 2004 and a member of the euro zone since 2007. The former Yugoslav republic has long been regarded as a paragon among the Eastern European accession countries, but the global financial crisis has brought the rotten foundations of Slovenian capitalism to light. In 2009, GDP fell by more than 8 percent, and last year the country was again in recession.
In the second quarter, economic output declined year-on-year by 3.2 percent. Ratings agency Moody’s downgraded Slovenia’s credit rating to just above junk status. Interest rates on 10-year government bonds are near the critical 7 percent mark.
With 2 million people and a GDP of €35 billion, Slovenia has one of the smallest economies in the EU. According to analysts, a “bailout” would currently cost about €5 billion. The major concern of the international financial elite, however, is the effect on other European countries.
“In the worst-case scenario, Austria is clearly vulnerable because its banking system is most exposed in Slovenia,” William Jackson of the London research firm Capital Economics told the news agency APA.
Jackson regards the further development of Slovenia negatively. The country faces several years of fiscal consolidation, which would lead to a vicious cycle of weak economic growth, lower government revenues and the need for additional consolidation, he said.
Nevertheless, representatives of international financial institutions and the EU are demanding Jansa’s coalition implement radical austerity measures.
Suma Chakrabarti, head of the European Bank, said in an interview with news agency STA that an important step in solving the economic problems for the euro zone member was the slimming down of the state and a much greater role for the private sector. Chakrabarti was referring to the relatively high proportion of state holdings in banks and companies.
OECD Secretary-General Angel Gurria tied aid directly to brutal cuts: “Why do we not talk about a reform of the pension system, labour market, banking sector, a debt ceiling, the privatization of state companies, before we talk about whether aid packages are needed or not?”
Economic analyst Andraz Grahek also pleaded for radical social cutbacks as a “rescue measure.”
In this context, the call for political unity between the right-wing government and the opposition Social Democrats is getting louder. For example, Slovenian Economics Minister Radovan Zerjav appealed: “I have called on the Slovenian political elite to seek a consensus on key issues. Above all, it’s about saving the banks. After all, without that there is no recovery of the Slovenian economy.”
The government needs a two-thirds majority in parliament in order to pass the reform plans, which is only possible with the votes of the opposition.
In recent years, there have been fierce clashes between the Social Democrats, who come in part from the former communist state party, and the right-wing bourgeois parties. There is absolutely no question that the Social Democrats, like the government, will advocate a drastic austerity programme. In December 2011, the Social Democratic government of Prime Minister Borut Paho collapsed.
Jansa and the right wing had prevented the Social Democrats from implementing a pension reform through a referendum. Sections of the current opposition in turn oppose the austerity plans of Jansa, in whose five-party coalition there are considerable disputes. Jansa postponed a vote of confidence in August because he had to reckon with a defeat.
The Jansa government has already prepared a “crisis budget for 2013 and 2014,” providing for the inclusion of a debt ceiling in the constitution and fundamental reforms of the labour market and pension system. The government is also considering the creation of a “bad bank” to rehabilitate the country’s ailing financial institutions at the expense of the state budget. In addition, companies with high levels of public ownership—such as Adria Airways, insurer Triglav, oil company Petrol and the state-owned telecoms corporation—are to be privatized.
In May this year, the government had already approved an austerity package: public spending is to be reduced in 2012 by €800 million and by €750 million in 2013. At the same time, the Slovenian parliament agreed to a reduction in corporation tax, lowering the rate from 20 percent to 18 percent. It will fall by another percentage point every year from now on, reaching 15 percent by 2015.
Protest against austerity measures in Slovenia
By Markus Salzmann
27 November 2012
On November 17, around 30,000 people protested in the Slovenian capital Ljubljana against the austerity policies of the centre-right government of Prime Minister Janez Jansa. Workers, civil servants, pensioners, students and artists demanded an end to the draconian austerity measures introduced by successive governments in recent months and years.
Participants gathered with banners at the city centre and demanded: "Social Security, new jobs and against state repression." Members of the Occupy movement chanted: "We will not pay for your crisis". A large banner with the text "Enough!" was unfurled at the historic castle which stands on a hill overlooking the city,
The right-wing government led by Prime Minister Jansa is planning further cuts in pensions, social benefits and salaries of public employees in order to reduce the federal deficit from its current level of 4.2 percent to three percent. In addition, the government plans to extend the retirement age and significantly restrict employment protection.
Since 2008 the Jansa government and the preceding social democratic government have introduced drastic cuts lowering living standards dramatically. In July, the salaries of public employees were cut by three percent along with the slashing of other allowances.
A few years ago politicians and economists singled out Slovenia as a role model for the European Union. Now it is regarded as the most likely new candidate for a European bailout. As in other European countries the economic crisis has been used to organize a major redistribution of social wealth from the working layers of the population to a wealthy elite.
Slovenian banks, most of them state-owned, are sitting on a mountain of bad loans totalling 6.4 billion euros. According to the Central Bank in Ljubljana, 18 percent of corporate loans were at risk of default at the end of 2011. The collapse of the two country's largest banks was only prevented by multiple injections of public finance.
Slovenia is now mired in recession. Its economy contracted in the second quarter of this year by 3.2 percent. According to the International Monetary Fund (IMF) the government deficit will increase to 52 percent of GDP by the end of the year. In 2008, this rate stood at 22 percent. The rating agency Moody's recently downgraded the country and interest payments on the country's ten-year government bonds are approaching the critical 7 percent mark.
The consequences for the population are devastating. Unemployment has doubled since the 2008 economic crisis and now stands at 12 percent. Youth unemployment stands at 17.7 percent. Despite the fact that the prices for many basic commodities have risen considerably average salaries fell in August by 2.4 percent and in September by 3.8 percent compared to one year earlier.
In October the Slovenian parliament voted to establish a state holding company to promote the privatization of the country's remaining public enterprises. It is assumed that the planned privatisations will lead to thousands of additional redundancies. The Jansa government also plans to establish a bad bank, where the country's troubled banks can deposit their bad loans at public expense.
Plans have been announced to hold referenda opposing the setting up of both the state holding company and the bad bank. In mid-November, parliamentary speaker Gregor Virant gave the green light for a campaign to collect signatures for a referendum against the establishment of a bad bank. Starting on November 19, 40,000 signatures must be collected within 35 days to ensure that the referendum takes place. It could then take place in January next year.
The right-wing government coalition wants to prevent such referenda in future. The coalition currently holds 48 of the 90 parliamentary seats and hopes to achieve in future elections the two-thirds majority necessary to pass a constitutional amendment. All-party talks towards obtaining such majority have been taken place for several months.
The current presidential elections are also dominated by the crisis. In the first ballot the former prime minister and social democrat Borut Pahor won 40 percent of the vote and leads non-party incumbent Danilo Türk who received 36 percent. Milan Zver, who is backed by the Jansa government, received just 24 percent.
Pahor and Türk, who will both take part in the second ballot in December, are both advocates of radical austerity measures. Pahor was forced to resign as prime minister last year because his government collapsed following its inability to implement its desired reform program. Since then Pahor is regarded as politically damaged goods and has little support even in his own party.
The situation is somewhat different for Türk, who can rely on support from Zoran Jankovic, the mayor of Ljubljana and leader of the party "Positive Slovenia". Jankovic's party won the most votes in its first showing in the parliamentary elections held last year but could not form a government. Victory for Türk in the presidential election would in turn be provide a political boost to Jankovic who is waiting in the wings to replace the Jansa government.
Against a background of popular protests, Türk is advocating collaboration with the unions in order to enforce further cuts with the unions and has called for pension and labour market reforms to be introduced "in harmony" with the unions.
The trade union organizations are backing Türk in the presidential election and also fully support the planned austerity measures. The protest on Saturday was prepared by three trade unions together with pensioner and student organizations in order to allow demonstrators to let off steam and thereby prevent independent protests which could genuinely challenge the government.
In the course of the last twenty years the Slovenian trade unions have been faithful servants to the ruling elite. In recent years they have supported the savings programs introduced by large companies such as Telekom Slovenije, the household appliance manufacturer Gorenje and the Petrol energy company—all at the expense of the workforce.
This is why more and more workers are turning their backs on the unions. The largest trade union confederation ZSSS, which emerged in 1990 from the former official communist trade union originally had a total of 400,000 members. Today there are only a little over 200,000 left in the organisation.
http://www.viedellest.eu/news/2012/05/02/turismo/turismo.htm
Chiesa e Stato ai ferri corti per l'isolotto del Lago di Bled
In Slovenia, Stato e Chiesa sono ai ferri corti per la proprietà degli immobili dell'isolotto sul Lago di Bled. Tutta colpa dell'ex governo di centro-sinistra - leggiamo su Il Piccolo - che nel periodo del suo mandato si è rivolto al Tribunale di Kranj per fare invalidare un precedente accordo sottoscritto nel 2008 dall'allora ministro della Cultura Vasko Simoniti (di centro-destra), in base al quale lo Stato affidava l'isolotto del lago di Bled alla Chiesa e trasferiva la proprietà degli immobili alla parrocchia di Bled, ossia all'arcivescovado di Lubiana. Nel frattempo però l'intraprendente parroco, Janez Ferkolj, ha dato il via alla ristrutturazione del negozio di souvenir e della trattoria presenti sull'isolotto. I lavori sono iniziati a fine gennaio e i nuovi locali sono stati inaugurati all'inizio di aprile. Un investimento da 300mila euro, ottenuti in parte grazie al biglietto di "ingresso" di 3 euro che ciascun turista deve acquistare per accedere all'isolotto, in parte con un mutuo bancario. La scorsa settimana era attesa la decisione togata, ma i giudici hanno deciso di prendersi altro tempo chiedendo alle parti di fornire ulteriore documentazione scritta in difesa delle reciproche posizioni in merito alla vicenda. Scaduti i termini, la corte avrà un mese per emettere la sentenza.
Slovenia: la chiesa tra anime e investimenti in borsa
L'addio
Anime ed affari
Programmi a luci rosse
Santa sede non informata
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Nikolic: il tribunale deve liberare tutti i serbi
29. новембар 2012. године
Ослобађање команданта албанске терористичке „ОВК“ Рамуша Харадинаја за злочине против Срба на Косову и Метохији, након ослобађања хрватских команданата „Олује“ Готовине и Маркача за етничко чишћење 200.000 и убиство 2.000 Срба, су најновији показатељи вишедеценијске антисрпске стратегије водећих чланица НАТО и ЕУ. Те земље користе све полуге да смањују и слабе Себију као политичког и економског фактора на Балкану истовремено награђујући Хрватску, Бошњаке и Албанце. Зато је основно питање да ли ће Србија прихватити стратегијски одговор на такву дугорочну политику, или ће наставити поводљиву политику самопонижавања, самообмањивања и бесконачних уступака на рачун животних националних и државних интереса.
Von Werner Pirker - junge Welt, 31.11.2012
‘Yugoslav Tribunal’ in hands of organized crime
The following is from an editorial by Werner Pirker in the German daily newspaper, Junge Welt, Nov. 30, translated by John Catalinotto. Pirker writes about the NATO-created Tribunal on the former Yugoslavia, which persecuted President Slobodan Milosevic and other Serb leaders following its creation.
The United Nations Security Council’s unlawfully appointed tribunal for war crimes in the former Yugoslavia — only the U.N. General Assembly should have called it into being — is brazenly flaunting its criminal character. Two weeks ago the Croatian general, Ante Gotovina, who was convicted of war crimes in 2005 and sentenced to 18 years in prison, was acquitted in a second trial. Now the former KLA (“Kosovo Liberation Army”) commander and former Kosovo prime minister, Ramush Haradinaj, whose first trial in 2008 had already ended in an acquittal, left the Hague, Netherlands, as a free man.
Even The Hague judges could not dispute that the KLA committed crimes — not only against Serbs and other non-Albanian Kosovars, but also against pro-Yugoslav Albanians who opposed the insurgents’ ethnocentric terror regime.
The court’s opinion, however, was that there was no evidence proving the guilt of Haradinaj and two of his co-defendants. Had the defendants been Serbs, then the Tribunal would have brought the charges under the guarantee of applying the principle — that it had itself invented — that there was a “joint criminal enterprise” (JCE).
In the case of Croatian massacre generals and that of the KLA commander of Western Kosovo known as “the Butcher,” no assumption was made that the defendant was per se a member of a collective group of murderers. According to the logic of The Hague Tribunal, since they are not Serbs, they therefore could not have been involved in a plan that ranged from ethnic cleansing to genocide.
Gotovina was the supreme commander of “Operation Lightning,” which was involved with massive ethnic cleansing to allow for the integration of the hitherto predominantly Serb-inhabited Krajina province into the Croatian federation.
Haradinaj was one of the most brutal enforcers of the full Albanianisation of the southern Serbian province. The alleged ethnic cleansing of Kosovar Albanians by the Serbs and the threat of genocide were pretexts for the bombing campaign against Yugoslavia in 1999. In reality, the Kosovo residents were fleeing the NATO bombing. After the destruction was completed, the ethnic cleansing began — with the goal of a pure Albanian Kosovo.
The judges of The Hague not only are aware of the crimes committed by the KLA, they also know why they lack of evidence about it. And they said that openly in the justification of their findings. Since everyone who made statements in his first trial that incriminated Haradinaj attracted the murderous arm of the KLA, there were no longer witnesses who would dare to speak out against the organized gang of criminals who were now wielding state power. The Hague Tribunal has apparently subordinated itself to the Mafia’s conception of justice.
Una risoluzione del Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia - NKPJ - contro il "Tribunale ad-hoc" dell'Aia è stata approvata al 14esimo Incontro internazionale dei partiti comunisti, tenutosi a Beirut a fine novembre.
Il giornale serbo Danas ha scritto, tra le altre cose, che "il risultato raggiunto all'incontro (l'approvazione della risoluzione) ottiene particolare peso se si considera che la risoluzione è stata approvata anche dal Partito Socialista dei Lavoratori Croato (SRP): 'Loro hanno accettato la risoluzione e hanno adottato lo stesso atteggiamento del nostro
partito. Anche se il SRP non ha influenza parlamentare, esso esprime le posizioni del proletariato croato', ha detto il segretario esecutivo del NKPJ e delegato dello stesso all'incontro di Beirut, Aleksandar Banjanac"
U Bejrutu usvojena rezolucija na predlog NKPJ
Komunisti protiv Haškog tribunala
AUTOR: MARIJA KOJČIĆ
Beograd - Tribunal u Hagu formiran je kako bi se prikrile činjenice koje vode do glavnih nalogodavaca krvavog rasturanja Jugoslavije, a čiji krvavi imperijalistički trag vodi i do najnovijih ratnih operacija u Gazi, u Siriji, širom Bliskog istoka, do Libije, Iraka, Avganistana - ovako glasi deo teksta rezolucije „Ujedinjeni protiv imperijalističke poluge međunarodnog kriminalnog tribunala za bivšu Jugoslaviju u Hagu“ usvojene na 14. međunarodnom sastanku komunističkih i radničkih partija, koji je ove godine održan u Bejrutu od 22. do 25. novembra.
Rezoluciju je predložila Nova komunistička partija Jugoslavije (NKPJ), jedna od učesnica skupa čiji je domaćin bila Libanska komunistička partija.
Aleksandar Banjanac, izvršni sekretar NKPJ, koji je predstavljao partiju u Bejrutu, izjavio je za Danas da je usvajanje rezolucije izraz solidarnosti s Balkanom, gde je, kako naglašava, rušilački karakter imperijalizma još prisutan, kao i snaženja stava protiv „NATO države“, nezavisnosti Kosova i raspada Jugoslavije. „Rezoluciju su podržale kako male i neuticajne partije u svojim zemljama, tako i one koje vladaju ili su značajne u svojim društvima, na drugom ili trećem mestu po snazi u političkim arenama svojih država. Tako su svoj potpis za usvajanje rezolucije, između ostalih, dale KP Francuske, Španije i Indije“, kazao je Banjanac.
Kako je naglasio, rezultat postignut na sastanku u Bejrutu posebno dobija na težini ako se zna da je rezoluciju podržala i Socijalistička radnička partija iz Hrvatske (SRP). „Oni su prihvatili rezoluciju i zauzeli isti stav prema Tribunalu kao naša partija. Iako SRP nema parlamentarnog uticaja, ona izražava stav hrvatskog proleterijata“, rekao je izvršni sekretar NKPJ.
Međunarodni sastanak komunističkih i radničkih partija održava se krajem svake godine. Ovaj u Bejrutu, čija je tema bila „Osnažimo borbu protiv eskalacije imperijalističke agresivnosti, za zadovoljenje socio-ekonomsko-demokratskih prava i aspiracija ljudi, za socijalizam“, održan je zbog napete situacije na Bliskom istoku, budući da skup uvek demonstrira solidarnost među komunistima, ali i sa narodom u čijoj državi se sastanak održava.
Podrška arapskoj radničkoj klasi
Rezoluciju podnela NKPJ
Tribunal u Hagu predstavlja političku polugu imperijalizma koja je instrument permanentih ucena narodima bivše Jugoslavije. Tribunal u Hagu formiran je kako bi se prikrile činjenice koje vode do glavnih nalogodavaca krvavog rasturanja Jugoslavije, a čiji krvavi imperijalistički trag vodi i do najnovijih ratnih operacija u Gazi, u Siriji, širom Bliskog istoka, do Libije, Iraka, Afganistana... Radom tribunala u Hagu ostavruje se imperijalistički cilj potpune dominacije regionom, razjedinjenja naroda s prostora Jugoslavije, raspirivanje šovinizma, mržnje i nacionalizma koji su oduvek bili saveznici imperijalista, svaljivanje sve krivice gotovo isključivo na Srbe i time zatvoranje jedne totalne istorijske osude u kojoj se ne može naći ni najsitniji trag odgovornosti imerijalističkih faktora za čiju direktnu odgvoronost i umešanost u ratna zbivanja ima na hiljade nepobitnih dokaza.
Presude suda u Hagu ne izražavaju nikakvu istorijsku objektivnost, ne doprinose pomirenju naroda Jugoslavije te otud odbacujemo sve presude koje je donela ova institucija.
Dole sud nepravde, dole poluga imperijalizma, za trajni mir, napredak i solidarnsot među narodima bivše Jugoslavije i Balkana nemogućim bez socijalizma!
Risoluzione presentata dal NKPJ
Il Tribunale dell'Aia rappresenta uno strumento politico dell'imperialismo e di permanente ricatto ai popoli dell'ex Jugoslavia. Il Tribunale dell'Aia è stato costituito per coprire i principali responsabili della sanguinosa spaccatura della Jugoslavia, dei quali le sanguinose tracce imperialiste portano anche alle più recenti operazioni militari a Gaza, in Siria, lungo tutto il Medio Oriente, fino in Libia, Iraq, Afghanistan... Mediante il lavoro del tribunale dell'Aia si realizza l'obiettivo imperialista del dominio totale nella regione, della dissoluzione dei popoli del territorio jugoslavo, dell'incitamento al sciovinismo, all'odio e al nazionalismo (da sempre alleati degli imperialisti), l'addossamento di tutte le colpe quasi esclusivamente ai serbi e con ciò l'epilogo di una condanna esclusivamente storica nella quale non si può trovare nemmeno la più minuscola traccia di responsabilità imperialista per la quale la diretta responsabilità e coinvolgimento nelle vicende di guerra ci sono migliaia di inconfutabili prove.
Le sentenze del tribunale dell'Aia non esprimono alcuna obiettività storica, non contribuiscono alla pacificazione dei popoli della Jugoslavia. Respingiamo dunque tutte le sentenze emanate da questa instituzione.
Abbasso il tribunale dell'ingiustizia, abbasso lo strumento dell'imperialismo, per la pace permanente, per il progresso e la solidarietà tra i popoli della ex Jugoslavia e dei Balcani, possibili solo con il socialismo!
The Hague Tribunal represents the political lever of imperialism, which is the instrument of permanent blackmailing of people of ex-Yugoslavia. The Hague Tribunal was formed to hide the facts that lead to the key instructing party for bloody dispersal of Yugoslavia, which bloody imperialistic trace goes to the recent war operations in Gaza, Syria, across the Middle East, to the Libya, Iraq, Afghanistan... The existence of the Hague Tribunal enables the accomplishment of imperialistic goals of total dominance over the region, dividing the peoples and nations of the territory of Yugoslavia, continue the chauvinism, hatred and nationalism which has always been an ally of imperialism, to place all the blame on Serbs and in that way to close one complete historical convinction in which is impossible to find even the thinnest trace of responsibility of imperialistic factors for which direct involvment in war events exist the thousands irrefutable evidences.
Verdicts of the Hague Tribunal don’t express any historical objectivity, don’t contribute to the conciliation of people of Yugoslavia, and that is why we reject all the verdict brought by this institution.
Down the court of injustice, down the tool of imperialism, for the lasting peace, for progress and solidarity among peoples of ex-Yugoslavia and Balkans which are all impossible without socialism!
http://www.klix.ba/vijesti/bih/u-jajcu-centralno-obiljezavanje-godisnjice-drugog-zasjedanja-avnoj-a/121124101
http://www.radiosarajevo.ba/novost/95494/
Video
http://www.youtube.com/watch?v=4lAVvxm5ZLw
http://www.youtube.com/watch?v=XJaudFV9QuA
http://www.youtube.com/watch?v=jP2Jk75CJRc
Foto in FB
http://www.facebook.com/media/set/?set=a.10151325191903834.523917.36436743833&type=1
http://www.nasa-jugoslavija.org
VREME 1143, 29. Novembre 2012. / CULTURA
Ancora una volta sulla Jugoslavia
La scintilla nell'occhio
Nel museo della Storia jugoslava il primo dicembre, giorno del compleanno della prima Jugoslavia, si è aperta l'esposizione «La Jugoslavia dall'inizio alla fine». In quella settimana cadeva pure il 29 Novembre, Giornata della Repubblica, il compleanno e la festa della seconda Jugoslavia. Ai nostri tempi si tenta di raccontare la Jugoslavia spogliata da ogni contenuto politico. Ma nella politica sta la chiave, la politica detiene una dimensione cruciale nell'idea jugoslava e nel progetto jugoslavo. La Jugoslavia non fu fatta a causa della sua cinematografia, né a causa della sua musica, né a causa del suo calcio: essa fu fatta per ragioni politiche. Diventare soggetto (politico), essere liberi, essere un fattore (politico), non essere una colonia, non essere ridotti a pura risorsa, non essere occupati: per queste ragioni si formò la Jugoslavia. Tutto il resto è venuto dopo.
Poche sono nella lingua le analogie tanto stupide quanto quella fra lo Stato e il matrimonio. Eppure qua, dalle nostre parti, questa analogia è diventata molto frequente, e quindi spesso si sente dire che la Cecoslovacchia ha avuto un divorzio pacifico e civile, mentre la Jugoslavia si è disgregata come si disgregano certi matrimoni poco tranquilli e poco civili, quando marito e moglie rompono posate e piatti, e anzi tirano fuori i coltelli. Allora nella forma giuridica si dice che marito e moglie si dividono a causa di «differenze inconciliabili». E davvero, in tali situazioni, «gli sposi» fino a poco tempo prima, generalmente mostrano pareri assolutamente discordanti a proposito di ogni cosa, a parte una unica proverbiale eccezione: non sanno in nessun modo, caro mio, perché in quella occasione avessero deciso di sposarsi...
A questo punto questa stupida analogia potrebbe far comodo; mentre nelle opinioni pubbliche dei vari statarelli postjugoslavi e nella loro provvisorietà esistono diverse, anche contrapposte, narrazioni dominanti – per usare questo termine che va di moda - che cercano di spiegare perché ci siamo divisi, le teorie dominanti sul perché ci eravamo messi insieme sono assai più conciliabili.
Errore e profitto
Nella Serbia è adesso molto popolare la tesi che considera la Jugoslavia come un tragico errore del popolo serbo. Questa, ad esempio, è la vera ossessione delle opere mature dello scrittore Dobrica Ćosić, e da lui questa visione è stata (ri)presa da una turba numerosa di (pseudo)storici e giornalisti. Questa idea ha sommerso la vita pubblica ed è diventata riconoscibile anche in luoghi dove non è coscientemente radicata in forma di concetto, ma viene scimmiottata con efficacia, visto che rispecchia lo spirito dei tempi. Essa è presente come retroscena politico nel film Montevideo, Bog te video (Montevideo, che ti veda Iddio). Dell’idea jugoslava come storia di un fatale errore si parla in modo esplicito nel libro “Il cerchio culturale serbo 1900-1918” di Petar Pijanović, nel quale l’idea jugoslava di Cvijić e di Sekulić è descritta come un utopismo nocivo. Era sbagliato verso la fine e dopo la Prima guerra mondiale costruire la Jugoslavia, afferma questa tesi, riassunta in modo più breve possibile. Bisognava costruire uno Stato serbo come Stato nazionale, su di un territorio più piccolo della Jugoslavia, ma quanto più grande possibile. Quello che per i serbi rappresenta un fatale errore, per i croati – seguendo la medesima logica - diventa un evidente profitto. I serbi si sarebbero precipitati tutti, sulle ali del destino e dell’entusiasmo, a fare la Jugoslavia, mentre i croati ne hanno tratto un profitto evidente. In questo sono d’accordo sia Dobrica Ćosić che Darko Hudelist, e la visione completa in questi giorni è sintetizzata da Inoslav Bešker, nella polemica con la famigerata frase di Stjepan Radić che rammenta «le oche nella nebbia». I rappresentanti croati nel 1918 non sono stati come oche credulone, dice Bešker, ma si sono preoccupati piuttosto di «minimizzare il danno”. Nel caso che non ci fosse stata la Jugoslavia, la Croazia sarebbe stata divisa fra i suoi aggressivi vicini dell’Occidente e dell’Oriente (Italia e Serbia). Ai croati sarebbe rimasto un paese-tampone, piccolo, piccolo, là, nel bel mezzo fra i due (non è senza interesse il fatto che ai tempi della disgregazione jugoslava Tudjman avrebbe voluto destinare il medesimo ruolo alla Bosnia-Erzegovina). In una simile concezione, la Jugoslavia ci ricorda quel mitico congelatore nel quale sarebbe stato congelato Walt Disney in attesa che si trovi un antidoto alla morte. Ai croati - ma opinioni simili si sentono anche in Slovenia - la Jugoslavia sarebbe servita unicamente come tappa per conseguire l’indipendenza, lungamente desiderata, da conquistare quando le condizioni fossero maturate. Dai montenegrini sentirete più di una volta che la Jugoslavia avrebbe cancellato il loro Stato, il più antico Stato e con la continuità statale più lunga nei Balcani, mentre i musulmani bosniaci vi diranno che essa li illuse con lo slogan della fratellanza e unità, e cosi li avrebbe predisposti allo sterminio e al genocidio. Probabilmente anche i macedoni avrebbero più di un rimprovero, ma per momento non me ne viene in mente nessuno...
Avvoltoi. Banditori. Urlatori.
Bene: per non peccare con l'anima, ammetto che in tutti quei paesetti ex-jugoslavi e anche nelle loro forme provvisorie, come pure nella cosiddetta “diaspora”, esistono piccoli mondi organizzati, che non si scaldano in modo tanto folcloristico per i propri Stati (nazionali). In verità, quegli Stati non gli fanno schifo, ciononostante si appoggiano molto di più a certe fondazioni ed organizzazioni internazionali, e vivono saltellando da un aereo all’altro, da una conferenza internazionale all’altra (conference-hop-ping come direbbero i colleghi della BBC), al contempo versando un mare di lacrime a causa di tutte le ingiustizie e per via di tutti i diseredati e gli emarginati. Anche questi non trovano parole lusinghiere per la Jugoslavia. Essa, per loro, come dice un adagio che ripetono spesso negli ultimi tempi, “avrebbe trovato la propria fine nelle fosse comuni e nei campi di concentramento”. Costoro sono amanti della giustizia e sono naturalmente di sinistra: si occupano e si preoccupano delle questioni mondiali. Il loro atteggiamento verso la Jugoslavia è perfettamente palese in un testo (peraltro schifoso) di Aleksandar Dragoš, critico musicale, che descrive il gruppo musicale Šarlo Akrobata confrontandolo con un altro gruppo musicale chiamato EKV. Citiamo quest'enfatica idiozia: "In breve, Šarlo sta a EKV come i principi del socialismo stanno alla Jugoslavia. Per i primi vale la pena di lottare ancora, mentre la seconda rappresenta il passato, che sarebbe meglio lasciare in pace." Questi tifosi dei principi del socialismo si mettono però in prima fila quando si fa la propaganda per “confrontarsi con il passato.” Affermano il loro impegno è di non permettere che si dimentichino le vittime. Nel caso che non avessimo voglia di passare per bugiardi, questi non sono altro che avvoltoi. Nella settimana in cui sono nate entrambe le Jugoslavie, in cui cade il 29 Novembre, Giornata della Repubblica, e la prima seduta dell’AVNOJ, nonché il 1 Dicembre, giorno in cui fu proclamata la prima Jugoslavia, bisogna leggere le poesie di Miloš Crnjanski e precisamente il poemetto che egli dedicò alla Jugoslavia. Questa poesia è stata scritta nel 1918 a Zagabria ed inizia con questi versi che tutti conoscono:
“Nessun bicchiere che si vuota
nessun tricolore che viene proposto
non è il nostro...”
In questa poesia si trovano i versi sui "terribili fratelli, di ciglia folte e canzoni tristi". Il verso chiave è il penultimo:
“Ma di celebrazione che vino beve
di feste e chiese, cosa vuol che c’ importi?
Le lacrime dall’occhio cadranno fra breve
Mentre il tamburo urla in vece dei morti.”
Ahimè, quanta poesia in questi tamburi e banditori che urlano - peraltro scritta da Crnjanski, il meno turco fra i nostri grandi scrittori! Il banditore, che urla a suon di tamburo, secondo la spiegazione del dizionario, è colui a cui spetta il compito di rendere note cioè di pubblicare le comunicazioni del potere. Gli urlatori - i banditori del nuovo ordine mondiale, impiegati leali e assai ben pagati, e quei banditori che gridano al suon di tamburo di regola lo sono - urlano dunque il suo racconto, la sua narrazione sulla Jugoslavia; la urlano per conto dei morti e, come affermano loro, per i morti. Visto che i vivi, almeno alcuni, possiedono l’abitudine scomoda ad avere memoria, a ricordare, la narrazione dei banditori - urlatori sulla Jugoslavia - è ambivalente. Ecco, dicono i banditori-urlatori, si viveva bene (i principi del socialismo!), ci davano gli alloggi gratis, non si pagava l’istruzione e nemmeno si pagavano le cure mediche, andavamo tutti al mare, Vegeta [prodotto del periodo jugoslavo] era un ingrediente ottimo nella cucina, Zdravko Čolić era un ottimo cantante, Rade Šerbedžija era un ottimo attore... ma tutto ciò è finito nelle fosse comuni e nei campi di concentramento. La sostanza di quella narrazione è chiara: il racconto sulla Jugoslavia deve essere privato di ogni contenuto politico.
Visto che nella politica sta la chiave, la politica (nel vero senso della parola, non volgarizzata e ridotta alle chiacchiere nei bar, trasformata in intrighi quotidiani e macchinazioni) rimane la dimensione cruciale dell’idea jugoslava e del progetto jugoslavo. Non si è costruita la Jugoslavia a causa della cinematografia, o a causa della musica leggera o a causa del calcio, essa si è costituita per ragioni politiche. Essere un soggetto, essere liberi, essere un fattore (politico), non diventare una colonia, non essere trattati come pura risorsa, non essere occupati - per tutte queste ragioni si è costruita la Jugoslavia. Tutto il resto arrivò, come si dice, come utile collaterale. E la Jugoslavia non fu fatta da calcolatori, da chi soppesava che cosa sarebbe stato meglio e realisticamente più fattibile nel momento dato, da quelli che possedevano soluzioni di riserva, gente carrierista e pragmatica: fu fatta da uomini liberi, che credevano nella poesia e nei sogni.
La stella sulla fronte
Esiste una consuetudine antica nei funerali ebraici, un’abitudine che Boris Davidovič Novski, in un colloquio breve con il suo mentore spirituale Isaak Ilič Rabinovič, aveva riassunto cosi: “Nel momento in cui si preparano a portare il morto fuori dalla Sinagoga per trasportarlo al cimitero, allora un servitore di Gèova si china sul defunto, lo chiama per nome e gli dice ad alta voce: Sappi che sei morto!” Questa consuetudine ha attecchito anche per quanto riguarda la Jugoslavia, ed ha attecchito anche molto bene. Non c’è da meravigliarsi. La gente da noi è molto amante delle consuetudini - esiste anche il proverbio: Meglio distruggere un villaggio intero che una consuetudine. E nel nome della mostra che apre il 1 dicembre nel Museo della storia jugoslava si evidenziano le briciole di quel proverbio, visto che porta il nome “La Jugoslavia dall’inizio fino alla fine”. Il defunto si nomina, lo si chiama per nome e gli si dice: Jugoslavia, è vero, hai avuto un inizio e dunque hai una fine, il che sarebbe una variante di: Sappi che sei morto. Le consuetudini nei funerali esistono e si praticano per i vivi, non per i morti. E questa consuetudine esiste per convincere i vivi che il defunto è morto per davvero. Nel caso jugoslavo, questa consuetudine è perversa al massimo, visto che tutte le varietà di traditori nostrani nonché i fattori stranieri hanno speso un colossale sacco di soldi e di esplosivo per elidere quel nome dalla vita e dalla realtà, per svuotarlo da ogni contenuto, per farlo diventare privo di ogni significato, vuoto come una buccia di noce svuotata. Eppure, a lungo termine, tutto questo non servirà a nulla. Come si dice: è possibile ingannare tutta la gente per un certo tempo, ma non è possibile ingannare tutta la gente per tutto il tempo. Verrà il tempo della verità. La verità è che la Jugoslavia non è finita nelle fosse comuni e nei campi di concentramento. In queste fosse comuni e in questi campi di concentramento hanno avuto inizio i suoi Statarelli-eredi, con le loro entità, con i loro territori provvisori o occupati, sia negli anni Quaranta che negli anni Novanta del secolo scorso.
La Jugoslavia nacque dalla stella sulla fronte e dalla scintilla nell’occhio, dalla piaga del defunto poeta Tin Ujević, dalla tomba fra gli uliveti del poeta Ljubomir Milanović “che passò la maturità a Smederevo", dallo sparo epocale di Gavrilo Princip, autore di versi che anche cento anni dopo restano il migliore commento possibile a proposito della morte della Jugoslavia: Chi vuole vivere, che muoia! Chi vuole morire, che viva!
Muharem Bazdulj
(trad. JT, rev. AM)
Claudia
----- Messaggio inoltrato -----
Da: Claudia Cernigoi
A: piccolo <segreteria.redazione@...>; piccolo ufficio centrale <ufficio.centrale@...>; Piccolo <cronaca@...>
Inviato: Sabato 24 Novembre 2012 14:36
Oggetto: lettera
Ci ha colpito la lettera intitolata “Manifestare è un diritto sacro ma non con molotov e mazze”, firmata Paolo Pocecco e pubblicata nelle “Segnalazioni” del “Piccolo” il 24/11/12.
Pocecco “premette” di essere stato “parecchi anni fa” comandante di plotone in un battaglione mobile di carabinieri e di avere operato in servizio di ordine pubblico ritrovandosi spesso coperto di sputi da parte dei manifestanti ai quali, afferma “un calcione negli stinchi non glielo avrebbe evitato nessuno” se fosse stata ordinata una carica.
Dopo questa interessante variante della legge del taglione in materia di ordine pubblico (dente per dente diventa calcio per sputo, inescalation), Pocecco prosegue con altri argomenti, alcuni peraltro condivisibili, sul come e con quali finalità si vada in piazza, e, dopo avere deprecato il fatto che ci si trovi a “strapparsi le vesti” sul fatto che “uno di questi violenti e facinorosi s’è beccato una manganellata sui denti” invece di solidarizzare con chi ha “impedito la devastazione di un ministero”, conclude con un “consiglio”: “quando vedete tafferugli allontanatevi il più celermente possibile”.
Ringraziamo per questo consiglio l’ingegner Pocecco, che conoscevamo come dirigente della ripartizione edilizia del Comune di Trieste, ma che sappiamo essere anche esperto di questioni di ordine pubblico. Ciò che gli vorremmo invece chiedere, è, in base a questa lettera, perché ritenga deprecabile la violenza dei “facinorosi” che vanno in piazza a creare scontri mentre è per lui motivo di orgoglio avere fatto parte dell’organizzazione Gladio, con la quale (citiamo da un’intervista rilasciata da Pocecco al giornalista Silvio Maranzana e pubblicata sul “Piccolo” del 16/1/10) aveva organizzato “sbarco con gommoni alla Costa dei barbari e collocamento di esplosivi nella galleria ferroviaria di Santa Croce con commando francesi, accompagnamento di commando belgi in incursioni notturne sul Molo Settimo e nel cantiere di Monfalcone”. Ma l’intervento di Pocecco ci sembra ancora più interessante se ricordiamo che la Gladio aveva messo in atto l’esercitazione Delfino nella primavera del 1966 a Trieste, esercitazione così descritta nel 1992 dal giornalista Antonio Garzotto (ferito nel 1977 da un commando del Fronte comunista combattente, quindi non suscettibile di simpatie filocomuniste): “agenti della Gladio avrebbero dovuto infiltrarsi sia nelle file e nelle manifestazioni del Pci, ma pure nelle frange della sinistra estrema per provocare "azioni violente, moti di piazza, uccisioni". Fare, insomma, "insorgenza", in modo tale da sollecitare una forte reazione, la "controinsorgenza", e legittimare un intervento di "stabilizzazione del potere" da parte dell'Autorità di Governo”.
Claudia Cernigoi
Trieste
“Più Europa” uguale meno democrazia
La crisi viene utilizzata dal potere politico per scatenare un brutale attacco alla democrazia politica, inseparabile dal tentativo di imporre una battuta d'arresto nei diritti e nelle conquiste sociali dei lavoratori e dei popoli.
Con l'accentuazione del processo di concentrazione e centralizzazione del capitale nell'UE, le grandi potenze e i monopoli capitalisti che lo controllano tentano di distruggere le sovranità nazionali e quello che dovrebbe essere un regime democratico, per instaurare un regime autoritario. Le misure, azioni, tentativi e progetti che pretenderebbero di “salvare” l'euro e l'UE mirano a trasferire il potere politico degli organi di sovranità nazionale alle cosiddette “istituzioni europee”, svuotandone le competenze, esautorando i popoli dall'esercizio del potere, limitando e anche impedendo la loro partecipazione nei processi politici, per imporre sempre di più una politica contraria ai loro interessi e aspirazioni.
Si tende a impedire la partecipazione diretta dei popoli nei processi politici e li si priva in modo crescente dei meccanismi di controllo del potere politico – persino con la distruzione dei meccanismi esistenti –, per assicurare la propria impunità.
Si vuole imporre modelli politico-istituzionali “funzionali” basati sulla sottrazione delle sovranità nazionali e sulle inevitabilità politiche, economiche e sociali, mai confermate, discusse e chiarite, ma, al contrario, smentite dalla realtà e dalle contraddizioni insanabili che sono proprie alla natura del capitalismo.
Vogliono imporre un modello unico che emargini o elimini le opposizioni, non attraverso la brutalità degli “stivali chiodati” del passato dominio fascista, ma attraverso l'egemonia ideologica che sta creando strumenti politici – come la stessa UE – per assicurare il dominio di classe.
In questo senso va il rafforzamento del potere delle grandi potenze nel Consiglio Europeo, nel Parlamento Europeo e nella Commissione Europea. O la sottrazione della politica monetaria a favore della Banca Centrale Europea e della sua falsa indipendenza – senza mandato né controllo democratici. O il tentativo di imporre le proprie priorità nei bilanci di ogni paese, sottraendo tale competenza ai parlamenti nazionali, imponendo in forma diretta i propri interessi di classe. E anche il tentativo di togliere prerogative al potere locale democratico, ridurre il numero dei municipi e delle province, limitare la loro capacità di iniziativa, con lo strangolamento delle loro finanze. E anche la limitazione del diritto di sciopero, di azione e organizzazione dei lavoratori nelle imprese.
Un effettivo regime di libertà, democrazia e partecipazione politica e sociale è inseparabile dall'esistenza di condizioni materiali e culturali per il loro esercizio e dall'uguaglianza di diritti, doveri e opportunità. L'impoverimento e lo sfruttamento crescente dei lavoratori e degli altri ceti popolari, le limitazioni all'esercizio di diritti fondamentali nei settori della sicurezza sociale, della salute, dell'educazione, dell'abitazione, della cultura si ripercuotono nella perdita di libertà fondamentali, in limitazioni alla partecipazione e all'attività politiche e alla libertà del popolo di poter decidere sul proprio destino. Sa bene questo potere politico che l'esautorazione e la limitazione della partecipazione nell'esercizio del potere è condizione per perpetuare questa politica e prolungare lo sfruttamento.
Nell'agire in questo modo, cercando di distruggere le sovranità nazionali e i regimi democratici, mette in causa la sua legittimità. Il potere politico emergente nell'UE si scontra ancora di più con gli interessi e le aspirazioni delle classi popolari. Spetta ai lavoratori e al popolo sconfiggere questa politica e restituire la legittimità a chi effettivamente la possiede.
Le conquiste di domani saranno difficili, ma sono possibili e necessarie. Non conquisteremo nulla senza molto sudore, lacrime e sangue. Ci incoraggia essere dalla parte giusta della barricata della lotta di classe: a fianco della classe operaia e di tutti i lavoratori. Ci incoraggia il sentimento patriottico e la difesa degli interessi e delle aspirazioni del nostro popolo. Ci incoraggia voler farla finita con lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, senza la cui eliminazione non sarà possibile una società veramente democratica.