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Oggetto: La storia rovesciata: Sulle origini della II guerra mondiale
Data: 03 settembre 2009 9:46:06 GMT+02:00
Jacques R. Pauwels
Edizioni La Città del Sole
Collana Univesale di Base n. 18
ISBN 978-88-8292-409-6 cm. 11x17 96 pagine 6,00 euro
Nel momento in cui i “liberatori” di ieri “esportano” oggi “la democrazia” in mezzo mondo, questa lettura può essere preziosa per comprendere le relazioni – di ieri e di oggi – tra guerra e profitto: l’alta finanza e le grandi corporations degli Stati Uniti (Standard Oil, General Motors, Ford, IBM, Coca Cola, Du Pont, Union Carbide, Westinghouse, General Electric, Goodrich, Singer, Kodak, ITT, J. P. Morgan, etc. etc.) finanziarono l’ascesa al potere del nazionalsocialismo, l’aiutarono a riarmarsi e a preparare la guerra, lo sostennero nelle sue aggressioni e continuarono a lavorare per lo sforzo bellico tedesco anche quando il proprio paese scese in guerra contro la Germania. Business are business: e la guerra è certamente l’affare più remunerativo che si possa immaginare, ieri come oggi. ’alta finanza statunitense è stata sempre maestra in quest’“arte” di mettere il profitto uber alles.
Alexander Höbel
L'aggressione era stata preparata con cura. I piani d'invasione della Wehrmacht erano pronti già alla fine di giugno. Mentre per motivare il pubblico tedesco, meno smanioso di guerra di quanto avrebbero voluto i capi nazisti, si inscenavano provocazioni, come la bomba piazzata il 28 agosto da agenti tedeschi alla stazione ferroviaria di Tarnow o il finto assalto di uomini delle SS in uniformi polacche alla radio di Gleiwitz il 31 agosto. Anche la favola per cui sarebbero stati i polacchi i primi a sparare era a uso e consumo della popolazione tedesca.
Ovviamente Hitler non aveva trascurato di preparare il terreno anche sul piano diplomatico. Lo scellerato patto di «non aggressione» con l'Urss lo metteva al riparo da sorprese all'est.
A fine luglio del 1939 Berlino aveva segnalato a Mosca che tra il Baltico e il Mar Nero non c'erano controversie geopolitiche che non si sarebbero potute risolvere «con reciproca soddisfazione». Anche in direzione opposta erano venuti segnali concilianti, come la sostituzione del ministro degli esteri Litvinov, ebreo, con Molotov.
Il 23 agosto Molotov ricevette a Mosca il suo collega tedesco Ribbentrop, e la stessa notte i ministri firmarono due documenti passati alla storia come «patto Hitler-Stalin».
Il primo, che fu reso pubblico tra lo sconcerto degli antifascisti europei, impegnava i due stati al reciproco rispetto dei propri territori e alla neutralità, con formulazioni che lasciavano ampio spazio all'aggressione contro terzi, da parte di uno o di entrambi.
Ma nemmeno i critici antifascisti poterono allora immaginare che c'era anche un annesso segreto, la cui esistenza i sovietici riconobbero solo nel 1989. In questo secondo testo si scambiavano garanzie sulle rispettive sfere d'influenza. L'Urss vedeva riconosciute le sue pretese su territori persi dall'impero zarista in seguito alla prima guerra mondiale, anche come conseguenza della condotta di guerra tedesca in quel conflitto: Finlandia, Estonia, Littonia, Bessarabia (che grosso modo corrisponde all'attuale Moldavia) e i territori polacchi a est di una linea che passava per i fiumi Narev, Vistola e San. La Polonia a ovest di questa linea e la Lituania venivano assegnate alla «sfera d'interesse» del Reich tedesco. Si trattava di un ritorno ai piani di spartizione ottocenteschi della Polonia tra le potenze continentali. E del più vergognoso dei tradimenti delle promesse internazionaliste della rivoluzione d'Ottobre: l'Unione sovietica di Stalin era tornata a operare secondo la logia dell'impero zarista.
Nei primi giorni di settembre Stalin se ne rimase tranquillo, aspettando che i tedeschi facessero il grosso del lavoro sporco e spezzassero il nerbo delle resistenze militari. Del resto la Russia era impegnata in un conflitto in Manciuria con i giapponesi, che si concluse a vantaggio dei sovietici il 15 settembre. Solo due giorni dopo, il 17 settembre, lo stesso giorno in cui il governo polacco lasciò Varsavia per l'esilio, le truppe sovietiche invasero la Polonia da est.
Preso tra due fuochi, l'esercito polacco capitolò a Varsavia il 27 settembre. Alcune unità continuarono a resistere ancora per dieci giorni.
Mentre le truppe tedesche si preparavano a entrare a Varsavia, Ribbentrop tornò a Mosca, e già il giorno seguente, il 28 settembre, si accordò con Molotov su tre emendamenti al patto territoriale segreto firmato in agosto. Stavolta la Lituania ricadeva nella «sfera d'influenza dell'Urss». In cambio la Polonia centrale passava ai tedeschi, per cui le truppe sovietiche sarebbero arretrate dalla Vistola al Bug.
I due ministri e le loro delegazioni tracciarono con matita copiativa la nuova linea di demarcazione su una carta geografica. Raggiunta l'intesa, sopraggiunse nella stanza Stalin in persona, e appose sulla carta anche la sua firma. Quella carta geografica è conservata nell'archivio del ministero degli esteri tedesco. La firma di Stalin è grossa e vistosa: indelebile marchio d'infamia apposto senza alcuna remora.
Un sondaggio ha recentemente constatato che solo 16 russi su cento sanno che il loro paese occupò mezza Polonia, in combutta con Hitler. Ancora meno sapranno di quel che successe durante quell'occupazione, o hanno sentito nominare Katyn, dove Stalin fece uccidere migliaia di ufficiali polacchi. Il 22 giugno del 1941 toccò alla Russia essere aggredita, e nella memoria collettiva è rimasto il ricordo della «Grande guerra patriottica». Ma ciò non dovrebbe far dimenticare l'infame ruolo giocato da Stalin tra il 23 agosto 1939 e l'aggressione nazista.
[tratto da Problemi della transizione al socialismo in Urss (a cura di Catone A., Susca E.), La Città del Sole, 2004].
La Repubblica dell’1 settembre riferisce che a Danzica, durante le
celebrazioni per il settantesimo anniversario dell’aggressione
nazista alla Polonia e dell’inizio della seconda guerra mondiale,
Vladimir Putin ha dichiarato: "Ogni patto concluso con Hitler allora
fu immorale". Il ;premier russo non ha fatto riferimento al
vergognoso patto di Monaco né ai tanti accordi delle potenze e di
imprese occidentali che avevano prima permesso la ricostruzione del
potenziale bellico tedesco e che, l’avevano sostenuto poi anche
durante lo svolgimento stesso della guerra. Putin ha rifiutato
“però ogni tentativo di definire il Patto Molotov-Ribbentrop …
come unica causa della guerra”.
Per anni la propaganda occidentale prima e il revisionismo storico
poi hanno demonizzato il patto di non aggressione che l’Unione
Sovietica si decise a firmare con la Germania per ritardare il più
possibile la prevista invasione nazista dell’URSS. Politici,
giornalisti e storici hanno sempre sottaciuto che a questa decisione
l’Unione Sovietica fu costretta dopo aver visto fallire tutti i suoi
tentativi di sottoscrivere con Francia e Gran Bretagna un trattato di
alleanza antitedesca: in realtà le potenze occidentali speravano che
la furia hitleriana si dirigesse a oriente e spazzasse via l’odiato
e temuto nemico bolscevico.
Un uso rigoroso delle fonti basato sulla ricerca comparata e puntuale
dei documenti tratti dagli archivi delle diplomazie francese,
britannica e sovietica fa giustizia ora di affermazioni arbitrarie e
giudizi temerari della propaganda e della storiografia revisionista.
Questo lavoro è opera di Michael Jabara Carley, professore ordinario
e direttore del Dipartimento di Storia dell’Università di Montréal.
Nella minuziosa ricostruzione storica delle modalità e delle cause
che portarono al fallimento dei tentativi di accordo tra URSS e anglo-
francesi e alla decisione sovietica di siglare il patto di non
aggressione con la Germania nazista, l’autore ricorre alla analisi
comparata e contestuale delle fonti britanniche, francesi e russe,
utilizzando anche i materiali resi copiosamente – ma ancora
disordinatamente e discrezionalmente – disponibili dall’apertura e
desecretazione degli archivi sovietici dopo la fine dell’URSS.
L’accesso a questo nuovo materiale sovietico d’archivio offre
alcune conferme circa le valutazioni e il comportamento dei dirigenti
dell’Unione Sovietica.
Ciò che rende particolarmente interessante il lavoro di Carley è
l’analisi contestuale di tutte le fonti. È illuminante la lettura
di quelle franco-inglesi, da cui emerge l’orientamento antisovietico
e la sostanziale diffidenza occidentale nei confronti dell’URSS, che
a sua volta ricambiava pienamente questa diffidenza. L’illusione
della diplomazia britannica di trovare ancora un appeasement con
Hitler scongiurando la guerra, e la scelta deliberata di non favorire
l’affermazione di un ruolo nuovo e importante che l’URSS avrebbe
inevitabilmente assunto nel continente europeo, divenendo un perno
essenziale dell’alleanza antitedesca (come di fatto avvenne con la
partecipazione dell’URSS nel giugno 1941 all’alleanza
antifascista), spingono la direzione sovietica a siglare il patto
Ribentropp-Molotov.
È un lavoro meticoloso, di uno storico specialista delle relazioni
internazionali tra Occidente e URSS nel periodo 1917-1945, supportato
da un ampio apparato di note e da una vasta bibliografia, scritto,
tra l’altro, in uno stile che, senza nulla togliere al rigore
scientifico, riesce a “catturare” il lettore come fosse un racconto.
Dopo la prima edizione inglese uscita a Chicago, ne è stata
pubblicata una seconda a Londra. Sono poi seguite l’edizione
francese e quella in russo.
L’edizione italiana è arricchita da una presentazione dell’autore
che tiene conto di pubblicazioni successive e dibattiti tra storici
sull’argomento.
Michael Jabara Carley, professore ordinario e direttore del
Dipartimento di Storia dell’Università di Montréal, è uno
specialista delle relazioni internazionali nel XX Secolo e della
storia della Russia e dell'Unione sovietica. Ha lavorato e lavora
sulle relazioni dell'Unione Sovietica con l'Europa Occidentale e gli
Stati Uniti tra il 1917 ed il 1945, su cui ha scritto diversi libri e
articoli, pubblicati in Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e
Russia. Notevole anche la sua produzione sull’intervento straniero
contro i bolscevichi dopo l’Ottobre.
Edizioni La Città del Sole
Collana La foresta e gli alberi n. 18
Michael Jabara Carley
ISBN 978-88-8292-370-9 cm. 13,5 x 21 360 pagine 24,00 euro
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Le sujet a déjà été traité par des auteurs aboutissant aux mêmes conclusions. Mais de façon marginale, sans grand écho dans l’opinion publique. A leur différence, l’ouvrage de David N. Gibbs risque d’avoir un certain retentissement, et de marquer une date.
Pour plusieurs raisons.
L’auteur est un universitaire respecté, professeur d’histoire et de science politique à l’université de l’Arizona. Son livre a été publié par l’université Vanderbilt, qui est une des plus prestigieuses institutions américaines, et servira donc de sujet d'études pour les futurs étudiants en sciences politiques et en relations internationales. Enfin, et surtout, le professeur Gibbs n’a aucune relation en Serbie et n’a jamais mis les pieds dans les Balkans. Ce qui signifie que sa démonstration n’est infléchie par aucun contact personnel ou penchant affectif, et ne repose que sur des sources fiables, des témoignages enregistrés et des documents réels.
Le résultat est un réquisitoire solidement construit, qui condamne sans ambiguïté la politique occidentale, et auquel on ne peut reprocher que quelques faiblesses (comme l’acceptation des mensonges officiels concernant les soi-disant “massacres” de Racak et de Srebrenica), compréhensibles parce que sortant un peu du sujet de recherches. Pour donner une idée de l’argumentation développée par le Pr Gibbs, nous avons traduit un important extrait du chapitre VII de son livre, paru dans le journal belgradois Politika du 26 juillet 2009, qui figure ci-dessous.
Alors que la guerre de l’OTAN contre les Serbes en 1999 atteint son dixième anniversaire, elle est évoquée avec une certaine nostalgie. On se souvient de la guerre du Kosovo comme de la “bonne guerre” – une action militaire authentiquement morale, contrastant de façon rassurante avec le fiasco en Irak. La guerre du Kosovo n’a été entreprise (affirme-t-on) qu’en dernier ressort, pour contenir un déplaisant dictateur (Slobodan Milosevic) qui ne réagissait qu’à la force. Et la guerre a eu des résultats positifs, en ce sens que le Kosovo a été libéré de l’oppression serbe et que Milosevic a été vite renversé. Aujourd’hui, une décennie plus tard, on s’en rappelle comme d’un cas exemplaire d’intervention humanitaire, et elle est largement considérée comme le modèle d’interventions éventuelles au Darfour ou ailleurs. Certaines personnalités importantes du gouvernement Obama, en particulier Samantha Power, ont même conseillé de faire de “l’intervention humanitaire” du type Kosovo un thème de base de la politique américaine.
Etant donnée l’importance du Kosovo comme modèle d’actions militaires futures, il est essentiel de mieux comprendre ce qui s’est réellement passé dans ce cas critique. De nouvelles informations sont devenues disponibles, au cours des dernières années, en provenance du procès de Milosevic pour crimes de guerre et d’autres sources fondamentales, informations qui éclairent la guerre d’un jour tout à fait différent (et pas tellement positif). Dans ce qui suit, je vais passer en revue ces révélations, et montrer comment elles discréditent des mythes largement acceptés concernant le caractère “bénin” de l’intervention au Kosovo.
D’abord, un peu d’arrière-plan. Le Kosovo était depuis longtemps une “province autonome” de la république de Serbie, faisant partie à l’origine de la Yougoslavie communiste. Sa population était divisée en une majorité ethniquement albanaise et une relativement petite minorité serbe, qui représentait 10 à 15 % de l’ensemble. Le conflit ethnique entre ces deux groupes a peu à peu déstabilisé la province. En 1989, la République de Serbie a mis fin au statut autonome du Kosovo et y a établi une loi martiale de fait. Un système de forte répression a été imposé qui opprimait les Albanais de la province et favorisait les Serbes. Les efforts des Albanais d’y échapper ont été à la base de la révolte armée de la fin des années 90, dirigée par l’Armée de libération du Kosovo (UCK). Ces efforts ont finalement déclenché la campagne de bombardements de la Serbie par l’OTAN en 1999. Après la défaite serbe, une force internationale de paix a occupé le Kosovo. En sa présence, le Kosovo a fait sécession de la Serbie et a proclamé son indépendance en 2008. Peu après le bombardement, la plus grande partie de la population serbe a été ethniquement nettoyée et expulsée, laissant un petit nombre de Serbes disséminés dans la province.
Mythe n° 1 : L’OTAN n’a commencé sa campagne de bombardement qu’après avoir épuisé tous ses efforts d’éviter la guerre et d’atteindre ses buts au Kosovo par des moyens diplomatiques. La guerre a résulté de la dure résistance de Milosevic à toute solution négociée.
En fait, Milosevic n’a refusé aucune solution diplomatique, et ce point est désormais solidement confirmé par les sources les plus fiables. En particulier, il a signé une série d’accords internationaux en octobre 1998 qui entérinaient le retrait de la plus grande partie des forces serbes du Kosovo et l’application d’un cessez-le-feu. Il a aussi accepté le déploiement de la Mission internationale de vérification du Kosovo, qui devait contrôler le retrait des troupes serbes. Ces accords ont été l’œuvre du diplomate américain Richard Holbrooke.
Ils ont peu à peu été rompus ; les combats ont continué entre Serbes et Albanais et ont connu une escalade à la fin 1998. A l’époque, on considérait généralement que c’étaient les Serbes qui avaient rompu les accords. Aujourd’hui, nous savons que cela n’a pas été le cas. En fait, les Serbes ont respecté les accords de Holbrooke, et ce sont les Albanais qui les ont sabordés.
La preuve que les Serbes ont respecté les accords est due au général Klaus Neumann, un officier allemand qui a joué un rôle important dans la diplomatie de l’époque (et qui ultérieurement a participé à la guerre de 1999 de l’OTAN). En 2002, Neumann a été cité au procès de Milosevic comme témoin capital de l’accusation et a déclaré : “Les autorités yougoslaves ont respecté l’accord (de Holbrooke)… Je considère que l’on doit rendre un réel hommage à ce qu’elles ont fait. Ce n’était pas une chose facile de retirer 6.000 officiers de police en 24 heures, mais elles y sont arrivées.” L’opinion du général Neumann est confirmée par la Commission internationale indépendante sur le Kosovo, qui note dans son rapport de 2000 que “la Serbie a mis en application l’accord (de Holbrooke) et a retiré ses forces en conséquence.”
La rupture de l’accord Holbrooke a été en réalité le fait des guerillas de l’UCK, qui ont mis à profit le retrait serbe pour lancer une nouvelle offensive. Cette stratégie est décrite dans l’échange suivant entre un interviewer de la BBC et le général Neumann. L’interview cite des renseignements de l’OTAN et du directeur de la Mission de vérification du Kosovo, qui contrôlait l’application de l’accord.
BBC : Nous avons obtenu les minutes confidentielles du North Atlantic Council (NAC), l’organisme dirigeant de l’OTAN. On y parle de l’UCK comme “principal initiateur de la violence… Elle a déclenché ce qui apparaît comme une campagne délibérée de provocation (des Serbes)”. C’est ainsi que William Walker (chef de la Mission de vérification) a présenté lui-même la situation, en privé.
Général Neumann : L’ambassadeur Walker a déclaré au NAC que la majorité des violations (de l’accord Holbrooke) était due à l’UCK. Cela a clarifié la situation : ce sont les guerillas albanaises, et non les Serbes, qui ont été responsables de la reprise des combats.
En février-mars 1999, les Etats-Unis et plusieurs alliés européens ont organisé une conférence de paix internationale – officiellement dans le but d’aboutir à un règlement d’ensemble du conflit du Kosovo – qui s’est tenue pour sa plus grande part à Rambouillet, en France, près de Paris. Les médiateurs occidentaux qui géraient la conférence cherchaient à mettre fin à l’oppression serbe au Kosovo, à redonner à la province son autonomie régionale (faisant toujours partie de la Serbie) et à créer une force de paix internationale armée chargée de contrôler l’application des décisions. On n’envisageait pas à ce moment-là l’indépendance du Kosovo.
En fin de compte, la conférence a été un échec, qui a abouti directement à la campagne de bombardement de l’OTAN. A l’époque, il était généralement admis que les Serbes avaient refusé de négocier sérieusement et étaient déterminés à user de la force militaire contre les Albanais. Une lecture attentive des comptes rendus démontre que cette opinion officielle était fausse une fois de plus. En fait, les Serbes étaient ouverts à une solution négociée, et ils n’ont eu recours à la force que lorsque tout arrangement s’est révélé impossible.
La plupart des participants de la conférence de Rambouillet ont admis que la délégation serbe avait en réalité accepté toutes (ou pratiquement toutes) les exigences des médiateurs américains et européens. Les Serbes “semblent avoir souscrit aux éléments politiques de l’accord, du moins en principe”, note Marc Weller, un juriste universitaire qui servait de conseiller à la délégation albanaise. Le porte-parole du Département d’Etat, James Rubin, déclare que les Serbes ont accepté “pratiquement tous les aspects de l’accord politique”. Le diplomate US Christopher Hill dit que “Milosevic était favorable à l’accord politique de Rambouillet” . Même Madeleine Albright, pourtant hypercritique de la délégation serbe, avoue que les Serbes ont accepté la plupart des clauses du règlement politique. En ce qui concerne les aspects plus contestables de leur application, Milosevic lui-même laisse entendre qu’il accepterait une force de paix au Kosovo pour les contrôler, dirigée par l’ONU ou l’OSCE. Il continue cependant à rejeter l’idée d’une force de l’OTAN, réclamée par les USA.
L’information disponible suggère qu’un règlement d’ensemble du conflit du Kosovo était possible et pouvait intervenir à Rambouillet. Ce qui a fait échouer la conférence a été un nouveau développement intervenu tard dans le processus de négociation. Les médiateurs occidentaux ont proposé qu’une “annexe militaire” soit ajoutée à l’accord final. L’annexe prévoyait que les forces de paix de l’OTAN serait déployées et auraient “un passage libre et illimité et un accès sans contrainte à travers la RFY (République fédérale de Yougoslavie)”.
Ce texte était tout à fait clair : il signifiait que la force de paix de l’OTAN occuperait non seulement le Kosovo, mais potentiellement la totalité de la Serbe et de ce qui restait de la Yougoslavie. A l’apparition de cette Annexe militaire, la délégation serbe a perdu toute confiance dans le processus de négociation, et les pourparlers de paix ont été interrompus.
La formulation suspecte de l’Annexe militaire a été soulignée une première fois en 1999 par le journaliste britannique John Pilger, pendant le bombardement de l’OTAN. En réponse, les autorités US ont prétendu que l’annexe n’était qu’un détail inoffensif, et ont nié qu’il y ait eu une volonté quelconque de saboter les pourparlers de paix.
La révélation de la vérité est revenue aux Britanniques. Au cours d’une audition parlementaire à la suite de la guerre, l’ex-secrétaire d’Etat à la Défense, John Gilbert, a affirmé que les principaux négociateurs cherchaient en réalité à saboter la conférence. Gilbert était le numéro deux du ministère britannique de la Défense, chargé spécifiquement du renseignement, et il était partisan de la guerre. Il est à coup sûr une source fiable. Se référant aux motivations des négociateurs, il observe : “Je pense qu’à l’époque certaines personnes voulaient une bataille pour l’OTAN… Nous en étions au point ou certaines personnes pensaient que quelque chose devait être fait (contre la Serbie), et qu’il fallait provoquer l’affrontement.” En ce qui concerne les clauses elles-mêmes, il ajoute : “Je considère que les exigences imposées à Milosevic à Rambouillet étaient absolument intolérables. Comment aurait-il pu imaginer de les accepter ? C’était parfaitement délibéré.”
Lord Gilbert n’a pas explicitement mentionné l’Annexe militaire (et sa clause concernant l’accès de l’OTAN à toute la Yougoslavie), mais il est facile de voir qu’elle entre parfaitement dans le tableau de provocation qu’il a décrit. Et il est probable que les USA ont joué un rôle majeur dans l’élaboration de l’annexe, sabotant ainsi les négociations. Dans ses mémoires, le général Wesley Clark a admis qu’il avait personnellement participé à la rédaction. De toute façon, l’apparition de cette Annexe militaire a sapé toute possibilité de règlement pacifique.
J’ai longuement traité ailleurs des motifs qui ont poussé le gouvernement Clinton à provoquer une guerre. Dans cet article, je vais proposer une explication raccourcie. Essentiellement, les Etats-Unis cherchaient une nouvelle justification de l’OTAN, qui semblait avoir perdu toute raison d’être après la chute du Mur de Berlin. L’intervention “réussie” au Kosovo jouait un rôle capital dans l’affirmation de l’importance de l’OTAN dans le monde de l’après-Guerre froide, et lui procurait une nouvelle fonction.
Quels que soient les motifs, les documents montrent que le gouvernement Clinton cherchait un prétexte pour faire la guerre à la Serbie. L’échec des négociations de Rambouillet le lui a fourni.
Mythe n° 2 : Le conflit du Kosovo était un cas moral simple d’oppression serbe et de victimes albanaises.
La guerre de 1999 a été largement décrite à l’époque comme une répétition à petite échelle de la Seconde guerre mondiale, avec les Serbes dans le rôle des agresseurs nazis et les Albanais dans celui des juifs, et cette image et au centre du livre influent de Samantha Power “A Problem from Hell, America and the Age of Genocide”. Il est sans doute vrai que les Serbes ont une vilaine histoire de violence et d’oppression du groupe ethnique albanais, et que Milosevic en est en grande partie responsable. Les accusations dans ce domaine sont pour la plupart fondées, et peu de documents ont émergé pour réfuter cette image.
Le problème est que les groupes politiques soutenus dans la guerre par les Etats-Unis n’étaient pas meilleurs. Alors que certains d’entre eux s’étaient montrés relativement décents et non-violents dans les premières phases du conflit, l’ensemble qui a bénéficié du soutien américain direct – le même que celui qui a formé plus tard le gouvernement du Kosovo indépendant – était l’UCK. L’UCK avait une histoire de cruauté et de violence qui valait largement celle des forces de Milosevic. Attaquer les civils serbes par des attentats terroristes a toujours été un élément central de sa stratégie militaire.
La nature terroriste de la stratégie de l’UCK était bien connue des autorités occidentales ; le fait a même été reconnu par un témoin de l’accusation au procès de Milosevic. Le parlementaire britannique Paddy Ashdown, très impliqué dans la diplomatie du Kosovo, a témoigné de la stratégie terroriste de l’UCK. La transcription de son contre-interrogatoire comprend l’échange suivant.
Milosevic : C’était bien connu que ces hommes (de l’UCK) étaient des terroristes, que c’était une organisation terroriste.
Ashdown : Monsieur Milosevic, je n’ai jamais nié que l’UCK fût une organisation terroriste.
Selon le journaliste Stacey Sullivan, qui a interviewé de nombreuses personnalités de l’UCK, les guérillas “frappaient les quartiers d’habitation serbes, et se sont vantés d’avoir descendu un avion civil et d’avoir placé une bombe dans la voiture d’un recteur d’université. Par définition, ce sont des actes terroristes.”
Le but était de provoquer la riposte serbe, ce qui alimentait le cycle de violence. Cette stratégie était bien connue. Même Madeleine Albright, dont les mémoires se focalisent presque exclusivement sur la sauvagerie serbe, avoue brièvement que l’UCK “semblait déterminé à provoquer une riposte serbe massive de façon à rendre l’intervention internationale inévitable.” Inutile de dire que cette stratégie – d’appâter les Serbes pour qu’ils attaquent des civils albanais, et d’accroître ainsi la pression pour une intervention extérieure – a bien réussi. C’est précisément le scénario qui s’est déroulé pendant la période 1998-1999, aboutissant à l’intervention de l’OTAN et à la victoire de l’UCK.
Il a longtemps été admis que, pendant tout le conflit, c’étaient les Serbes qui avaient perpétré le plus de violences. En fait, il y a eu de longues périodes pendant lesquelles les Albanais étaient les principaux criminels. Ce fait a été noté par le ministre britannique de la Défense George Robertson durant les auditions parlementaires après la fin de la guerre. Lord Robertson a déclaré que jusqu’en janvier 1999, “l’UCK était responsable de plus de morts au Kosovo que les autorités yougoslaves.”
Au cours des phases ultérieures de la guerre, ce sont les Serbes qui ont été les principaux responsables de violences. A partir de janvier 1999, il y a eu un accroissement substantiel d’attaques serbes, avec un vilain massacre dans le village albanais de Racak et d’autres exactions durant les dernières semaines de cette première phase de la guerre. Et les atrocités serbes se sont grandement multipliées pendant le bombardement de l’OTAN, une escalade qui a produit d’horribles résultats. Néanmoins, Lord Robertson dit qu’au début ce sont les Albanais, et non les Serbes, qui ont été les auteurs des pires violences. L’agenda du porte-parole de Tony Blair pour la presse, Alistair Campbell, souligne le caractère amoral de l’UCK, et que ce fait était bien connu des autorités britanniques. Selon Campbell, Blair et son ministre des Affaires étrangères Robin Cook considéraient tous les deux que “l’UCK ne valait pas beaucoup plus que les Serbes”.
Le crime le plus grave dont on peut accuser l’UCK est peut-être la façon dont elle s’est comportée après la défaite des forces serbes en juin 1999. A la suite de cette défaite, l’OTAN et les pacificateurs de l’ONU ont mis l’UCK à la tête de la plus grande partie du Kosovo, et les guérillas ont aussitôt mis à profit leur nouveau pouvoir pour nettoyer ethniquement les Serbes à travers une campagne de violence et d’intimidation.
La campagne de terreur a été suivie par l’OSCE et a été décrite dans les mémoires des ex-responsables de l’ONU Iain King et Whit Mason.
L’été de 1999 a été une saison de vengeances et de pillages à l’état pur. L’OSCE a ressemblé des douzaines d’histoires horribles. Un Rom sourd-muet a été kidnappé parce que sa famille avait soi-disant coopéré avec les ex-autorités serbes. Un Serbe de 44 ans “a été battu à mort avec des barres de métal par une bande d’Albanais”. Des Serbes ont été tués alors qu’ils travaillaient dans leurs champs. Ces agressions et des douzaines d’autres ont été rapportées par le personnel travaillant avec l’OSCE sur le terrain. Elles ont toutes eu lieu pendant que les pacificateurs de l’OTAN étaient responsables de la sécurité au Kosovo.
De 400 à 700 Serbes ont été assassinés au cours des huit premiers mois suivant la victoire de l’OTAN, selon des estimations publiées dans le London Sunday Times. Les morts comprenaient des Serbes et des Roms. A cause de ces attaques – que les forces de l‘OTAN n’ont pas fait grand’chose pour arrêter – un quart de million de Serbes, de Roms et de membres d’autres groupes ethniques détestés ont fui le Kosovo. Le but de longue date des Albanais – un Kosovo ethniquement “pur”, débarrassé des Serbes – a été largement atteint.
C’est donc un mythe de voir cette guerre comme un simple cas d’agresseurs serbes et de victimes albanaises. En réalité, les deux côtés ont commis des crimes. Il est sans doute vrai que les Serbes ont perpétré plus d’atrocités et ethniquement nettoyé plus de populations que les Albanais. Et inutile de dire que les armées serbes ont commis beaucoup de crimes horribles ailleurs dans les Balkans, comme le massacre de Srebrenica en 1995. Mais cela n’excuse pas les crimes de l’UCK, ou le fait que les USA s’en sont rendus complices par leur soutien. Aujourd’hui, dix ans après, nous ne devons blanchir ni les uns ni les autres.
Quand les combats ont cessé en 1999, les enquêteurs du Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie ont fait des recherches sur les crimes commis des deux côtés. L’ex-procureure en chef du tribunal, l’avocate suisse Carla del Ponte, a décrit dans ses mémoires récemment publiées les défis auxquels elle a été confrontée. Selon elle, toute personne coopérant avec les enquêtes internationales sur les atrocités de l’UCK était l’objet d’attaques ou de menaces de violences. Il est évident que Del Ponte elle-même a été intimidée : “Des compatriotes suisses m’ont avertie de ne pas traiter de certains sujets relatifs aux Albanais dans ces mémoires, et je n’en discute ici qu’avec beaucoup de précautions.”
L’UCK a beaucoup d’autres aspects désagréables, y compris des associations avec Al Qaeda (qui avaient des membres au Kosovo) et les réseaux internationaux de trafic de drogue. En un mot, on peut dire que l’UCK a une histoire épouvantable.
Mythe n° 3 : Les frappes aériennes de l’OTAN ont empêché d’encore plus grandes atrocités serbes, et donc ont eu un effet positif sur la situation des droits de l’homme au Kosovo.
En fait, la campagne de bombardements n’a fait que multiplier les atrocités serbes. Jusqu’à son début, le nombre total de tués au cours de la guerre – comprenant Serbes et Albanais, civils et militaires – se montait à 2.000. Le nombre de civils albanais tués par le forces serbes n’a jamais été correctement estimé, mais il ne devait pas dépasser quelques centaines. Pendant les bombardements, il y a eu une escalade de la violence serbe. Les Serbes ne pouvaient pas faire grand’chose pour se protéger de l’attaque de l’OTAN, ils ont compensé leurs frustrations aux dépens des Albanais relativement sans défense.
Reprenons la chronologie. A la mi-mars 1999, il est devenu évident que le processus de négociation était irrémédiablement interrompu et que l’OTAN se préparait à bombarder. Le 19 mars, la Force de vérification du Kosovo a commencé à quitter la province – un signe que le bombardement état imminent. Le lendemain, le 20 mars, les forces serbes ont entamé une offensive à grande échelle au Kosovo, entraînant de vilaines atrocités. Et le 24 mars, l’OTAN a commencé sa campagne aérienne de dix semaines, qui en a provoqué de nouvelles. Cette chronologie montre que l’action de l’OTAN elle-même a été la cause principale de cette montée de la violence. Il faut aussi noter que les chefs d’états-majors ont averti le président Clinton que toute campagne de bombardement entraînerait probablement une recrudescence de vengeances et d’exactions serbes. Celles-ci ont donc été prévues à l’avance.
Quand le bombardement a eu lieu, les forces serbes ont en effet perpétré des atrocités, tuant environ 10.000 personnes durant la campagne. A la fin de la guerre, près de 90 % de la population albanaise avait été déplacée. La principale responsabilité morale incombe aux forces serbes qui ont commis les crimes et à Milosevic, qui était aux commandes. Cependant l’OTAN porte la responsabilité d’avoir imprudemment créé une situation qui les a provoqués.
La campagne de l’OTAN a eu d’autres résultats désastreux. Le bombardement lui-même a tué de 500 à 2.000 civils, selon Tim Judah, de la BBC. Même si l’on accepte le chiffre le plus bas, l’action de l’OTAN a causé la mort d’à peu près autant de civils que toutes les opérations des Serbes avant le bombardement. La stratégie de l’OTAN était de “frapper l‘infrastructure civile”, selon les mémoires du général Rupert Smith, qui a servi comme chef-adjoint de l’OTAN durant la guerre. Et quand la guerre s’est achevée, les Albanais ont lancé une vague de représailles et de nettoyages ethniques, qui ont eu pour résultat des atrocités encore plus nombreuses.
Si l’opération de l’OTAN visait à prouver que le nettoyage ethnique n’est pas un moyen admissible de régler des conflits, elle a été un spectaculaire échec.
Conclusion
L’aspect le plus troublant de l’affaire du Kosovo est que l’intervention prétendument humanitaire n’a servi qu’à augmenter l’échelle des atrocités. De ce point de vue, la guerre du Kosovo ressemble beaucoup à l’invasion de l’Irak en 2003, qui, elle aussi, a été vendue au public comme un effort humanitaire de “libérer” le peuple irakien d’un violent dictateur. Rétrospectivement, on se rend pourtant compte que l’invasion a probablement causé autant, et sans doute plus de morts que le nombre total de victimes de Saddam Hussein. La leçon principale des expériences du Kosovo et de l’Irak est que les actions militaires – qu’on les qualifie “d’humanitaires” ou non – ont toujours la capacité d’accroître la misère humaine. Les partisans des interventions humanitaires ne font pas suffisamment attention à ce danger.
Il peut être utile de rappeler le principe médical : “First do no harm” (Avant tout, ne pas faire de mal). Parmi les médecins, on a depuis reconnu qu’une intervention pouvait empirer l’état du patient. Le fait que le patient souffre n’est pas, en lui-même, une raison suffisante d’opérer, car l’opération elle-même court le risque d’augmenter la souffrance. La même prudence devrait être de mise dans les interventions militaires. On éviterait ainsi des actions risquées qui ont toutes les chances d’augmenter le nombre de morts (comme cela s’est produit au Kosovo). Avant tout, ne pas faire de mal.
http://www.tanjug.rs/RssSlika.aspx?30312
BEČ, 31. avgusta (Tanjug) - Ministar inostranih poslova Austrije Mihael Špindeleger odbacio je tvrdnje slovenačkog premijera Boruta Pahora da je Slovenija pravni naslednik bivše SFRJ po pitanju Državnog sporazuma kojim se Austrija obavezala na trajnu neutralnost i poštovanje nacionalnih manjina, a čije potpisivanje je omogućilo povlačenje savezničkih snaga 1955. godine. 'Po tom pitanju smo sasvim drugačijeg mišljenja. Ne odgovara našem pravnom shavatnju da su sve države bivše SFRJ automatski pravne naslednice. To nije pravno održivo', poručio je austrijski ministar u intervjuu bečkom dnevniku 'Prese'. (Kraj)
The best president for us would be Dr Najibullah. And your best president was Brezhnev. Thats what former guerrillas say. I cant believe my ears.
... They give you a lecture on the fact that they were the unwitting tools of the Americans, who had treacherously lured the Soviets into the country. They tell you the USSR left them with roads, tunnels, factories, colleges, farms, hydro-electric power stations and housing estates, and that the Soviets left almost the whole Afghan economy intact. And what help did the Americans give? Nothing.
... Memories of tunnels we built, flour and kerosene, free study in the USSR, our beautiful girls and our generous hospitality all remain, warming hearts and nourishing dreams. Of course, its not Brezhnev they idolise, but that former life, which now seems completely happy. Theyre not dreaming of Communism, but they want to play a real part in their own destiny - the way the Soviet Union once allowed them to. This is a very important point when it comes to understanding the Afghan situation...
L'unificazione
24.08.2009 Da Tirana, scriveL'intervista è stata rilasciata a metà agosto, presso la sede kosovara dell'albanese TV Klan, e in seguito è stata pubblicata dal quotidiano di Tirana “Koha Jone”, entrambi media fedelissimi al PD di Berisha. L'intervista in cui il premier parlava con evidente pathos dell'unificazione nazionale, è stata pronunciata dopo che il premier albanese si è visto protagonista di una polemica che ha avuto luogo in Kosovo, animata principalmente da diversi analisti di Pristina, che accusavano Berisha di intromettersi nella politica kosovara. Negli ultimi mesi, anche per scopi elettorali, i rapporti politici tra i due paesi si sono intensificati notevolmente, e il premier albanese ha organizzato numerosi incontri sia con il suo omologo kosovaro Hashim Thaçi, sia con con il leader dell'opposizione Ramush Haradinaj.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso nei rapporti tra Tirana e Pristina è stata una dichiarazione di Berisha a favore del leader dell'LDK, Hashim Thaçi, riguardo le prossime elezioni kosovare previste per il 14 novembre.
Il fatto che Berisha si sia schierato pubblicamente a fianco di una delle forze politiche kosovare non passa senza conseguenze in Kosovo, dato che Berisha è un leader molto amato e influente presso i kosovari. La dichiarazione in seguito è stata corretta, eliminando la parte della preferenza per il partito di Thaçi, e soprattutto dall'atteggiamento successivo di Berisha: gli incontri molto affettuosi con Ramush Haradinaj hanno infatti riportato alla ribalta la mentalità pragmatica del premier e l'obiettivo di mantenere invariati i rapporti attuali tra i due paesi. Sembrerebbe questo il motivo principale dell'intervista.
Ma probabilmente il premier si è spinto troppo in là assecondando quelli che in Albania vengono considerati come i cliché del patriottismo kosovaro da rispettare quando si interloquisce con gli albanesi d'oltre confine.
“Dopo l'indipendenza del Kosovo, e dopo l'integrazione alla Nato dell'Albania, l'obiettivo comune di Tirana e di Pristina è l'unificazione della nazione, nel senso dell'abolizione dei confini, e dell'incentivazione degli scambi economici” ha affermato Berisha. “L'unificazione della nazione è un progetto comune, ed una priorità sia dei politici di Tirana sia di quelli di Pristina. Far alterare tale obiettivo dalla rotazione del potere è qualcosa di molto primitivo” ha continuato il premier, sottolineando che i rapporti tra lui e tutti i leader kosovari sono “ottimi, e fraterni”.
E' difficile cogliere il senso razionale delle dichiarazioni di Berisha, al di là della retorica patriottica che domina da mesi nei discorsi pubblici del premier. “Io e il premier Hashim Thaçi faremo in modo che gli albanesi si sentano uguali, in Albania e in Kosovo, che i kosovari che vengono in Albania in vacanza non si sentano diversi, dobbiamo superare le differenze che si sono create da una così lunga separazione” ha continuato Berisha.
Definendo l'unificazione nazionale come un “progetto comune” e una “priorità”, ma allo stesso tempo premettendo che “non si tratta di ledere alla sovranità né del Kosovo, né dell'Albania” il discorso di Berisha è stato molto ambiguo, lasciando ampio spazio alle interpretazioni. E' stato poco chiaro innanzitutto cosa intendesse il premier con “unificazione nazionale”, mentre allo stesso tempo parlava del concetto europeo di abolizione dei confini, da chiedere anche al Montenegro.
Probabilmente perché pronunciato in piena estate, sono state pressoché nulle le reazioni degli analisti e dei politici di Tirana e di Pristina. Sono arrivate invece due note di protesta dalle cancellerie di Belgrado e di Podgorica, che considerano quanto pronunciato da Berisha una provocazione, che minaccia la sovranità e l'integrità territoriale dei due vicini. Altrettanto tempestive sono state le reazioni della Tirana ufficiale, che diversamente dalle dichiarazioni patriottiche ed emotive del premier, sembrava aver recuperato la posizione ufficiale dell'Albania che vuole garantire la pace e la stabilità nei Balcani, in favore dell'integrazione all'Ue di tutta la regione.
L'intervista di Berisha è stato il primo caso in cui un leader albanese abbia menzionato così esplicitamente l'unificazione nazionale, in termini di progetti e priorità nazionale, mentre dalla proclamazione dell'indipendenza del Kosovo i leader albanesi da entrambe le parti del confine si sono adoperati a smentire ogni ipotesi che si avvicinasse a qualsiasi forma di unificazione tra Kosovo e Albania, definendo l' “Albania etnica” e l'unificazione “un fantasma inventato da Belgrado a fini propagandistici”. Tanto meno è mai esistito un programma comune, e non è chiaro a cosa aspiri il premier albanese con le sue dichiarazioni.
La sorprendente mancanza di reazioni in Albania, mentre l'argomento merita dibattito, potrebbe far pensare che gli albanesi abbiano considerato le posizioni espresse da Berisha, una delle sue gaffe poco riflettute che poi lasciano il tempo che trovano. Mentre l'unificazione nazionale sia in Kosovo che in Albania rimane una convinzione di una minoranza irrisoria che non viene tradotta nelle posizioni ufficiali di Tirana o di Pristina, e che soprattutto non trova alcun sostegno internazionale.
Lo stesso premier in una dichiarazione di pochi mesi fa considerava irrealistica l'unificazione panalbanese, considerandola possibile solo da un punto di vista europeista, di abbattimento di barriere burocratiche e di intensificazione degli scambi economici. Dopo la proclamazione dell'indipendenza del Kosovo, sono stati fatti enormi passi avanti in questo senso. Il Kosovo è diventato parte del discorso politico interno albanese in occasione dell'inaugurazione dell'autostrada Durrës-Kukës, definita anche come la strada dell'unificazione nazionale.
Inoltre negli ultimi mesi sono state diverse le iniziative mosse da parte del governo albanese all'insegna dell'avvicinamento dei due paesi, tra cui l'eliminazione dei dazi doganali, e anche la promessa ufficiale della costruzione di un porto sulla costa adriatica di Velipojë nell'Albania settentrionale, per poi concederlo al Kosovo. Numerose televisioni di Tirana hanno aperto le loro sedi a Pristina, e sempre più spesso i kosovari affermano che “non c'è ditta di Tirana che non abbia un ufficio a Pristina”.
Ma l'unificazione non è mai stata presa sul serio, e nella fase in cui si trova attualmente la regione, tutti i leader albanesi concordano sul fatto che una tale ipotesi sembra a dir poco irrealistica. D'altronde lo stesso premier affermava in un'intervista precedente: “I kosovari hanno lottato per ottenere uno stato indipendente, non per unificarsi con l'Albania”. Rimane da verificare nei prossimi mesi se nel frattempo abbia cambiato idea.
https://www.cnj.it/documentazione/Cost74_2.pdf )
Kosmet 2003: ferragosto di sangue - JUGOINFO agosto-settembre 2003:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2723
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2736
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2739
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2742
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2745
Un anno dopo la strage di Gorazdevac - JUGOINFO 13 agosto 2004:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3720
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13. agosto 2009.
La commemorazione per i ragazzi, 12-enne Pantelija Dakic e 19-enne Ivan Jovovic, uccisi da armi da fuoco sul fiume Bistrica sei anni fa, è stata organizzata nella chiesa della Santissima Madonna a Gorazdevac, vicino a Pec. La liturgia è stata servita dall’arcivescovo di Raska e Prizren Artemije, il quale ha sottolineato che la ferita causata allora ai loro famigliari non si risanerà mai e che i serbi non dimenticheranno mai queste vittime innocenti. Il segretario statale nel Ministero per il Kosovo e Metochia Oliver Ivanovic cha evidenziato che tutti i crimini commessi sui serbi in Kosovo, soprattutto l’uccisione dei ragazzi a Gorazdevac, della famiglia Stolic a Obilic, dei passeggeri dell’autobus “Nis ekspres” nei pressi di Podujevo e dei mietitori a Staro Gracko – devono essere risolti. Nel caso contrario non potremmo mai avere fiducia nella comunità internazionale, ha fatto sapere Ivanovic.
13 agosto 2009
Bogdan Bukumiric di Gorazdevac, ferito gravemente sei anni fa nell’attacco dei terroristi albanesi contro un gruppo di ragazzi serbi, ha annunciato che presenterà la denuncia davanti al Tribunale a Strasburgo contro la giustizia internazionale in Kosovo, rammaricato per il fatto che non è stato raggiunto alcun progresso nell’inchiesta su questo crimine. Non smetterò mai di lottare affinché gli assassini dei ragazzi vengano portati davanti alla giustizia, ha detto Bukumiric, sei anni dopo l’attacco in cui sono stati uccisi due ragazzi e feriti altri quattro. Bukumuric, che il giorno dell’attacco aveva 15 anni, ritiene che sia inaccettabile che in sei anni non è stato possibile scoprire i criminali che quel giorno avevano sparato 90 pallottole contro i ragazzi soltanto perché sono di nazionalità serba.
16. agosto 2009.
Il portavoce del presidente del Kosovo Javit Beciri ha dichiarato al quotidiano “Koha ditore” che le elezioni per i comuni di Pristina e Pec, che si tengono oggi a Gracanica e Gorazdevac, sono illegittime e che i loro risultati non saranno validi. I rappresentanti dell’opposizione e della società civile valutano che queste elezioni rappresentino “l’aggressione dello stato serbo verso il Kosovo e la trasgressione della sovranità del Kosovo”. La polizia kosovara ha comunicato qualche giorno fa che non userà la forza per ostacolare le elezioni per i comuni Pec e Pristina, spostati a Gorazdeva e Gracanica. Le elezioni sono state indette perché il governo serbo ha sciolto all’inizio di aprile queste due assemblee locali per, come è stato rilevato allora, la trasgressione delle leggi e l’abuso del potere.
U Crkvi Presvete Bogorodice u Goraždevcu održan je pomen srpskim dečacima Panteliji Dakiću (13) i Ivanu Jovoviću (19), koji su ubijeni iz vatrenog oružja na reci Bistrici pre šest godina. Nepoznati napadači su 13. avgusta 2003. ispalili 90 metaka na grupu srpske dece, ubili dvoje i ranili četvoro
Vlada Srbije od dolaska Civilne misije EU na Kosmet insistira i zahteva da svi zločini počinjeni nad Srbima budu rasvetljeni – izjavio je državni sekretar u Ministarstvu za Kosovo i Metohiju Oliver Ivanović u kosovskom mestu Goraždevac. Posle parastosa dvojici srpskih dečaka ubijenih na obali reke Bistrice 2003. godine, Ivanović je ukazao da je za vlasti u Beogradu i kosovke Srbe apsolutno neprihvatljiva činjenica da ni šest godina posle tog monstruoznog zločina još nema nikakvih informacija o napadačima na srpsku decu. Neverovatno je da se zločin dogodio usred bela dana na obali reke, a da su ubice ostale neotkrivene - rekao je Ivanović i dodao da je od početka bilo jasno da je reč o etnički motivisanom činu.Takva i slična zlodela izazivaju porast nepoverenja i strepnje kod Srba i pripadnika drugih nealbanskih zajednica na Kosmetu, zbog čega međunarodna zajednica mora da izvrši pritisak na lokalne kosovske institucije i od njih zatraži saradnju - naznačio je Ivanović. On je napomenuo da rasvetljavanje zločina nad srpskim civilima predstavlja ozbiljan test za Euleks koji bi na takvim primerima morao da ubedi Beograd i kosovske Srbe da li je sposoban da obavlja svoju misiju u Pokrajini.
L’esumazione sul territorio della miniera Belacevac, nei pressi di Pristina, dove, secondo alcuni testimoni si trovano i corpi di 14 minatori e di una decina di civili serbi e non albanesi, rapiti dai terroristi albanesi nel 1998, è stata rinviata di nuovo – all’estate 2010, ha comunicato l’Associazione delle famiglie di persone rapite ed uccise in Kosovo. L’Associazione ha informato di questo la missione dell’Unione europea a Pristina – EULEX – con la spiegazione che nessuno dei 30 stati ai quali si sono rivolti ha espresso la prontezza ad aiutare questo progetto che richiede grandi mezzi finanziari. L’Associazione ha chiesto recentemente all’EULEX la risposta alla domanda sul perché si è fermato con l’esumazione vicino alla miniera Belacevac, iniziata l’anno scorso. Le famiglie di oltre 2.500 vittime serbe in Kosovo, di cui 540 non conoscono ancora il destino dei loro cari, hanno ricevuto la spiegazione dell’EULEX con disaprovazione. Nel comunicato è stato evidenziato che l’agonia e il trauma delle famiglie delle vittime serbe continuano proprio per l’inaccettabile e l’incomprensibile irresponsabilità ed indolenza dei rappresentanti della comunità internazionale in Kosovo e Metochia.
Tanjug News Agency - June 3, 2008
"No political will to investigate Kosovo missing"
KOSOVSKA MITROVICA - Senior DSS official Milos
Aligrudic believes that any serious investigation into
the fate of kidnapped Kosovo Serbs has been blocked.
Aligrudic, who is also Parliamentary Assembly of the
Council of Europe (PACE) vice-president, made the
comments while speaking in Kosovska Mitrovica to
family members of kidnapped or missing Serbs, adding
that there was no political will to resolve this
issue.
He was particularly critical of U.S. policy, which, he
said, was hampering resolution of this matter.
Quoting information in former Hague Chief Prosecutor
Carla Del Ponte’s book, the senior Democratic Party of
Serbia (DSS) official said that "American policy
helped block investigations into crimes committed by
members of the so-called Kosovo Liberation Army
(KLA)."
"That is probably at the root of the entire matter,
but it is essential for us to see that this thing is
resolved also through the Parliamentary Assembly of
the Council of Europe, which deals with the issue of
human rights," he said.
Meanwhile, representatives of the Association of
Families of Kidnapped and Missing Persons in Kosovo
appealed yesterday to international public and courts
to establish the criminal responsibility of KFOR and
UNMIK representatives, as, during their mandate, a
large number of Serbs had been kidnapped and their
fate was still unknown.
Association Coordinator Milorad Trifunovic said that
they should insist on extracting the truth from one
former KFOR commander about what he knew of the fate
of missing Serbs.
"We should also ask UNMIK representatives,
particularly Malcolm Stark, who has confirmed that
there were 144 camps in Kosovo in which Serbs were
held prisoner, to tell us what happened to those
missing persons," said Trifunovic.
He stressed that Stark should say who had been
responsible for holding those people prisoner in those
camps, the exact location of the camps, as well as the
identity of the people responsible for the
disappearance of camp prisoners.
Trifunovic, whose brother Miroslav disappeared
together with ten of his colleagues from the Belacevac
mine in 1998, said that former UNMIK Chief and current
French Foreign Minister Bernard Kouchner should reveal
all he knows about kidnapped and missing persons,
"because as a doctor and member of Medicins Sans
Frontieres, Kouchner knows something about those
events."
He added that Del Ponte should tell the truth, "which
she is turning into money by writing her books."
Representatives of kidnapped and missing Serbs in
Kosovo insist on opening up Hague Tribunal archives as
well as those of KFOR, because, as they say, there are
grounds to believe that those archives contain the
truth about the missing Serbs from Kosovo.
Il 23 marzo del 1999, Javier Solana, allora segretario generale della Nato, autorizzò l’operazione Allied Force che dava il via all’aggressione militare contro la Federazione Jugoslava: si riteneva che, in due o tre giorni di raid, il Governo di Belgrado avrebbe ceduto alle richieste capestro della ‘comunità internazionale’. Gli attacchi cominciarono la sera del 24 marzo, e colpirono bersagli strategici, sia civili che militari: stazioni radiotelevisive, impianti industriali, ponti… mano a mano che l’offensiva andava avanti, il numero dei morti e dei feriti cresceva. Ma i giorni passavano e la posizione dei governi aderenti alla Nato si faceva sempre più difficile: ma in assenza di un forte movimento di massa contro la guerra – in Italia il centrosinistra al governo giustificava l’operazione militare come inevitabile portandosi dietro sindacati e associazioni cosiddette pacifiste - l’intensificarsi delle azioni militari e l’aumento dei bersagli possibili fecero sì che gli aerei dell’alleanza non utilizzassero più soltanto le cosiddette "bombe intelligenti" a guida laser o satellitare, che poi tanto intelligenti non erano, ma anche carichi convenzionali, assai meno chirurgici nell’uso, con un pesante tributo di sangue innocente. Il 6 aprile, un missile uccise 17 civili ad Aleksinac; il 12 fu colpito un treno passeggeri, causando 55 morti; il 14 a Decani una colonna di profughi albanesi fu scambiata per truppe jugoslave (75 morti), nella stazione televisiva di Belgrado morirono, il 23 aprile, 16 persone che stavano lavorando ai notiziari, il 1 maggio fu centrato un autobus di linea vicino a Pristina (23 morti) e due giorni dopo avvenne lo stesso a Pec (20 morti), il 14 maggio furono uccise da una bomba altre 87 persone: alla fine, i danni ‘collaterali’ si sarebbero quantificati in almeno altre 500 nuove tombe! Il 27 maggio, gli aerei Nato fecero il record: 741 incursioni... A sorpresa, il 2 giugno, Milosevic accettava l’ennesimo ultimatum di Washington. Ormai, la Nato copriva militarmente dall’alto le milizie dell’Uck che, invece di sciogliersi come concordato, cominciarono una lunga serie di assalti contro le comunità serbe della provincia. In uno degli ultimi episodi dell’aggressione, il 7 giugno, sul monte Pastnik, truppe di Belgrado che si stavano scontrando coi guerriglieri furono letteralmente "polverizzate" dai B52 statunitensi; sparirono sotto le bombe 225 soldati di Belgrado. Il 10 giugno, dopo 79 giorni d’inferno, i bombardamenti Nato furono sospesi: sulla Serbia erano state lanciate 23.164 bombe. Due giorni dopo, cominciavano ad affluire il Kosovo 14.000 soldati del Kfor; ma, nonostante ciò, l’Uck continuò ad occupare città e territori e a perpetrare ogni sorta di angheria verso le minoranze non albanesi (Rom e serbi, soprattutto) passando poi alle rappresaglie contro quei movimenti albanesi che rifiutavano di sottomettersi ai comandanti delle milizie.
Sono passati esattamente dieci anni, una delle tante guerre giuste e umanitarie da appuntare come una medaglia al petto di premier e ministri. Ma una volta salvati, i kosovari non interessano più. Non fanno più notizia.E men che meno interessa la minoranza serba del Kosovo, 100 mila persone che da dieci anni – e anche da prima che iniziasse la guerra, quando già dal maggio del 1996 le bande dell’UCK uccidevano militari e poliziotti, ma anche giornalisti, sindaci e giovani serbi nei caffè - hanno dovuto fare i conti con quella che in molti chiamano ‘contropulizia etnica’. Dando così per buona la versione degli eccessi di una pulizia etnica precedente ai danni degli albanesi da parte delle autorità serbe che avrebbe scatenato la reazione – per alcuni eccessiva e inaccettabile, per altri giustificabile o quanto meno comprensibile – contro gente che in Kosovo ci vive da secoli e che però viene considerata un corpo estraneo da eliminare in una nuova nazione che si fonda sul mito della Grande Albania e su una identità di tipo etnico che non lascia spazio alla diversità.
A migliaia hanno dovuto lasciare le loro case bruciate e distrutte dai ribelli dell’UCK, tornati dall’Albania e dalla Macedonia dove si erano rifugiati per sfuggire agli attacchi e ai rastrellamenti dei paramilitari e dell’esercito di Belgrado – ma soprattutto agli intensi bombardamenti della NATO che non facevano differenze di etnia. A decine di migliaia i serbi si sono rifugiati nei territori vicini, in Serbia, ma anche in Montenegro, mentre decine tra chiese e monasteri vecchi di secoli saltavano in aria, le loro case bruciavano, campi coltivati venivano distrutti e animali di allevamento uccisi. I nuovi vincitori, spalleggiati dagli eserciti dei paesi tra i più potenti al mondo, mettevano in atto la loro vendetta: l’obiettivo era ripulire il nuovo stato dai serbi, ma anche dalle altre minoranze che per secoli hanno convissuto in uno dei territori più multietnici dei Balcani: i rom, i gorani, i turchi, i bosniaci, gli egiziani, gli ashkalia, i montenegrini...
Chi non è scappato altrove ha comunque abbandonato le proprie case a Pristina, a Peia, a Prizren, e ha cercato riparo nella maggiore città a maggioranza serba dell’ex provincia poi diventata indipendente: a Mitrovica un ponte segna il confine virtuale tra la parte albanese e quella serba. Di qua un nuovo paese che si considera un pezzo ancora troppo piccolo della grande Albania, di là un irriducibile comunità governata da Belgrado, che al posto dell’euro usa il dinaro, che parla e vive in serbo e vede la tv di Belgrado, che beve una birra diversa e che usa una compagnia telefonica diversa da quelle che usano gli albanesi poche centinaia di metri, pochi km più a sud. Una comunità che si sente, ed è, assediata, accerchiata, ferita nell’orgoglio e che cova una rabbia e una disperazione che è impossibile descrivere a parole.
Ma alcuni hanno deciso di restare nelle loro case anche nel resto del Kosovo, di non scappare. Come a Gorazdevac, un piccolo villaggio in cui vivono assediati meno di mille serbi. Altrettanti se ne sono andati altrove, sono emigrati. A proteggere e a controllare chi è rimasto, ci sono i militari della KFOR. Oggi sono romeni, fino a poco tempo fa erano italiani. È un paradosso, essere protetti oggi da chi nel ’99 li ha bombardati e bersagliati. Le poche case, per lo più ricostruite o rattoppate, visto che molte sono state distrutte o danneggiate dagli attacchi dei miliziani albanesi, sono circondate da una specie di perimetro, chiuso a valle e a monte da due checkpoint sorvegliati dai militari della NATO. ‘Fino a poco tempo fa erano presidiati 24 ore su 24, ora invece i militari romeni percorrono il perimetro di tanto in tanto, la situazione è più tranquilla’, ci spiega Domenico di “Operazione Colomba”, che da parecchi mesi vive in una casa di Gorazdevac assieme ad altri italiani che lavorano ad un progetto dell’associazione che mira alla riconciliazione tra serbi e albanesi, al mutuo riconoscimento di comunità che continuano a odiarsi e a sognare un futuro diverso, opposto, inconciliabile.
Vivere assediati dai soldati senza poter uscire liberamente dal recinto è come vivere in un tempo sospeso. Ad vicino villaggio di Belo Polje, poco distante da ‘Villaggio Italia’, la principale base militare del contingente italiano in Kosovo, è andata molto peggio. Qui le bande dell’UCK arrivarono nel 1999, distrussero le case, la chiesa, la scuola. Gli abitanti tornarono presto, e ricostruirono, fidandosi degli inviti rivolti pressantemente dall’ONU a rientrare nei territori abbandonati durante il conflitto. Ma nel 2004 i paramilitari albanesi tornarono, e distrussero tutto di nuovo, compresa un’antica chiesa ortodossa dove si erano rifugiati alcuni preti, donne e bambini.
“I 7 soldati italiani del contingente della NATO che dovevano difendere il villaggio quando videro avvicinarsi gli aggressori fuggirono lasciando ai poliziotti albanesi l’arduo compito. Questi provarono anche a resistere, spararono anche sulla folla inferocita aizzata dall’UCK che aveva già iniziato la distruzione delle case, ma poi anche loro scapparono” ci racconta ancora Domenico mentre in automobile passiamo vicino alle case sventrate e annerite dal fumo per andare a vedere, da fuori, la base militare italiana. Oggi a Belo Polje della maggior parte dei mille abitanti di un tempo ne rimangono poche decine. E’ un paese fantasma, un simbolo di un Kosovo serbo che non c’è più, rimosso a forza dalla mappa geografica.
A prima vista, quindi, alla piccola e vicina comunità di Gorazdevac è andata meglio. C’è una atmosfera apparentemente tranquilla, rilassata. Anzi, quando entriamo in paese accompagnati dai ragazzi di Operazione Colomba vicino alla chiesa e alle piccole giostre c’è animazione: nel campetto locale è appena finita una partita di calcio – valida per il campionato nazionale, serbo naturalmente - e parecchia gente, per lo più giovani, stanno sciamando fuori dal campo di gioco mentre altri salgono sul vecchio autobus che li ha portati qui da un paese vicino.
L’allegria però cessa immediatamente quando a piedi cominciamo ad esplorare il paese accompagnati da Sanya, una ragazza che ci ospita a casa sua insieme ai genitori e ai piccoli e biondissimi Milos e Philip. Poco lontano dalla loro bella e accogliente casa, accanto a una fontana in un piccolo recinto adornato da fiori, c’è una lapide: sopra c’è scolpito un lungo elenco dei nomi degli abitanti del villaggio morti negli attacchi dal ’99 in poi, e ai lati della stele due foto. Sono quelle di Ivan e Pantelja, uccisi nel 2003 dai colpi di kalashnikov sparati dalla boscaglia. Erano due ragazzi, assassinati mentre con alcuni loro coetanei facevano il bagno nella Bistrica, un torrente che scorre ai margini di Gorazdevac. Era agosto e faceva caldo, e anche se gli abitanti del villaggio evitavano accuratamente di andare a Pec-Peia (ormai solo Peia...) o di fermarsi troppo a lungo nei vicini villaggi albanesi dei dintorni nessuno avrebbe mai pensato che qualcuno potesse prendere di mira, a freddo, due ragazzini.
Ai funerali di Ivan Jovović, di 19 anni, e di Panteljia Dakić, di 11 anni, il 13 agosto del 2003 parteciparono tutti gli abitanti del villaggio e molti altri, compresi centinaia di soldati della Nato e dell’ONU: quegli stessi che non hanno saputo e voluto proteggerli, quegli stessi che non hanno saputo e voluto trovare e punire i responsabili di quell’orrendo crimine.
Da quel giorno i pochi serbi che grazie al lavoro di Operazione Colomba e di Intersos avevano ricominciato ad uscire dall’enclave sono stati costretti nuovamente a rinchiudersi in quella loro piccola prigione. Qua non c’è lavoro, non c’è niente da fare. E molti continuano ad andarsene, nonostante gli incentivi economici di Belgrado ai serbi del Kosovo; i genitori di Sanya, con cui tentiamo di praticare qualche parola di serbo che abbiamo imparato durante i precedenti viaggi nei Balcani, è da tanti anni che non lavorano, che se ne stanno in casa, frustrati. Lui lavorava nello stabilimento di Pec della Zastava, quello che sfornava automobili per conto della Fiat. Ora nello stabilimento non ci lavora più nessuno degli 800 serbi che vi erano impiegati fino al ’99. Magra consolazione deve essere stata per quelle centinaia di operai albanesi che sono stati cacciati nel corso del processo di privatizzazione di quella che adesso si chiama ‘Kosova Steel’. Operai albanesi cacciati dai nuovi padroni altrettanto albanesi. Contraddizioni del nazionalismo.
Cerchiamo di spiegare all’ex operaio della Zastava che ci ospita in casa che i comitati dei lavoratori dell’altro stabilimento dell’ex azienda automobilistica jugoslava, quello di Kragujevac, a sud di Belgrado, qualche giorno prima che arrivassimo a Pristina avevano offerto il loro aiuto alla popolazione del terremoto, organizzando una donazione di sangue per gli abruzzesi. Qualche anno fa, mentre i bombardieri anche italiani sganciavano sulla loro fabbrica bombe da mezza tonnellata che facevano scempio delle macchine e delle infrastrutture, alcune organizzazioni di lavoratori italiani avevano organizzato una raccolta di fondi per i loro compagni della Zastava. Non sappiamo quanto di quello che abbiamo detto sia stato compreso dal padrone di casa, che comunque esprime il suo dolore e la sua solidarietà per chi ha perso la vita o la casa all’Aquila. Poi ci offre un bicchierino di Rakja, la grappa che hanno fatto in casa durante l’inverno con le prugne dell’albero nel giardino. Lui non beve, mancano pochi giorni alla Pasqua ortodossa e per una settimana si mangiano solo verdure, non si usa l’olio e non si bevono alcolici. La sera della vigilia c’è la cerimonia più importante per tutta la comunità... Decani è a pochi chilometri di distanza, chi sa se gli abitanti di Gorazdevac riusciranno a raggiungere il Monastero per la messa.
Mentre cerchiamo di spiegarci e di comprenderci, se ne va la corrente… Jagoda accende le candele, che sono a portata di mano. I blackout sono normali, qui la luce da anni se ne va due, tre, quattro volte al giorno. Certe volte per pochi minuti, certe volte parecchie ore. ‘Niente lavorare, niente pagare’ recita Jagoda nel suo italiano incerto. Suona come una sentenza. I serbi non pagano le bollette della luce che gli arrivano dalla nuova compagnia elettrica kosovara, la KEK. E quindi la compagnia gli stacca la corrente, raccontano, per ritorsione. All’inizio di marzo a Silovo, in un villaggio serbo nel centro del Kosovo, la popolazione è scesa in piazza per protestare contro i distacchi di elettricità da parte della compagnia KEK: ci sono stati scontri violenti durante i quali sono rimasti feriti una cinquantina di serbi e cinque poliziotti. Anche gli albanesi non pagano le bollette... il caos postconflitto per certe cose dura ancora. Ma a loro la luce non la staccano, se non quando la vetusta e puzzolente centrale a carbone di Obilic non ha qualche problema.“Tako”, “è così”, commenta scuotendo la testa Jogoda mentre infila altri ciocchi di legna nella stufa che riscalda la stanza. Sanya mette a letto Milos e Philip, è tardi e domani mattina presto devono andare a scuola. Non dovranno fare molta strada, in effetti: l’edificio bianco che ospita i bambini dai 6 ai 18 anni è a poche centinaia di metri da casa. I libri sono gli stessi che si studiano a Belgrado, si studia la storia della Serbia e della Jugoslavia. Sui testi scolastici si raccontano gli albori della cultura serba, quando gli antenati di Milos e Philip costruirono i monasteri di Decani, quello di Pec, quello di Gracanica, e poi difesero i loro villaggi contro l’invasione turca nella battaglia di Kosovo Polje. Una battaglia persa, ma per i serbi una sorta di atto di fondazione di una civiltà che sentono viva e minacciata dall’espansione nei Balcani dell’Islam e degli Albanesi che li hanno accerchiati, messi all’angolo. I partiti di Belgrado continuano a fare promesse che non potranno e forse presto non vorranno più mantenere: continuano a dire che presto la situazione migliorerà, che i serbi del Kosovo riavranno presto la libertà di movimento, che potranno tornare a lavorare, e a vivere normalmente. Anche i partiti albanesi di Pristina stanno al gioco: la nuova costituzione kosovara concede ai serbi una delle sei stelle che campeggiano sulla bandiera ufficiale della nuova repubblica, in nome di una società multietnica che non esiste più e che nessuno vuole. Ognuno vive nel suo mondo separato, nella sua realtà, non c’è collaborazione o contatto tra albanesi e serbi. E quando qualcuno sconfina è facile che diventi un target: i leader e gli attivisti politici kosovari che abbiamo incontrato, e i giornalisti, negano risolutamente che i serbi vengano discriminati o addirittura minacciati. “sono loro che si isolano, che si appartano, che non vogliono riconoscere la nuova realtà” è la spiegazione che ci sentiamo ripetere. Ma noi prima di partire abbiamo fatto una ricerca sulle agenzie di stampa, e abbiamo trovato almeno quattro aggressioni gravi contro cittadini serbi solo nell’ultimo mese e mezzo. D’altronde i kosovari si sentono albanesi, e considerano la nuova bandiera blu appena sfornata dopo un concorso pubblico qualcosa di imposto, di improprio. Infatti tutti usano quella rossa con l’aquila nera bicipite, e quelle sei stelle messe accanto alla mappa del Kosovo a rappresentare le sei etnie che popolano il territorio sono solo una concessione fatta agli amici della Nato. Se non fosse per i militari italiani o svedesi in assetto da guerra che proteggono Decani o il Patriarcato serbo di Pec da dietro le loro postazioni blindate, questi gioielli della cultura medievale sarebbero cancellati, bruciati, distrutti, come è capitato a più di 100 monumenti serbi in tutta la ex provincia Jugoslava. La stessa memoria della loro presenza storica deve essere rimossa. Ed è a quella memoria, ingigantita e amplificata, che si attaccano i serbi per resistere in un territorio ostile. Nel pomeriggio Sanya ci aveva mostrato orgogliosa una piccola chiesa di legno che è sopravvissuta dal 1200, salvata dalle invasioni dei turchi e dalle razzie dei soldati delle diverse nazioni che hanno attraversato nei secoli questo territorio, smontata e spostata di volta in volta per evitarne la distruzione. Siamo in una regione che i serbi chiamano Metohija, ‘la terra dei monasteri’. Belgrado la considera la culla della civiltà serba, e afferma che mai e poi mai cederà la sovranità sui luoghi sacri e sul patrimonio culturale disseminato sui monti e nelle valli intorno a Pec. Ma la real politik e la necessità di una integrazione economica e politica delle elite di Belgrado nell’Unione Europea e nella Nato potrebbe consigliare una soluzione di compromesso: creare un cantone serbo a Mitrovica dove concentrare tutti i serbi del Kosovo, una sorta di repubblica Serpska come in Bosnia. Per ora tutti lo negano, a Belgrado perché ai serbi suonerebbe come un tradimento e a Pristina perché agli albanesi suonerebbe come una indebita pretesa territoriale all’interno della nuova repubblica indipendente. Ma qualche analista giura che è la proposta con più probabilità di essere attuata nel prossimo futuro. Che fine farebbero, a quel punto, i serbi di Gorazdevac? Passeggiando arriviamo al check point e ci fermiamo: più in là non si può andare, c’è un altro villaggio. E’ albanese: con la sua lingua, la sua religione, la sua cucina, la sua musica, i suoi simboli. I suoi martiri e i suoi lutti.L’ eco-villaggio e’ situato a 1000 metri s.l.m., inaugurato il 25 maggio nella giornata della Gioventu.
(Politika, 27.5.2008)
(foto: per ogni Repubblica una casa prefabbricata)
Pluzine- Nella localita’ di Crkvicko Polje, 11 km da Scepan Polje, nel comune di Pluzine, nelle vicinanze del passaggio di frontiera tra il Montenegro e la Federazione della Bosnia-Erzegovina, a mille metri sopra il livello del mare, in occasione della ex Giornata della Gioventu’ e’ stato inaugurato l’eco-villaggio dal nome simbolico “Jugoslavia” . Questo villaggio si trova in un bellissimo luogo, tra la gola del fiume Tara e Piveniklo. La costruzione si deve a Jovan Nisic che ha investito 100.000 euro in questo progetto.
Desideroso di contraccambiare il suo paese natale e i suoi avi, a questo giovane e’ venuta l'idea di costruire il villaggio, ritenendo che molti ritorneranno, se non a vivere almeno a soggiornare in questo luogo di estrema bellezza.
“Lo Stato del quale andavamo fieri non c'è piu’. Perche’ rimanga nel ricordo di tutti quelli che lo hanno amato e di quelli cui stava a cuore. Quello Stato non andava stretto a nessuno. Per la molteplicita’ di nazioni e nazionalita’ [minoranze] esso rappresentava una piccola Europa. Che sia questo il simbolo anche di questo eco-villaggio in cui nessuno si dovrà trovare "fuori luogo" e dove ci sara’ posto per chiunque.
Ad alcune centinaia di metri si trova una Casa-ricordo costruita in nome di tutti quelli che hanno dato la vita per la Jugoslavia. Questo e’ un luogo storico, percio’ anche il nome di questo villaggio deve ricordare il tempo che fu”, ha detto Jovan Nisic.
La pensione completa nel villaggio costa 25 euro, con un supplemento di 17 euro per il rafting (col gommone) lungo il fiume Tara. Un weekend di soggiorno viene 50 euro, mentre il soggiorno di 5 giorni viene a costare 125 euro con il supplemento per il rafting, l'escursione sul monte Zabljak, la navigazione sul lago Piva, la visita dei monasteri e della città di Soko. Per i turisti c'è la possibilità di andare a cavallo, in bicicletta...
L’eco- villaggio “Jugoslavia” ha 7 camere completamente arredate, a due e quattro letti (in tutto 20 posti letto), spazio per il campeggio, ristorante con ricca offerta di specialita’ nazionali con prodotti agricoli del luogo, miniterreni sportivi e un proprio parcheggio. (R. Vukicevic)
--- http://www.politika.rs/rubrike/exyu/index.1.sr.html ---
POLITIKA ONLINE
За понедељак 10. август 2009.
ex YU
Еко-село смештено на хиљаду метара надоморске висине отворено 25. маја, на некадашњи Дан младости
За сваку републику по једна брвнара (Фото Р. Вукићевић)
Плужинe – У месту Црквичко Поље, једанаест километара од Шћепан Поља, у плужинској општини, недалеко од граничног прелаза између Црне Горе и Федерације БиХ, на хиљаду метара надморске висине, 25. маја, на некадашњи Дан младости, отворено је еко-село симболичног имена „Југославија”. Између кањона река Таре и Пивеникло је прелепо село захваљујући Јовану Нишићу који је у овај пројекат уложио око 100.000 евра.
Желећи да се одужи родном крају и прецима, овај млади човек дошао је на идеју да изгради село, верујући да ће се многи вратити, ако не да живе оно бар да бораве у овом месту предивне лепоте.
– Државе са којом смо се поносили и у којој смо уживали више нема. Нека остане у сећању оних који су је волели, којима је била на срцу. У тој држави ником није било тесно. По броју народа и народности представљала је малу Европу. Нека то буде симболика и овог еко-села у коме никоме неће бити тесно и где ће за све бити места. На неколико стотина метара од еко-села налази се спомен-дом направљен у славу оних који су животе дали за Југославију. Ово је историјско место па нека и име еко-села подсећа на то време, рекао је Јован Нишић.
Једнодневни аранжман у селу на бази пуног пансиона кошта 25 евра уз доплату од 17 евра за рафтинг Таром. Цена викенд аранжмана је 50 евра, док петодневни пун пансион стаје 125 евра уз доплату за рафтинг, излет на Жабљаку, крстарење Пивским језером, обилазак манастира, Соко града За туристе је организовано и јахање коња, вожња бициклом...
Еко-село „Југославија” има седам комплетно опремљених двокреветних и четворокреветних брвнара са купатилима (укупно 20 лежаја), простор за камповање, ресторан са богатом понудом националних јела и природно узгајаним производима из тог краја, мини спортске терене и сопствени паркинг.
Р. Вукићевић
[објављено: 27/05/2008]
погледајте коментаре (2): http://www.politika.rs/index.php?lid=sr&show=rubrike&part=list_reviews&int_itemID=43443
Balkan governments introduce harsh austerity measures
By Markus Salzmann
19 August 2009
In Europe, the economic crisis has plunged a number of states into crisis. Without assistance from the International Monetary Fund, Iceland, the Baltic states and Hungary would already be bankrupt. The Balkan states have also been hit especially hard.
The already weak economies of these countries in the southeast of Europe have collapsed dramatically in recent months. The flood of foreign capital out of these countries has intensified the social crisis and led to a rapid increase in unemployment. Irrespective of the political composition of the governments of these states they are uniformly reacting to the crisis by shifting the entire burden onto the backs of the broad masses of the population.
In so doing these governments are relying on ever-closer cooperation with the European Union, which links any financial assistance to increasingly harsh austerity measures and savings programs.
The situation is further exacerbated by the precarious conditions that prevail. Wages have remained low in these countries for years and they lack any sort of adequate social welfare protection. Corruption is pervasive and extends to the highest levels of government. In addition, there is no political force that represents the interests of the population and is seriously intent on challenging the ruling elites.
Croatia
The first official act of the new center-right government headed by the Croatian Democratic Union (HDZ), which took power in July, was to announce huge tax increases. Head of government Jadranka Kosor (HDZ) declared she had prepared the introduction of this “crisis tax” in collaboration with EU Commission President José Manuel Barroso.
In the coming months the already meager wages of all public service workers will be cut. According to Vladimir Gligorov from the Viennese Institute for International Economic Comparisons (WIIW), “Kosor wants to probably use the 10 percent rule,” i.e., salaries and other public expenditures will be cut by 10 percent.
An additional tax of 3 percent will be levied in future on salaries, pensions and other incomes. These measures will especially affect pensioners and those dependent on low incomes. Only incomes under €400 per month will not be subject to the new tax. The average pension in Croatia is around €450, and the average monthly wage approximately €700. Expenditure cuts also mean that the country’s most recent social programs will be radically trimmed.
The indebtedness of this small state, with 4.5 million inhabitants, has risen rapidly in the past few years. The gross domestic product in Croatia is expected to shrink this year by around 4 percent, although the government in Zagreb had predicted a drop of just 2 percent.
The government is planning to raise a sum of €270 million through its additional tax revenues. But it is impossible for the government to overcome its €2 billion deficit with such cuts to salaries and public expenditure. This means that drastic new austerity programs are inevitable.
In implementing the cuts the Kosor government does not have to reckon with any serious opposition from the country’s trade unions or opposition parties. The head of government had no problem reaching an agreement over its proposed tax increases with social federations, according to media reports. The country’s trade unions have neither participated in these negotiations, nor conducted any sort of protest against them. They are also unlikely to oppose the imminent salary reductions.
The trade unions of Croatia played a key role in the privatization of the economy following the country’s independence. At the time of the separation of Croatia from Yugoslavia they worked to nip any sort of resistance in the bud.
The federation of autonomous trade unions (SSSH), which emerged in 1990 from the Socialist Trade Union Federation and has the largest number of members, was responsible for backing the government’s privatization of the economy and new orientation towards Western markets. During the period in which war reigned in Croatia the federation stirred up Croatian nationalism.
The only other significant trade union body in the country is the HUS, which was created in 1991 by the right-wing conservative HDZ, with the aim of replacing the SSSH. The HUS is even more right-wing than the SSSH. The leadership of the federation is dominated by fervent nationalists and supporters of the free market.
It was the free-market policies introduced in the 1990s, together with huge economic destruction arising from the war, which contributed to the current precarious situation of the Croatian economy where a number of sources of tax revenues have dried up. Numerous formerly flourishing industries have been shut down in the meantime. In their place a number of free trade zones were set up that are subsidized by the government and offer tax exemptions and special location advantages (i.e., low wages) to foreign enterprises and investors.
Serbia
In the former Yugoslav republic of Serbia, the government is also feverishly working on an additional savings package. Serbia must impose policies favored by the IMF in order to receive further debt relief. The Central Bank President Radovan Jelasic has just announced a series of further cuts to public expenditure while the Serbian Finance Minister Diana Dragutinovic has declared that the government soon intends to introduce a 20 percent tax increase for all incomes over €400.
Cuts to the state’s social safety net and education had already been agreed at the start of the year, combined with increases in taxes and public user fees. At the same time wages have continued to sink in value.
As in Croatia, the economic crisis has revealed the truly catastrophic social situation prevailing in Serbia. In 2008 gross domestic product was around 20 percent less than the total of 20 years earlier. Prices for basic foodstuffs have risen on average by 80 percent during the past five years while wages have generally stagnated. Some 500,000 Serbs already live below the poverty line.
The population confronts an alliance consisting of the country’s entire political and business elite. The conservative party of President Boris Tadic formed a coalition last year with the Socialist Party of Serbia (SBS) of former Yugoslav president Slobodan Milosevic. This means that together the pro-European conservatives and the socialists have a majority in parliament.
Representatives from the banks, business circles and the trade unions were present at the presentation of the government’s new “economic measures” by Prime Minister Mirko Cvetkovic. All those in attendance welcomed his proposals.
Romania
Following a meeting with IMF representatives, Romanian Prime Minister Emil Boc announced on August 5 that his cabinet intended to introduce further radical budget cuts. At the center of the cuts is the axing of least 9,200 jobs in public service.
The government had already agreed a package of cuts and savings at the start of the year that included a 20 percent reduction in the budget for public servants. Pensioners, who because of their low pensions are forced to work in public service, have to decide between their job or a pension. For thousands of pensioners the combination of pension and earned income was the only way to make ends meet.
Wage increases promised last year have been cancelled by the government. Following significant protests and strikes last year, the preceding government was forced to concede salary increases, including a 50 percent wage rise for teachers. Now Boc has swept aside such pledges with the remark, “Wages are out of control.”
Indirect taxes, such as those levied on tobacco and alcohol, are also to be increased in order to fill the country’s empty coffers. Such measures will affect both low-income and middle-income earners.
The planned dismissals in public service are so devastating because they coincide with mass redundancies in Romanian industry. Automakers are particularly hit, e.g., the Renault subsidiary Dacia and its suppliers. But there have also been job cuts in other sectors.
Bulgaria
In Bulgaria the newly elected conservative government led by Bojko Borissov (Citizens for a European Development of Bulgaria—GERB) has decided in light of the economic crisis to cut its expenditures by no less than 46 percent. This means cuts amounting to approximately €600 million in the second half of the year. Excluded from the cuts is the country’s Interior Ministry, which has in fact a larger budget for the provision of equipment for police and security forces. The Justice Department is also exempted from the cuts program.
The government also plans tax increases. Finance Minister Simeon Djankov is seeking to rake in €600 million. In order not to endanger future investment, Djankov, who comes from business circles, has announced that domestic and foreign enterprises will be exempt from tax increases.
Borissov’s victory in the parliamentary elections resulted purely from the weakness of his political opponents. In the election campaign the GERB had promised to break with the neo-liberal policy of the socialists (BSP). Borissov posed as an honest, energetic politician and was able, in the eyes many Bulgarians, to elevate himself to a certain extent above the corrupt circles dominating official politics. In the course of the election campaign he promised to prosecute corrupt officials and bring leading underworld figures behind bars.
The speed and ruthlessness with which Borissow now implements his attacks on the population reveals the basic problem prevailing in eastern and southeast European states. All of the political camps, including the so-called socialists and trade unions, are on the side of the economic elite and represent their interests.
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