Informazione

L'UNICA (?) COSA CHE LI UNISCE


Miracolo di Cantoni: Pd e Pdl dicono sì a un miliardo di armi



L'unica cosa che li unisce tutti è la guerra. Non solo perché se la
fanno tutti i giorni e quasi sempre senza indossare l'alta uniforme e
per ragioni assai banali. Ma perché in mezzo a tante polemiche e colpi
bassi c'è un posto quasi nascosto nel parlamento in cui Pd e Pdl (e
perfino Udc, Lega Nord e Italia dei valori), marciano insieme e
colpiscono uniti. È la commissione Difesa del senato, guidata da una
vecchia volpe della politica come Giampiero Cantoni (Pdl). A lui è
riuscito, proprio di questi tempi, un mezzo miracolo: tenere compatte
le truppe di maggioranza e opposizione. E in due sole sedute (l'ultima
martedì) ha fatto licenziare programmi di acquisto d'arma per circa un
miliardo di euro...(...) C'è un po' di tutto nelle decisioni votate
all'unanimità dalla commissione di Cantoni: sistemi di protezione
radaristica, acquisizione di missili di nuova generazione, armi anti-
carro e perfino alcune ambulanze blindate per il soccorso ai feriti
nelle zone di guerra (per 45 milioni, utili certo in Afghanistan). La
raffica di approvazioni nell'ultima settimana ha sbloccato programmi
pluriennali per un valore di un miliardo e 50 milioni, sia pure
spalmati su più anni. Ma non è un precedente alla commissione Difesa,
perchè in tutta la legislatura i partiti hanno marciato insieme in
quasi tutte le occasioni. Unica eccezione vistosa l'8 aprile scorso,
quando una parte del Pd non ha partecipato alla votazione sul
programma di acquisizione del caccia americano Joint Strike Fighter,
rilevando come di fronte a un investimento di oltre 1 miliardo di
dollari ci sarebbe stato un ritorno certo per Finmeccanica non
superiore ai 150 milioni. Nella decisione c'era poi l'antica divisione
fra i sostenitori del caccia JSF e quelli di Eurofighter, l'analogo
velivolo dell'industria europea. Ma si è trattato di un'eccezione alla
regola. Nella concordia della commissione certo ha un peso il fatto
che i rappresentanti dei vari partiti siano ex militari, come i
generali Mauro Del Vecchio (Pd) e Luigi Ramponi (Pdl).

Ma anche questo può diventare un esempio: quando i partiti inviano in
commissione esperti reali dei temi che si discutono, è più facile
raggiungere intese sul bene comune senza giocare alla guerriglia
inutile fra le parti. Non sarebbe stato male potere marciare in questo
modo anche sui provvedimenti economici contro la crisi, con un po' di
capacità e buona volontà nelle fila dell'uno e dell'altro fronte. Ma
purtroppo l'unica cosa che unisce tutti è proprio la guerra...



(Da "Italia Oggi" del 18/6/2009 - Rubrica PRIMO PIANO Di Franco Bechis
- segnalato da Newsletter Ecumenici)

(italiano / francais)

Kosovo : plusieurs milliers de Serbes célèbrent Vidovdan à Gazimestan

1) KOSOVO Ieri e Oggi: 1389-2009 - Storia e Attualità. A cura di Enrico Vigna
2) Kosovo : plusieurs milliers de Serbes célèbrent Vidovdan à Gazimestan (B92)

Vedi anche: 
TESTO DEL DISCORSO DI SLOBODAN MILOSEVIC, 28 GIUGNO 1989


=== 1 ===

www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 23-06-09 - n. 279

KOSOVO Ieri e Oggi: 1389-2009 - Storia e Attualità
A cura di Enrico Vigna, portavoce Forum Belgrado Italia, per un mondo di eguali
 
Dalla battaglia di Kosovo Polje, seicentoventi anni di resistenza del popolo serbo
 
 "…Nel mezzo della piana, la più ampia ampiezza. 
Nel mezzo del mare, il fondo più profondo. 
Nel mezzo del cielo, l’altezza più alta. 
Nel Kosovo, il campo di battaglia più alto…”         (Poema epico serbo)
 
L'Attualità della Battaglia di Kosovo Polje
 
Il 28 giugno di ogni anno, giorno di San Vito ("Vidovdan"), i serbi commemorano la sconfitta del 1389 ad opera dei Turchi sulla piana di Campo dei Merli ("Kosovo Polje"), a pochi chilometri dall'odierna Pristina. Con quell'avvenimento l'antico regno di Serbia, quello della dinastia dei Nemanja e dei monasteri medioevali, iniziava a disfarsi: nel 1459, settanta anni dopo, aveva fine l'indipendenza della Serbia, spartita tra Ungheria ed Impero Ottomano. Solo nel XIX Secolo, nell'ambito del Risorgimento guidato dai Karadjordje, come in Italia anche in Serbia il problema dell'indipendenza politica ritornava all'ordine del giorno. Per secoli il mito dei fatti sanguinosi di Kosovo Polje è stato al centro della tradizione orale dei "cantastorie", i "guslar" (dal nome di uno strumento medievale: gusla) e poi della letteratura scritta dei popoli slavi del Sud, di tutti i popoli slavi del Sud, non solo dei serbi. A partire dalla "Lode al Knez Lazar" del patriarca Danilo (1392), il sacrificio del principe Lazar e di Obilic furono celebrati per secoli, e non solo dai serbi ma anche da tutta la corrente jugoslavista, fiorente nell'Ottocento pure in Croazia e Slovenia e culminata con la creazione del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni al termine della Prima Guerra Mondiale... Il poema epico del sovrano montenegrino Njegos "Il serto della montagna" (1847) pure cantava i fatti del Kosovo, il sacrificio deliberato e cosciente della nobiltà e dei soldati serbi impegnati a difendere la propria terra e la propria gente dall'invasione straniera. Lo stesso attentatore di Sarajevo Gavrilo Princip ferì a morte l'arciduca Ferdinando in una data non casuale, il 28 giugno 1914, quasi a volersi inserire nella scia dei "giustizieri di tiranni"... E la tradizione patriottica jugoslava riprese ed usò i fatti ed i miti di Kosovo Polje tra le due guerre mondiali, in un senso non solamente"serbo" ma, anche, jugoslavo, di comunanza fra popoli impegnati a difendere la propria sovranità ed indipendenza. D'altronde, alla battaglia partecipò lo stesso sovrano della Bosnia Tvrtko, che combatté a fianco del principe Lazar, ed anche gli storici albanesi raccontano che i loro antenati diedero man forte ai serbi contro l'invasore turco.
 
Con la Seconda Guerra Mondiale però, i rapporti tra le popolazioni balcaniche venivano di nuovo pesantemente incrinati grazie al contributo fattivo del nazifascismo occupante; seguiva la Guerra Popolare di Liberazione guidata da Josip Broz "Tito", essa stessa fonte di nuove memorie gloriose e di miti e valori fondanti della identità multinazionale jugoslava, conquistata con la dura resistenza partigiana. L'eroismo dei partigiani di tutte le nazionalità e la più recente memoria di altre, altrettanto dure, battaglie per la libertà facevano passare in secondo piano i fatti lontani del principe Lazar e del sultano Murad... La chiesa serbo-ortodossa si faceva allora principale custode della memoria della antica battaglia di Kosovo Polje. Fino agli anni Ottanta, quando con la crisi della RFS di Jugoslavia, il movimento secessionista pan-albanese riprende quota, appoggiato in maniera sempre più palese dalle forze politiche occidentali, dai settori impegnati nei traffici di droga internazionali, poi dall'Albania del clan di Berisha e del nazionalismo irredentista post-'89, poi dai media e dai servizi segreti di tutto il mondo occidentale, infine dalla NATO che aggredì la Repubblica Federale Jugoslava per 78 giorni a partire dal 24 marzo 1999, a forza di bombe, proprio per staccare il Kosovo dalla Federazione jugoslava e consegnarlo alle bande "contras" dell'UCK. Il Kosovo, ricco di minerali e punto strategico dei Balcani, passo-chiave per la ricolonizzazione di tutta l'area dell'Europa sud-orientale. In questo stesso anniversario della battaglia di Kosovo Polje truppe straniere di nuovo oggi si muovono su quel territorio, dopo che il nazifascismo italiano, tedesco e bulgaro ne era stato scacciato oltre 60 anni fa dallo sforzo comune dei partigiani kosovari serbi e kosovari albanesi.
 
Vi è poi un altro 28 giugno da non dimenticare, un ennesima umiliazione e violenza morale (comunque la si pensi) del popolo serbo: infatti il 28 giugno 2001, proprio nel giorno di "Vidovdan", questo popolo ha dovuto assistere al rapimento del proprio Presidente Slobodan Milosevic, quando un elicottero Nato, violando confini e sovranità, preleva e rapisce un cittadino jugoslavo in disprezzo di qualsiasi concetto di Diritto Internazionale e di indipendenza di un paese: quindi un’operazione di banditismo internazionale.
 
Indelebili resteranno le parole di Milosevic che, rivolgendosi ad un agente dei servizi segreti serbi gli disse: "…capisco loro (riferendosi agli agenti segreti americani), ma tu che sei serbo, figlio di questa terra, come puoi nella tua coscienza essere complice, nel giorno di Vidovdan e di Lazar, di un atto così ignobile che non è contro di me, ma contro tutto il nostro popolo. Vergognati, di questo non potrai mai vantartene nella tua famiglia o tra la tua gente… Potrai festeggiare solo con gli invasori ed occupanti. Vergogna…".
 
Oggi il Kosovo è stato pulito etnicamente, umiliato, violentato; i monasteri del Kosovo sono stati attaccati e distrutti (oltre 148) dalle bande di terroristi armati ed addestrati dall'Occidente. Oggi il Kosovo è stato ricolonizzato, sotto tutti punti di vista: militarmente, politicamente, economicamente, etnicamente e anche culturalmente; prima del Kosovo erano venute Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Montenegro. Poi toccherà al Sangiaccato, alla Vojvodina... Perciò la memoria della battaglia di Kosovo Polje è oggi più attuale che mai, vive nelle enclavi assediate, vive in ogni uomo, donna, bambino che caparbiamente continua a resistere, vivendo lì e che non accetta la resa totale all'ingiustizia, alla violenza prevaricatrice dei terroristi albanesi al soldo degli USA. Per loro, per la loro "Resistenza", nella lotta per non essere assassinati o cacciati, per difendere la loro storia, la loro dignità, il loro DIRITTO di esistere e vivere sulla propria terra, nelle proprie case, ai propri focolari…Per loro Kosovo Polje non è una ricorrenza lontana è la memoria storica per non arrendersi OGGI e DOMANI.
 
L'attualità per noi, sta nella necessità di sostenere nel nostro paese un impegno per riaffermare i diritti e gli interessi dei popoli, sia nelle sedi istituzionali, negli organi informativi e nei movimenti contro la guerra e per la pace, un compito inserito in un quadro più generale per sostenere e supportare un impegno di Giustizia e di Verità, che non attiene di certo solo al "problema Kosovo".
 
L’unica possibilità di costruire un vero processo di Pace per il Kosovo, nel quadro sopra delineato, è che tutte le parti (Albanesi, Serbi, Rom, e le altre minoranze) abbiano una soluzione che difenda in modo equo e paritario gli interessi e i diritti di tutti reciprocamente, soluzione che non può che essere il risultato di trattative paritarie tra le parti sotto l’egida dell’ONU, senza pressioni, ricatti o ingerenze di potenze o lobby esterne alla realtà locale, che perseguono in realtà propri fini e convenienze
 
Questo riteniamo sia il vero impegno e lavoro per costruire un mondo migliore per tutti.
 
"L'espulsione del popolo serbo dal Kosovo [dove all'inizio del secolo i serbi rappresentavano più del 40 per cento della popolazione] è la rappresentazione grandiosa della sua sconfitta storica. Nella primavera del 1981 è stata dichiarata al popolo serbo una guerra del tutto speciale... Se una autentica sicurezza e una uguaglianza di diritti per tutti i popoli che vivono nel Kosovo e Metohija non vengono instaurate, se non vengono create condizioni solide e durature per il ritorno della popolazione scacciata, questa parte della Repubblica di Serbia, sarà sempre un problema europeo con conseguenze destabilizzanti e portatrici di conflittualità e violenze. Il Kosovo è una delle questioni più importanti aperte nei Balcani e in Europa. La diversità etnica in numerosi territori balcanici corrisponde al profilo etnico della penisola balcanica. L'attuazione di un Kosovo etnicamente puro non è soltanto una pesante e diretta minaccia per tutti i popoli che vi si trovano in minoranza, ma, se si affermerà, rappresenterà un pericolo reale e quotidiano per tutti i popoli della Jugoslavia e dei Balcani" ("Memorandum" dell'Accademia delle Arti e delle Scienze della Serbia, 1986; LIMES 1/2-1993).
 
Brevi cenni storici
 
Dopo un periodo nell'Impero Bulgaro, e un altro periodo sotto i bizantini, nel 1180 il Kosovo divenne parte dello stato serbo. Nel 1219 Pec divenne la sede della Chiesa Serbo-Ortodossa. La battaglia di Kosovo Polje, che in serbo significa Campo dei Merli, fu combattuta nel 1389.
 
Al principio, e particolarmente nel '500, il governo ottomano si era caratterizzato in modo più razionale e tollerante di qualsiasi stato europeo del periodo. Ogni principe o capo villaggio che si convertiva all'Islam, veniva accettato come un uguale dagli ottomani, e al solito vedeva il suo potere e il suo patrimonio aumentare, alle spese dei principi che rimanevano cristiani. D'altro lato il potere ottomano non perseguitava cristiani ed ebrei, semplicemente favoriva i convertiti. Col passare del tempo, i convertiti divennero padroni di latifondi sempre più estesi, su cui vivevano i servi della gleba, che nel caso della Bosnia e del Kosovo erano per lo più Serbi.
 
La battaglia di Kosovo Polje, ebbe luogo nel 1389, il 28 giugno del calendario gregoriano o il 15 giugno per il calendario giuliano, al "Campo dei Merli" (in serbo kos significo merlo ed ovo è un suffisso che indica il luogo), Kosovo significa quindi luogo dei merli o Paese dei merli o ancora Campo dei merli. La battaglia oppose l'impero ottomano ai serbi. Questa battaglia è profondamente legata al cuore della maggior parte dei serbi, che continuano a ricordare questa data particolare, che segnò la fine della loro indipendenza per quasi cinque secoli, ed il loro passaggio sotto il dominio ottomano. Ma i serbi non furono i soli ha prendere parte alla battaglia, anche se costituivano la stragrande parte delle forze in campo. Guidati da Lazar, principe di Serbia, con al suo fianco Tvrtko, re di Bosnia, e alleati ungheresi, bulgari, e albanesi, cercarono di contrastare l'avanzata degli ottomani dell'Emiro Murad. Fra questi vi erano alcuni principi albanesi. Anche se nessuno stato albanese esisteva ancora, tribù albanesi erano alleate dei vicini serbi, e le relazioni amichevoli tra serbi e capi clan albanesi erano il naturale risultato del desiderio comune di liberarsi prima dei bizantini e poi degli oppressori turchi. Giovanni Castriota (di origine serba), il padre di quello che fu forse la figura storica albanese più eccelsa, l'eroe della lotta per l'indipendenza del popolo albanese, Giorgio Castriota Skanderbeg (che il secolo successivo, organizzando un alleanza di clan albanesi, tentò l'ultima resistenza contro l'invasore ottomano, morendo in battaglia nel 1468), andò a Kosovo Polje per unirsi a Lazar, alla testa di una forza serbo-albanese raccolta nell'area di Debar.
 
Da una parte erano schierati circa 30.000 uomini guidati da Lazar, in campo avverso erano schierati circa 60.000 soldati guidati da Murad. 
La situazione geopolitica nella regione balcanica, prima della battaglia, vedeva la dominazione turca avanzare in tutte le direzioni dalla sue prime apparizioni nel 1346, e tendeva ormai a soppiantare il potere bizantino ormai morente. I bizantini di Giovanni Paleologo erano diventati i vassalli del sultano fin dal 1373, così come i bulgari. In Occidente, il Papa provò a scatenare una crociata, ma la sua chiamata si concretizzò solo nel 1396. Il cuore dello stato serbo medievale ereditato dallo Zar Dusan morto nel 1355, era oramai sotto la minaccia diretta dell'impero ottomano e questo già lanciava i suoi attacchi fino in Bosnia (1388). I progressi economici e culturali dello stato del principe Lazar attiravano sempre più gli interessi turchi verso la Serbia. Lazar lo sapeva e si preparava con attenzione per il confronto contro il potente potere ottomano. Il primo scontro tra i serbi ed i turchi ebbe luogo nel 1381 a Dubravica, vicino a Paracin. L'esercito serbo, con alla testa i generali Crep e Vitomir, ottenne una vittoria. Poi, nel 1386, Lazar affrontò un secondo esercito, condotto dal sultano Murad in persona, vicino al fiume Toplica nei pressi di Plocnik, e fu ancora una disfatta per gli ottomani. Malgrado queste sconfitte contro i serbi, l'avanzata turca andava di vittoria in vittoria nel resto dell'Europa sud-orientale: nel 1388 Tessalonica cade dopo un lungo assedio, Serres già nel 1383 era occupata dagli ottomani, così come erano stati occupati due regni serbi, quello di Balsa II nel 1385 e quello di Vukasin nel 1371. I turchi avevano così notevoli riserve di forze militari, grazie ai loro nuovi vassalli. Attaccarono allora il re di Bosnia Tvrtko alleato di Lazar, cercando così di indebolire Lazar; ma il generale di Tvrtko, Vlatko Vukovic, mise in rotta l'esercito ottomano condotto da Lala Sahin.
 
La Battaglia
 
La leggendanarra che la notte prima della battaglia il cuculo cantò tutta la notte e che l'acqua del torrente dietro l'accampamento, scorreva color rosso sangue, il presagio per l'indomani.
 
Le forze serbe si trovavano sotto il comando di due principi, che avevano in quel tempo la supremazia sui serbi: lo "Zar" Lazar Hrebeljanovic, principe di Serbia e Vuk Brankovic, signore serbo del Kosovo. Essi erano sostenuti dagli alleati quali il principe di Bosnia Tvrtko, e formavano circa un terzo delle truppe di Lazar.Le forze ottomane erano formate in gran parte da turchi ma anche da vassalli musulmani e cristiani. Erano anche presenti i "giannizzeri", il corpo di élite dell'impero turco. Le forze ottomane erano molto più numerose di quelle della coalizione balcanica, ma quest’ultima poteva contare sul fior fiore della cavalleria serba. Tra le sue fila vi erano, e furono poi immortalati nei canti popolari epici serbi come eroi: Miloš Obilic, Toplica Milan, Kosancic Ivan e Jug Bogdan ed i suoi nove figli che perirono tutti nei combattimenti.
 
Lo svolgimento della battaglia che durò tutto un giorno, fu altalenante e sanguinosa. In una prima fase, la cavalleria serba sbaragliò una delle ali turche e Murad perì, in circostanze che sono state presentate con differenti versioni. Secondo i racconti epici serbi, Miloš Obilic avendo promesso di uccidere il Sultano prima della battaglia, si era recato al cospetto di Murad fingendosi traditore di Lazar, per poi ucciderlo con un pugnale nascosto nel suo stivale. In un primo momento questa morte provò duramente gli ottomani che cominciarono a scompaginarsi, ma il figlio di Murad, Bayazet riuscì ad evitare il crollo. I turchi si ripresero e scatenarono una violentissima e sanguinosa reazione sui serbi. Lazar e tutti i suoi nobili furono fatti prigionieri e decapitati sul campo di battaglia. Si narra che fu una battaglia così violenta e cruenta e che talmente tanto sangue fu versato, che la terra non riusciva ad assorbirlo tutto. Quando il giorno andava a finire ed il sole cominciava a scendere, per il popolo serbo cominciò la notte che sarebbe durata cinque secoli.
 
Gli ottomani vinsero la battaglia decimando l'avversario. Si narra di settantasettemila morti, di cui la quasi totalità delle forze serbe, ma non penetrarono oltre in Serbia per sottometterla del tutto, perché la morte di Murad e dell'altro figlio Yakub da parte del suo stesso fratello Bayazet durante la battaglia, aveva indebolito notevolmente l'autorità di Bayazet, che dovette far ritorno sulle sue terre per affermare il suo potere sui vassalli ed evitare rischi di rivolta nell'impero. Prima di questo fu sancita la pace con la principessa Milica, vedova di Lazar ed il grosso delle truppe tornò in patria. Solo Vuk Branković, con alcuni superstiti riuscì a ritirarsi e continuò poi la resistenza contro gli ottomani, finché fu catturato da questi ultimi, morendo poi in prigionia.Qui c'è da segnalare anche una versione riportata in alcuni scritti epici, che indica Vuk Brankovic come traditore di Lazar. Questa ipotesi è stata disconosciuta da numerosi storici e studiosi di quel periodo, anche perché il despota serbo continuò la guerra contro gli ottomani, per quanto era possibile dopo la disfatta, e perché infine morì in prigionia dei turchi una volta catturato.
 
I due condottieri e sovrani, entrambi caduti nella piana del Kosovo, circondati dai loro valorosi guerrieri, ebbero ovviamente sorti diverse, il corpo di Murad fu portato dai suoi in Asia Minore, a Broussa. Ai serbi fu permesso di raccogliere la testa troncata del loro condottiero, dalla grazia del nuovo Sultano turco, e fu portato insieme col corpo alla Chiesa di Pristina. Più tardi i resti furono trasferiti al Convento Ravanitsa che aveva costruito Lazar e poi durante la seconda guerra mondiale, per preservarlo dai fascisti croati ustascia, le spoglie furono portate a Belgrado.
 
Con questa sconfitta le conseguenze per i serbi furono disastrose: oltre alla distruzione della, leggendaria per l'epoca, cavalleria serba, il paese vide sparire il fior fiore della sua élite politica e militare ed il popolo serbo cadde di fatto in schiavitù. Il nuovo sultano Bayazet I prese come moglie per il suo harem, la figlia di Lazar, la principessa Olivera Despina. I serbi vennero costretti a pagare tributi ai turchi ed a compiere servizi militari presso l'esercito ottomano. In seguito, dopo altre due battaglie minori e l'assedio di Semendria, gli ottomani annetterono il resto del Regno di Serbia, completandone la conquista nel 1459. La fine dell'indipendenza serba fu l'evento che diede la possibilità all'esercito ottomano di arrivare fino alle porte di Vienna.
 
La profonda e secolare radice identitaria del popolo serbo, fondata su questo evento storico.
 
Per la nazione ed il popolo serbo, il Kosovo Metohija rappresenta il sigillo della sua identità, la chiave delle lezioni insegnate dalla sua storia, la bandiera delle libertà e indipendenza nazionali e rappresenta una parte irrinunciabile della propria coscienza di popolo.
 
Si possono tracciar alcune linee di riflessione: da un lato attraverso questa battaglia, che fu dal punto di vista strettamente militare una sconfitta, si è generata nel popolo serbo la possibilità di esprimere la fierezza per l'eroismo ed il coraggio dei suoi combattenti, ed anche il profondo senso di indipendenza e libertà, che storicamente hanno sempre contraddistinto la storia di questo popolo, fino ai giorni nostri. Costi quel che costi. Nel campo di Kosovo, l'esercito serbo marciò verso la morte certa, col solo intento di consegnare alla storia la propria irriducibilità verso l'oppressore e l’invasore straniero. Questo ha permeato e formato le coscienze e la cultura di un popolo intero, in modo secolare fino ad oggi, generazione dopo generazione, da 620 anni.
 
Così Lazar salutò, con queste parole che nelle mitologia nazionale serba è indicata come la "Maledizione di Lazar", prima della battaglia i suoi soldati ed il suo popolo, sapendo la sorte che li avrebbe attesi l'indomani: "Chiunque sia nato di sangue o di ceppo serbo, non viene a lottare contro i turchi a Kosovo, a lui: mai più un suo figlio o figlia nati , mai più nessun bambino od erede, mai più la sua terra possano sopportare di sentire ancora il suo nome. Per lui nessun acino d'uva possa mai più crescere rosso, mai più nessun seme di mais possa crescere bianco, nella sua mano nulla prosperi mai più. Possa egli vivere solo più in solitudine, non amato, e morire da nessuno pianto, solo e abbandonato!". Per essi, questa battaglia contro gli ottomani, ha significato la fine dell'età prospera e l'inizio dell'oppressione e delle costrizioni per i popoli jugoslavi durante i secoli.
 
Il memoriale eretto a Gazimestan nel 1953, come "Memoriale agli eroi caduti" in quel giorno di San Vito (Vidovdan), in onore dei soldati e cavalieri serbi caduti nella battaglia del Kosovo, fu opera di Aleksander Deroko. Esso fu costruito nello stesso luogo dove si svolse la battaglia del Kosovo, il 28 giugno 1389. Ha la forma di una torre medievale ed è fatto in pietra rosata di varie sfumature. Sulla sommità del monumento era possibile (oggi è stata attaccata e dinamitata dai terroristi secessionisti dell'UCK ed è protetta, per impedire che venga del tutto distrutta, da forze militari della Kfor, Unmik, Eulex…), dall'altezza del suo terrazzo, contemplare il "Campo dei Merli". Una mappa di bronzo descrive la battaglia e una tavola di orientamento illustra la posizione degli eserciti così come spiega la strategia che fu adottata dalle due parti. Sulle pareti sono scritti a lettere di bronzo infisse sulla pietra, versi che celebrano l'eroica morte dei combattenti. Sono scolpite le seguenti parole:"Oh tu uomo, straniero o visitatore su questo suolo, quando entri su questa terra serba, chiunque tu sia... quando vieni a questo campo chiamato Kosovo, vedrai esso ricoperto, sopra tutta la sua estensione delle ossa dei morti caduti, e con loro io, torre di pietra, sto in piedi diritta nel mezzo del campo, a rappresentare la croce e la bandiera. Così non passare da qui ignorandomi come qualche cosa di non meritevole e vacuo, avvicinati a me. Io ti imploro, oh mio caro, studia le parole che io porto alla tua attenzione, dove potrai capire perché io sto qui in piedi eretto...
 
In questo luogo vi era una volta un grande condottiero, un tempo straordinario ed un sovrano serbo dal nome di Lazar, una figura non tremante di pietà, un mare di ragioni ed una profondità di saggezza... che amava tutto ciò che Cristo voleva... Egli accettò la corona sacrificale della lotta e della gloria eterna... Il combattente valoroso fu catturato e lo strazio del supplizio egli accettò... il grande Principe Lazar... Tutto questo qui succedette nel 1389... il quindicesimo giorno di giugno, martedì alla sesta o settima ora, io non so precisamente, solo Dio sa…"
 
La leggenda dice che il sangue serbo versato nella pianura durante la battaglia fa fiorire ogni anno le splendide peonie rosse del Kosovo che, in effetti, sono piante che solo lì fioriscono così…
 
Nessuno dei popoli europei ha nella sua memoria storica e identitaria quello che il popolo serbo individua nel Kosovo, a parte il popolo russo per il prezzo della lotta contro l'invasore nazi fascista durante la seconda guerra mondiale. L'epopea dalla lotta e della sofferenza nella lotta per la libertà.
 
Da allora il Kosovo è diventato, per un intero popolo e un’intera nazione, da secoli, il campo, la terra, il cimitero santo degli eroi. Per questo la più grande e sentita ricorrenza di tutto un popolo, credenti, laici e non credenti è il giorno di San Vito il Vidovdan. Dove, celebrando il grande sacrificio della vita nel Kosovo martoriato, in quel 28 giugno 1389, non si intende celebrare i vinti ma i vincitori, non i morti ma quelli che sono vivi, nella memoria collettiva e nella consapevolezza di essere storicamente un popolo di uomini e donne liberi, nella propria coscienza.
 
Gli storici serbi considerano quella del Kosovo come la giornata più gloriosa della loro storia nazionale, al centro di questa simbologia è collocata la figura di Lazar, il "Grande eroe", che con la sua morte indicò la strada del riscatto dalla schiavitù "agarena" (la sottomissione, cioè, ai figli di Agar, come venivano chiamati i musulmani dalle popolazioni balcaniche non convertite).
 
Vidovdan è la ricorrenza e la festa del giorno, non della notte. 
E' la festa della luce contro le tenebre. 
E' la festa per il proprio futuro non solo del proprio passato. 
E' la solennità dell'identità orgogliosa di un popolo fiero e indomito.
 
Tutto questo, o parte di questo e tanto altro, può essere una delle letture di questa epica battaglia, per le genti serbe. 
La studiosa Dora d'Istria (pseudonimo di Elena Ghica), principessa romena di stirpe albanese, profonda conoscitrice e studiosa delle tradizioni e costumi balcanici, scrisse nel 1865, che attraverso i canti e poemi, epici e popolari serbi, era trasmessa la "scienza del mito nazionale serbo".


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B92

Kosovo : plusieurs milliers de Serbes célèbrent Vidovdan à Gazimestan


Traduit par Persa Aligrudić

Publié dans la presse : 29 juin 2009
Mise en ligne : lundi 29 juin 2009
Cette année, la célébration de Vidovdan, la fête nationale serbe, a réuni plusieurs milliers de personnes à Gazimestan, le monument qui commémore la bataille de 1389 au Champ des Merles, Kosovo Polje. Des ministres serbes se rendant aux célébrations ont été caillassés près de Leposavić, mais c’est le seul incident à déplorer malgré l’affluence record depuis 1999.

Un incident a eu lieu près de Leposavić lorsque des pierres ont été jetées sur un convoi de voitures dans laquelle se trouvaient les ministres du gouvernement de Serbie se rendant à Gazimestan [1] pour fêter Vidovdan [2].

La célébration à Gazimestan a rassemblé cette année le plus grand nombre de personnes depuis 1999. L’organisation 1389 a revendiqué l’attaque de Leposavić. Goran Bogdanović, le ministre pour le Kosovo-et-Metohija de Serbie, a déclaré que le gouvernement de Serbie ne tolérerait plus des attaques comme celle qui a eu lieu ce samedi.
 


Sur Youtube on peut voir la manière dont les membres de 1389 jettent des pierres sur les voitures où se trouvent les ministres serbes.

Les fauteurs de trouble ont été chassés par un groupe de jeunes gens armés de battes de baseball dont on présume qu’ils font partie de la sécurité du ministre Goran Bogdanović.

L’incident n’a pas fait de victimes, seuls deux véhicules ont été endommagés.

Liturgie à Gračanica et parastos [3] à Gazimestan



Le délégué du patriarche Pavle, le métropolite du Monténégro et du Littoral, Amfilohije, les évêques Artemije, Filaret et Teodosije, ont célébré l’office pour les héros du Kosovo à Gazimestan, à l’occasion du 620e anniversaire de la bataille de 1389. 

Après la célébration, l’évêque Artemije a déclaré que « les héros kosovars ont laissé leur vie pour que nous puissions aujourd’hui vivre au Kosovo et à Metohija ».

 L’évêque Artemije a souligné que les Serbes se sont rassemblés à Gazimestan afin de prier Dieu et de se dire, à eux-mêmes et aux autres, que ceci est une terre serbe sainte pleine du sang et des larmes de nos aïeux.

« Le Kosovo a été et sera le cœur de la Serbie, comme il l’était il y a 620 ans », a ajouté l’évêque de Raška et de Prizren.

Un très grand nombre de Serbes se sont déplacés de Gračanica et de partout ailleurs. 
Ils sont venus avec une soixantaine d’autobus et quelques centaines de véhicules, aussi bien de Serbie que du Monténégro et de Republika Srspka. En plus des membres de la police du Kosovo, le rassemblement était sous la sécurité des soldats tchèques de la Kfor positionnés tout près du monument commémorant la bataille de 1389.



Cette année, pour la première fois, une estrade a été installée à Gazimestan et tout le monument était recouvert d’une fresque du prince Lazare et du drapeau serbe. 



Ont assisté à la liturgie et à la célébration les ministres serbes Bogoljub Šijaković (ministre des Cultes), Goran Bogdanović (ministre du Kosovo-et-Metohija) et Nebojša Bradić (ministre de la Culture), le prince Aleksandar Karadjordjević et son épouse Katarina.

 



KPS : Calme et sans incidents



Le porte-parole de la police du Kosovo (KPS), Arber Beka, a déclaré que la célébration de Vidovdan au Kosovo s’était déroulée dans le calme et sans incident.

« La police du Kosovo a pris les mesures nécessaires pour que la célébration de Vidovdan se déroule dans le calme et sans problème », a-t-il dit, sans vouloir préciser le nombre de policiers déployés sur le terrain dans tout le Kosovo.

Arber Beka a ajouté qu’ils étaient « suffisamment nombreux pour parer à toutes les provocations qui les attendaient dans la journée et pour assurer la sécurité de tous les citoyens du Kosovo » et que « pour l’instant tout se passait tranquillement ». « La police a préparé un plan opérationnel pour empêcher tout incident », a-t-il conclu.

Arber Beka a lui aussi estimé que la célébration de Vidovan n’avait jamais rassemblé autant de monde à Gazimestan. Selon lui, il y avait plusieurs milliers de personnes, bien plus que les années précédentes.


[1] le site de la bataille du Champ des Merles en 1389, qui se trouve dans les environs de Pristina.

[2http://fr.wikipedia.org/wiki/Vidovdan

[3] commémoration des morts chez les orthodoxes





www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 30-06-09 - n. 280

da Calendario del Popolo, luglio 1949
A sessanta anni dalla morte
trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Gloria eterna a Giorgio Dimitrov eroico combattente per il socialismo
 
Il nome di Giorgio Dimitrov è e rimarrà indissolubilmente legato a un grande e glorioso periodo di lotte per la civiltà e il progresso, per la libertà e l'indipendenza dei popoli: al periodo dell'unione di tutte le forze democratiche e socialiste nella lotta per l'abbattimento del fascismo. Per i lavoratori, per i democratici di tutto il inondo, Dimitrov è, prima di tutto, il vincitore del processo di Lipsia, l'uomo che a Lipsia mise il nazismo in stato d'accusa dinanzi alla coscienza democratica e socialista internazionale. Prima di Lipsia, questo rivoluzionario, questo capo della classe operaia bulgara aveva acquistato fama anche fuori del suo paese, nel movimento operaio internazionale, per la parte avuta nell'insurrezione del settembre 1923 contro il governo di Zankov, per la sua condanna a morte, per il suo esilio operoso. A Lipsia, il suo nome divenne una bandiera per le forze progressive di tutti i paesi.
 
Il processo di Lipsia coincise con un momento di svolta della situazione internazionale. La vittoria del nazismo in Germania fu un grave colpo per le forze della democrazia e della pace, un colpo che, nel giro di pochi anni, avrebbe avuto come conseguenza la seconda guerra mondiale, ma esso preparò anche il terreno a uno schieramento di forze rivoluzionarie e democratiche, vasto e potente come non era più stato possibile realizzare in nessun paese dopo il riflusso della ondata rivoluzionaria dell'altro dopoguerra. Si può dire che dal 1921 in poi, la classe operaia - tranne che nell'Unione Sovietica ed eccettuati alcuni momenti della rivoluzione cinese - aveva dovuto rinchiudersi in una difficile, penosa, logorante lotta difensiva, subire l'iniziativa della reazione, abbandonare all'avversario molte posizioni avanzate; ma nel 1932, un soffio potente aveva riaperto il cuore di milioni e milioni di uomini, di lavoratori, alla speranza, alla certezza della vittoria: nonostante l'ostilità, gli intrighi, i complotti, gli attacchi del mondo capitalistico, l'Unione Sovietica aveva attuato, in quattro anni, il primo piano quinquennale staliniano; il primo Stato proletario, sotto la guida di Stalin, si era affermato, in modo decisivo, come una grande potenza, aveva compiuto un passo gigantesco sulla via della sua trasformazione in un grande paese industriale, aveva gettato le basi della società socialista.
 
Le ripercussioni di questo fatto furono immense: era la prova tangibile che nonostante l'imperversare del fascismo e della reazione in Germania, in Italia e in altri paesi, l'iniziativa apparteneva storicamente alla classe operaia e ai suoi alleati. In breve volger di tempo, si registrarono numerosi avvenimenti significativi da questo punto di vista: l'esercito popolare cinese si mise alla testa della lotta contro gli invasori giapponesi; le forze popolari francesi, raggruppate attorno alla classe operaia, respinsero un attacco in forze del fascismo; la tendenza all'unità d'azione, al fronte unico e al fronte popolare cominciarono a prendere il sopravvento sulle tendenze scissionistiche e disgregatrici delle forze democratiche e popolari. Il processo di Lipsia si inserì in questo potente movimento, contribuì a svilupparlo e a determinare alcuni degli avvenimenti sopraccennati.
Quando Dimitrov comparve davanti ai suoi accusatori nazisti, la volontà di lotta contro il fascismo si rafforzava nella classe operaia, nelle masse popolari: Giorgio Dimitrov fu la voce e - si può dire - la personificazione di questa volontà. Nell'aula del tribunale nazista era rappresentato in una sintesi suggestiva, avvincente per la sua intensa drammaticità, il conflitto che si svolgeva in tutto il inondo: da una parte gli aguzzini nazisti forti della forza armata dello Stato hitleriano, di tutto l'apparato terroristico del fascismo tedesco, dell'appoggio della. reazione internazionale; dall'altra parte il rappresentante dei lavoratori, della coscienza democratica, apparentemente solo, inerme, in catene, ma forte della solidarietà dei lavoratori e degli uomini liberi di tutto il mondo e in primo luogo dell'Unione Sovietica. L'uomo apparentemente solo e inerme, dopo un'epica lotta, vinse la battaglia e questa vittoria ebbe un'immensa risonanza e vaste ripercussioni. Con la vittoria di Lipsia, si apre praticamente il periodo della unità d'azione, del fronte unico, del fronte popolare per la lotta contro il fascismo e la guerra, si inizia la controffensiva delle classi lavoratrici e delle forze democratiche, raggruppate attorno alla classe operaia.
 
Alla testa di questo grande movimento popolare non poteva esserci che il partito della classe operaia, l'Internazionale Comunista. E Dimitrov, dopo la vittoria di Lipsia, tenne, nelle sue mani esperte, il timone dell'Internazionale. La sua formazione di militante si era compiuta attraverso lunghi decenni di milizia nel movimento operaio bulgaro e precisamente, fin dall'adolescenza, in quel partito socialista degli e «stretti» (tesniaki), partito rivoluzionario che sempre si oppose fermamente al partito opportunista dei e «larghi» e che fu in tutte le fasi del suo sviluppo il più sensibile all'esempio del Partito bolscevico, tanto che nel 1919, quando prese il nome di Partito comunista e si affiliò alla III Internazionale, venne riconosciuto valido per i suoi iscritti, agli effetti dell'anzianità di partito, il periodo trascorso nelle file della II Internazionale. In quel partito, alla testa dei lavoratori bulgari, Dimitrov si era temprato come rivoluzionario, aveva rapidamente sviluppato le sue qualità di grande dirigente e capo della classe operaia bulgara.
Costretto nel 1923 a prendere la via dell'esilio, egli aveva continuato a guidare dall'estero il Partito comunista e il movimento operaio bulgaro, ma, ben presto, il campo della sua attività era diventato immensamente più vasto. A stretto contatto col Partito bolscevico, la mente e l'animo aperti agli insegnamenti del leninismo, sotto la guida diretta di Stalin, Dimitrov si avviava a grandi passi verso il suo completo sviluppo ideologico e politico. Quando fu arrestato a Berlino, egli era ormai uno dei migliori dirigenti dell'Internazionale Comunista.
A Lipsia, tutto il mondo ne ebbe la rivelazione e, qualche tempo dopo, al VII Congresso dell'Internazionale Comunista, la luminosa conferma: il vecchio operaio tipografo bulgaro, meritava pienamente di essere il segretario generale dell'Internazionale Comunista in uno dei periodi più ardui del movimento operaio e della lotta dei popoli per la libertà e per la pace. I due rapporti di Dimitrov e di Ercoli al VII Congresso, elaborati in stretta e continua collaborazione dai due relatori, suscitarono un immenso entusiasmo nel campo del movimento operaio e della democrazia, diedero un impulso potente all'organizzazione del fronte unico e del fronte popolare, crearono le condizioni per la vittoria del fronte popolare in Francia, per una potente ripresa della lotta di liberazione in Cina, per la gloriosa resistenza del popolo spagnolo durata più di due anni e mezzo, per l'intensificazione della lotta contro il fascismo in tutti i paesi.
Oggi si può dire, sulla base degli avvenimenti dell'ultimo decennio che la resistenza, la lotta partigiana, le vittoriose insurrezioni popolari contro il fascismo sono state preparate dalla politica tracciata dal VII Congresso dell'Internazionale Comunista. Dimitrov fu il grande e geniale animatore di quella politica, ne fu il realizzatore tenace, combattivo, paziente. Perciò la memoria di Giorgio Dimitrov rimarrà viva in eterno nella storia del movimento operaio di tutto il mondo, nella storia dei popoli.
 
Durante la guerra, la sua forte voce giungeva incitatrice, ricca di insegnamenti preziosi, attraverso la radio, ai combattenti della libertà che, in tutti i paesi, affrontavano gli aggressori e gli oppressori fascisti.
La sua grande e più ambita ricompensa fu certo di poter rientrare nella sua patria, liberata dall'oppressione domestica e straniera con l'aiuto degli eserciti del paese del socialismo, di fondare, con la sua opera e con la sua dottrina, alla testa del popolo bulgaro, il nuovo Stato popolare della Bulgaria, di aprire al suo popolo la via del socialismo, di difenderne con mano ferma le grandi conquiste.
Colpito durante la guerra da una tremenda sventura familiare, la quale aggravò repentinamente il male che da anni metteva a dura prova la sua fibra e che doveva portarlo a fine immatura, Giorgio Dimitrov ebbe il supremo conforto di veder coronata la sua opera dalla libertà del suo popolo, dallo schiacciamento del fascismo e dai passi giganteschi compiuti in tutto il mondo dalla causa del socialismo.
 

AFGHANISTAN: UNA TIPICA MISSIONE DI PACE


Un video pubblicato da El Mundo sbugiarda chi ancora sostiene che i
soldati italiani non siano in guerra

http://it.peacereporter.net/videogallery/video/11983

(Due sono i progetti concorrenti per il trasporto del gas naturale dall'area del Caspio verso l'Europa Centrale: "Nabucco" è centrato sulla Turchia, appoggiato dagli USA, e metterebbe fuori gioco la Russia; "South Stream" taglia fuori la Turchia ed è appoggiato dalla Russia e dall'Italia. In Germania, il progetto filoamericano è sostenuto da Joschka Fischer, mentre il progetto filorusso è sostenuto da Gerhard Schröder - li ricordiamo entrambi come responsabili della politica criminale praticata dal governo di "centrosinistra" contro la Jugoslavia attorno al 1999...)



Germany: Joschka Fischer takes post as Nabucco pipeline adviser


By Ulrich Rippert 
3 July 2009

Representatives of the Nabucco consortium in Vienna have confirmed that Joschka Fischer—former Green Party leader and foreign minister in the former Social Democratic Party (SPD)-Green government—has taken a post as adviser to the Nabucco pipeline project, in which the German RWE company is also involved. According to media reports, the “six-digit salary” consultancy contract has already been signed.

Fischer is following in the footsteps of his former coalition partner, former German chancellor Gerhard Schröder (SPD), who also has a lucrative post in the energy industry. The two men, however, are working in direct competition with one another. Just a few months after the change of government at the end of 2005, Schröder took up a lucrative position as head of the supervisory board of the NEGP pipeline consortium, which is building a pipeline under the Baltic Sea in close cooperation with the Russian energy group Gazprom.

Fischer’s job now is to speed up the rival Nabucco project, which is supported by both the European Union and the American government, and seeks to transport natural gas from the Caspian region to Europe, bypassing Russia en route. The project has been at a virtual standstill for some years.

The crux of the Nabucco project lies in Turkey. The planned pipeline is to run from Ankara eastward to the Azerbaijani port of Baku on the Caspian Sea, via Georgia. The gas is then to flow westward over Bulgaria, Romania and Hungary, to Austria, the Czech Republic and Germany.

The pipeline is planned to stretch approx 3,300 kilometres and cost €7.9 billion, with funding provided by a banking group including the European Investment Bank. Although the European Union terms the Nabucco pipeline one of its most important energy projects, the commencement of its construction has been pushed back several times and is currently planned for 2011. The first stage of development is due to be completed by 2014.

As the most important transit country for the pipeline, Turkey is demanding a special price for transporting the gas. The government in Ankara increasingly regards the Nabucco project as an instrument to expedite its plans to join the EU. In January this year the Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdogan demanded a speeding up of EU membership negotiations and for the first time raised the Nabucco project in this regard. In the event that Turkish membership be denied, then Turkey would regard the Nabucco project as “endangered.”

According to media reports, Fischer’s job is to commence negotiations with the Turkish government as quickly as possible. In his role as former foreign minister he was a strong advocate of EU membership for Turkey and is therefore regarded as highly suitable for the job.

But Nabucco has a much bigger problem than Turkish demands for gas transit fees. So far it is completely unclear which countries are to supply the gas for the pipeline. Possible central Asian supplier countries such as Kazakhstan, Uzbekistan and Turkmenistan currently export their gas via Russia. Moscow then sells the gas with a price increase to Western Europe.

So far, gas from Azerbaijan was regarded as the main source for Nabucco, but in fact the country could only supply one fifth of the necessary amount. In discussions with Turkey, therefore, the main issue has been how to win the cooperation of Iran for the Nabucco project. At the “energy summit” of the European Union held at the beginning of May in Prague, Turkish President Abdullah Gül stressed that Turkey was relying on winning Iranian cooperation for the Nabucco project.

In an article published in the Austrian newspaper Die Presse, Professor Gerhard Mangott from the Austrian Institute for International Policy described the significance of Iranian involvement in Nabucco: “The profitability of Nabucco requires a transport quantity of 31 bcm (billions cubic meters). From the current standpoint this volume cannot be acquired without Iranian natural gas. After Russia, Iran holds the second largest global reserves of natural gas (16 percent). Up to 60 percent of this total resides in largely unexplored gas fields. Access to this gas is strategically vital for the energy security of the European Union.”

Just three days before taking up his advisory post for Nabucco, Fischer wrote a detailed article in Süddeutsche Zeitung giving his own estimate of current developments in Iran.

Fischer’s piece begins with praise for the “great speech” made recently by US President Barack Obama in Cairo to the Muslim world, which he says will have “substantial repercussions.” The situation in the Middle East is on the move, Fischer writes, and asks, is this a “mere coincidence or outstanding timing?”

“Since this speech, elections in Lebanon have taken place, which resulted in a surprising advance for the pro-Western party alliance against the Hezbollah and its allies,” he writes. Obama’s speech also encouraged the Iranian population to take to the streets to oppose “the obvious falsification of the election in favour of the acting president.” Fischer has only one explanation for the stance taken by Ahmadinejad: “The elections were stolen!”

Alongside domestic policy, the issue in the Iranian election campaign was “whether under conditions of opening up and international integration the country would develop a more rational foreign policy or not.” According to Fischer, Ahmadinejad stands for a policy of confrontation and partial isolation, Mousavi for the opening up of the Islamic republic.

The West confronts a dilemma, because the regime in Teheran is “on the one hand discredited and lacks legitimacy due to electoral fraud.” On the other hand, many problems cannot be solved “without the cooperation of the Iranian government.” This applies not only to the Iranian nuclear programme, but also to the conflicts in Afghanistan, Pakistan, Iraq, the Persian Gulf, Lebanon, as well as Palestine. “Iran will also play a role in the Caucasus and Central Asia.”

In his article Fischer did not expressly mention that the Ahmadinejad government has clearly stepped up its cooperation with China in recent years—but he is well aware of this fact. Undoubtedly one of the reasons for his support for the Mousavi camp is the fear of German and European energy groups that they could be denied access to Iranian energy reserves by the Ahmadinejad regime.

Recently the Iranian government gave the National Iranian Oil Company (NIOC) permission to conclude a contract with the China National Petroleum Corporation for the development of the South Pars gas field. In addition to this $4.7 billion deal with the CNPC, NIOC is also cooperating with the China National Offshore Oil Corporation in the exploitation of the North Pars gas field.

According to Guido Steinberg from the Foundation of Science and Politics, German companies threaten to be left out: “If the Iranians no longer do business with us, then they will look for other partners,” he warns. Teheran is currently in the process of a disturbing “geopolitical reorientation,” he writes in the recent edition of the Eurasischen Magazins.

An additional problem for Fischer and the Nabucco project comes from the Kremlin, and the executive floor of Gazprom, where Gerhard Schröder works. It is called “South Stream” and is a planned Russian-Italian natural gas pipeline, due to run across the bottom of the Black Sea and link the Russian port of Novorossiysk to the Bulgarian city of Varna.

From Bulgaria, South Stream is due to branch off with pipelines to Italy and Austria. In its final development stage, transit capacity is estimated at 47 billion cubic meters per year. Partners of the joint venture are Gazprom and the Italian power supplier Eni. The costs are estimated at more than €10 billion.

South Stream is to due to make the transport of Russian natural gas to Europe independent of the previous transit countries, Ukraine and Belarus. At the same time, the South Stream project could mean the end of Nabucco, because both Serbia and Hungary, as well as Bulgaria, have agreed to provide access facilities for the pipeline. This means the construction of South Stream could take place much faster than the Nabucco pipeline.

A hundred years ago the German government and Emperor Wilhelm II sought to extend German influence in the Ottoman Empire and gain access to the newly discovered oilfields in the Middle East through the construction of the Baghdad railway. This led to violent conflicts between the European great powers, which eventually contributed to the outbreak of the First World War. A similar role is being played today by the Nabucco pipeline and the associated global competition for access to energy. The Green Party and its long-time former leader Joschka Fischer are playing a key role in advancing this imperialist project.

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(srpskohrvatski / italiano)

PANČEVO. MRTAV GRAD

Due anni fa partivo per la Serbia con 150 euro in tasca e la mia vecchia xm1 con l'ntenzione di girare un documentario a Pancevo, cittadina distante 20 km da Belgrado.

Pancevo era ed e' ancora il simbolo dei bombardamenti feroci avvenuti nella primavera del 1999 sulla Serbia. Pancevo era ed e' ancora la citta' piu' inquinata d'Europa. Le fabbriche di Pancevo che davano lavoro a migliaia di persone vennero bombardate per novanta giorni causando un disatro ecologico di immani proporzioni.

L’allora vicepresidente americano della amministrazione Clinton, che volle fortemente il bombardamento era Al Gore , oggi Nobel per la pace e vincitore di un Oscar con il suo film ridicolo ’una verita’ sconveniente“. Oggi le fabbriche di Pancevo sono state quasi tutte chiuse e migliaia di operai hanno perso il lavoro e lasciati sulla strada.

La Nato non hai mai risarcito i danni causati alla cittadina di Pancevo, in compenso pero’ alcune multinazionali che si occupano di bonifiche ambientali si sono presentante a Pancevo negli ultimi anni disposte a bonificare l’ambiente in cambio di milioni e milioni di dollari, che la Serbia dovrebbe pagare in una cinquantina di anni.

Questo e’ il mondo in cui viviamo, questa e’ la verita’ scomoda che gente come Al gore , Obama, e altri politici alla moda ci stanno nascondendo insieme al progetto HARRP e alle Chemtrails, ingannandoci con le loro cazzate e la loro voglia di salvarci dal cambio climatico.

Non credero’ mai alle buone intenzioni di gente come Al gore e Obama e vi invito a informarvi meglio sul passato di questa gente. Non sempre quello che e’ cool e alla moda e’ giusto. Mi assumo personalmente la responsabilita’ delle parole che sto scrivendo e sono sicuro che a breve la storia dimostrera’ la veridicita’ di quello che sto scrivendo.

Domani, 1 luglio 2009 presentero’ in anteprima il mio documentario Pancevo_citta’ morta nella citta’ di Pancevo alla presenza di centinaia di cittadina della ormai in ginocchio citta’ di Pancevo.

Antonio Martino
www.antoniomartino.net

(segnalato da D. De Berardinis)


Organizzatore::
Tipo:
Rete:
Globale
Inizio:
mercoledì 1 luglio 2009 alle ore 21.00
Fine:
giovedì 2 luglio 2009 alle ore 21.00
Luogo:
Izabinski prostor KCPa, galerija „Elektrika”
Indirizzo:
Vojvode Radomira Putnika 4, Pančevo
Telefono:
0628037675
E-mail:
Nezavisni italijanski reditelj Antonio Martino autor je višestruko nagrađivanog filma „Pančevo_mrtav grad” (2007). 
Film će u Pančevu biti prvi put prikazan u sredu, 1. jula, u Art klubu Kulturnog centra Pančeva (III sprat izabinskog prostora, ulaz kod Suda) u 21h.

Narednog dana, 2. jula, u galeriji „Elektrika” će se održati filmska radionica koja počinje u 11 časova pre podne.

Sadržaj radionice: 
• Diskusija na temu „Nezavisni film i digitalna revolucija”
• Dokumentarni film i nove sociološke teorije „Reflecitive modernity”
• Načini na koje se može pristupati evropskim fondovima za finasiranje angažovanih filmova i ostale mogućnosti koje se mogu ostvariti preko ovih fondova.

Antonio Martino poziva učesnike da donesu svoje radove u digitalnom formatu koji će delimično biti prikazani i o njima će se voditi diskusija. 
Voditelj radionice će na kraju prikazati još dva svoja filma iz serijala „East trilogy”.

Nagrade:
-Special Mention, Cinemabiente Torino 2007
-Best Documentary, Corto Imola film festival, Imola 2007
-Special Mention, Visioni Italiane film festival, Bologna 2008
-Best Documentary, Naturae Film Festival Ravenna 2008
-Best Documentary, Ecologico Film Festival, Nardò 2008
-Best Documentary, Malescorto, Torino 2008
-Cinergie Special Mention, Lucania Film festival, Pisticci 2008
-Best Documentary, Festival internazionale del cinema indipendente, Foggia 2008
-Best Documentary, Parma Video Film Festival, Parma 2009 



In Iran un tentativo di colpo di Stato filo-imperialista

1) Eva Golinger: "Rivoluzione verde", il copione è stato riproposto, questa volta in Iran

2) Da Belgrado a Teheran - lettera di Jasmina a Repubblica online

3) Domenico Losurdo: In Iran un tentativo di colpo di Stato filo-imperialista

4) Reza Fiyouzat: Una connessione tra Mir-Hossein Mousavi e l'Irangate"?


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LA “RIVOLUZIONE VERDE”: IL COPIONE È STATO RIPROPOSTO QUESTA VOLTA IN IRAN
                                                                                                                     
di Eva Golinger

Il Set………….........……Colore: Verde...................………..Slogan: “Dov’è il mio voto?”

Attori principali: Studenti e giovani delle classe media e alta, dirigenti dell’opposizione, mezzi di comunicazione internazionale, nuove tecnologie (Twitter, Youtube, cellulari, SMS, Internet).

Attori secondari: Organizzazioni non governative (ONG) internazionali, Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Freedom House, Centro per l’applicazione dell’azione non violenta “CANVAS” (ex OTPOR), Centro per il Conflitto Internazionale Non Violento (ICNC), Istituto Albert Einstein, Pentagono, Missione Speciale della Direzione Nazionale dell’Intelligence USA per l’Iran.

Scenario: Elezioni Presidenziali; il candidato ufficiale, Mahmud Ahmadinejad, l’attuale presidente che mantiene una linea molto dura contro l’imperialismo statunitense e il sionismo israeliano e gode di un alto grado di popolarità tra le classi popolari iraniane per gli investimenti in programmi sociali, vince con il 63% dei voti; il candidato dell’opposizione, Mir Hossein Musavi, di classe medio-alta, che prometteva (in inglese) durante la campagna che la sua elezione alla presidenza avrebbe assicurato “un nuovo saluto al mondo”, frase che stava ad indicare che avrebbe cambiato la politica estera nei confronti di Washington, ha perso per più di 15 punti; l’opposizione denuncia una frode elettorale e chiede alla comunità internazionale di intervenire; gli studenti manifestano nelle strade, nelle zone della classe media e alta della capitale, Teheran; dicono di essere “non violenti”, ma provocano reazioni repressive dello Stato con azioni aggressive e immediatamente denunciano presunte violazioni dei loro diritti di fronte ai media internazionali; dicono che il presidente eletto è un “dittatore”. 

Luogo: L’Iran, quarto produttore di petrolio nel mondo e il secondo di riserve di gas naturale. In piena flagranza dell’embargo commerciale imposto da Washington, la Cina ha firmato un accordo con l’Iran nell’anno 2004, per un valore di 200.000 milioni di dollari, per l’acquisto di gas naturale iraniano nei prossimi 25 anni. Negli ultimi quattro anni, l’Iran ha stretto relazioni commerciali con i paesi dell’America Latina, nonostante le minacce di Washington, e attualmente sviluppa tecnologia nucleare a scopi pacifici.

Vi suona familiare? Di certo suona familiare ai venezuelani e alle venezuelane che da tre anni, senza ombra di dubbio, stanno vivendo in questo scenario. Le cosiddette “rivoluzioni colorate”, che cominciarono in Serbia nell’anno 2000, con il rovesciamento e la demonizzazione di Slobodan Milosevic, e che poi passarono per la Georgia, l’Ucraina, il Kirghiztan, il Libano, la Bielorussia, l’Indonesia e il Venezuela, sempre con l’intenzione di cambiare “regimi” non favorevoli agli interessi di Washington con governi “più amichevoli”, sono adesso arrivate in Iran. Il copione è identico. Un colore, un logotipo, uno slogan, un gruppo di studenti e giovani di classe media, un processo elettorale, un candidato filo-statunitense e un paese pieno di risorse strategiche con un governo che non rispetta l’agenda dettata dall’impero. Sono sempre le stesse ONG e agenzie straniere quelle che appoggiano, finanziano e promuovono la strategia, fornendo contributi finanziari e formazione strategica ai gruppi studenteschi perché eseguano il piano. Dovunque ci sia una “rivoluzione colorata”, si trovano anche l’USAID, il National Endowment for Democracy, Freedom House, il Centro Internazionale per il Conflitto Non Violento, il CANVAS (ex OTPOR), l’Istituto Albert Einstein, l’Istituto Repubblicano Internazionale e l’Istituto Democratico Nazionale, per citarne alcuni.

Si esamini questo testo, intitolato “Una guida non violenta per l’Iran”, scritto dall’ex direttore dell’Istituto Albert Einstein, fondatore del Centro Internazionale per il Conflitto Non Violento (INCR) e presidente di Freedom House, Peter Ackerman, e dal suo collega, coautore del libro “Una forza più potente: un secolo di conflitto non violento” e direttore dell’INCR, Jack DuVall, anch’egli esperto in propaganda e cofondatore dell’Istituto Arlington, insieme con l’ex direttore della CIA, James Woolsey:

“Manifestazioni ripetute, guidate da studenti a Teheran, devono accelerare a Washington il dibattito sull’Iran. Ci si sta ponendo due domande? Le manifestazioni sono in grado di produrre un cambiamento di regime? Che tipo di appoggio esterno servirebbe?

La storia dei movimenti civili, come quello che attualmente si sta creando in Iran, evidenzia che il riscaldamento della piazza non è sufficiente a rovesciare un governo. Se l’aiuto degli Stati Uniti apporta semplicemente più legna al fuoco e l’opposizione interna non lavora per indebolire le fonti reali del potere del regime, non funzionerà.

La lotta vittoriosa del movimento civile ha l’obiettivo di promuovere l’ingovernabilità per mezzo degli scioperi, del boicottaggio, della disobbedienza civile ed altre tattiche non violente – oltre alle proteste di massa -, allo scopo di indebolire e distruggere i pilastri di sostegno del governo. Ciò è possibile in Iran.

Gli avvenimenti in Iran sono simili a quelli della Serbia appena prima che il movimento diretto da studenti sconfiggesse Slobodan Milosevic. Il suo regime si era alienato non solamente gli studenti, ma anche la maggioranza della classe media… Anche la classe politica era divisa e molti erano stanchi del dittatore. Cogliendo l’opportunità, l’opposizione si mobilitò per separare il regime dalle sue fonti di potere…”

L’elemento maggiormente rivelatore di questo articolo non è solo l’ovvia visione interventista che cerca di promuovere un colpo di stato in Iran, ma il fatto che esso fu scritto il 22 luglio 2003, quasi sei anni fa (vedere l’originale: http://www.nonviolent-conflict.org/rscs_csmArticle.shtml). In questi sei anni l’organizzazione di Ackerman e DuVall, insieme ai soci, CANVAS a Belgrado e l’Istituto Albert Einstein a Boston, ha lavorato per formare e rendere efficienti gruppi di studenti nelle tecniche di golpe morbido in Iran, con finanziamenti della NED, di Freedom House e delle agenzie del Dipartimento di Stato. Non è casuale che CANVAS, composto dai leader del gruppo OTPOR della Serbia che rovesciò Milosevic, abbia da qualche tempo cominciato a pubblicare i suoi materiali in farsi e in arabo. Una delle pubblicazioni principali, realizzata con il finanziamento del Dipartimento di Stato degli USA attraverso l’Istituto Statunitense della Pace, dal titolo “La lotta non violenta: i 50 punti critici”, è considerata come “un manuale di perfezionamento della lotta strategica non violenta, che offra una molteplicità di informazioni pratiche…” E’ un libro elettronico diretto a un pubblico giovanile, come evidenzia una grafica, un disegno e un linguaggio per i giovani. Scritto originalmente in serbo, nel corso dell’ultimo anno è stato tradotto in inglese, spagnolo, francese, arabo e farsi (la lingua parlata in Iran). La versione in farsi: http://www.canvasopedia.org/files/various/50CP_Farsi.pdf.

Questo libro è una versione moderna, con un disegno più attraente per la gioventù, del libro originale scritto dal guru della lotta “civile” per il cambiamento di regimi non favorevoli a Washington: Gene Sharp. Il suo libro, “Sconfiggendo un dittatore”, che si è tradotto anche in un film prodotto da Ackerman e DuVall, è stato utilizzato in tutte le rivoluzioni colorate in Europa Orientale, ed anche in Venezuela, ed è considerato dai movimenti studenteschi come la propria “bibbia”. L’introduzione del libro di CANVAS spiega: “Questo libro è il primo che applica l’azione strategica non violenta a campagne reali. Le tecniche presentate nei prossimi 15 capitoli hanno avuto successo in molti luoghi del mondo… Questo libro contiene lezioni apprese attraverso diverse lunghe e difficili lotte non violente contro regimi non democratici e oppositori delle libertà umane fondamentali… Gli autori sperano e credono che comunicare questi punti cruciali in tale formato, vi aiuterà a rendere più operativa l’azione strategica non violenta, affinché possiate recuperare i vostri diritti, superiate la repressione, resistiate all’occupazione, realizziate la democrazia e stabiliate la giustizia nella vostra terra; impedendo che questo secolo sia un’altra “Era degli estremi”.

Ovviamente non è una coincidenza che il libro sia uscito in farsi e in arabo proprio qualche mese prima delle elezioni presidenziali dell’Iran, dal momento che queste organizzazioni avevano già cominciato a lavorare con l’opposizione iraniana per preparare lo scenario del conflitto. E ora, veniamo al contenuto e agli obiettivi di questo libro, che ora vengono perseguiti all’interno del territorio iraniano. (E’ pure interessante segnalare che l’edizione spagnola uscì proprio prima del referendum costituzionale in Venezuela e che la traduzione fu realizzata da un’organizzazione sconosciuta del Messico: “Non violenza in Azione” (NOVA). Un paese in cui ha soggiornato lungamente l’ex dirigente studentesco venezuelano Yon Goicochea, che ha ricevuto addestramento e finanziamento da parte dei gruppi stranieri prima menzionati).

Inoltre, la grande agenzia di destabilizzazione, National Endowment for Democracy (NED), ha anch’essa lavorato attivamente per destabilizzare la rivoluzione iraniana ed imporre un regime favorevole agli interessi di Washington. Dopo le elezioni presidenziali in Iran nell’anno 2005, l’allora segretaria di Stato Condoleeza Rice annunciò la creazione di un nuovo Ufficio per gli Affari Iraniani, con un bilancio iniziale di 85 milioni di dollari approvato dal Congresso statunitense. Gran parte di questo denaro fu dirottato verso il lavoro della NED e di Freedom House, che già stavano finanziando alcuni gruppi all’interno e all’esterno dell’Iran, i quali operavano diffondendo informazioni sugli abusi dei diritti umani in Iran, e la formazione di giornalisti “indipendenti”. Organizzazioni come l’Associazione dei Maestri dell’Iran (ITA) hanno ricevuto finanziamenti della NED fin dal 1991 per promuovere la pubblicazione di una rivista politica che contribuiva alla costruzione di un Iran “democratico”. Anche la Fondazione per un Iran Democratico (FDI), con base negli Stati Uniti, è stata uno dei principali recettori dei fondi della NED. Il suo lavoro è stato orientato nel campo dei diritti umani, principalmente per presentare il governo iraniano come violatore dei diritti dei suoi cittadini. Questa organizzazione è strettamente legata agli istituti dell’ultradestra negli Stati Uniti, come l’American Enterprise Institute e il Progetto per un Nuovo Secolo Americano, che hanno fatto pressione per le guerre in Medio Oriente*.

La NED ha anche finanziato gruppi come la Fondazione Abdurrahman Boroumand (ABF), una ONG che presumibilmente promuove diritti umani e democrazia in Iran. Questa organizzazione si è incaricata di creare pagine web e biblioteche elettroniche sui diritti umani e la democrazia. Nel 2003, ABF ricevette un fondo di 150.000 dollari per un progetto dal titolo “La transizione alla democrazia in Iran”. Nel 2007, ABF ottenne 140.000 dollari per “creare coscienza sulle esecuzioni politiche dall’inizio della rivoluzione iraniana nel 1979, promuovere la democrazia e i diritti umani tra i cittadini e rafforzare la capacità organizzativa della società civile”. Si impegnò anche ad “assumere un consigliere per le comunicazioni e a condurre campagne mediatiche”.

Quantità di denaro non rivelate pubblicamente dalla NED sono state concesse a diverse ONG tra il 2007 e il 2009, per costruire un appoggio internazionale alle ONG e agli attivisti dei diritti umani nazionali… favorire la società civile iraniana e i rappresentanti dei mezzi di comunicazione a relazionarsi e a comunicare con la comunità internazionale…”

Inoltre, i gruppi più importanti della NED, come il Centro Americano di Solidarietà Lavorativa (ACILS), che in Venezuela ha sostenuto il sindacato golpista dell’opposizione, la Confederazione dei Lavoratori Venezuelani (CTV), ha finanziato e consigliato il “movimento operaio indipendente” in Iran dal 2005. Anche l’Istituto Repubblicano Internazionale (IRI) ha ricevuto fondi dalla NED per “legare attivisti politici in Iran a riformisti in altri paesi” e “rafforzare la loro capacità di comunicazione e organizzazione”. Si tratta delle stesse attività e delle stesse agenzie di Washington che conducono le azioni di ingerenza in Venezuela, Bolivia, Nicaragua e altri paesi in cui attualmente gli Stati Uniti cercano di promuovere un cambiamento del governo con un altro più favorevole ai loro interessi.

Anche la manipolazione mediatica su ciò che avviene attualmente in Iran segue un proprio copione. In Venezuela, quando il presidente Chavez vinse le elezioni presidenziali nel 2006 con il 64% dei voti e più del 75% di partecipazione popolare, l’opposizione gridò alla frode (come in generale è abituata a fare in tutti i processi elettorali che perde) e ricevette copertura mediatica allo scopo di formulare e promuovere le sue denunce, nonostante non presentasse nessuna prova che desse fondamento alle accuse. Tale presenza mediatica viene attivata semplicemente per continuare a promuovere correnti di opinione che pretendono di demonizzare il presidente Chavez, definendolo un dittatore, e di gettare discredito sul governo venezuelano, per poi giustificare qualsiasi intervento straniero.

Nel caso dell’Iran, in questo momento vediamo titoli come “Proteste in Europa contro il voto in Iran” (AP), “Khamenei v. Musavi” (Atantic Online), “Grande manifestazione di lutto a Teheran” (Reuters), “Una nuova inchiesta indica la frode” (Washington Post), “Biden esprime “dubbi” sulle elezioni in Iran” (CNN, 14/06/2009), e “Analisti rivedono i risultati “ambigui” in Iran” (CNN, 16/06/2009). I titoli generano l’impressione di una possibile frode elettorale in Iran, giustificando di conseguenza le proteste violente dell’opposizione, sebbene Ahmadinejad abbia vinto con un risultato impressionante, il 63% dei voti, dieci punti in più di quelli che ha conseguito Obama negli Stati Uniti lo scorso mese di novembre. Per spiegare la reazione mediatica, secondo l’ex ufficiale della CIA incaricato della regione del Medio Oriente, Robert Baer, “la maggior parte delle manifestazioni e delle proteste che trovano spazio nelle notizie sono ubicate nella zona nord di Teheran… Si tratta, principalmente, di settori dove vive la classe media liberale iraniana. Sono anche settori in cui, senza dubbio, si è votato per Mir Hossein Mussavi, il rivale del presidente Mahmud Ahmadinejad, il quale ora denuncia la frode elettorale. Ma non abbiamo ancora visto immagini del sud di Teheran, dove vivono i poveri… Per molti anni, i media occidentali hanno visto l’Iran attraverso lo specchio della classe media liberale iraniana – una comunità che ha accesso a Internet e alla musica statunitense, che ha maggiori possibilità di parlare con la stampa occidentale e che dispone di denaro per comprare voli a Parigi o a Los Angeles… Ma rappresenta davvero l’Iran?”

Baer, in un articolo pubblicato nella rivista Time**, afferma che una dei pochi sondaggi affidabili, elaborati da analisti occidentali negli ultimi giorni della campagna elettorale, dava la vittoria ad Ahmadinejad – con percentuali ancora più alte del 63% che ha ottenuto… Il sondaggio è stato effettuato in tutto l’Iran e non solo nelle zone della classe media”.

                                                                                   su www.rebelion.org del 20/06/2009

                                                   Traduzione di Mauro Gemma per http://www.lernesto.it

* http://www.zmag.org/znet/viewArticle/2501

** “Don’t Assume Ahmadinejad Really Lost”, Time online, 16 giugno 2009


=== 2 ===


Da Belgrado a Teheran

Una lettrice di nome Jasmina, che ha vissuto le crisi, le violenze e le tribolazioni della ex-Jugoslavia mi ha inviato  un email sull’Iran di oggi. Eccolo.

Vivo e rivivo il passato in questo disastro iraniano (io ho fatto la Rivoluzione
di velluto a Belgrado, la prima, e conosco perfettamente i meccanismi che
Otpor per primo aveva messo in pratica ingannandoci collettivamente a noi
che credevamo di aver fatto tutto da soli!)  e impazzisco per quello che
accade al popolo amico. Una sensazione di impotenza atroce, di ennesimo inganno, di morti che potevano evitarsi. Non ne posso più di questi giochi occulti, sporchi, che mettono i fratelli l’uno contro l’altro. Perchè poi, penso a quelle persone vive che ho conosciuto, con le quali ho lavorato come operatrice umanitaria, quell’esercito di profughi che sono il risultato di queste politiche, con le loro vite distrutte che bivaccano in qualche postaccio fatiscente nella miseria nera, spezzati nella speranza, nell’avvenire. Con i figli che crescono anche loro depressi e con le infanzie rubate. Io li ho davanti ai  miei occhi quelle persone e pensare che il terreno per un altra guerra si prepara e che altri dannati si vengono ad aggiungere alle file già straripanti, mi toglie ogni speranza nel genere umano. Ogni notte sogno cose terribili avvenire sulle strade di Teheran, vivo nel terrore che una guerra civile accaduta al mio di paese possa accanirsi anche contro l’Iran.



Un commento a “Da Belgrado a Teheran”

vlad62 scrive:

Le cosiddette “rivoluzioni colorate” sono state una schifosa truffa ai danni di malcapitati popoli che sono stati usati come carne da macello da gentaglia avida di potere e profitti. Per fortuna ormai il giochetto è definitivamente sputtanato e non funziona più.
Auguri agli iraniani, che si guardino dagli “amici” che in occidente stanno spuntando come funghi.


=== 3 ===

SABATO 27 GIUGNO 2009

In Iran un tentativo di colpo di Stato filo-imperialista
Non c'è dubbio che in questi giorni si è assistito a un tentativo di colpo di Stato, fomentato e appoggiato dall'esterno. Ovviamente, tentativi del genere possono aver chances di successo solo in presenza di una consistente opposizione interna. E, tuttavia, la sostanza del problema non cambia.

La tecnica dei colpi di Stato filo-imperialisti, camuffati da«rivoluzioni colorate», segue ormai uno schema ben consolidato:

1) Alla vigilia delle elezioni o immediatamente dopo il loro svolgimento una gigantesca potenza di fuoco multimediale, digitale e persino telefonica bombarda ossessivamente la tesi secondo cui a vincere è stata l'opposizione, che dunque viene spinta a scendere in piazza per protestare contro i «brogli».

2) Il «colore» e le parole d'ordine delle manifestazioni sono state già programmate da tempo; la «guerra psicologica» è stata già definita in tutti i suoi dettagli per fare apparire l'opposizione filo-imperialista come «pacifica» espressione della volontà popolare e per bollare come intrinsecamente fraudolente e violente le forze di orientamento diverso e contrapposto.

3) La rivendicazione è quella dell'annullamento delle elezioni e della loro ripetizione. Non sarà ritenuto valido nessun risultato che nonsia avallato dai giudici inappellabili che risiedono a Washington e a Bruxelles. E comunque, la ripetizione della consultazione elettorale già di per sé è destinata a produrre un rovesciamento del risultato precedente. Il blocco politico-sociale che aveva espresso il vincitore considerato illegittimo a Washington e a Bruxelles tende a sgretolarsi: appare ora privo di senso opporsi ai padroni del mondo, che già con l'annullamento delle elezioni hanno dimostrato la loro onnipotenza; donchisciottesco risulta ora tentare di opporsi alla corrente «irresistibile» della storia. Donchisciottesco e anchepericoloso: come dimostra in particolare il caso di Gaza, un risultato elettorale non gradito ai padroni del mondo spiana la stradaall'embargo, al blocco, ai bombardamenti terroristici, alla morte per inedia o sotto il fosforo bianco. Su versante opposto i «democratici» legittimati e benedetti da Washington e da Bruxelles, oltre a disporre della strapotenza economica, multimediale, digitale e telefonica dell'Occidente, saranno ulteriormente caricati dalla sensazione di muoversi in consonanza con le aspirazioni dei padroni del mondo e con la corrente «irresistibile» della storia.

Alla luce di queste considerazioni evidente è la miseria intellettuale e politica di buona parte della «sinistra» italiana. Essa non presta nessuna attenzione ad esempio alla presa di posizione del presidente brasiliano Lula: in base a quale principio l'Occidente può pretendere di proclamare in modo inappellabile la legittimità delle elezioni in Messico dell'anno scorso e l'illegittimità delle elezioni di due settimane fa in Iran? Eppure anche nel primo caso il candidato sconfitto denunciava brogli e nel far ciò dava voce a un sentimento largamente diffuso nella popolazione, che infatti scendeva in piazza in manifestazioni non meno massicce di quelle che si sono viste a Teheran. Ed è da aggiungere che in Messico il margine di vantaggio del vincitore era assai risicato, al contrario di quello che si è verificato in Iran...

Rinvio a altra occasione l'analisi complessiva della rivoluzione e situazione iraniana. Ma una cosa intanto è chiara. Nel suo conformismo, una certa «sinistra» crede di difendere la causa della democrazia: in realtà essa prende posizione a favore di un ordinamento internazionale profondamente antidemocratico, nell'ambito del quale le potenze oggi economicamente e militarmente più forti avanzano la pretesa di decidere sovranamente della legittimità delle elezioni in ogni angolo del mondo, nonché di condannare all'inferno dell'aggressione militare e dello strangolamento economico quei popoli che esprimono preferenze elettorali «sbagliate»: Gaza docet!

Domenico Losurdo



=== 4 ===
http://www.mercantedivenezia.org/index.php?option=com_content&view=article&id=3200:una-connessione-tra-mir-hossein-mousavi-e-lirangateq&catid=220:asia&Itemid=389

Una connessione tra Mir-Hossein Mousavi e l'Irangate"?

Scritto da Reza Fiyouzat, Revolutionary Flowerpot Society - Traduzione di Comedonchisciotte   
Mercoledì 24 Giugno 2009 07:26

Nota dell'editore: Questo articolo è stato scritto prima delle elezioni (8 giugno 2009), e l'autore, docente all'Università di Tokyo, è un oppositore del regime iraniano. Nei suoi ultimi articoli, Reza Fiyouzat sostiene che non solo i risultati elettorali sono stati falsificati, ma che è in atto un vero e proprio colpo di stato interno alla teocrazia, e, pur senza essere a favore Mousavi, appoggia la rivolta in atto in Iran


Che cosa hanno in comune Michael Ledeen (il 'neoconservatore’ americano), Mir-Hossein Mousavi (il candidato iraniano alla presidenza del 'cambiamento’) e Adnan Khashoggi (il ricco membro del jetset dell’Arabia Saudita)? Sono tutti buoni amici e soci di Manuchehr Ghorbanifar (un mercante di armi iraniano, un presunto doppio agente del MOSSAD nonché figura chiave del caso Irangate, ovvero gli accordi di 'armi in cambio di ostaggi’ tra l’Iran e l’amministrazione di Reagan). In uno o due, al massimo tre gradi di separazione, queste persone frequentavano gli stessi circoli e molto probabilmente hanno partecipato agli stessi brindisi. Si trovano tutti i generi di informazioni banali su Ghorbanifar nel "Walsh Report on the Contra/Iran affair" [il rapporto finale su Irangate di Lawrence E. Walsh ndt]. 

Al capitolo 8, ad esempio apprendiamo quanto segue: "Ghorbanifar, un esiliato iraniano ed ex informatore della CIA che era stato screditato dall’agenzia come un fabbricatore, era una delle forze motrici dietro queste proposte [l’accordo armi in cambio di ostaggi];"oppure "Ghorbanifar, come intermediario per l’Iran, ha preso in prestito i fondi per il pagamento delle armi da Khashoggi, che ha prestato milioni di dollari a Ghorbanifar con un 'finanziamento-ponte' per gli accordi. Ghorbanifar ha rimborsato Khashoggi con il 20% di commissione dopo essere stato pagato dagli Iraniani," (vedi: http://www.fas.org/irp/offdocs/walsh/chap_08.html)

Segue un estratto da un articolo della rivista Time magazine che mostra la cerchia di soci di Ghorbanifar; proviene da una storia di copertina del 1987 ("The Murky World of Weapons Dealers"; 19 gennaio 1987): "Secondo quanto da lui stesso detto, [Ghorbanifar] era un rifugiato del governo rivoluzionario di Ayatollah Ruhollah Khomeini, che confiscò la sua attività in Iran, tuttavia in seguito divenne un fidato amico e consigliere di Mir Hussein Mousavi, primo ministro durante il governo di Khomeini. Alcuni ufficiali americani che hanno trattato con Ghorbanifar lo lodano senza riserve. Michael Ledeen, consigliere del Pentagono sul contro-terrorismo ha detto: "[Ghorbanifar] è una delle persone più oneste, istruite e giuste che abbia mai conosciuto". Altri lo definiscono un bugiardo che, come si suol dire, non saprebbe dire la verità sugli abiti che indossa", (enfasi aggiunta). 

Questo secondo estratto è preso dal capitolo 1 del rapporto Walsh su Irangate: (http://www.fas.org/irp/offdocs/walsh/chap_01.html"Il 25 novembre 1985 o intorno a tale data, Ledeen ricevette una frenetica telefonata di Ghorbanifar, che gli chiedeva di riferire un messaggio da parte di [Mir-Hossein Mousavi] , primo ministro dell’Iran, al presidente Reagan riguardo alla spedizione del tipo sbagliato di missili HAWKs. Ledeen ha detto che il messaggio essenzialmente era "abbiamo fatto la nostra parte dell’affare, e adesso eccovi a mentirci e imbrogliarci e a raggirarci e fareste meglio a correggere la situazione immediatamente". […] "All’inizio di maggio North[1] e il beneficiario della CIA George Cave si sono incontrati con Ghorbanifar e Nir[2] a Londra, dove sono state gettate le basi per un incontro tra McFarlane e gli ufficiali iraniani ad alti livelli, oltre che gli accordi finanziari per l’affare delle armi. Tra gli ufficiali che Ghorbanifar disse che avrebbero incontrato una delegazione americana c’erano il presidente e il primo ministro [Mousavi] dell’Iran e il portavoce del parlamento iraniano," (enfasi aggiunta).

[North fu uno dei militari più coinvolti nel traffico di armi verso l'Iran volto a ottenere il rilascio degli ostaggi americani e fondi neri con cui finanziare la guerriglia dei contras in Nicaragua.]

E per ricordare come Michael Ledeen sia stato coinvolto nell’affare Irangate nel 1985, ecco un estratto dal capitolo 15 del rapporto Walsh (http://www.fas.org/irp/offdocs/walsh/chap_15.html): "[McFarlane] ha autorizzato Michael A. Ledeen, un consulente part-time del NSC[3] sull’antiterrorismo, a chiedere al primo ministro israeliano Shimon Peres di indagare su una relazione secondo cui gli Israeliani avevano accesso a buone fonti sull’Iran. Entro l’inizio dell’agosto del 1985 i discorsi di Ledeen avevano portato ad un approccio diretto degli ufficiali israeliani verso McFarlane, per ottenere l’approvazione del presidente Reagan per la spedizione in Iran di missili TOW forniti dagli USA, in cambio del rilascio degli ostaggi americani a Beirut. McFarlane disse che aveva informato sulla proposta il presidente Reagan, Schultz, Weinberger, Casey e forse il vicepresidente tra il luglio e l’agosto 1985. McFarlane disse che Casey aveva raccomandato che il Congresso non fosse informato della vendita di armi".

Ecco qui. Ora, non sono un giornalista investigativo, quindi lascerò che siano i professionisti a scavare di più su questa faccenda. Ma devo chiedermi ad alta voce: visto che non possiamo ignorare le sue credenziali di 'neoconservatore’, e visto che Michael Ledeen ha mantenuto le sue ottime relazioni con Ghorbanifar, (che per lo meno era) un buon amico di Mir-Hossein Mousavi (il 'candidato del cambiamento’ alle elezioni presidenziali iraniane); e dato il sostegno che la candidatura di Mousavi riceve dai 'moderati’ americani, forse questo genere di 'cambiamento’ è il 'cambiamento di regime’ che gli Americani hanno in mente per l’Iran? 

Titolo originale: "Mir-Hossein Mousavi's Iran/Contra Connection? "

Fonte: http://revolutionaryflowerpot.blogspot.com 
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI 





(a questo link è visionabile anche una sintesi del video «L'Italia chiamò» di cui si parla nell'articolo)


I MORTI SAREBBERO CIRCA 170 E I MALATI PIÙ DI 2.500


Uranio impoverito, le denunce dei soldati


Un'inchiesta racconta la quotidianità di tre ex militari malati di tumore dopo missioni in Bosnia, Kosovo e Iraq



MILANO - L'ultima denuncia è di pochi giorni fa: la moglie di un militare romano di 49 anni ha rivelato che il marito è morto a novembre per un adenocarcinoma, un tumore maligno presumibilmente di origine polmonare. Il militare era stato in missione in Kosovo, a Pec, dal 2000 al 2001, in veste di radiologo. In una lettera al sito Vittimeuranio.com la donna chiede che sia fatta luce e giustizia sulla morte del marito. Secondo il bilancio ufficiale del ministero della Difesa, alla fine del 2007 le morti riconducibili all'uranio impoverito sono 77 e i malati 312. Diversi numeri dell'Osservatorio militare, ente coordinato da Domenico Leggiero, un elicotterista di Sesto Fiorentino a riposo: i morti sono circa 170 e i malati più di 2.500, dagli anni Novanta ad oggi.

L'ITALIA CHIAMÒ - Ai drammatici effetti dell'uranio impoverito è dedicata un'inchiesta, «L'Italia chiamò» (libro e dvd, Edizioni Ambiente, 2009), di tre giornalisti: Leonardo Brogioni (uno dei fondatori dell’associazione culturale Polifemo), Angelo Miotto (PeaceReporter) e Matteo Scanni (coordinatore della Scuola di giornalismo dell'Università Cattolica e autore di film e cortometraggi). È un lavoro multimediale, ovvero composto da testi, video, audio e foto. I protagonisti sono quattro militari italiani che hanno partecipato alle missioni di pace in Bosnia, Kosovo e Iraq: tre di loro, malati di tumore, affrontano una difficile quotidianità. Il quarto, Luca Sepe, è morto nel 2004 e nel documentario viene raccontato dalle parole del padre: «Da quando si è ammalato ed è deceduto mio figlio, a casa mia non si sorride più, c’è sempre un silenzio di tomba, non ci sono più feste comandate né compleanni, per noi il tempo si è fermato» dice Antonio Sepe.


RACCONTI DEI SOLDATI Emerico Laccetti ha 47 anni ed è sopravissuto a un linfoma non Hodgkin (tumore maligno del tessuto linfatico): «La prima volta che ho sentito parlare dell’uranio impoverito è stato leggendo un giornale gratuito distribuito nella metropolitana di Roma - racconta -. Nessuno dei miei superiori si è mai fatto vivo quando stavo male, l'unica telefonata interessata è stata quella della Commissione Mandelli, che dal 2000 lavorava per accertare gli aspetti medico-scientifici dei casi di tumore segnalati sui militari impegnati in Bosnia e Kosovo». Poi c'è Salvatore Donatiello, ex sergente di Sparanise (Caserta), anche lui colpito da linfoma non Hodgkin durante le esercitazioni al poligono interforze di Capo Teulada, in Sardegna. «Dormivamo e mangiavamo nelle tende, camminavamo su terreni non bonificati e c’erano dappertutto resti di proiettili di ogni tipo, anche americani» è la sua testimonianza. Ultimo protagonista di questo viaggio negli inferi è Angelo Ciaccio, colpito due anni fa da leucemia mieloide acuta (patologia tumorale delle cellule del midollo osseo): ha la testa rasata e deve portare sempre una mascherina sulla bocca dopo il trapianto al midollo; è stato sottoposto a decine di sedute di chemioterapia. «Ho prestato servizio a Sarajevo, alla caserma Tito Barrak - spiega -, ma penso di essermi ammalato Iraq per i continui bombardamenti».

OPERAZIONE VULCANO - Gli autori hanno allegato al lavoro anche un video, girato dai soldati e tuttora classificato come riservato, che mostra le procedure standard adottate durante l'"operazione Vulcano", una bonifica effettuata in Kosovo nel novembre 1996. I soldati seppelliscono in una buca le armi e le munizioni abbandonate dall'esercito americano e dagli alleati, poi le fanno brillare: una nuvola radioattiva copre il cielo. Nessuno indossa tute o maschere di protezione. A distanza di pochi anni il destino dei 14 uomini della squadra Vulcano è segnato: otto si ammalano, due muoiono di tumore, altri due mettono al mondo figli con gravi malformazioni, scoprendo dagli esami microbiologici che anche il liquido seminale può trasformarsi in agente contaminante. «Solo in Kosovo gli americani e i loro alleati hanno sparato 31 mila proiettili "speciali" e scaricato l’equivalente di dieci tonnellate di uranio impoverito - scrivono gli autori di «L'Italia chiamò» -, hanno sperimentato con disinvoltura armi in grado di perforare come burro la corazza di un tank, sprigionando nell’impatto radiazioni e polveri».


29 giugno 2009




LAPSUS FREUDIANO

Lanciano (Chieti), 09:32

PESCARA2009: ANNULLO FILATELICO RIDA' VITA A JUGOSLAVIA

Nell'annullo filatelico speciale per i Giochi del Mediterraneo, la Jugoslavia di un tempo si ritrova rinata e di nuovo unita. La scoperta e' del quotidiano on line Lanciano.it (www.lanciano.it), che pubblica il bozzetto definitivo dell'annullo postale promosso dalla Filanxanum 2009 e in funzione negli uffici postali di Lanciano (Chieti) in occasione di Pescara 2009. L'annullo, con la dicitura 'La cultura dei paesi partecipanti', riproduce erroneamente una carta politica dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo precedente la separazione della Jugoslavia. E cosi' Serbia, Croazia, Slovenia, Montenegro e Bosnia - che partecipano ognuno per proprio conto, con i propri colori nazionali, alla manifestazione sportiva - si ritrovano nuovamente riunite in un unico Stato che pero' non esiste piu' dall'inizio dei primi anni Novanta. "Non e' la prima volta che filatelia e numismatica scivolano sulla geografia - scrive il quotidiano - casi celebri, che suscitarono anche sentite proteste dagli stati interessati, sono stati in passato quello della moneta da mille lire e del Gronchi rosa. La moneta bimetallica, coniata tra il 1997 e il 1998, presentava infatti la Germania ancora divisa, mentre il francobollo da 205 lire, che celebrava la visita del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi in Sud America, indicava erroneamente i confini del Peru'".

(Fonte: Repubblica online, 29 giugno 2009)



Diversamente da quanto indicato nell'indice del nostro messaggio di ieri "Milosevic i Vidovdan 1989 - 2009", l'intervista ivi riportata, che appare sull'ultimo numero della rivista "Pečat", è stata effettuata alla fine del 2000 (non nel 2006) e trasmessa sulla rete TV "Palma".
Ci scusiamo con i lettori per l'errato riferimento.


Il giorno 28/giu/09, alle ore 12:37, jugocoord ha scritto:

(srpskohrvatski / italiano)

Milosevic i Vidovdan 1989 - 2009

1) Il discorso di Slobodan Milosevic a Campo dei Merli (Kosovo-Metohija) per "Vidovdan" (28 giugno) 1989

2) Slobodan Milošević – Poslednji intervju (PECAT broj 69/2009)






(srpskohrvatski / italiano)

Milosevic i Vidovdan 1989 - 2009

1) Il discorso di Slobodan Milosevic a Campo dei Merli (Kosovo-Metohija) per "Vidovdan" (28 giugno) 1989

2) Slobodan Milošević – Poslednji intervju (PECAT broj 69/2009)
(l'ultima intervista a Slobodan Milosevic - 8/3/2006, tre giorni prima dell'assassinio nel carcere di Scheveningen)


=== 1 ===

(Govor Slobodana Milosevica na Gazimestanu za Vidovdan 1989. god.:


TESTO DEL DISCORSO DI SLOBODAN MILOSEVIC, 28 GIUGNO 1989


dinanzi ad un milione di persone convenute a Gazimestan, nella piana di Campo dei Merli ("Kosovo Polje"), nel seicentesimo anniversario della omonima battaglia



  Circostanze sociali hanno fatto sì che questo grande seicentesimo anniversario della battaglia di Kosovo Polje abbia luogo in un anno in cui la Serbia, dopo molti anni, dopo molte decadi, ha riottenuto la sua integrità statale, nazionale, e spirituale. (1) Perciò non è difficile per noi oggi rispondere alla vecchia domanda: come ci porremo davanti a Milos? (2) Guardando a tutto il corso della storia e della vita sembra che la Serbia abbia, proprio in questo anno, nel 1989, riottenuto il suo Stato e la sua dignità e perciò che abbia celebrato un evento del passato remoto che ha un grande significato storico e simbolico per il suo futuro.


  Oggi come oggi è difficile dire quale sia la verità storica sulla battaglia del Kosovo, e che cosa sia solo leggenda. Oggi come oggi questo non ha più importanza. Oppressa dalla sofferenza ma piena di fiducia, la popolazione era solita rievocare e dimenticare, come in fondo tutte le popolazioni del mondo fanno, e si vergognava del tradimento e glorificava l'eroismo. Perciò è difficile dire oggi se la battaglia del Kosovo fu una sconfitta o una vittoria per la gente serba, se grazie ad essa fu precipitata nella schiavitù o se ne sottrasse. (3)

Le risposte a queste domande saranne sempre cercate dalla scienza e dal popolo. Quello che è stato certo attraverso i secoli fino ai nostri giorni è che la discordia si abbattè sul Kosovo seicento anni fa. Se perdemmo la battaglia, non deve essere stato solamente il risultato della superiorità sociale e del vantaggio militare dell'Impero Ottomano, ma anche della tragica divisione nella leadership dello Stato serbo a quel tempo. In quel lontano 1389, l'Impero Ottomano non fu solamente più forte di quello dei serbi, ma ebbe anche una sorte migliore che non il regno serbo.


  La mancanza di unità ed il tradimento in Kosovo continueranno ad accompagnare il popolo serbo come un destino diabolico per tutto il corso della sua storia. (4) Persino nell'ultima guerra, questa mancanza di unità ed il tradimento hanno gettato il popolo serbo e la Serbia in una agonia, le conseguenze della quale in senso storico e morale hanno sorpassato l'aggressione fascista. (5)


  Anche in seguito, quando fu messa in piedi la Jugoslavia socialista, in questo nuovo Stato la leadership serba continuava ad essere divisa, disposta al compromesso a detrimento del suo stesso popolo. Le concessioni che molti leaders serbi fecero a spese del loro popolo non erano storicamente ne' eticamente accettabili per alcuna nazione del mondo, (6) specialmente perché i serbi non hanno mai fatto guerra di conquista o sfruttato altri nel corso della loro storia. Il loro essere nazionale e storico è stato di carattere liberatorio durante tutti i secoli e nel corso di entrambe le guerre mondiali, ed ancora oggi. I serbi hanno liberato se' stessi e quando hanno potuto hanno anche aiutato altri a liberarsi. Il fatto che in questa regione siano una nazionalità maggioritaria non è un peccato od una colpa dei serbi: questo è un vantaggio che essi non hanno usato contro altri, ma devo dire che qui, in questo grande, leggendario Campo dei Merli, i serbi non hanno usato il vantaggio di essere grandi neppure a loro beneficio.


  A causa dei loro leaders e dei loro uomini politici, e di una mentalità succube, si sentivano colpevoli dinanzi a loro stessi ed agli altri. Questa situazione è durata per decenni, è durata per anni, e ci ritroviamo adesso a Campo dei Merli a dire che le cose ora stanno diversamente.


  La divisione tra i politici serbi ha nuociuto alla Serbia, e la loro inferiorità l'ha umiliata. Perciò, nessun posto in Serbia è più adeguato, per affermare questo, della piana del Kosovo, nessun posto in Serbia è più adeguato della piana del Kosovo per dire che l'unità in Serbia porterà la prosperità al popolo serbo in Serbia ed a ciascuno dei cittadini della Serbia, indipendentemente dalla sua nazionalità o dal suo credo religioso.


  La Serbia oggi è unita e pari alle altre repubbliche, ed è pronta a fare ogni cosa per migliorare la sua posizione economica e sociale, e quella dei suoi cittadini. Se c'è unità, cooperazione e serietà, si riuscirà nell'intento. Ecco perchè l'ottimismo che è oggi in larga misura presente in Serbia, riguardo al futuro, è realistico, anche perché è basato sulla libertà che rende possibile a tutta la popolazione di esprimere le sue capacità positive, creative ed umane, allo scopo di migliorare la vita sociale e personale.


  In Serbia non hanno mai vissuto solamente i serbi. Oggi, più che nel passato, pure componenti di altri popoli e nazionalità ci vivono. Questo non è uno svantaggio per la Serbia. Io sono assolutamente convinto che questo è un vantaggio. La composizione nazionale di quasi tutti i paesi del mondo oggi, e soprattutto di quelli sviluppati, si è andata trasformando in questa direzione. Cittadini di diverse nazionalità, religioni, e razze sempre più spesso e con sempre maggior successo vivono insieme.


  In particolare il socialismo, che è una società democratica progressista e giusta, non dovrebbe consentire alle genti di essere divise sotto il profilo nazionale o sotto quelo religioso. Le sole differenze che uno potrebbe e dovrebbe consentire nel socialismo sono tra quelli che lavorano sodo ed i fannulloni, ovvero tra gli onesti ed i disonesti. Perciò, tutte le persone che in Serbia vivono del loro lavoro, onestamente, rispettando le altre persone e le altre nazionalità, vivono nella loro Repubblica.


Dopotutto, l'intero nostro paese dovrebbe essere fondato sulla base di questi principi. La Jugoslavia è una comunità multinazionale e può sopravvivere solo alle condizioni della eguaglianza piena per tutte le nazioni che ci vivono.


  La crisi che ha colpito la Jugoslavia ha portato con se' divisioni nazionali, ma anche sociali, culturali, religiose, e molte altre meno importanti. Tra queste divisioni, quelle nazionalistiche hanno dimostrato di essere le più drammatiche. Risolverle renderà più semplice rimuovere altre divisioni e mitigare le conseguenze che esse hanno creato.


  Da quando esistono le comunità plurinazionali, il loro punto debole è sempre stato nei rapporti tra le varie nazionalità. La minaccia è che ad un certo punto emerga il dubbio che una nazione sia messa in pericolo dalle altre - e questo può dare il via ad una ondata di sospetti, di accuse, e di intolleranza, una ondata che necessariamente cresce e si arresta con difficoltà. Questa minaccia è stata appesa come una spada sulle nostre teste per tutto il tempo. Nemici interni ed esterni delle comunità multinazionali sono coscienti di questo e perciò organizzano la loro attività contro le società plurinazionali, soprattutto fomentando i conflitti nazionali. A questo punto, noi qui in Jugoslavia ci comportiamo come se non avessimo mai avuto una esperienza del genere e come se nel nostro passato recente e remoto non avessimo mai vissuto la peggiore tragedia, in tema di conflitti nazionali, che una società possa mai vivere ed a cui possa mai sopravvivere.


  Rapporti equi ed armoniosi tra i popoli jugoslavi sono una condizione necessaria per l'esistenza della Jugoslavia e perchè essa trovi la sua via d'uscita dalla crisi, ed in particolare essi sono condizione necessaria per la sua prosperità economica e sociale. A questo riguardo la Jugoslavia non si pone al di fuori del contesto sociale del mondo contemporaneo, in particolare di quello sviluppato. Questo mondo è sempre più contrassegnato dalla tolleranza tra nazioni, dalla cooperazione tra nazioni, ed anche dalla eguaglianza tra nazioni. Il moderno sviluppo economico e tecnologico, ed anche quello politico e culturale, hanno condotto i vari popoli l'uno verso l'altro, rendendoli interdipendenti e sempre più paritari. Popoli eguali ed uniti tra loro possono soprattutto diventare parte della civiltà verso cui si dirige il genere umano. Se noi non possiamo essere alla testa della colonna che guida la suddetta civiltà, sicuramente non c'è nessuna ragione nemmeno per rimanere in fondo.


  Ai tempi di questa famosa battaglia combattuta nel Kosovo, le genti guardavano alle stelle attendendosi aiuto da loro. Adesso, sei secoli dopo, esse guardano ancora le stelle, in attesa di conquistarle. Nel primo caso, potevano ancora permettersi di essere disunite e di coltivare odio e tradimento perché vivevano in mondi più piccoli, solo poco legati tra loro. Adesso, come abitanti di questo pianeta, non possono conquistare nemmeno il loro stesso pianeta se non sono unite, per non parlare degli altri pianeti, a meno che non vivano in mutua armonia e solidarietà.


  Perciò, le parole dedicate all'unità, alla solidarietà, alla cooperazione tra le genti non hanno significato più grande in alcun luogo della nostra terra natia di quello che hanno qui, sul campo del Kosovo, che è simbolo di divisione e di tradimento.


  Nella memoria del popolo serbo, questa disunione fu decisiva nel causare la perdita della battaglia e nell'arrecare il destino che che gravò sulla Serbia per ben sei secoli.


  Ma se pure da un punto di vista storico le cose non andarono così, rimane certo che il popolo considerò la divisione come il suo peggior flagello. Perciò è un obbligo per il popolo rimuovere le divisioni, così da potersi proteggere dalle sconfitte, dai fallimenti, e dalla sfiducia nel futuro.


  Quest'anno il popolo serbo ha compreso la necessità della mutua armonia come condizione indispensabile per la sua vita presente e per gli sviluppi futuri.


  Io sono convinto che questa coscienza dell'armonia e dell'unità renderà possibile alla Serbia non solo di funzionare in quanto Stato, ma di funzionare bene. Perciò io credo che abbia senso dirlo qui, in Kosovo, dove quella divisione un tempo fece precipitare la Serbia tragicamente all'indietro di secoli, mettendola a repentaglio, e dove l'unità rinnovata può farla avanzare e farle riacquistare dignità. Questa coscienza dei reciproci rapporti costituisce una necessità elementare anche per la Jugoslavia, perchè il suo destino è nelle mani unite di tutti i suoi popoli.


  L'eroismo del Kosovo ha ispirato la nostra creatività per sei secoli, ed ha nutrito il nostro orgoglio e non ci consente di dimenticare che un tempo fummo un'esercito grande, coraggioso ed orgoglioso, uno dei pochi che non si potevano vincere nemmeno nella sconfitta.


  Sei secoli dopo, adesso, noi veniamo nuovamente impegnati in battaglie e dobbiamo affrontare battaglie. Non sono battaglie armate, benché queste non si possano mai escludere. Tuttavia, indipendentemente dal tipo di battaglie, nessuna di esse può essere vinta senza determinazione, coraggio, e sacrificio, senza le qualità nobili che erano presenti qui sul campo del Kosovo nei tempi andati. La nostra battaglia principale adesso riguarda il raggiungimento della prosperità economica, politica, culturale, e sociale in genere, perché si trovi un approccio più veloce ed efficace verso la civiltà nella quale la gente vivrà nel XXImo secolo. Per questa battaglia noi abbiamo sicuramente bisogno di eroismo, naturalmente un eroismo di un tipo un po' diverso; ma quel coraggio senza il quale non si ottiene niente di serio e di grande resta resta immutato, e resta assolutamente necessario.


  Sei secoli fa, la Serbia si è eroicamente difesa sul campo del Kosovo, ma ha anche difeso l'Europa. A quel tempo la Serbia era il bastione a difesa della cultura, della religione, e della società europea in generale. Perciò oggi ci sembra non solo ingiusto, ma persino antistorico e del tutto assurdo parlare della appartenenza della Serbia all'Europa. La Serbia è stata una parte dell'Europa incessantemente, ed ora tanto quanto nel passato, ovviamente nella sua maniera specifica, ma in una maniera che non l'ha mai privata di dignità in senso storico.

È con questo spirito che noi ci accingiamo adesso a costruire una società ricca e democratica, contribuendo così alla prosperità di questa bella terra, questa terra che ingiustamente soffre, ma contribuendo anche agli sforzi di tutti i popoli della nostra era lanciati verso il progresso, sforzi che essi compiono per un mondo migliore e più felice.


  Che la memoria dell'eroismo del Kosovo viva in eterno!

  Viva la Serbia!

  Viva la Jugoslavia!

  Viva la pace e la fratellanza tra i popoli!



Fonte: National Technical Information Service, Dept. of Commerce, USA

Traduzione a cura del Coordinamento Romano per la Jugoslavia, 1999


NOTE: 

(1)  Si riferisce alla abrogazione della "autonomia speciale", in vigore nella regione del Kosovo dal 1974, che le garantiva uno status di settima Repubblica jugoslava "de facto".

(2) Milos Obilic, leggendario eroe della battaglia del Kosovo.

(3) Storicamente la Battaglia di Campo dei Merli non rappresentò ancora lo smembramento del Regno di Serbia, che avvenne infatti solo settanta anni dopo.

(4) Non a caso le "quattro esse" cirilliche della bandiera tradizionale serba significano "Samo Sloga Srbe Spasava", ovvero: "solo la concordia salverà i serbi".

(5) Milosevic si riferisce forse all'alleanza con l'Asse, voluta da alcuni dirigenti monarchici nel 1941 ma subito rigettata dal popolo belgradese secondo il celebre slogan "Bolje rat nego pakt" ("Meglio la guerra che il patto"); oppure al governo collaborazionista filo-tedesco di Nedic; o ancora alla alleanza dei cetnici con il nazismo tedesco dopo la capitolazione dell'Italia, in funzione anticomunista.

(6) Si riferisce evidentemente alla strutturazione della Serbia in Repubblica con due regione autonome con diritto di veto, quasi Repubbliche a se stanti, in base alla riforma costituzionale del 1974.





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Slobodan Milošević – Poslednji intervju

Broj 69 | Piše: Miodrag Vujović • 25. jun 2009

Povodom jednog od najvećih srpskih praznika Vidovdana i osme godišnjice sramnog događaja koji je obeležio noviju srpsku istoriju, kidnapovanja i izručivanja Hagu državnika Slobodana Miloševića, „Pečat“ objavljuje poslednji intervju nekadašnjeg predsednika Srbije, SR Jugoslavije i Socijalističke partije Srbije, koji je pre tri godine 11. marta ubijen u ćeliji Haškog tribunala u Ševeningenu. Poslednji intervju Slobodan Milošević je dao krajem 2000. godine gostujući kod Miodraga Vujovića na televiziji „Palma“. Intervju prenosimo u integralnoj verziji, uz neznatna priređivačka skraćenja, i uz samo nužne lektorske intervencije.

Pre nekoliko dana održan je Peti vanredni kongres SPS-a; u javnosti je bilo raznih komentara i ocena, pa vas molim da vi date svoju ocenu i svoj komentar.

Najkraće rečeno, verujem da u ovo teško vreme bezakonja, tenzija i sukoba ne postoji nijedna partija na Balkanu koja bi mogla da održi ovakav kongres, koji je potvrdio da je SPS najveća i najjača partija na ovom prostoru jugoistočne Evrope. Taj kongres je učvrstio jedinstvo partije, potvrdio najznačajnije vrednosti programa SPS-a, učvrstio jedinstvo činjenicom da je samo jedan mali broj članova SPS iz rukovodstva otišao iz partije. A kada iz partije odu oni koji su u partiju ušli iz koristoljublja, ili oni koji su se uplašili, ili imaju drugi motiv, kako bi u drugoj sredini obezbedili sebi položaj, promociju ili zaštitu materijalnih vrednosti; kada odu takvi, onda ta partija ne slabi, već jača. Nama, kao velikoj i snažnoj partiji, odgovara da jedno vreme budemo opozicija, i da se oslobodimo tereta koji nosi vlast, jer je logično da je u partiju dosta ljudi ušlo iz koristoljublja. Ispostavilo se da je taj broj manji. Partija je zato danas jača, i može uspešno da se bori. Tu postoji nešto što je očigledno: ako ste vi uvereni u ispravnost svoga programa – kao što je SPS uveren u ispravnost borbe za besplatno lečenje i školovanje, borbe za one koji žive od svog rada – onda partija i svaki pojedinac u njoj ne može da ima ta uverenja samo dotle dok ima većinsku podršku, nego mora da ih sačuva i kada ima manjinsku podršku, mora i tada da se bori za svoja uverenja, kako bi mogao da ih sprovede. Inače, na šta bi ličili partija i njeni pojedinci? Ako u situaciji kada imam manjinsku podršku menjam i partiju i uverenja – to ne vodi ničemu. A upravo je naša partija pokazala visoki moral i patriotizam. Zato sam vrlo zadovoljan ishodom. Pre kongresa smo doneli samo jednu, ali ključnu odluku, a to je da delegati moraju biti izabrani tajnim glasanjem. To je bila najbolja i najčvršća garancija da će biti izabrani.

Da li se osećate izdanim, ili prevarenim, s obzirom na to da su vas izdali ljudi koji su vam bili bliski saradnici?

To je bio deo onoga što sam sebi mogao da stavim kao primedbu, da sam imao previše poverenja u neke pojedince u koje nije trebalo da imam poverenja. Međutim, ja i danas mislim da bez poverenja u ljude, ne samo da ne može da se radi, već ne može ni da se živi. I ponovo bih imao poverenja u ljude. Sigurno ne u te iste, ali poverenje u ljude je osnov za svakog uspešnog radnika. Kako uopšte zamišljate da neko može da vodi državu, a da nema poverenja u one koji se nalaze na čelu ključnih resora, na čelu ključnih institucija, velikih partijskih organizacija, bitnih pozicija u strukturi društvene odgovornosti. Ponovo bih imao poverenja u ljude. To ne bih personalizovao, jer personalizacija je, rekao bih, zakivanje određenih stavova.

Upotrebili ste reči „bezakonje“ i „sila“. Molim vas da date ocenu sadašnje situacije u zemlji.

Već sam dao. I dalje sam uveren da je borba mirnim, demokratskim sredstvima jedini mogući izlaz. Dok smo mi držali poluge vlasti, sprečili smo sukobe i krvoproliće. To je obaveza svake vlasti.

Molim vas da prokomentarišete izbore 24. septembra i događaje 5. oktobra iz vašeg ugla.

Moj ugao sigurno se ne razlikuje od viđenja većine građana naše zemlje. Izbori su održani pod jednim ogromnim spoljnim pritiskom, pod veoma jasno izraženim pretnjama novom invazijom, novim sankcijama, pod jednim prstenom medijske blokade i medijskog pritiska i rata koji se vodio, tako da uprkos tome njihova unutrašnja regularnost sigurno nije mogla da izrazi ono što predstavlja autentičnu volju građana.

Analitičari, naročito u medijima, tvrde da ste vi direktni krivac za događaje od 5. oktobra, jer niste na vreme priznali poraz.

Ja sam konstatovao izborni rezultat sat nakon što sam ga čuo. Kada sam čuo za odluku Ustavnog suda. Sada čujem da odluka tog suda nije onakva kakva je emitovana. Ali nemam nameru da se bavim sadržinom odluka Ustavnog suda.

Posle događaja od 5. oktobra mediji su puni optužbi i primedbi protiv vas, i to najšireg spektra. Od toga da ste bili diktator do toga da ste ste omogućavali kriminal. Vi ste prvi predsednik u drugoj polovini 20. veka koga je srpski narod imao prilike da izabere na slobodnim izborima. Bili ste predsednik 10 godina. Nesporno je da ste najuticajnija politička figura, ne samo u ovoj zemlji, nego i šire. Kako se osećate kada do vas dođu takve ocene?

To nije ništa novo. Deset godina su takve ocene i komentari bili u svim sredstvima informisanja u zemljama, silama koje su nastojale da rasture prethodnu Jugoslaviju i u opozicionim glasilima za vreme tog, kako oni sada kažu, diktatorskog režima u kome je država, možda, imala nekoliko medija. A nekih 2.000 medija u zemlji, to vi dobro znate kao novinar, bilo je u privatnim rukama. Sada kažete sve novine. Sada nema potrebe uopšte da se kaže sve novine. Sve novine pišu isto. Sada opozicione štampe nema. Sada je potpuni medijski mrak. A pozadina i motivi su potpuno isti. Početkom devedesetih cilj je bio, taj glavni cilj medijskog rata, koji je vođen protiv naše zemlje, da se satanizuje ceo srpski narod, pogotovo da se satanizuje njegovo rukovodstvo. Sada su tu ulogu satanizacije rukovodstva  i mene i moje porodice, zbog mene, preuzeli mediji koji su i nastali pod uticajem onih koji su vodili bitku za rasturanje Jugoslavije. Cilj je uvek bilo rasturanje Srbije, a ne nešto drugo. A ovo su sredstva koja su upotrebljena u toj funkciji.

Više u 69. broju magazina “Pečat”