Informazione
Le nuove scadenze imposte dallo scenario politico alla campagna nazionale di
raccolta firme per la LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE SUI TRATTATI INTERNAZIONALI, LE BASI E LE SERVITÙ MILITARI
militare con paesi e coalizioni in guerra - N.A.T.O., U.S.A. e Israele - per la chiusura e l'allontanamento dai nostri territori di tutte le basi di guerra ed i loro poligoni di tiro.
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5885
http://commentisfree.guardian.co.uk/neil_clark/2008/01/its_time_to_end_serbbashing.html
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5851
di Neil Clark
Nel Cif dell’ultima settimana, [la sezione Libri commentari del « The Guardian »], Anna di Lellio, che è stata consigliere politico di Agim Çeku, ex Primo Ministro Kosovaro e, a suo tempo, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito di Liberazione del Kosovo [l’UCK], pretende che “il nazionalismo Serbo, che si era solo parzialmente attenuato dopo la caduta di Milosevic”, sta rinvenendo con le sue “vecchie tattiche”.
Di Lellio ha presentato ben poche prove delle sue affermazioni, eccezion fatta per una dichiarazione del parlamento Serbo ribadente – oh! orrore estremo! – che il paese è determinato a difendere la sua integrità, come gli è consentito dal diritto internazionale.
Ciò che, senza dubbio alcuno, “rinvengono a tutta forza” e secondo le loro “vecchie tattiche” sono i soprusi contro i Serbi messi in atto dai media occidentali, (ivi compreso, è triste a dirlo, il Cif), di cui Di Lellio resta una dei numerosi responsabili.
Per l’Occidente era del tutto spontaneo che la Jugoslavia venisse distrutta e che questo Stato indipendente e militarmente forte venisse rimpiazzato da una molteplicità di protettorati deboli e divisi dalla forbice del trio NATO-FMI-UE.
Il grande “crimine” dei Serbi è stato quello di non avere letto la sceneggiatura!
Di tutti i gruppi della ex Jugoslavia, erano i Serbi, la cui popolazione era distribuita in tutto il paese, che avevano più da perdere dalla disintegrazione del paese.
Solo uno fra loro – il dirigente Serbo Slobodan Milosevic – rifiutava di firmare il “certificato di decesso” del suo paese.
Per questa frase pro-Jugoslavia, Milosevic fu ricompensato da un decennio di demonizzazioni sui media occidentali.
Malgrado le sue vittorie elettorali assolutamente regolari in un paese dove 21 partiti politici operavano liberamente, Milosevic fu (ed è sempre) sistematicamente trattato da “dittatore”, una descrizione per la quale il suo biografo Adam LeBor, che nondimeno gli è sempre stato ostile da cima a fondo, ammette essere “scorretta”.
Alcuni tentativi di imputare a Milosevic fatti nei quali non aveva giocato il ben che minimo ruolo sono risultati ridicoli: in un articolo del The Guardian, nel 2006, Timothy Garton Ash, un professore di studi Europei, sottolineava come gli Sloveni “avessero tentato di rompere con la Jugoslavia di Slobodan Milosevic già nel 1991”, anche se, all’epoca, il Presidente della Jugoslavia era di fatto il Croato Ante Markovic (una correzione di questa affermazione veniva pubblicata in seguito).
Infatti, l’uomo che ha dato fuoco alle polveri in questa guerra particolarmente brutale non è stato Milosevic, nemmeno sono stati i dirigenti Serbi di Bosnia, ma bensì l’ambasciatore degli Stati Uniti, Warren Zimmerman, che aveva persuaso il secessionista Bosniaco Alija Izetbegovic di rinnegare la sua firma sull’accordo di Lisbona del 1992, che aveva assicurato la scissione pacifica della Repubblica.
Nemmeno dopo l’accordo di Dayton del 1995, che aveva posto fine ad un conflitto assolutamente inutile, non ebbe un istante di requie la serbofobia dell’Occidente.
Nessuno, e certamente nessun Serbo di mia conoscenza, negherà che le forze Serbe abbiamo commesso atrocità durante le guerre Balcaniche e che i responsabili di queste azioni dovrebbero renderne conto davanti ad una corte di giustizia, (ma che non sia finanziata dalle potenze che hanno bombardato illegalmente il loro paese, la Serbia, quasi per dieci anni).
Ma un fatto provoca una collera senza misura nei Serbi: che le atrocità Serbe abbiano ricevuto grande risonanza sui media occidentali, mentre le atrocità perpetrate dagli altri partecipanti al conflitto siano state completamente passate sotto silenzio.
Nel momento in cui l’attenzione massiccia dei media si concentrava sulle ostilità, comunque su scala ridotta e del tipo “occhio per occhio e dente per dente”, fra le forze armate Jugoslave e l’UCK, nel 1998 e nel 1999, l’Operazione Tempesta – che, si stima, abbia espulso dalla Croazia qualcosa come 200.000 Serbi nel corso di una operazione che aveva ricevuto l’appoggio logistico e tecnico degli Stati Uniti – fu a mala pena menzionata.
Assolutamente nessuna pubblicità per massacri come quello del giorno del Natale ortodosso, nel 1993, di 49 Serbi del villaggio di Kravice, non lontano da Srebrenica. La città ha recentemente organizzato una cerimonia di commemorazione nel 15.esimo anniversario di questo orrore : non era presente un solo membro della cosiddetta “comunità internazionale”!
E oggi che il Kosovo balza nuovamente agli... onori della cronaca , i “demolitori dei Serbi” sono di nuovo in libera uscita, e in forze.
Una volta di più, la questione controversa viene descritta in termini manichei.
«Nessuna parte in Europa ha visto un fenomeno di segregazione simile a quello presente in Kosovo... In nessuna parte del mondo esistono disseminati tante città e paesi “etnicamente puri” come in questa Provincia tanto piccola. In nessuna parte si alligna nelle minoranze una così grande dimensione di paura di vedersi angariate, semplicemente in quanto minoranze.
Documento messo in diffusione in francese dalla lista JUGOINFO, curata da componenti del
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia – ONLUS https://www.cnj.it/
L'incontro e aperto al pubblico. Non e richiesto accredito per la stampa
Documento della Commissione UE sullo stato di avanzamento al 2007 della Risoluzione 1244 (UNSCR 1244) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul Kosovo
Comme Sarajevo en 1914 ?
par Jürgen Elsässer*
Le député au Bundestag Willy Wimmer (CDU) écrivait récemment : « Lorsqu’en 1918, le monde d’hier était réduit en cendres et que l’on préparait avec beaucoup de perfidie les fondements du prochain grand conflit, on n’a pas voulu passer beaucoup de temps à chercher les causes de la guerre. On a déclaré que c’étaient les coups de pistolet de Sarajevo qui coûtèrent la vie au couple d’héritiers du trône d’Autriche. Chacun se souvenait de l’événement et l’on n’avait pas besoin de se poser de questions sur ses tenants et aboutissants qui étaient beaucoup plus déterminants que l’attentat de Sarajevo. Jusqu’ici, il n’y a pas eu d’échanges de tirs pendant les négociations sur l’avenir du Kosovo, mais des signatures sur certains documents pourraient avoir le même effet que les coups de pistolet. Les mèches sont là et elles vont d’Irlande du Nord au Tibet et à Taiwan en passant par le pays basque, Gibraltar et le Caucase. »
La situation actuelle dans les Balkans rappelle de manière inquiétante celle qui a conduit à la Première Guerre mondiale. L’Allemagne et les autres grandes puissances avaient, après des années de troubles, trouvé en 1878, à la Conférence de Berlin, un compromis sur le nouvel ordre de l’Europe du Sud-Est : La province ottomane de Bosnie devait rester turque de jure mais être administrée de facto par l’Autriche. En 1908, Vienne a rompu le traité et a annexé la province également de jure. Là-dessus, en 1914, l’archiduc François-Ferdinand a été tué à Sarajevo.
Quelque 100 ans après, les puissances de l’OTAN ont tenté un compromis semblable : après leur guerre d’agression contre la Yougoslavie en 1999, elles ont imposé au Conseil de sécurité de l’ONU la Résolution 1244 qui maintenait de jure le Kosovo dans la Serbie, mais le plaçait de facto sous l’administration des Nations Unies. Par la suite, les puissances occidentales se sont montrées favorables à la sécession totale de la province et à sa remise, contrôlée par l’UE, à la majorité albanaise : tel est le projet du négociateur de l’ONU Martti Ahtisaari. Du point de vue du droit international, ce serait possible si Belgrade était d’accord ou si, du moins, le Conseil de sécurité approuvait cette solution. En l’absence de ces conditions, le Kosovo ne peut déclarer son indépendance qu’unilatéralement, par un acte arbitraire illégal. Et c’est précisément ce qui va se passer ces prochaines semaines.
Comme il y a un siècle, les intérêts des États d’Europe centrale, de la Russie et du monde musulman se heurtent toujours dans les Balkans. Tout changement violent dans cet équilibre fragile peut avoir des conséquences pour tout le continent.
On a frôlé la guerre mondiale
Dans les jours qui ont suivi le 10 juin 1999, on a pu voir combien l’Europe du Sud-Est pouvait être à l’origine d’un important conflit international. Après 78 jours de bombardements de l’OTAN, l’armée yougoslave était déjà prête à se retirer du Kosovo ; l’accord militaire à ce sujet entre Belgrade et l’Alliance atlantique était signé et la Résolution 1244 adoptée. Cependant, tandis que les troupes du président Milosevic se retiraient, des unités russes stationnées en Bosnie, s’avancèrent vers Pristina de manière tout à fait inattendue. Sur leurs chars, les soldats avaient transformé l’inscription SFOR —qui indiquait leur appartenance à la troupe de stabilisation dans l’État voisin, sous mandat de l’ONU— en KFOR, sigle de la force d’occupation du Kosovo qui venait d’être décidée. Le président russe Boris Eltsine avait donné son accord pour qu’elle soit constituée sous le haut commandement de l’OTAN mais ses généraux voulaient que la Russie obtienne au moins une tête de pont stratégique.
Le ministre allemand des Affaires étrangères de l’époque Joschka Fischer rappelle dans ses mémoires combien la situation était dramatique : « Les quelques parachutistes russes ne pouvaient pas vraiment défier l’OTAN après son entrée au Kosovo car ils étaient trop peu nombreux et leur armement trop léger. L’occupation de l’aéroport ne pouvait signifier qu’une chose : ils attendaient les renforts aériens. Cela pouvait très vite conduire à une dangereuse confrontation directe avec les États-Unis et l’OTAN. [...] La situation devint encore plus dangereuse lorsque fut confirmée la nouvelle selon laquelle le gouvernement russe avait demandé aux gouvernements hongrois, roumain et bulgare une autorisation de survol pour leurs avions de transport de troupes Antonov. Ils avaient l’intention de transporter 10 000 soldats en partie par la voie aérienne vers le Kosovo et en partie vers la Bosnie pour les acheminer ensuite vers le Kosovo par la voie terrestre. L’Ukraine avait déjà accordé la permission mais les autres pays maintinrent inébranlablement leur veto. Mais qu’arriverait-il si les avions russes passaient outre à cette interdiction ? Les USA et l’OTAN les empêcheraient-ils d’atterrir ou de débarquer leur chargement une fois à terre ou iraient-ils jusqu’à les abattre en vol ? L’éventualité d’une tragédie aux conséquences imprévisibles s’esquissait ici. » Parallèlement à la guerre des nerfs à propos des avions russes, la crise s’envenima à l’aéroport de Pristina. Les troupes du contingent britannique de la KFOR étaient arrivées rapidement et avaient pointé leurs canons sur les occupants insoumis de l’aéroport. Le haut commandant de l’OTAN, Wesley Clark, ordonna de donner l’assaut mais Michael Jackson, haut commandant britannique de la KFOR, garda son sang-froid et refusa de s’exécuter. Il appela Wesley Clark au téléphone et hurla : « Je ne vais pas risquer de déclencher la Troisième Guerre mondiale pour vous ! »
On ignore comment l’Occident a amené le président russe à stopper les Antonov. En tout cas, le combat de l’aéroport de Pristina n’a été empêché que parce que Jackson est resté ferme. Clark a accepté cet acte de désobéissance. À vrai dire, il aurait dû faire arrêter Jackson par la police militaire. Un général allemand a, par la suite, critiqué cette attitude. « La reculade des Britanniques et des Américains était une mauvaise réponse dans une situation qui n’aurait jamais conduit à un conflit sérieux entre l’OTAN et la Russie », a écrit Klaus Naumann, à l’époque président du Comité militaire de l’OTAN et par conséquent l’officier le plus haut gradé de l’Alliance.
Des missiles sur Bondsteel
Une situation aussi dangereuse peut-elle se reproduire ces prochaines semaines ? En 2006 déjà, la Fondation Science et Politique (Stiftung Wissenschaft und Politik, SWP), un des plus importants think tanks allemands, s’inquiétait à propos d’une solution à la question du Kosovo qui serait imposée de l’extérieur : « Ces missions demanderont un engagement diplomatique durable et mettront à contribution les ressources politiques, militaires et financières de l’UE. » Par « ressources militaires », les auteurs entendent la KFOR, qui comprend actuellement 17 000 soldats dont environ 2500 Allemands.
Une intervention pourrait viser non seulement le Kosovo mais également la Serbie proprement dite. La Fondation prévoyait une situation « rappelant la crise de 1999 », c’est-à-dire les bombardements. Des troubles au Kosovo pourraient s’étendre aux provinces serbes de Vojvodine et de Sandzak ainsi qu’à la vallée de Presevo. On peut lire plus loin : « Des manifestations de masse impliquant des heurts entre les forces modérées et les forces radicales ou avec la police pourraient conduire à la dissolution des structures étatiques ». Si les structures étatiques de la Serbie éclatent, l’UE, conformément à sa conception politique, pourrait endosser le rôle de stabilisateur et apporter une « assistance fraternelle ». Les « battle groups » ne servent pas à autre chose.
Examinons les événements prévisibles du printemps 2008. Aussi bien l’OTAN que les Albanais du Kosovo ont exclu catégoriquement de nouvelles négociations, comme le demandaient Belgrade et Moscou. Le 24 janvier, Hashim Thaci, ancien chef de l’organisation terroriste UÇK et depuis peu Premier ministre de la province du Kosovo, a annoncé que la déclaration formelle d’indépendance aurait lieu « d’ici quatre à cinq semaines ». Le lendemain, on pouvait lire dans l’International Herald Tribune —qui s’appuyait sur des sources diplomatiques— que « l’Allemagne et les USA [étaient] tombés d’accord pour reconnaître l’indépendance du Kosovo » et cela « après le second tour des élections présidentielles serbes du 3 février ». C’est ce dont Angela Merkel et George W. Bush étaient convenus. On peut supposer que la Chancelière CDU aura demandé conseil à son camarade de parti Willy Wimmer qui fut pendant de longues années Secrétaire d’État au ministère de la Défense sous Helmut Kohl.
Après la proclamation officielle de la « Republika kosova », les communes serbes situées au nord de l’Ibar vont sans doute affirmer leur fidélité à l’égard de la Serbie, donc leur non appartenance au nouvel État. On peut imaginer qu’alors des troupes armées des Albanais du Kosovo pénètrent dans les enclaves de la minorité, en particulier dans son bastion Nordmitrovica et répriment brutalement la résistance. Lors d’un semblable début de nettoyage ethnique à la mi-mars 2004, les terroristes skipetaris ont réussi à mobiliser une foule de 50 000 personnes. La violence de cette attaque n’a pu être freinée que parce que les soldats de la KFOR se sont opposés, au moins partiellement, aux extrémistes. Ils en ont tué huit. Dans la situation actuelle, il faut plutôt s’attendre à ce que la KFOR se comporte dans son ensemble comme naguère le contingent allemand au sein de la KFOR : on ferme les yeux et on laisse faire les terroristes. En 2004, dans le secteur d’occupation allemand autour de Prizren, toutes les églises et tous les couvents serbes ont été incendiés. Certes, depuis lors, les Serbes du Kosovo ont constitué des formations d’autodéfense dont la plus tapageuse est la Garde Zar-Lazar qui doit son nom à un héros de la bataille historique d’Amselfeld en 1389. Ces paramilitaires ont annoncé qu’ils lanceraient des missiles sur la base militaireétats-uniennee de Camp Bondsteel en cas de déclaration d’indépendance du Kosovo. Il est difficile de savoir s’il s’agit là d’une fanfaronnade ou d’un projet sérieux. Selon des connaisseurs de la région, il est possible que derrière l’étiquette de Zar Lazar se cache une bande de provocateurs de services secrets occidentaux.
Dans l’intérêt des pays membres de l’OTAN, la sécession de la province doit en tout cas faire le moins de vagues possibles et s’effectuer sans conflits militaires. On s’accommode des protestations diplomatiques de la Russie et même de petits pays de l’UE comme la Slovaquie, la Roumanie et Chypre. La Fondation Bertelsmann, proche du gouvernement, a, dans une étude de décembre 2007, mentionné l’exemple de Taiwan : On sait que cette république insulaire n’a été reconnue que par un petit nombre d’États et qu’elle n’a pas de siège aux Nations Unies mais qu’elle jouit depuis 60 ans d’une certaine stabilité et même d’une certaine prospérité. Le souhait des États membres de l’OTAN serait probablement que les Albanais du Kosovo, après la proclamation d’indépendance, renoncent à la violence à l’encontre de la minorité serbe et ne touchent pas, dans un premier temps, à leurs structures d’autoadministration dans le Nord. Si l’OTAN bloquait simultanément tous les liens avec la Serbie, les Serbes de Mitrovica n’auraient, à la longue, plus d’autre choix que de s’accommoder des nouveaux potentats autour de Hashim Thaci.
Cette stratégie de victoire soft des sécessionnistes pourrait cependant être contrecarrée assez facilement. La Frankfurter Allgemeine (FAZ) exprimait ses craintes fin 2007 : « Les Serbes pourraient fermer le lac de barrage de Gazivodsko Jezero, situé dans la partie du Kosovo contrôlée par les Serbes et priver ainsi d’eau de nombreuses régions du Kosovo. Cela aurait des conséquences pour l’approvisionnement en électricité, déjà insuffisant, du Kosovo car l’eau de ce lac sert à refroidir les installations de la centrale à charbon, non loin de Pristina. » L’OTAN réagirait rapidement par la force contre cette opération relativement facile à mener : une troupe de paramilitaires suffirait à occuper le barrage. « On songe déjà, précise la FAZ, à faire intervenir la KFOR pour empêcher cela, mais alors le niveau de confrontation militaire que l’Occident voudrait justement éviter serait atteint ».
La Serbie peut riposter
Comment le gouvernement de Belgrade réagirait-il si les Albanais et des soldats de l’OTAN tiraient sur des Serbes ? Poursuivrait-il sa politique actuelle consistant à ne pas intervenir militairement ? C’est la tendance avant tout du parti gouvernemental le plus fort, celui des Démocrates (DS) autour du président Boris Tadic et du ministre de la Défense Dragan Sutanovac. Le petit parti de la coalition, le Parti démocrate de Serbie (DSS) du Premier ministre Vojislav Kostunica est un peu plus audacieux. Son conseiller Aleksandar Simic a déclaré expressément que chaque État avait le droit de recourir à la force des armes pour protéger son intégrité territoriale. Mais en cas de crise, c’est le Conseil de la Défense et le Président qui ont la haute main sur l’Armée, c’est-à-dire, en fait, Tadic. En conséquence, l’Occident n’aurait pas dû s’inquiéter... s’il n’y avait eu d’élection présidentielle. Le candidat du Parti radical (RS) Tomislav Nikolic avait de sérieuses chances d’être élu. En 2004 déjà, il avait mis Tadic en ballottage et avait été battu de peu. Indignée de l’imminente dissidence du Kosovo, une majorité de citoyens aurait pu l’élire cette fois. L’Armée serbe aurait alors été placée sous le haut commandement d’un homme politique qui plaide en faveur de l’établissement d’une base militaire russe dans le pays et dont le parti possédait sa propre milice au moment des guerres des années 1990.
Cette perspective a bouleversé le calendrier des sécessionnistes. Le Conseil européen voulait en fait décider le 28 janvier de l’envoi au Kosovo d’une troupe de quelque 2000 policiers —contre la volonté de Belgrade et donc contre le droit international, mais nécessaire pour sécuriser la sécession—. Mais comme le 28 janvier précèdait de peu le deuxième tour de l’élection présidentielle décisive du 3 février, cela aurait constitué une provocation favorable à Nikolic. La question a donc été différée. Bruxelles a, le même jour, offert un accord d’association à l’ancien État voyou et a renoncé avec bienveillance à la condition posée jusqu’ici, c’est-à-dire l’extradition des « criminels de guerre » Radovan Karadzic et Ratko Mladic. L’UE espèrait ainsi apporter à Tadic les voix dont il avait besoin. Il a finalement été élu de justesse.
Belgrade a actuellement le soutien de Madrid. Selon le quotidien serbe Express du 11 janvier, le Premier ministre José Zapatero aurait obtenu l’assurance d’autres gouvernements de l’UE que le Kosovo ne proclamerait pas son indépendance avant le 10 mars —donc quatre semaines après la date annoncée par Thaci— car le nouveau Parlement espagnol doit être élu à cette date. Le gouvernement socialiste veut ainsi empêcher les mouvements séparatistes espagnols d’utiliser le précédent balkanique comme argument dans la campagne, les Basques ayant déjà commencé à le faire. En réaction, la majorité des Espagnols pourrait alors être tentée de sanctionner les socialistes que l’opposition conservatrice accuse d’être trop indulgente à l’égard des régions désireuses de faire sécession. Ces retards de calendrier mettent toutefois à rude épreuve la patience des Albanais du Kosovo. On peut craindre qu’ils essaient de donner un coup de pouce à la décision diplomatique en se livrant à quelques actions violentes spectaculaires. On se demande comment les puissances membres de l’OTAN ... et les Russes réagiraient dans ce cas. Ces derniers élisent également ce printemps un nouveau président et tout candidat qui abandonnerait le frère slave devrait s’attendre à perdre des voix.
4 febbraio 2008 ore 15:53Chiti: "Per alleanze Pd decisivo atteggiamento su missioni estere"Gli alleati del Pd? La prova del nove verrà dal voto sulle missioni militari. Chi non approva il rifinanziamento potrà dirsi escluso da future alleanze. Vannino Chiti, parlando a Sky Tg 24, mette in chiaro il modo in cui i democratici tesseranno i rapporti di alleanza in vista del prossimo turno elettorale. "Il Partito democratico - dice Chiti - ha l'ambizione maggioritaria ma non all'isolamento. Noi definiremo alcune priorità programmatiche come proposta del nostro partito e poi ci confronteremo: con quelli con cui ci troveremo effettivamente d'accordo costruiremo le ragioni di una nuova alleanza", spiega.
PER UNA RISPOSTA DI MASSA ALLE POLITICHE MILITARISTE DELLA CLASSE DIRIGENTE ITALIANA:
Ritiro immediato dei contingenti militari italiani da tutti i fronti di guerra.L'Italia cessi di essere complice della guerra permanenteAppello per una manifestazione nazionale il 1°marzo a RomaLanciamo un appello affinché sabato 1 marzo una nuova e grande manifestazione popolare porti in piazza la richiesta del ritiro immediato delle truppe italiane da tutte le aree di guerra e affinché le crescenti spese destinate al settore militare vengano utilizzate per le assai più urgenti esigenze sociali.Il Consiglio dei Ministri del decaduto governo Prodi, ha reiterato – tra i suoi ultimi atti istituzionali – il decreto che rifinanzia e mantiene le missioni militari italiane in Afghanistan, Balcani, Libano, Africa. Questo decreto dovrà essere approvato in Parlamento. La sua bocciatura metterebbe in seria crisi la partecipazione e la complicità del nostro paese con la guerra permanente in corso dal 2001 in diverse regioni del mondo e che rischia una nuova escalation in aree come i Balcani e l'Iran.Chiamiamo a scendere in piazze tutte le reti, le associazioni, i soggetti che hanno animato in questi anni il movimento contro la guerra .In questi anni abbiamo portato in piazza con coerenza il nostro No alla guerra, senza fare sconti a nessuno, né al governo Berlusconi né al governo Prodi, anche quando quest'ultimo ha potuto godere del sostegno dei gruppi parlamentari dei partiti della sinistra e delle associazioni aderenti alla Tavola della Pace.La realtà dei fatti ha rivelato che le missioni militari approvate dai governi negli anni scorsi, vedono le truppe italiane impegnate nei combattimenti in Afghanistan ("Operazione Sarissa"), nell'occupazione del territorio libanese a puntello di un governo ostile a metà di quel paese, nella copertura militare alla secessione pilotata del Kosovo che prelude ad una nuova guerra "umanitaria" gestita militarmente anche dall'Unione Europea, nell'opera di gendarmeria contro gli immigrati in Africa (vedi l'accordo Italia-Libia).Queste missioni operano nel quadro della NATO, dell'ONU o sulla base di accordi multilaterali, ma rivelano sistematicamente il loro carattere bellicista e neocoloniale. Il fatto che le truppe sui fronti di guerra vengano affiancate talvolta da organizzazioni civili finanziate dai governi occupanti e appoggiate ai governi-fantoccio locali, non ne modifica affatto la natura e gli obiettivi strategici. ma contribuisce alla manipolazione mediatica sulle guerre umanitarie coperte da "missioni di pace."In questi due anni abbiamo visto le spese militari crescere del 24% e l'ampliamento della presenza di basi militari USA e NATO nel nostro paese. E' il caso di Vicenza, dove ben tre manifestazioni nazionali e l'opposizione popolare hanno fatto capire molto chiaramente che la nuova base al Dal Molin non si deve costruire, ma parliamo anche di Camp Darby, Sigonella, Taranto. Abbiamo visto progettare nuovi luoghi di guerra come l'impianto per l'assemblaggio degli F 35 a Novara e l'adesione – quasi segreta – dell'Italia allo Scudo missilistico statunitense o alla cooperazione militare con Israele. Abbiamo verificato che il governo ha mantenuto l'embargo contro la già stremata popolazione palestinese di Gaza o che circa 90 bombe nucleari USA sono ancora stoccate nelle basi di Ghedi ed Aviano.Noi vogliamo mettere in crisi questa politica militarista che espone il paese a tutte le devastanti conseguenze della guerra e vogliamo renderne difficile l'attuazione in ogni luogo.L'opposizione alla guerra resta una questione decisiva e dirimente nei movimenti sociali a livello internazionale. Lo ha dimostrato la giornata mondiale del 26 gennaio scorso che ha visto centinaia di manifestazioni No War in tutto il mondo e manifestazioni in dodici città italiane.Ci sentiamo parte di un vasto movimento internazionale che ripudia la guerra nei paesi che conducono aggressioni e interventi militari contro altri paesi e siamo solidali con le popolazioni che resistono alle occupazioni militari e coloniali.Ci sentiamo solidali con gli attivisti no war condannati assurdamente e pesantemente dal tribunale di Firenze per una manifestazione del maggio '99 contro la guerra alla Jugoslavia. A nessuno può sfuggire la minaccia alle libertà democratiche e le derive razziste che vengono prodotte da un apparato statale impegnato nella guerra.Noi chiediamo l'immediato ritiro dei contingenti militari italiani dai paesi in cui sono stati inviati, la destinazione a uso sociale dei fondi previsti per le spese militari e la riconversione a uso civile dei luoghi di guerra (basi, caserme, impianti) disseminati nel nostro paese, a cominciare dalle numerose caserme in dismissione che altrimenti diventerebbero preda della speculazione immobiliare.Vogliamo agire per una radicale inversione di tendenza rispetto alle politiche militariste di tutti i governi degli ultimi anni di centrodestra e centrosinistra e da qualsiasi eventuale futuro governo che voglia proseguire su questa strada.Chiamiamo alla mobilitazione per sabato 1 marzo con una manifestazione nazionale a Roma che incida sia sulle decisioni del Parlamento che nella società, impedendo la conferma del decreto che rinnova e finanzia le missioni militari italiane all'estero.Il Patto permanente contro la guerra(Action, Confederazione Cobas, Disarmiamoli, Global Meeting Network, Mondo senza guerra, Partito Comunista dei Lavoratori, Rappresentanze Sindacali di Base, Red Link, Rete dei comunisti, Semprecontrolaguerra, Sinistra Critica)