Informazione


(sulla vergognosa sentenza che in primo grado ha inflitto 7 anni di reclusione ciascuno ai militanti del movimento contro la guerra di Firenze, protagonisti delle proteste contro la infame partecipazione italiana ai bombardamenti sulla Jugoslavia della primavera 1999, si veda la raccolta di materiali alla pagina: https://www.cnj.it/24MARZO99/firenze.htm )

A shameful verdict

13 Italians sentenced to 7 years each for having demonstrated against Nato’s attack on Yugoslavia

On May 13, 1999, when the bombing raids against Yugoslavia were in full swing, anti-war protesters took to the streets of Florence, Italy, among them also a contingent of the anti-imperialists. The police attacked the demonstration heavy-handedly injuring also the then member of Tuscany’s regional parliament, Orietta Lunghi. A law suit filed by her against the police was turned down by the judiciary.

Meanwhile the police in return accused 13 protestors for having committed civil disorder. On January 28, 2008, the judge handed down the sentences: seven years imprisonment for all of them.

Though Italy is known for its politically biased judicial system, nevertheless this sentence is widely regarded as to be exceptionally high. The Florentine section of the Anti-imperialist Camp wrote in a press communiqué dated January 28, one day after the scandalous verdict:

“Yesterday’s sentence is one of a police state waging war. While those who should have been persecuted for having committed war crimes in the aggression against Yugoslavia violating §11 of the constitution remain in top governmental charges, those who fought against these crimes are being sentences to seven years. This monstrosity can only be explained with the permanent war under US leadership attacking international law and sidelining also those of the national states.”

Source: Anti-imperialist Camp
www.antiimperialista.org



Iniziative e comunicati dal movimento antiguerra

1) Non votate quel decreto: Mercoledi 20 manifestazione sotto Montecitorio
2) PORTIAMO NEL NUOVO PARLAMENTO LA LOTTA CONTRO LA GUERRA:
Raccolta firme per la LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE SUI TRATTATI INTERNAZIONALI, LE BASI E LE SERVITÙ MILITARI
3) UN ALTRO MILITARE ITALIANO UCCISO IN AFGHANISTAN. IL PREZZO QUOTIDIANO DI UNA GUERRA BIPARTISAN


=== 1 ===

COMUNICATO STAMPA URGENTE

Ritirate subito le truppe italiane dai fronti di guerra
Non votate quel decreto
Mercoledi 20 manifestazione sotto Montecitorio

L’uccisione di un altro militare italiano sul fronte di guerra in Afghanistan (sono ormai tredici i soldati uccisi in questi anni), conferma la validità della richiesta del ritiro immediato delle truppe italiane dall’Afghanistan e dagli altri teatri di conflitto
La prossima settimana alla Camera e quella successiva al Senato si discuterà ancora una volta del decreto che finanzia e approva le missioni militari italiane all'estero.
Il Patto permanente contro la guerra chiede ad ogni singolo parlamentare di votare contro l'intero decreto di rifinanziamento delle missioni di guerra e su questo lancia un appello alla mobilitazione a cominciare dal 20 febbraio sotto alla Camera. Sulle missioni di guerra ormai non sono accettabili né credibili i distinguo che abbiamo sentito ripetere in questi mesi.
Un altro soldato italiano è stato ucciso ma il numero degli afghani uccisi in questa assurda guerra, più civili che militari, è ancora sconosciuto sia a noi che all'intera opinione pubblica e continua a ispirarci rabbia e vergogna come per tutte le vittime di guerra - italiane e straniere - delle nostre finte "missioni di pace".
PERCIO' CHIEDIAMO IL RITIRO IMMEDIATO DALL'AFGHANISTAN E DA TUTTI I FRONTI DI GUERRA, CONDIZIONE INDISPENSABILE PER UNA SVOLTA IN POLITICA ESTERA ED UNA VERA POLITICA DI PACE.
Primo appuntamento MERCOLEDI' 20 FEBBRAIO a Montecitorio

Il Patto permanente contro la guerra


=== 2 ===

Comunicato stampa del Comitato promotore nazionale della Legge di Iniziativa Popolare sui trattati internazionali, le basi e le servitù militari

 

PORTIAMO NEL NUOVO PARLAMENTO LA LOTTA CONTRO LA GUERRA

Le nuove scadenze imposte dallo scenario politico alla campagna nazionale di
raccolta firme per la LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE SUI TRATTATI INTERNAZIONALI, LE BASI E LE SERVITÙ MILITARI

 

Lo scioglimento delle Camere, la convocazione delle elezioni ad aprile, hanno modificato le condizioni politiche nelle quali presenteremo la proposta di Legge sulla quale da alcuni mesi stiamo raccogliendo migliaia di firme.  A maggio il paese si troverà di fronte un nuovo Parlamento e presumibilmente una nuova compagine di governo.

 

I motivi della campagna nazionale che abbiamo lanciato lo scorso novembre 2007 - in concomitanza con le manifestazioni di Novara e Vicenza contro produzioni di morte e basi militari - non cambiano. L'esperienza di governo appena conclusasi ha riconfermato un orientamento univoco favorevole a politiche di  guerra e militarizzazione dei territori e della società.

 

Il mutamento di scenario, la scomposizione del precedente quadro politico,
CI SOLLECITA OGGI AD ALLUNGARE E QUALIFICARE I TEMPI ED I CONTENUTI DELLA CAMPAGNA NAZIONALE PER LA RACCOLTA DELLE FIRME, UTILIZZANDO LA SCADENZA ELETTORALE ED I MESI IMMEDIATAMENTE SUCCESSIVI ( MAGGIO – GIUGNO 2008) all'insediamento del nuovo Parlamento per rilanciare con forza i contenuti e gli obiettivi della nostra proposta, rimettendola così al centro dell'agenda politica nazionale nel nuovo contesto scaturito dallo spoglio delle schede elettorali ad aprile.

 

Dal lancio della raccolta firme ad oggi, nonostante un prevedibile black out informativo sulla Legge ed i suoi obiettivi generali, abbiamo visto progressivamente crescere l'attenzione intorno alla Campagna per la Legge. Centinaia di singoli pacifisti, comitati, sindacati di base, associazioni e strutture di movimento ci hanno contattato per partecipare alla raccolta delle firme, per avere materiale informativo e moduli.

 

Moltissime le realtà, grandi e piccole, dal Sud al Nord e nelle Isole, impegnate costantemente in banchetti, iniziative pubbliche, dibattiti, spettacoli ed eventi socio / culturali.

 

Facciamo appello a tutte queste realtà, a coloro i quali vorranno affiancarci nella Campagna per la raccolta delle firme, a continuare la campagna per la raccolta delle firme, trasformandola in un elemento caratterizzante di una campagna elettorale nella quale presumibilmente i temi del NO alla guerra e alle sue basi militari saranno messi in un angolo, perché comune motivo d'imbarazzo per tutte le forze politiche.

 

I partiti che in questi anni hanno costantemente approvato e votato scelte di guerra dovranno rispondere e schierarsi sui temi della Legge di Iniziativa Popolare, assumendosi finalmente una concreta responsabilità da portare nel futuro Parlamento, per la desecretazione di ogni accordo
militare con paesi e coalizioni in guerra - N.A.T.O., U.S.A. e Israele - per la chiusura e l'allontanamento dai nostri territori di tutte le basi di guerra ed i loro poligoni di tiro.

 

ANCHE DURANTE QUESTO PERIODO ELETTORALE LA NOSTRA CAMPAGNA SARA’ LA LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE
VOTIAMO CONTRO LA GUERRA
VOTIAMO CONTRO LE BASI E LE SPESE MILITARI
 
FERMA LA GUERRA FIRMA LA LEGGE

 

Il Comitato promotore nazionale della Legge di Iniziativa Popolare sui trattati internazionali, le basi e le servitù militari
 
=== 3 ===
UN ALTRO MILITARE ITALIANO UCCISO IN AFGHANISTAN
IL PREZZO QUOTIDIANO DI UNA GUERRA BIPARTISAN

 

Alle 15 locali (le 11.30 in Italia) del 13 febbraio un militare italiano è stato ucciso a 60 chilometri da Kabul, in Afghanistan, e un altro è rimasto ferito. I due, entrambi dell'Esercito, sono rimasti coinvolti in un attacco con armi da fuoco portatili mentre stavano svolgendo una missione nel distretto di Uzeebin, a circa 60 chilometri dalla capitale.

 

Per qualche giorno i media nazionali torneranno a parlare di quello sfortunato paese, dove quotidianamente gli aerei, gli elicotteri e gli uomini della N.A.T.O. versano tonnellate di esplosivi, bombe e pallottole, producendo in 7 anni migliaia di vittime civili innocenti.
L’impressionante volume di fuoco non ha però risolto i gravi problemi militari delle forze occupanti.
Secondo un recente rapporto del Senlis Council intitolato 'Afghanistan sull'orlo del precipizio ' i talebani controllano il 54 percento del territorio afgano, sono attivi in un altro 38 percento (compresa la provincia 'italiana' di Herat) e minacciano ormai la stessa capitale Kabul (la cui difesa è ora responsabilità dei soldati italiani) .
Sta fallendo una strategia bellica incurante della storia di un popolo capace di sconfiggere, nei secoli, grandi potenze cimentatesi nel vano tentativo di controllare quelle terre impervie ed inospitali, agognate per collocazione geografica, per il passaggio di oleodotti, gasdotti e per produzione di oppio.

 

I governi succedutisi recentemente in Italia hanno cambiato le parole con le quali giustificare e cogestire in ambito N.A.T.O. il massacro afgano.
Alla retorica bellicista di Berlusconi e Martino è stata sostituita la linea del “peacekeeping” e della “riduzione del danno” di D’Alema, Parisi e Menapace.

 

La realtà sul campo ci dice che negli ultimi due anni di governo di centro sinistra il coinvolgimento diretto dell’esercito italiano nei combattimenti è aumentato, quantitativamente e qualitativamente.

 

Dall'estate 2006, infatti, è operativa nell'ovest dell'Afghanistan, la Task Force 45 ("la più grande unità di forze speciali mai messa in campo dall'Italia dai tempi dell'operazione Ibis in Somalia" secondo l'esperto militare Gianandrea Gaiani) comprendente i Ranger del 4° Alpini, gli incursori del Comsubin, il 9° Col Moschin e il 185° Rao della Folgore. In tutto circa duecento uomini, impegnati fin dal settembre 2006 nell'operazione segreta 'Sarissa' (la lancia delle falangi oplitiche macedoni) volta a combattere i talebani a fianco delle Delta Force statunitensi e delle Sas britanniche, in particolare nella provincia occidentale di Farah. (vedere Enrico Piovesana su www.peacereporter.it ).

 

Non sappiamo se, come sembra, dal prossimo dibattito parlamentare sul decreto di rifinanziamento delle missioni di guerra all’estero, previsto per il 20 febbraio, la missione afgana verrà stralciata dalle altre, in modo da dare una chance alla “sinistra” di distinguersi nel voto.
Sappiamo invece su chi ricade la responsabilità politica della morte dei militari italiani e delle migliaia di civili di questi ultimi due anni di guerra: sui partiti, sui singoli senatori e deputati che nel 2006 e nel 2007 hanno votato a favore del rifinanziamento di tutte le cosiddette “missioni di pace”.

 

Non sarà certo un’ennesima capriola pre elettorale, tanto meno un tardivo distinguo sulla sola missione afgana a salvare un ceto politico direttamente compromesso con la politica militarista e neo colonialista del decaduto governo Prodi.
 
La Rete nazionale Disarmiamoli!
www.disarmiamoli.org info@...  3381028120  3384014989
 

(english / italiano)

Neil Clark sulla perdurante crisi jugoslava

1) È tempo di mettere fine ai soprusi contro i Serbi (The Guardian,

2) Kosovo: A crisis of West's own making (The Australian, December 24, 2007)


=== 1 ===

(en francais:  Il est temps de mettre un terme aux brimades contre les Serbes


Traduzione dall’inglese al francese di  Jean-Marie Flémal;
traduzione dal francese di Bettio Curzio di Soccorso Popolare di Padova

 
14/01/2008

È tempo di mettere fine ai soprusi contro i Serbi 

di Neil Clark
 
Come i Serbi sono stati demonizzati, in quanto si sono opposti in permanenza alle ambizioni egemoniche dell’Occidente nella regione Balcanica.
 
Nel Cif dell’ultima settimana, [la sezione Libri commentari del « The Guardian »], Anna di Lellio, che è stata consigliere politico di Agim Çeku, ex Primo Ministro Kosovaro e, a suo tempo, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito di Liberazione del Kosovo [l’UCK], pretende che “il nazionalismo Serbo, che si era solo parzialmente attenuato dopo la caduta di Milosevic”, sta rinvenendo con le sue “vecchie tattiche”.
Di Lellio ha presentato ben poche prove delle sue affermazioni, eccezion fatta per una dichiarazione del parlamento Serbo ribadente – oh! orrore estremo! – che il paese è determinato a difendere la sua integrità, come gli è consentito dal diritto internazionale.
Ciò che, senza dubbio alcuno, “rinvengono a tutta forza” e secondo le loro “vecchie tattiche” sono i soprusi contro i Serbi messi in atto dai media occidentali, (ivi compreso, è triste a dirlo, il Cif), di cui Di Lellio resta una dei numerosi responsabili. 
I Serbi sono stati demonizzati, non perché costituiscano la parte più responsabile delle guerre di secessione degli anni Novanta – e non lo sono stati! –, ma piuttosto perché hanno con costanza ostacolato la strada delle ambizioni egemoniche dell’Occidente nella regione Balcanica.

Per l’Occidente era del tutto spontaneo che la Jugoslavia venisse distrutta e che questo Stato indipendente e militarmente forte venisse rimpiazzato da una molteplicità di protettorati deboli e divisi dalla forbice del trio NATO-FMI-UE.
“Nell’Europa del dopo Guerra Fredda, non restava posto per un vasto Stato socialista dalle vedute indipendenti e resistente alla globalizzazione mondiale”, riconosceva George Kenney, ex alto funzionario per la Jugoslavia del Dipartimento di Stato USA [= gli Affari Esteri]. 
Il grande “crimine” dei Serbi è stato quello di non avere letto la sceneggiatura!
Di tutti i gruppi della ex Jugoslavia, erano i Serbi, la cui popolazione era distribuita in tutto il paese, che avevano più da perdere dalla disintegrazione del paese. 


Nel corso di una riunione all’Aja nell’ottobre 1991, i dirigenti delle sei Repubbliche della Federazione furono invitati dagli “arbitri” della Comunità Europea  a sottoscrivere un documento dal titolo “La fine della Jugoslavia sulla scena internazionale”. 
Solo uno fra loro – il dirigente Serbo Slobodan Milosevic –  rifiutava di firmare il “certificato di decesso” del suo paese.
Milosevic dichiarò in quella occasione: “La Jugoslavia  non è stata creata per il consenso di sei uomini e non può essere distrutta adesso dal consenso di sei uomini!”
Per questa frase pro-Jugoslavia, Milosevic fu ricompensato da un decennio di demonizzazioni sui media occidentali.
Malgrado le sue vittorie elettorali assolutamente regolari in un paese dove 21 partiti politici operavano liberamente, Milosevic fu (ed è sempre) sistematicamente trattato da “dittatore”, una descrizione per la quale il suo biografo Adam LeBor, che nondimeno gli è sempre stato ostile da cima a fondo, ammette essere “scorretta”. 
Alcuni tentativi di imputare a Milosevic fatti nei quali non aveva giocato il ben che minimo ruolo sono risultati ridicoli: in un articolo del The Guardian, nel 2006, Timothy Garton Ash, un professore di studi Europei, sottolineava come gli Sloveni “avessero tentato di rompere con la Jugoslavia di Slobodan Milosevic già nel 1991”, anche se, all’epoca, il Presidente della Jugoslavia era di fatto il Croato Ante Markovic (una correzione di questa affermazione veniva pubblicata in seguito). 
Dato il modo abituale in Occidente di riscrivere la storia, “Slobo” e i Serbi hanno dovuto sopportare il biasimo dello scatenamento della guerra in Bosnia. 
Infatti, l’uomo che ha dato fuoco alle polveri in questa guerra particolarmente brutale non è stato Milosevic, nemmeno sono stati i dirigenti Serbi di Bosnia, ma bensì l’ambasciatore degli Stati Uniti, Warren Zimmerman, che aveva persuaso il secessionista Bosniaco Alija Izetbegovic di rinnegare la sua firma sull’accordo di Lisbona del 1992, che aveva assicurato la scissione pacifica della Repubblica. 
Nemmeno dopo l’accordo di Dayton del 1995, che aveva posto fine ad un conflitto assolutamente inutile, non ebbe un istante di requie la serbofobia dell’Occidente.
 
In Kosovo, obiettivi strategici hanno indotto l’Occidente a scegliere il campo dei fanatici dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), un gruppo ufficialmente catalogato come organizzazione terroristica dal Dipartimento di Stato degli USA.
Nessuno, e certamente nessun Serbo di mia conoscenza, negherà che le forze Serbe abbiamo commesso atrocità durante le guerre Balcaniche e che i responsabili di queste azioni dovrebbero renderne conto davanti ad una corte di giustizia, (ma che non sia finanziata dalle potenze che hanno bombardato illegalmente il loro paese, la Serbia, quasi per dieci anni). 

Ma un fatto provoca una collera senza misura nei Serbi: che le atrocità Serbe abbiano ricevuto grande risonanza sui media occidentali, mentre le atrocità perpetrate dagli altri partecipanti al conflitto siano state completamente passate sotto silenzio.  
Nel momento in cui l’attenzione massiccia dei media si concentrava sulle ostilità, comunque su scala ridotta e del tipo “occhio per occhio e dente per dente”, fra le forze armate Jugoslave e l’UCK, nel 1998 e nel 1999, l’Operazione Tempesta  – che, si stima, abbia espulso dalla Croazia qualcosa come 200.000 Serbi nel corso di una operazione che aveva ricevuto l’appoggio logistico e tecnico degli Stati Uniti – fu a mala pena menzionata.
Assolutamente nessuna pubblicità per massacri come quello del giorno del Natale ortodosso, nel 1993, di 49 Serbi del villaggio di Kravice, non lontano da Srebrenica. La città ha recentemente organizzato una cerimonia di commemorazione nel 15.esimo anniversario di questo orrore : non era presente un solo membro della cosiddetta “comunità internazionale”!
E oggi che il Kosovo balza nuovamente agli... onori della cronaca , i  “demolitori dei Serbi” sono di nuovo in libera uscita, e in forze.  
Una volta di più, la questione controversa viene descritta in termini manichei.

Quando sono stati messi sottosopra cielo e terra in conseguenza dei trattamenti inflitti agli Albanesi del Kosovo da parte delle forze Jugoslave nel 1998 e 1999, non si sono dette grandi cose relativamente alla campagna di intimidazioni dell’UCK, tradottasi nell’esodo – per stime successive – di circa 200.000 fra Serbi, Rom, Bosniaci, Ebrei e altre minoranze della Provincia, anche dopo che “la comunità internazionale” era arrivata a metterci il naso. 
«Nessuna parte in Europa ha visto un fenomeno di segregazione simile a quello presente in Kosovo... In nessuna parte del mondo esistono disseminati tante città e paesi “etnicamente puri” come in questa Provincia tanto piccola. In nessuna parte si alligna nelle minoranze una così grande dimensione di paura di vedersi angariate, semplicemente in quanto minoranze.
Per i Serbi e le altre minoranze, che devono patire l’espulsione dalle loro case, le discriminazioni e le restrizioni, la proibizione di parlare nella loro lingua, il modello di violenza che hanno sopportato durante un così lungo tempo potrebbe sicuramente funzionare come norma di legge del nuovo Kosovo, finché proseguiranno le discussioni sul futuro Statuto.»
Questa la conclusione del rapporto del Gruppo dei Diritti delle Minoranze relativamente al Kosovo “liberato” – ma attenzione, le affermazioni del Gruppo sono quelle di un guastafeste che non biasima i Serbi!
L’indipendenza del Kosovo è una semplice questione di autodeterminazione, questo ci viene continuamente ripetuto. Comunque, il medesimo principio non si applica ai Serbi di Bosnia, che si auguravano di ricongiungersi alla Serbia.
Al posto di farsi campioni del secessionismo Kosovaro, in totale disprezzo del diritto internazionale, la Gran Bretagna e l’Occidente farebbero molto meglio a riconsiderare la loro politica nei riguardi della Serbia.
È troppo tardi per annullare i crimini del passato – come la barbara campagna di bombardamenti della NATO del 1999 – ma, se si modificasse la politica della NATO relativa al Kosovo, questo costituirebbe almeno un avvio verso la correzione di ingiustizie degli ultimi vent’anni. È  proprio arrivato il tempo di concedere un respiro ai Serbi!   

 
 Documento messo in diffusione in francese dalla lista  JUGOINFO, curata da componenti del
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia – ONLUS  https://www.cnj.it/   


=== 2 ===


The Australian
December 24, 2007

A crisis of West's own making 

by Neil Clark 

Powerful Western nations make threats to Serbia. 

Serbia, backed by Russia, ignores the ultimatums. A
war ensues. That was the scenario in the summer of
1914, when the world plunged into the war to end all
wars. Nearly a century on, the situation is uncannily
similar.

Despite Western threats for it to accept Kosovan
independence, Belgrade is standing firm. Serbian armed
forces are on standby to reclaim the province by force
if necessary. Russia has promised Serbia its support. 

If war does follow, then Serbia will no doubt be
blamed by Western governments for not toeing the line.
But it would be an unfair judgment. 

The present crisis in Kosovo has been caused not so
much by Serbian intransigence, but by the West's
policy of intervention in the internal affairs of
sovereign states, which, over the past decade has
caused chaos, not only in the Balkans, but across the
globe. 

Ten years ago, Kosovo was at relative peace. Albanian
demands for independence from Belgrade were being
channeled through the peaceful Democratic League party
of Ibrahim Rugova, while the small groups of Albanian
paramilitaries that did exist were isolated and had
little public support. 

According to a report by Jane's intelligence agency in
1996, the Kosovo Liberation Army, the most extreme of
Albanian paramilitary groups, does not take into
consideration the political or economic importance of
its victims, nor does it seem at all capable of
hurting its enemy. 

It has not come close to challenging the region's
balance of military power. As late as November 1997,
the KLA, officially classified by the US as a
terrorist organisation, could, it has been estimated,
call on the services of only 200 men. 

Then, in a policy shift whose repercussions we are
witnessing today, the West started to interfere big
time. The US, Germany and Britain increasingly saw the
KLA as a proxy force which could help them achieve
their goal of destabilising and eventually removing
from power the regime of Slobodan Milosevic, which
showed no inclination to join Euro-Atlantic
structures. 

Over the following year, the KLA underwent a drastic
makeover. The group was taken off the US State
Department's list of terrorist organisations and, as
with the Mujahideen in Afghanistan a decade or so
earlier, became fully fledged freedom fighters. 

Large-scale assistance was given to the KLA by Western
security forces. Britain organised secret training
camps in northern Albania. The German secret service
provided uniforms, weapons and instructors. 

The Sunday Times in Britain published a report stating
that American intelligence agents admitted they helped
to train the KLA before NATO's bombing of Yugoslavia.
Meanwhile, Rugova's Democratic League, which supported
negotiations with Belgrade, was given the cold
shoulder. 

When the KLA's campaign of violence, directed not only
against Yugoslav state officials, Serb civilians and
Albanian collaborators who did not support their
extremist agenda, led to a military response from
Belgrade, the British and Americans were ready to hand
out the ultimatums. 

During the 79-day NATO bombing of Yugoslavia that
followed, the West made promises of independence to
the KLA which, eight years on, are coming back to
haunt them. 

Recognising an independent Kosovo will push Serbia
from the Western orbit as well as creating a real
chance of war. And it will set a precedent: if the
rights of self-determination for Kosovan Albanians are
to be acknowledged, then what about the rights of
self-determination for Serbs in Bosnia, who wish to
join Serbia? 

Doing a U-turn, and attempting to get independence
postponed, runs the risk of violence from Kosovo's
Albanian majority. It's an almighty mess, but one of
the West's own making. 

Had it not intervened in Yugoslav internal affairs 10
years ago, it is likely a peaceful compromise to the
Kosovan problem would eventually have been found
between the government in Belgrade and the Democratic
League. Rugova's goal was independence for Kosovo from
Serbia, but only with the agreement of all parties. 

What is certain is that without Western patronage the
KLA would never have grown to the force it eventually
became. 

By championing the most hardline force in Kosovo, the
West not only helped precipitate war, but made the
issue of Kosovo much harder to solve. 

It is ironic that for supporters of liberal
intervention, Western actions in Kosovo are still seen
to have been a great success. It was at the height of
the NATO bombing campaign against Yugoslavia in 1999
that the then British prime minister, Tony Blair, made
his famous speech at Chicago in which he outlined his
doctrine of the international community. 

Blair argued that the principle of non-interference in
the affairs of sovereign states - long considered an
important principle of international order - should be
subject to revision. "I say to you: never fall again
for the doctrine of isolationism," Blair pleaded. 

But after surveying the global debris of a decade of
Western interference, from the Balkans to Afghanistan
and Iraq, is it any wonder that isolationism and
observing the principle of non-interference in the
affairs of sovereign states again seems so appealing? 

Neil Clark, a regular contributor to The Spectator and
The Guardian in Britain, teaches international
relations at Oxford Tutorial College.



riceviamo e giriamo per conoscenza:
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THE LORD BYRON FOUNDATION FOR BALKAN STUDIES
LIMES - RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
SIOI - SOCIETA ITALIANA PER L'ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE
INVITANO LA S.V. ALL'INCONTRO PUBBLICO

KOSOVO
UNA QUESTIONE NON SOLO BALCANICA

Mercoledi 27 febbraio 2008, ore 11.00
SIOI - Societa Italiana per l'Organizzazione Internazionale
Piazza di San Marco, 51 00186 Roma
 
La vittoria del moderato Boris Tadic alle elezioni Serbe toglie benzina al fuoco dell'indipendentismo kosovaro, che tuttavia continua a rivendicare una secessione giudicata ormai non piu rinviabile. Le conseguenze sugli equilibri regionali dell'indipendenza. Il ruolo di Stati Uniti, Europa e Russia. L'incerto futuro politico ed economico di un Kosovo indipendente. Di questo e altro ancora discutiamo con: 

Lucio CARACCIOLO, Direttore di Limes -- Rivista Italiana di Geopolitica

 

Famiano CRUCIANELLI,  Sottosegretario agli Esteri

 

Gabriel ESCOBAR, Political Officer, Ambasciata degli Stati Uniti d'America presso l'Italia, responsabile del desk Balcani, Russia e Iraq

 

James JATRAS, gia Senior Analyst allo U.S. Senate Republican Policy Committee, Direttore dell'American Council for Kosovo e membro dello Squire Sanders Public Advocacy LLC

 

Alfredo MANTICA,  Senatore, Vicepresidente della Commissione Affari esteri del Senato

Francesco MARTONE, Deputato, gia membro della Commissione Affari esteri della Camera

 

Sanda RASKOVIC-IVIC, Ambasciatore della Repubblica serba presso l'Italia

 

Srdja TRIFKOVIC, Executive Director della Lord Byron Foundation for Balkan Studies e curatore della sezione di politica estera di Chronicles: A Magazine of American Culture 

 

Per informazioni, rivolgersi alla redazione di Limes: redazione@...

L'incontro e aperto al pubblico. Non e richiesto accredito per la stampa




Amministrazione Comunale di Putignano
Associazione Culturale L'isolaCheNonC'è/ARCI - Putignano
Cantieri di Pace 2008

GIORNATA DELLA MEMORIA E DEL RICORDO

 

VENERDI 15 FEBBRAIO 2008 - 0RE 18.30

 

Putignano - Sala del Consiglio Comunale

 

...finche' non sia tolta dalla carne degli uomini questa vecchia spina... (Bertold Brecht)

 

Lettura di testi a cura di Dino Parrotta e di un gruppo di alunni del Liceo scientificoE. Majorana” di Putignano

 

Intervento del prof. Andrea Catone (associazione Most za Beograd): “la memoria, per non ripetere”

 

Inaugurazione della mostra (curata dal Museo delle vittime del genocidio di Belgrado e tradotta e portata in Italia dalla associazione Most za Beograd).
                        Bili su samo deca (erano solo bambini).
Jasenovac, Auschwitz dei Balcani

La mostra sarà esposta nella Sala del Consiglio comunale dal 15 al 23 febbraio. Insegnanti e studenti sono vivamente invitati a visitarla


Most za Beograd – Un ponte per Belgrado in terra di Bari
Associazione culturale di solidarietà con la popolazione jugoslava
 via Abbrescia 97, 70121 BARI - mostzabeogradbari@...
CF 93242490725 - conto corrente postale 13087754

 

L’associazione opera per la diffusione di una cultura critica della guerra e il riavvicinamento tra i popoli con culture, etnie, religioni ed usanze diverse al fine di una equa e pacifica convivenza. Si impegna per la diffusione di un forte senso di solidarietà nei confronti della popolazione jugoslava e degli altri popoli vittime della guerra. Ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
In particolare l’associazione:
- promuove, attraverso raccolte di fondi e donazioni iniziative di solidarietà nei confronti delle vittime della guerra nel campo sanitario, scolastico, alimentare e in ogni altro campo.
- promuove iniziative di sostegno a distanza di bambini jugoslavi
- promuove iniziative di gemellaggio tra enti locali italiani e jugoslavi, tra scuole italiane e jugoslave
- promuove scambi culturali e di amicizia verso il popolo jugoslavo
- promuove iniziative di conoscenza della storia e della cultura jugoslave

 




Il cuore nel pozzo: un caso di revisionismo mediatico

Nel 2005 la RAI manda in onda la fiction "Il cuore nel pozzo": un esempio chiarissimo di quello che abbiamo definito "revisionismo mediatico"...

VISUALIZZA IL VIDEO:







Segnaliamo alla pagina:


Documento della Commissione UE sullo stato di avanzamento al 2007 della Risoluzione 1244 (UNSCR 1244) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul Kosovo

Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova


È la traduzione di un documento cruciale per una proficua discussione sulla questione "Kosovo". Si tratta della relazione della Commissione della Unione Europea sullo status della provincia, in cui viene fatto il punto sul funzionamento di tutte le istituzioni di governo messe in piedi dall'UNMIK, dalla NATO e dall'Unione Europea da tanto tempo, in preparazione delle condizioni per l'aggregazione del nuovo stato indipendente del Kosovo all'Unione Europea. Il Kosovo, nel documento, viene in effetti considerato come una enclave già indipendente, senza tenere in nessunissimo conto che la pace di Kumanovo considera il Kosovo parte integrante della Serbia. 
Siamo in presenza di uno stravolgimento totale del diritto internazionale, iniziato con la disgregazione della Jugoslavia, continuato con i bombardamenti criminali sulla Serbia, e che si concluderà con la destabilizzazione di tutta l'area Balcanica, e forse dell'Europa intera, a tutto vantaggio dell'ultraliberismo imperialista. (C. Bettio)




(en français:
SKO: Le rapt du Kosovo 
na srpskohrvatskom:
OTIMANJE KOSOVA OD SRBIJE, POSLEDNJI CIN U POGREBNOM RITUALU SFRJ-e


L’ULTIMO ATTO DELLA CERIMONIA FUNEBRE DELLA DEFUNTA SFRJ: 

LA RAPINA DEL KOSOVO


 

“Noi facciamo affidamento sulla Slovenia, siamo del resto per metà colonia sua” ha dichiarato Shkelzen Maliqi di Pristina, contornato da molti titoli a seconda della presentazione (filosofo, giornalista, dirigente del centro studi umanisti di Pristina, attivista, anarchico ecc.) il giorno 15 dicembre 2007 in un’intervista al Delo di Lubiana. Si può ben pensare che il filosofo Maliqi connosca la definizione di “colonia”.
Altra cosa è sapere se ha ben valutato quale sarà la fetta della torta coloniale che spetterà alla Slovenia per compensare il suo ruolo di zelante affossatore del vecchio stato socialista. Va da se che i distributori di briciole si sono riservati per sé stessi la divisione del dolce anche per i complici della “democratizzazione” dei piccoli rottami della ex Jugoslavia, ivi comprese le marionette al potere in Serbia. Con i bombardamenti criminali del 1999 hanno messo la spada di D amocle sopra la testa, indicando loro la strada da seguire. Sono ora temporaneamente spaventati da una vittoria nelle prossime elezioni presidenziali dei “radicali” poco obbedienti. Anche se i “radicali” non hanno nessuna intenzione di cambiare il sistema capitalista, non ci si auspica la loro vittoria; infatti non sono incondizionatamente ossequienti, per di più sono favorevoli ai russi. Quindi viene aiutato il “democratico” Tadic con ogni possibile mezzo, sperando di continuare per suo mezzo a dominare la Serbia anche dopo aver strappato il Kosovo. Chiaramente hanno omesso di dire quanti milioni costerà loro l’elezione di Tadic, esattamente come fece l’ex segretario di stato Madalene Allbright quando si impegnò alla demolizione del legittimo potere jugoslavo negli anni ’80.
Col miraggio della ricca ricompensa spettante alla Slovenia il regime è spinto a vantare le proprie vittorie, in particolare quelle dell’esercito sloveno nella sua “luminosa” missione nel Kosmet quale partecipe delle forze d’occupazione. Cercano di convincere l’opinione pubblica che si tratta di una missione storica e nell’interesse della nazione Slovena e che l’esercito Sloveno diventando sempre più una forza per azioni di battaglia da inviare all’estero non fa altro che difendere gli interessi nazionali, economici e politici del paese. Nelo stesso modo in cui affermavano che era nell’“interesse nazionale” costituire uno stato capitalista “indipendente” giustificando così la distruzione dello stato socialista e la liquidazione del sistema dell’autogestione. In questo modo hanno identificato l’“interesse nazionale” con gli interessi delle forze imperialiste: la distruzione dei paesi socialisti.
Una inattesa ricompensa costituisce uno stimolo ulteriore per la tenacia e l’attivismo della diplomazia slovena nella fase finale della rapina del Kosmet alla Serbia. La Presidenza dell’Unione europea nella prim a metà del 2008 le permette di compiere ancora più efficientemente il suo dovere, assumendo il ruolo di affossatrice della Jugoslavia socialista. Ne il compito né la ricompensa derivano dal caso. La Slovenia sarà sacrificata da organizzatori e dirigenti del processo di distruzione della Jugoslavia per potersi salvare dalla condanna dell’opinione pubblica mondiale per la violazione della Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, essa sarà la vittima espiatrice, la responsabile sulla quale puntare il dito, anche per quanto fatto in precedenza quando la si accusò di essere la principale responsabile della disintegrazione della Jugoslavia (giudizio espresso dall’ex ambasciatore americano in Jugoslavia Warren Zimmermann). Essi lavorano con ostinazione alla realizzazione dell’unità dei paesi europei e non per sostenere il furto del Kosmet anche se il ministro delgi affari esteri sloveno ha dichiarato (nella sua veste di rapinatore principale) che è possibile comunque operare anche senza l’unanimità degli accordi.
Una riunione dei ministri degli esteri di Granbrettagna, Germania, Francia, Italia e Slovenia in presenza del commissario europeo all’allargamento dell’UE e, va da se, di Javier Solana, sperimentato pianificatore e comandante dell’aggressione armata contro la Jugoslavia del 1999 e, in questo ruolo, ben definibile come beccamorto capo – ha avuto luogo a Brdo presso Kranj il 19 gennaio 2008.
La Slovenia ha avuto la visita del partigiano ostinato della rapina, il Segretario generale dell’ONU, Ban Ki Moon, che non ha alcuna difficoltà a rivestire l’abito del “esecutore giudiziario” per l’appropriazione di territori stranieri, vista la sua esperienza in materia. Ban Ki Moon ha scambiato le proprie opinioni con l’ex presidente sloveno Mlan Kucan, attivo partecipe alla distruzione della Jugoslavia, allo smantellamento della Lega dei comunisti jugoslavi, e traditore del sistema autogestionario socialista.
La riunione si è tenuta a porte chiuse, senza comunicati stampa finali allo scopo di mantenere il mistero e creare le condizioni per l’esproprio finale del Kosmet permettendo ai separatisti albanesi la dichiarazioni unilaterale di indipendenza, in realtà di “stato colonia”. I creatori del progetto di rapina del Kosmet sono stati invece molto presto ed amaramente sorpresi dalla pubblicazione il 25 gennaio 2008 da parte della televisione slovena di un documento relativo agli incontri diplomatici segreti tra americani e sloveni, durante i quali gli sloveni avevano ricevuto alcune indicazioni relative alle mosse durante il loro periodo di presidenza della UE soprattutto sull’atteggiamento da tenere rispetto alla rapina del Kosmet. Il contenuto di quelle informazioni non è stato smentito, e la persona che ha rivelato il compromettente documento è oggi attivamente ricercata. I diplomatici americani hanno avuto bisogno di tre ore per spiegare ai loro colleghi sloveni il Manuale su come presiedere l’Unione e realizzare il piano per l’ “indipendenza” del Kosovo, ha scritto in quei giorni il quotidiano italiano “Corriere della sera”. I rapitori propagano con insistenza la demagogica tesi sullo scoppiare di sommosse e di destabilizzazione del Kosmet in caso di rifiuto della proclamazione di indipendenza. Si sa del resto benissimo che il separatismo, gli scontri e le vittime sia nel Kosmet che, del resto, in tutta la Jugoslavia sono stati il risultato di piani, di indicazioni e sono avvenuti secondo direttive dei paesi imperialisti e dei loro servizi segreti. Eventuali disordini, soggetto di manipolazioni e di minacce, possono scoppiare solo con il permesso o l’ordine espresso delle autorità del Kosmet. Solo dei faciloni possono pensare altrimenti. Del resto si sa bene cosa gli imperialisti sperano di ottenere con l’appropriazione del Kosmet: il mantenimento di posizioni geostrategiche e lo spiegamento in basi di espansione verso l’est, scatenare l’attivismo separatista e la rivolta delle minoranze albanesi nel sud della Serbia, in Macedonia, in Bulgaria e in Grecia e, in periodo a più lungo termine, creare le condizioni di tensione e di conflitto nel sud ei Balcani per prolungare il loro controllo sulla regione e renderlo ancora più efficace.
Tuttavia la maggioranza dei cittadini della Slovenia sa da tempo che la tesi di supposti interessi sloveni nel Kosmet non è che demagogia utile a nascondere i veri obbiettivi che tendono a trasformare il Kosmet in una colonia. È interesse individuale solo di qualche capitalista sloveno arricchito dalla rapina e dal saccheggio della proprietà sociale. Sanno benissimo che nel Kosmet solo sfruttatori motivati potranno realizzare utili usando beni strumentali appartenenti ad altri e mano d’opera impoverita. I cittadini sloveni onesti considerano amorale la presentazione demagogica degli interessi capitalisti come fossero interessi nazionali.
Sanno anche che non si tratta degli interessi dei lavoratori del Kosmet che, come a tutti i lavoratori del vecchio stato socialista, non hanno altro da capire se non quale borghesia li sfrutterà. Sono del resto tanto più esasperati, in quanto sono sfruttati e maltrattati dalla loro borghesia e dalla borghesia appartenente ad altri stati del loro vecchio stato comune socialista. Le dichiarazioni di individui che appartengono all’oligarchia e che proclamano il proprio apprezzamento per i ricchi capitalisti nazionali a rispetto ai capitalisti stranieri di altri piccoli stati sono particolarmente ridicole. Ma con questi insensati propositi non potranno nuovamente ingannare e manipolare i cittadini che oramai sanno bene che non è loro del tutto indifferente vivere in un sistema capitalista piuttosto che in un sistema socialista. Oggi la maggior parte dei cittadini pensa che la Jugoslavia socialista, con i valori che aveva creato, è stata il loro paese molto più di quanto lo siano i micro stati attuali, sfruttatori e molto meno indipendenti di quanto lo erano le repubbliche jugoslave.
I cittadini sloveni sanno anche del resto che non è interesse del popolo sloveno inimicarsi e scontrarsi col popolo serbo con il quale in passato non hanno avuto altro che rapporti positivi ed amichevoli, soprattutto durante la seconda guerra mondiale e dopo la costruzione comune della Jugoslavia socialista. Questi buoni rapporti tradizionali sono messi in pericolo da nazionalisti e separatisti dei due stati, che operano sempre nell’interesse dei circoli imperialisti, che, come già detto, traggono benefici strategici dall’opposizione, dalla separazione, dal disprezzo degli altri, per regnare più facilmente nel quadro della globalizzazione del “Nuovo Ordine”, della democrazia fittizia e di altrettanto falsi diritti dell’uomo. Naturalmente i cattivi rapporti tra due popoli non disturbano i loro borghesi infinitamente egoisti nei loro traffici e piani di rapina, come non sono disturbati da frontiere statali e differenze di sviluppo, di cultura, di lingua esistenti già nel passato e usati da vari imperi per sfruttare e dividere i popoli nel processo di demolizione della comunità socialista. Al contrario per loro le cattive relazioni sono occasione e la possibilità di potersi scatenare nella pesca nel torbido. I cittadini sloveni che non sono d’accordo con le aspirazioni sfruttatrici della loro nuova classe borghese e del ruolo di marionetta del loro governo nella rapina del Kosmet devono opporsi più apertamente e massicciamente alla loro azione contro la Serbia e contro gli interessi del popolo Sloveno. Se non lo faranno sarà loro più difficile poi eliminare le conseguenze che colpiranno certamente le loro relazioni con il popolo Serbo. Le generazioni successive potranno difficilmente porre rimedio e perdonare le azioni  nocive dei lor predecessori. D’altra parte il ratto illegale di una parte del territorio serbo può ripetersi domani in un altro paese, perché non in Slovenia?


 

31 gennaio 2008

Il comitato comunista sloveno
Ufficio di informazione pubblica rivoluzionaria 

(traduzione in francese: Stojan Jejcic
in italiano: Peter Behrens)



Privatizzazioni

Do you remember Zastava?

Dopo le bombe umanitarie e la cura liberista l'auto serba va fuori strada

da il Manifesto del 7.2.2008 p.20

Dei 38 mila dipendenti del gigante industriale jugoslavo solo 6 mila hanno mantenuto il lavoro. 300 assemblano Fiat Punto, gli altri sono finiti in mani slovene, bulgare, norvegesi. E il paese è alla fame

Loris Campetti

«Al cuore, colpiscila al cuore. E la Zastava è stata colpita al cuore, poi alle braccia e alle gambe, un colpo le ha fatto esplodere il polmone e un altro il cervello. Adesso tonnellate di lamiera contorta e di cemento riposano senza pace nel fango. Due cornacchie amoreggiano sopra i resti del centro elaborazione dati». Iniziava così un nostro reportage da Kragujevac nel '99, quando i detriti lasciati dalle bombe e dai missili della Nato sulla più grande fabbrica di automobili dei Balcani erano ancora caldi. Ora alla Zastava non ci sono più le carcasse carbonizzate delle vetture Jugo 45 e Jugo 55 ma fiammanti Punto, seppure il modello vecchio. Nove anni fa, nelle 34 fabbriche del gigante serbo apparentato con la Fiat sia nel settore auto che in quello dei camion (Zastava Kamiona), lavoravano 38 mila persone. Oggi, dopo i licenziamenti seguiti ai bombardamenti, i dipendenti dell'auto sono crollati da 13.500 a 3.500 e dei 38 mila complessivi del gruppo solo 6.000 hanno mantenuto il posto di lavoro. Gli altri tutti a casa, con una buonuscita pari a 200 euro per ogni anno di anzianità, bruciati in poco tempo dalla precipitazione della crisi economica. Il ministro del lavoro aveva suggerito agli ex-operai di investire quel misero gruzzoletto in un'attività in proprio, in un paese allo stremo dove mancano i beni esserziali e le privatizzazioni riempiono gli uffici di collocamento di quarantenni e cinquantenni. I licenziati Zastava li trovavi, fino a pochi mesi fa, al mercatino delle pulci dove tentavano di vendere il poco che hanno, mobilia, cianfrusaglie, poveri prodotti dell'orto, ricordi sbiaditi dell'epopea jugoslava. Adesso il terreno dove sorgeva quel piccolo suq è stato venduto a una società slovena. Per costruirci un supermercato. Così gli ex-operai non hanno più neanche un luogo dove scambiare, con le cianfrusaglie, qualche malinconia e le poche, residuali speranze per il futuro.
A una lunga stagione di latitanza - bellica e postbellica - della multinazionale torinese, hanno fatto seguito prima il pagamento alla Fiat del debito Zastava da parte del governo di Belgrado e, un anno fa, un accordo limitato per la costruzione nella fabbrica serba di alcune migliaia di vetture Punto: solo assemblaggio di pezzi e componenti provenienti dall'Italia, su una linea che ora si chiama «Zastava ten», trasferita a Kragujevac direttamente da Mirafiori. «Licence by Fiat», qualche capetto formato a Mirafiori, un corso di sei mesi di lingua italiana e 300 lavoratori occupati, dipendenti di un'azienda esterna la cui proprietà - ci dice un operaio della Zastava, tra i pochi ancora stipendiati ma senza un lavoro da svolgere - non è nota. L'obiettivo di vendere un po' di vetture è vincolato alla ripresa di una domanda interna, oggi praticamente inesistente, e all'esportazione in Russia e nei vicini paesi dell'est, Bosnia in primis. Sapendo però che la maggior parte dei marchi automobilistici orientali è stata o assorbita da giganti occidentali (è il caso della Trabant, nell'ex Ddr, finita in mano Volkswagen che ne ha rottamato il marchio), o acquistata dalle multinazionali delle quattro ruote (le ex-cecoslovacche Skoda e Tatra, la rumena Dacia), o trasformata in società miste (le russe Auto Vaz e la Uaz, l'ucraina Zaz). Un eccesso di concorrenza in un mercato che arranca, in cui opera anche la Fiat polacca, controllata in toto dai torinesi.
Alcune multinazionali europee e occidentali, tra cui la Opel interessata a impiantare una linea per la fabbricazione della Corsa, hanno studiato l'ipotesi di mettere le mani sulla fabbrica di automobili di Kragujevac. Non se ne è fatto nulla. La Peugeot ha anche stipulato un accordo per l'avvio di una linea di produzione rimasto però soltanto sulla carta. Tra la Zastava Kamiona e la Fiat Iveco, invece, è finito qualsiasi rapporto e la produzione ristagna così come i dipendenti, ridotti a 600 unità. Va avanti la privatizzazione decisa dai governi liberisti succedutisi a Belgrado del gigante ferito dalle bombe umanitarie e stremato dalla crisi, ed entro il 2008 si dovrà concludere in tutte le 34 aziende del gruppo, pena la loro liquidazione. La fabbrica di attrezzeria è stata acquistata dalla Union slovena; occupa 380 operai specializzati che lavorano - su vecchie macchine italiane - prodotti destinati all'esportazione, un drappello pagato decisamente meglio della media degli operai serbi, 400 euro al mese contro i 250 del settore auto. Anche la selleria è di proprietà slovena e lavora su commesse della Opel. Le fucine sono passate dallo stato serbo a una società bulgara che paga i suoi 250 dipendenti 220 euro ed esporta i prodotti ottenuti dallo stampaggio a caldo. Restano da privatizzare, insieme all'auto e ai camion, la componentistica plastica i ricambi. L'impiantistica e la carpenteria sono invece passate in mano norvegese e i 180 dipendenti sopravvissuti lavorano per le piattaforme petrolifere del nord-Europa. Ben poco si sa della fabbrica di armi, trasferita dal sito Zastava chissà dove. Quel che è certo è che continua a produrre pistole, fucili e materiale bellico non solo per l'esercito serbo ma anche per altri soggetti. Nato compresa, si dice sottovoce a Kragujevac.
Un gruppo di delegate e dirigenti sindacali della Zastava guidate da Rajka, ottimo italiano e un altrettanto ottimo lavoro legato all'adozione a distanza dei figli di lavoratori licenziati dalle bombe, ci aggiorna sulle condizioni disperate in cui vivono migliaia di famiglie nella Torino jugoslava, Kragujevac. Le adozioni - a cui hanno lavorato la Fiom, alcune Camere del lavoro italiane, i lettori del manifesto e di cui si occupa tra gli altri l'ong romana Abc-Solidarietà e pace - sono un po' diminuite nel tempo, ma coinvolgono ancora 1.800 bambini e bambine. Alla mancanza dei beni di prima necessità, dice Rajka, si aggiungono i problemi di salute, ingigantiti dalle conseguenze dell'inquinamento provocato dai bombardamenti, in particolare del reparto verniciatura da cui sono fuoriusciti liquidi altamente tossici. Da anni è aperta (in Serbia, ma anche nell'Unione europea) una polemica sull'uso delle bombe all'uranio impoverito nel sud del paese, negato dalla Nato e per motivi di «ordine pubblico» da Belgrado e in qualche modo suggerito dall'aumento spaventoso di tumori e leucemie nella popolazione della città, soprattutto tra gli operai che hanno bonificato la fabbrica. Non esistono statistiche attendibili: nei reparti onocologici degli ospedali di Kragujevac e Belgrado regna la reticenza, gli epidemiologi si rifiutano di parlare con i giornalisti. Solo sulle bombe a grappolo cominciano a circolare i primi dati.
Così si vive e si muore nella Detroit balcanica. I pochi fortunati che hanno conservato un lavoro lo eseguono in condizioni impensabili, senza pause per sette giorni a settimana. Gli infortuni, che in questa situazione non possono che aumentare, vengono taciuti dagli stessi lavoratori per paura di perdere posto e stipendio. Guerre, bombardamenti e politiche liberiste incentrate sulle privatizzazioni hanno ridotto allo stremo una popolazione costretta a condividere la propria miseria con quella importata dal vicino Kosovo, i cui profughi si accalcano in poveri campi alla periferia di Kragujevac. Siamo vicini all'emergenza umanitaria.


(Auf deutsch: Wie Sarajevo 1914
Das Kosovo ist die Lunte an einem Pulverfaß. Völkerrechtswidrige Abspaltung von Serbien "in vier oder fünf Wochen", sagt Separatistenchef Hashim Thaci. 
Von Jürgen Elsässer
junge Welt, 16.01.2008. - www.jungewelt.de



Comme Sarajevo en 1914 ?


L’indépendance du Kosovo est la mèche d’un baril de poudre

par Jürgen Elsässer*


Les États-Unis ont mis au point un processus de déclaration unilatérale d’indépendance du Kosovo, le 17 février prochain, suivi de sa reconnaissance par une centaine d’États. Ce faisant, non seulement ils admettent que l’opération de l’OTAN en 1999 était une guerre de conquête, mais ils ouvrent la porte à toutes les revendications séparatistes dans le monde. Et c’est bien le but, puisque il s’agit pour eux de provoquer par onde de choc la désintégration de la Fédération de Russie. Un jeu dangereux, dénonce Jürgen Elsässer, qui est de nature à déstabiliser toute l’Europe.

Le député au Bundestag Willy Wimmer (CDU) écrivait récemment : « Lorsqu’en 1918, le monde d’hier était réduit en cendres et que l’on préparait avec beaucoup de perfidie les fondements du prochain grand conflit, on n’a pas voulu passer beaucoup de temps à chercher les causes de la guerre. On a déclaré que c’étaient les coups de pistolet de Sarajevo qui coûtèrent la vie au couple d’héritiers du trône d’Autriche. Chacun se souvenait de l’événement et l’on n’avait pas besoin de se poser de questions sur ses tenants et aboutissants qui étaient beaucoup plus déterminants que l’attentat de Sarajevo. Jusqu’ici, il n’y a pas eu d’échanges de tirs pendant les négociations sur l’avenir du Kosovo, mais des signa­tures sur certains documents pourraient avoir le même effet que les coups de pistolet. Les ­mèches sont là et elles vont d’Irlande du Nord au Tibet et à Taiwan en passant par le pays basque, Gibraltar et le Caucase. »

La situation actuelle dans les Balkans rappelle de manière inquiétante celle qui a conduit à la Première Guerre mondiale. L’Allemagne et les autres grandes puissances avaient, après des années de troubles, trouvé en 1878, à la Conférence de Berlin, un compromis sur le nouvel ordre de l’Europe du Sud-Est : La province ottomane de Bosnie devait rester turque de jure mais être administrée de facto par l’Autriche. En 1908, Vienne a rompu le traité et a annexé la province également de jure. Là-dessus, en 1914, l’archiduc François-Ferdinand a été tué à Sarajevo.

Quelque 100 ans après, les puissances de l’OTAN ont tenté un compromis semblable : après leur guerre d’agression contre la Yougoslavie en 1999, elles ont imposé au Conseil de sécurité de l’ONU la Résolution 1244 qui maintenait de jure le Kosovo dans la Serbie, mais le plaçait de facto sous l’administration des Nations Unies. Par la suite, les puissances occidentales se sont montrées favorables à la sécession totale de la province et à sa remise, contrôlée par l’UE, à la majorité albanaise : tel est le projet du négociateur de l’ONU Martti Ahtisaari. Du point de vue du droit international, ce serait possible si Belgrade était d’accord ou si, du moins, le Conseil de sécurité approuvait cette solution. En l’absence de ces conditions, le Kosovo ne peut déclarer son indépendance qu’unilatéralement, par un acte arbitraire illégal. Et c’est précisément ce qui va se passer ces pro­chaines semaines.

Comme il y a un siècle, les intérêts des États d’Europe centrale, de la Russie et du monde musulman se heurtent toujours dans les Balkans. Tout changement violent dans cet équilibre fragile peut avoir des conséquences pour tout le continent.


On a frôlé la guerre mondiale

Dans les jours qui ont suivi le 10 juin 1999, on a pu voir combien l’Europe du Sud-Est pouvait être à l’origine d’un important conflit international. Après 78 jours de bombardements de l’OTAN, l’armée yougoslave était déjà prête à se retirer du Kosovo ; l’accord militaire à ce sujet entre Belgrade et l’Alliance atlantique était signé et la Résolution 1244 adoptée. Cependant, tandis que les troupes du président Milosevic se retiraient, des unités russes stationnées en Bosnie, s’avancèrent vers Pristina de manière tout à fait inattendue. Sur leurs chars, les soldats avaient transformé l’inscription SFOR —qui indiquait leur appartenance à la troupe de stabilisation dans l’État voisin, sous mandat de l’ONU— en KFOR, sigle de la force d’occupation du Kosovo qui venait d’être décidée. Le président russe Boris Eltsine avait donné son accord pour qu’elle soit constituée sous le haut commandement de l’OTAN mais ses généraux voulaient que la Russie obtienne au moins une tête de pont stratégique.

Le ministre allemand des Affaires étrangères de l’époque Joschka Fischer rappelle dans ses mémoires combien la situation était dramatique : « Les quelques parachutistes russes ne pouvaient pas vraiment défier l’OTAN après son entrée au Kosovo car ils étaient trop peu nombreux et leur armement trop léger. L’occupation de l’aéroport ne pouvait signifier qu’une chose : ils attendaient les renforts aériens. Cela pouvait très vite conduire à une dangereuse confrontation directe avec les États-Unis et l’OTAN. [...] La situation devint encore plus dangereuse lorsque fut confirmée la nouvelle selon laquelle le gouvernement russe avait demandé aux gouvernements hongrois, roumain et bulgare une autorisation de survol pour leurs avions de transport de troupes Antonov. Ils avaient l’intention de transporter 10 000 soldats en partie par la voie aérienne vers le Kosovo et en partie vers la Bosnie pour les acheminer ensuite vers le Kosovo par la voie terrestre. L’Ukraine avait déjà accordé la permission mais les autres pays maintinrent inébranlablement leur veto. Mais qu’arriverait-il si les avions russes passaient outre à cette interdiction ? Les USA et l’OTAN les empêcheraient-ils d’atterrir ou de débarquer leur chargement une fois à terre ou iraient-ils jusqu’à les abattre en vol ? L’éventualité d’une tragédie aux conséquences imprévisibles s’esquissait ici. » Parallèlement à la guerre des nerfs à propos des avions russes, la crise s’envenima à l’aéroport de Pristina. Les troupes du contingent britannique de la KFOR étaient arrivées rapidement et avaient pointé leurs canons sur les occupants insoumis de l’aéroport. Le haut commandant de l’OTAN, Wesley Clark, ordonna de donner l’assaut mais Michael Jackson, haut commandant britannique de la KFOR, garda son sang-froid et refusa de s’exécuter. Il appela Wesley Clark au téléphone et hurla : « Je ne vais pas risquer de déclencher la Troisième Guerre mondiale pour vous ! »

On ignore comment l’Occident a amené le président russe à stopper les Antonov. En tout cas, le combat de l’aéroport de Pristina n’a été empêché que parce que Jackson est resté ferme. Clark a accepté cet acte de désobéissance. À vrai dire, il aurait dû faire arrêter Jackson par la police militaire. Un général allemand a, par la suite, critiqué cette attitude. « La reculade des Britanniques et des Américains était une mauvaise réponse dans une situation qui n’aurait jamais conduit à un conflit sérieux entre l’OTAN et la Russie », a écrit Klaus Naumann, à l’époque président du Comité militaire de l’OTAN et par conséquent l’officier le plus haut gradé de l’Alliance.


Des missiles sur Bondsteel

Une situation aussi dangereuse peut-elle se reproduire ces prochaines semaines ? En 2006 déjà, la Fondation Science et Politique (Stiftung Wissenschaft und Politik, SWP), un des plus importants think tanks allemands, s’inquiétait à propos d’une solution à la question du Kosovo qui serait imposée de l’extérieur : « Ces missions demanderont un engagement diplomatique durable et mettront à contribution les ressources politiques, militaires et financières de l’UE. » Par « ressources militaires », les auteurs entendent la KFOR, qui comprend actuellement 17 000 soldats dont environ 2500 Allemands.

Une intervention pourrait viser non seulement le Kosovo mais également la Serbie proprement dite. La Fondation prévoyait une situation « rappelant la crise de 1999 », c’est-à-dire les bombardements. Des troubles au Kosovo pourraient s’étendre aux provinces serbes de Vojvodine et de Sandzak ainsi qu’à la vallée de Presevo. On peut lire plus loin : « Des manifestations de masse impliquant des heurts entre les forces modérées et les forces radicales ou avec la police pourraient conduire à la dissolution des structures étatiques ». Si les structures étatiques de la Serbie éclatent, l’UE, conformément à sa conception politique, pourrait endosser le rôle de stabilisateur et apporter une « assistance fraternelle ». Les « battle groups » ne servent pas à autre chose.

Examinons les événements prévisibles du printemps 2008. Aussi bien l’OTAN que les Albanais du Kosovo ont exclu catégoriquement de nouvelles négociations, comme le demandaient Belgrade et Moscou. Le 24 janvier, Hashim Thaci, ancien chef de l’organisation terroriste UÇK et depuis peu Premier ministre de la province du Kosovo, a annoncé que la déclaration formelle d’indépendance aurait lieu « d’ici quatre à cinq semaines ». Le lendemain, on pouvait lire dans l’International Herald Tribune —qui s’appuyait sur des sources diplomatiques— que « l’Allemagne et les USA [étaient] tombés d’accord pour reconnaître l’indépendance du Kosovo » et cela « après le second tour des élections présidentielles serbes du 3 février ». C’est ce dont Angela Merkel et George W. Bush étaient convenus. On peut supposer que la Chancelière CDU aura demandé conseil à son camarade de parti Willy Wimmer qui fut pendant de longues années Secrétaire d’État au ministère de la Défense sous Helmut Kohl.

Après la proclamation officielle de la « Republika kosova », les communes serbes situées au nord de l’Ibar vont sans doute affirmer leur fidélité à l’égard de la Serbie, donc leur non appartenance au nouvel État. On peut imaginer qu’alors des troupes armées des Albanais du Kosovo pénètrent dans les enclaves de la minorité, en particulier dans son bastion Nordmitrovica et répriment brutalement la résistance. Lors d’un semblable début de nettoyage ethnique à la mi-mars 2004, les terroristes skipetaris ont réussi à mobiliser une foule de 50 000 personnes. La violence de cette attaque n’a pu être freinée que parce que les soldats de la KFOR se sont opposés, au moins partiellement, aux extrémistes. Ils en ont tué huit. Dans la situation actuelle, il faut plutôt s’attendre à ce que la KFOR se comporte dans son ensemble comme naguère le contingent allemand au sein de la KFOR : on ferme les yeux et on laisse faire les terro­ristes. En 2004, dans le secteur d’occupation allemand autour de Prizren, toutes les églises et tous les couvents serbes ont été incendiés. Certes, depuis lors, les Serbes du Kosovo ont constitué des formations d’autodéfense dont la plus tapageuse est la Garde Zar-Lazar qui doit son nom à un héros de la bataille historique d’Amselfeld en 1389. Ces paramilitaires ont annoncé qu’ils lanceraient des mis­siles sur la base militaireétats-uniennee de Camp Bondsteel en cas de déclaration d’indépendance du Kosovo. Il est difficile de savoir s’il s’agit là d’une fanfaronnade ou d’un projet sérieux. Selon des connaisseurs de la région, il est possible que derrière l’étiquette de Zar Lazar se cache une bande de provocateurs de services secrets occidentaux.

Dans l’intérêt des pays membres de l’OTAN, la sécession de la province doit en tout cas faire le moins de vagues possibles et s’effectuer sans conflits militaires. On s’accommode des protestations diplomatiques de la Russie et même de petits pays de l’UE comme la Slovaquie, la Roumanie et ­Chypre. La Fondation Bertelsmann, proche du gouvernement, a, dans une étude de décembre 2007, mentionné l’exemple de Taiwan : On sait que cette république insulaire n’a été reconnue que par un petit nombre d’États et qu’elle n’a pas de siège aux Nations Unies mais qu’elle jouit depuis 60 ans d’une certaine stabilité et même d’une certaine prospérité. Le souhait des États membres de l’OTAN serait probablement que les Albanais du Kosovo, après la proclamation d’indépendance, renoncent à la violence à l’encontre de la minorité serbe et ne touchent pas, dans un premier temps, à leurs structures d’autoadministration dans le Nord. Si l’OTAN bloquait simultanément tous les liens avec la Serbie, les Serbes de Mitrovica n’auraient, à la longue, plus d’autre choix que de s’accommoder des nouveaux potentats autour de Hashim Thaci.

Cette stratégie de victoire soft des sécessionnistes pourrait cependant être contrecarrée assez facilement. La Frankfurter Allgemeine (FAZ) exprimait ses craintes fin 2007 : « Les Serbes pourraient fermer le lac de barrage de Gazivodsko Jezero, situé dans la partie du Kosovo contrôlée par les Serbes et priver ainsi d’eau de nombreuses régions du Kosovo. Cela aurait des conséquences pour l’approvisionnement en électricité, déjà insuffisant, du Kosovo car l’eau de ce lac sert à refroidir les installations de la centrale à charbon, non loin de Pristina. » L’OTAN réagirait rapidement par la force contre cette opération relativement facile à mener : une troupe de paramilitaires suffirait à occuper le barrage. « On songe déjà, précise la FAZ, à faire intervenir la KFOR pour empêcher cela, mais alors le niveau de confrontation militaire que l’Occident voudrait justement éviter serait atteint ».


La Serbie peut riposter

Comment le gouvernement de Belgrade réagirait-il si les Albanais et des soldats de l’OTAN tiraient sur des Serbes ? Poursuivrait-il sa politique actuelle consistant à ne pas intervenir militairement ? C’est la tendance avant tout du parti gouvernemental le plus fort, celui des Démocrates (DS) autour du président Boris Tadic et du ministre de la Défense Dragan Sutanovac. Le petit parti de la coalition, le Parti démocrate de Serbie (DSS) du Premier ministre Vojislav Kostunica est un peu plus audacieux. Son conseiller Aleksandar Simic a déclaré expressément que ­chaque État avait le droit de recourir à la force des armes pour protéger son intégrité territoriale. Mais en cas de crise, c’est le Conseil de la Défense et le Président qui ont la haute main sur l’Armée, c’est-à-dire, en fait, Tadic. En conséquence, l’Occident n’aurait pas dû s’inquiéter... s’il n’y avait eu d’élection présidentielle. Le candidat du Parti radical (RS) ­Tomislav Nikolic avait de sérieuses chances d’être élu. En 2004 déjà, il avait mis Tadic en ballottage et avait été battu de peu. Indignée de l’imminente dissidence du Kosovo, une majorité de citoyens aurait pu l’élire cette fois. L’Armée serbe aurait alors été placée sous le haut commandement d’un homme politique qui plaide en faveur de l’établissement d’une base militaire russe dans le pays et dont le parti possédait sa propre milice au moment des guerres des années 1990.

Cette perspective a bouleversé le calendrier des sécessionnistes. Le Conseil européen voulait en fait décider le 28 janvier de l’envoi au Kosovo d’une troupe de quelque 2000 policiers —contre la volonté de Belgrade et donc contre le droit international, mais nécessaire pour sécuriser la sécession—. Mais comme le 28 janvier précèdait de peu le deuxième tour de l’élection présidentielle décisive du 3 février, cela aurait constitué une provocation favorable à Nikolic. La question a donc été différée. Bruxelles a, le même jour, offert un accord d’association à l’ancien État voyou et a renoncé avec bienveillance à la condition posée jusqu’ici, c’est-à-dire l’extradition des « criminels de guerre » Radovan Karadzic et Ratko Mladic. L’UE espèrait ainsi apporter à Tadic les voix dont il avait besoin. Il a finalement été élu de justesse.

Belgrade a actuellement le soutien de Madrid. Selon le quotidien serbe Express du 11 janvier, le Premier ministre José Zapatero aurait obtenu l’assurance d’autres gouvernements de l’UE que le Kosovo ne proclamerait pas son indépendance avant le 10 mars —donc quatre semaines après la date annoncée par Thaci— car le nouveau Parlement espagnol doit être élu à cette date. Le gouvernement socialiste veut ainsi empêcher les mouvements séparatistes espagnols d’utiliser le précédent balkanique comme argument dans la campagne, les Basques ayant déjà commencé à le faire. En réaction, la majorité des Espagnols pourrait alors être tentée de sanctionner les socialistes que l’opposition conservatrice accuse d’être trop indulgente à l’égard des régions désireuses de faire sécession. Ces retards de calendrier mettent toutefois à rude épreuve la patience des Albanais du Kosovo. On peut craindre qu’ils essaient de donner un coup de pouce à la décision diplomatique en se livrant à quelques actions violentes spectaculaires. On se demande comment les puissances membres de l’OTAN ... et les Russes réagiraient dans ce cas. Ces derniers élisent également ce printemps un nouveau président et tout candidat qui abandonnerait le frère slave devrait s’attendre à perdre des voix.


Journaliste allemand. Dernier ouvrage publié Comment le Djihad est arrivé en Europe, préface de Jean-Pierre Chevènement. Xenia, 2005.


riceviamo e segnaliamo per conoscenza:


Italiani brava gente?

venerdì 8 febbraio 
Bagno a Ripoli (FI)
presso la Casa del Popolo di Osteria Nuova 
- ore 21.15, proiezione del documentario "Fascist legacy, L'eredità del Fascismo", i crimini del Fascismo e del Regio Esercito Italiano in Africa, Jugoslavia, Grecia, Albania, Russia: 1.200 criminali di guerra impuniti. Con interventi di Milica Kacin Wohinz [Istituto per la storia contemporanea di Lubiana, copresidente della Commissione storico-culturale Italo-Slovena], Anna Maria Vinci [Università degli Studi di Trieste]


Foibe, mito e realtà

martedì 12 febbraio 
Bagno a Ripoli (FI)
presso la Casa del Popolo di Antella 
- ore 21.15, "Foibe, mito e realtà", interventi di Luigi Raimondi Cominesi [antifascista fiumano, combattente volontario del Corpo Italiano di Liberazione, presidente onorario dell'ANPI Provinciale di Udine], Ivano Tognarini [Istituto Storico della Resistenza in Toscana]






Resoconto riunione gruppo collegamento del Patto permanente contro la guerra

Anticipati i tempi della mobilitazione per il ritiro delle truppe italiane dai fronti di guerra

 

Martedi 5 febbraio si è riunito il gruppo di collegamento del Patto permanente contro la guerra per valutare il calendario delle iniziative messe in cantiere alla luce del nuovo scenario nel nostro paese.
Lo scioglimento delle Camere e la convocazione delle elezioni, ha infatti modificato il calendario del dibattito parlamentare sul decreto di rifinanziamento delle missioni di guerra all’estero.
La discussione sul decreto verrà infatti anticipata rispetto ai tempi originariamente previsti. Una prima discussione in Commissione Difesa è già cominciata oggi stesso (martedì).

 

E’ evidente il tentativo di chiudere subito una decisione “spinosa” che sarebbe stata condizionata politicamente anche dalla mobilitazione del movimento No War già messa in cantiere per sabato 1 marzo. D’altro canto la leadership del Partito Democratico ha già lasciato intendere che non ammetterà defezioni sul voto favorevole al decreto da parte di tutta o parte o singoli parlamentari della sinistra arcobaleno.

 

A questo punto è stato deciso di anticipare e ricalendarizzare la mobilitazione che chiede il ritiro immediato di tutte le truppe italiane impegnate sui fronti di guerra, senza distinzioni. Sul carattere colonialista delle missioni militari italiane all’estero già il resoconto dell’assemblea nazionale del 27 gennaio ha chiarito che non sono accettabili né credibili distinguo sulle missioni.
Il Patto permanente contro la guerra chiede di votare contro il decreto di rifinanziamento in blocco e su questo lancerà un apposito appello nelle prossime ore.

 

La situazione sui fronti di guerra del resto volge al peggio. Le denunce di Peacereporter confermano non solo che le truppe italiane sono impegnate in combattimenti in Afghanistan ma che i soldati italiani si rendono responsabili di vittime anche tra i civili. Nei Balcani la partenza ormai prossima di un nuovo contingente militare italiano nel quadro della Missione Europea (che3 si aggiunge a quelli già presenti da nove anni sul terreno), andrà a tutelare militarmente la secessione del Kosovo così come richiesta dalla ridefinizione della mappa geopolitica della regione auspicata dagli USA e dalle potenze dell’Unione Europee. In Libano la situazione peggiora settimana dopo settimana e i militari della missione Eubam al valico di Rafah vengono pagati mentre “riposano e attendono” sulle spiagge di Askelon (Israele) invece che assicurare l’agibilità del valico alla popolazione palestinese.

 

Il Patto permanente contro la guerra chiama dunque tutte le reti, le associazioni e le organizzazioni protagoniste della mobilitazione di questi mesi (inclusa quella pienamente riuscita dello scorso 26 gennaio) all’iniziativa tempestiva contro il decreto che rifinanzia le missioni militari all’estero.

 

Appena sarà definito con esattezza il calendario del dibattito parlamentare chiamiamo tutti a manifestare sotto, dentro e fuori la Camera e il Senato per stoppare uno dei meccanismi della complicità italiana alla guerra permanente. La mobilitazione sarà probabilmente in mezzo alla settimana e in giorni lavorativi. Alla Camera l'impegno sarà soprattutto delle strutture di Roma, ma per il Senato chiediamo anche alle altre città di prevedere e organizzare per tempo delegazioni più o meno ampie alla manifestazione , soprattutto dalle realtà in cui sono attivi i comitati contro le basi militari (Vicenza, Camp Darby, Sigonella, Ghedi, Novara)
La data del 1 marzo – già in calendario – viene riconfermata come momento di mobilitazione ma riconvertita in un meeting/forum di analisi, confronto, approfondimento sugli “scenari della guerra globale e il ruolo dell’Italia” che fornisca a tutti gli attivisti strumenti di conoscenza, documentazione, dibattito sulle caratteristiche della guerra, della fase storica che stiamo attraversando e sul ruolo che in questa riveste il nostro paese.

 

Infine rammentiamo a tutti la manifestazione del 29 marzo (in occasione della Giornata della Terra) in solidarietà con il popolo palestinese che si terrà a Torino dove è in corso una mobilitazione che durerà fino a maggio (e che prevede nuovi appuntamenti nazionali come il 10 maggio)  in occasione della Fiera del Libro che avrà come ospite d’onore Israele.

 

Infine il Patto permanente contro la guerra afferma con forza la propria solidarietà con gli attivisti No Dal Molin raggiunti dagli avvisi di garanzia per la protesta effettuata alla Prefettura di Vicenza e con gli attivisti No War di Firenze condannati a pene pesantissime per la manifestazione del maggio '99 contro la guerra in Jugoslavia.

 

5 febbraio 2008



On Feb 4, 2008, at 11:24 PM, Coord. Naz. per la Jugoslavia wrote:


4 febbraio 2008 ore 15:53 

Chiti: "Per alleanze Pd decisivo atteggiamento su missioni estere"

Gli alleati del Pd? La prova del nove verrà dal voto sulle missioni militari. Chi non approva il rifinanziamento potrà dirsi escluso da future alleanze. Vannino Chiti, parlando a Sky Tg 24, mette in chiaro il modo in cui i democratici tesseranno i rapporti di alleanza in vista del prossimo turno elettorale. "Il Partito democratico - dice Chiti - ha l'ambizione maggioritaria ma non all'isolamento. Noi definiremo alcune priorità programmatiche come proposta del nostro partito e poi ci confronteremo: con quelli con cui ci troveremo effettivamente d'accordo costruiremo le ragioni di una nuova alleanza", spiega.

Fonte: http://www.repubblica.it/2008/02/dirette/sezioni/politica/crisi-governo-prodi/marini-scelta/index.html


PER UNA RISPOSTA DI MASSA ALLE POLITICHE MILITARISTE DELLA CLASSE DIRIGENTE ITALIANA:



Ritiro immediato dei contingenti militari italiani da tutti i fronti di guerra. 
L'Italia cessi di essere complice della guerra permanente

Appello per una manifestazione nazionale il 1°marzo a Roma

Lanciamo un appello affinché sabato 1 marzo una nuova e grande manifestazione popolare porti in piazza la richiesta del ritiro immediato delle truppe italiane da tutte le aree di guerra e affinché le crescenti spese destinate al settore militare vengano utilizzate per le assai più urgenti esigenze sociali.

Il Consiglio dei Ministri del decaduto governo Prodi, ha reiterato – tra i suoi ultimi atti istituzionali – il decreto che rifinanzia e mantiene le missioni militari italiane in Afghanistan, Balcani, Libano, Africa. Questo decreto dovrà essere approvato in Parlamento. La sua bocciatura metterebbe in seria crisi la partecipazione e la complicità del nostro paese con la guerra permanente in corso dal 2001 in diverse regioni del mondo e che rischia una nuova escalation in aree come i Balcani e l'Iran.

Chiamiamo a scendere in piazze tutte le reti, le associazioni, i soggetti che hanno animato in questi anni il movimento contro la guerra . 
In questi anni abbiamo portato in piazza con coerenza il nostro No alla guerra, senza fare sconti a nessuno, né al governo Berlusconi né al governo Prodi, anche quando quest'ultimo ha potuto godere del sostegno dei gruppi parlamentari dei partiti della sinistra e delle associazioni aderenti alla Tavola della Pace.

La realtà dei fatti ha rivelato che le missioni militari approvate dai governi negli anni scorsi, vedono le truppe italiane impegnate nei combattimenti in Afghanistan ("Operazione Sarissa"), nell'occupazione del territorio libanese a puntello di un governo ostile a metà di quel paese, nella copertura militare alla secessione pilotata del Kosovo che prelude ad una nuova guerra "umanitaria" gestita militarmente anche dall'Unione Europea, nell'opera di gendarmeria contro gli immigrati in Africa (vedi l'accordo Italia-Libia).
Queste missioni operano nel quadro della NATO, dell'ONU o sulla base di accordi multilaterali, ma rivelano sistematicamente il loro carattere bellicista e neocoloniale. Il fatto che le truppe sui fronti di guerra vengano affiancate talvolta da organizzazioni civili finanziate dai governi occupanti e appoggiate ai governi-fantoccio locali, non ne modifica affatto la natura e gli obiettivi strategici. ma contribuisce alla manipolazione mediatica sulle guerre umanitarie coperte da "missioni di pace."

In questi due anni abbiamo visto le spese militari crescere del 24% e l'ampliamento della presenza di basi militari USA e NATO nel nostro paese. E' il caso di Vicenza, dove ben tre manifestazioni nazionali e l'opposizione popolare hanno fatto capire molto chiaramente che la nuova base al Dal Molin non si deve costruire, ma parliamo anche di Camp Darby, Sigonella, Taranto. Abbiamo visto progettare nuovi luoghi di guerra come l'impianto per l'assemblaggio degli F 35 a Novara e l'adesione – quasi segreta – dell'Italia allo Scudo missilistico statunitense o alla cooperazione militare con Israele. Abbiamo verificato che il governo ha mantenuto l'embargo contro la già stremata popolazione palestinese di Gaza o che circa 90 bombe nucleari USA sono ancora stoccate nelle basi di Ghedi ed Aviano.

Noi vogliamo mettere in crisi questa politica militarista che espone il paese a tutte le devastanti conseguenze della guerra e vogliamo renderne difficile l'attuazione in ogni luogo.

L'opposizione alla guerra resta una questione decisiva e dirimente nei movimenti sociali a livello internazionale. Lo ha dimostrato la giornata mondiale del 26 gennaio scorso che ha visto centinaia di manifestazioni No War in tutto il mondo e manifestazioni in dodici città italiane.

Ci sentiamo parte di un vasto movimento internazionale che ripudia la guerra nei paesi che conducono aggressioni e interventi militari contro altri paesi e siamo solidali con le popolazioni che resistono alle occupazioni militari e coloniali.
Ci sentiamo solidali con gli attivisti no war condannati assurdamente e pesantemente dal tribunale di Firenze per una manifestazione del maggio '99 contro la guerra alla Jugoslavia. A nessuno può sfuggire la minaccia alle libertà democratiche e le derive razziste che vengono prodotte da un apparato statale impegnato nella guerra.
 
Noi chiediamo l'immediato ritiro dei contingenti militari italiani dai paesi in cui sono stati inviati, la destinazione a uso sociale dei fondi previsti per le spese militari e la riconversione a uso civile dei luoghi di guerra (basi, caserme, impianti) disseminati nel nostro paese, a cominciare dalle numerose caserme in dismissione che altrimenti diventerebbero preda della speculazione immobiliare.

Vogliamo agire per una radicale inversione di tendenza rispetto alle politiche militariste di tutti i governi degli ultimi anni di centrodestra e centrosinistra e da qualsiasi eventuale futuro governo che voglia proseguire su questa strada.

Chiamiamo alla mobilitazione per sabato 1 marzo con una manifestazione nazionale a Roma che incida sia sulle decisioni del Parlamento che nella società, impedendo la conferma del decreto che rinnova e finanzia le missioni militari italiane all'estero.

Il Patto permanente contro la guerra

(Action, Confederazione Cobas, Disarmiamoli, Global Meeting Network, Mondo senza guerra, Partito Comunista dei Lavoratori, Rappresentanze Sindacali di Base, Red Link, Rete dei comunisti, Semprecontrolaguerra, Sinistra Critica)