Informazione


L'Appello che segue, sottoscritto da trentasei Senatori dell'Unione, da noi già diffuso nella versione originale in lingua italiana ( http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5821 #2), è stato tradotto a cura del CNJ e già inviato a Politika, Novosti, Tanjug e Beta.

 

ITALIJA NE TREBA DA LEGALIZUJE JEDNOSTRANE PODUHVATE NA KOSOVU

                                                              

APEL

 

Sasvim je ocigledno da bi otcepljenje Kosova od Srbije moglo da izazove novi konflikt na Balkanu koji bi se ubrzo prosirio na vec nestabilnu Bosnu i Makedoniju. Ovu opasnost je nagovestio izvestaj tajne NATO sluzbe 13. decembra pa je stoga apsolutno treba izbeci. Bilo bi sasvim kontradiktorno dopustiti Kosovu ono sto se ne dopusta Republici Srpskoj  u Bosni, pothranjujuci na taj nacin opravdanu sumnju da diplomatije najmocnijih drzava primenjuju politiku dvostrukog standarda. Nadamo se da je italijanska vlada izvukla pouku iz prethodnih dogadjaja i da nece podrzati jednostrana opredeljenja koja bi pospesila nove konflikte.

 

I takodje je ocigledno da bi ucesce Italijana u novoj vojnoj evropskoj misiji na Kosovu, bez odluke Ujedinjenih nacija, predstavljalo ozakonjenje secesionistickih snaga na Kosovu i poprimilo neprijateljski aspekt u odnosu na Srbiju. Tako nesto uopste nije potrebno italijanskoj spoljnoj politici a ni evropskoj.

 

Neuspeh pregovora u sedistu Ujedinjenih nacija potvrdjuje da bi jednostrano otcepljenje Kosova, koje otvoreno podrzavaju SAD i pojedine drzave Evropske unije, ponovo bacilo teret konflikta na pleca Evrope, cineci tako dramaticnom  odgovornost Italije u novom negativnom balkanskom scenariju

 

Italija ima veliku odgovornost u odnosu na stabilnost Balkana a posebno kada je rec o Kosovu. Deo te odgovornosti je i posledica odluke donete pre osam godina o ucestvovanju u NATO bombardovanju evropske drzave - Srbije - i o saglasnosti za stvaranje internacionalnog vojnog protektorata na Kosovu. No ova danasnja odgovornost mogla bi biti jos veca od one koja je 1999 izazvala rat.

 

Savetujemo stoga italijansku vladu da se uzdrzi od bilo koje podrske, ozakonjenja i priznavanja jednostranih inicijativa o otcepljenju u tom regionu. A shodno tome i da ne salje nove kontingente na Kosovo. Nikakav mir nije moguc ukoliko se ne postuju prava i istorija svih naroda koji zive na Balkanu.

 

Senatorke i senatori Republike Italije koji potpisuju ovaj apel borice se kod svih nadleznih instanci - Komisijie za inostrane poslove, za odbranu u senatu, u parlamentu kao i na javnim i drustvenim skupovima - kako bi se izbegla nova tragedija na Balkanu.

Slede potpisi

Sen. Francesco Martone 
capogruppo Prc-Se Comm.ne Affari Esteri Senato
Sen. Giorgio Mele 
capogruppo SD Comm.ne Affari Esteri Senato
Sen. Armando Cossutta 
capogruppo PdCI-Verdi Comm.ne Affari Esteri Senato
Sen. Fosco Giannini 
capogruppo Prc-Se Comm.ne Difesa Senato
Senatrice Silvana Pisa 
capogrupp SD Comm.ne Difesa Senato
Senatrice Manuela Palermi 
capogruppo PdCI-Verdi Commissione Difesa Senato 
Sen. Josè Luiz Del Roio 
Prc – Se
Senatrice Lidia Menapace 
Prc-Se
Sen.Giovanni Russo Spena 
Prc- Se 
Sen.Cesare Salvi 
SD
Senatrice Franca Rame 
Gruppo Misto
Sen.Franco Turigliatto 
Gruppo Misto-Sinistra Critica
Sen.Piero Di Siena 
SD
Sen.Claudio Grassi 
Prc-Se
Sen.Paolo Brutti 
SD
Senatrice A.Maria Palermo 
Prc-Se
Senatrice Olimpia Vano 
Prc-Se
Senatrice M.Celeste Nardini 
Prc-Se
Senatrice Haidi Gaggio Giuliani 
Prc-Se
Senatrice Tiziana Valpiana 
Prc-Se
Sen. Nuccio Jovene 
SD
Sen. Giovanni Gonfalonieri 
Prc-Se
Senatrice Anna Donati 
PdCI-Verdi
Sen. Salvatore Allocco 
Prc-Se
Sen.Fernando Rossi 
Gruppo Misto
Sen.Giuseppe Di Lello 
Prc-Se
Senatrice Silvana Amati 
Partito Democratico -L’Ulivo
Sen.Raffaele Tecce 
Prc- Se
Sen.Stefano Zuccherini 
Prc-Se
Sen.Gianpaolo Silvestri 
PdCI-Verdi
Senatrice Maria Pellegatta 
PdCI – Verdi
Sen. Dino Tibaldi 
PdCI-Verdi
Sen.Mauro Bulgarelli 
PdCI-Verdi
Sen.Natale Ripamonti 
PdCI-Verdi
Sen.Tommaso Sodano 
Prc-Se
Senatrice Loredana De Petris 
PdCI-Verdi




IL MANIFESTO - http://www.ilmanifesto.it/

16 GENNAIO 2008
pagina 3


«In Kosovo c'è solo odio»

Intervista a Peter Handke 
«Senza il coinvolgimento nelle ferite dei Balcani non sarei un vero scrittore»
«Niente diritti umani, né garanzie democratiche. Ai serbi rimasti non è permesso neanche il culto dei morti, vivono nel terrore. E l'Ue, guidata dallo sloveno Janez Janza, primo criminale del dramma jugoslavo, riconoscerà l'indipendenza, altrimenti gli albanesi minacciano una nuova guerra»

TOMMASO DI FRANCESCO
Parigi

Guardingo ma sincero, Peter Handke ci riceve nella sua casa all'estrema periferia di Parigi. Diafano, alto e ossuto, con la camicia bianca che indossa e con cui ci viene incontro nonostante il freddo, sembra uno degli angeli del «Cielo sopra Berlino», il film di Wim Wenders di cui ha scritto la sceneggiatura. Da molti anni vive lì, è spuntato da quelle parti come uno dei funghi che cerca nel bosco vicino casa nelle sue lunghe passeggiate. È il più politicamente scorretto degli scrittori, praticamente perseguitato dalle istituzioni culturali del mondo, come quando due anni fa in Germania venne annullato il conferimento del premio «Heinrich Heine» o subito dopo in Francia la Comédie française ha fatto togliere dal cartellone una sua commedia. Inoltre solo due mesi fa Handke ha vinto una causa per diffamazione contro il Nouvel Observateur che aveva scritto, mentendo, che lui aveva deposto una rosa rossa sulla tomba di Milosevic. Qual è la sua colpa? Peter Handke è accusato di essere filoserbo, adesso, durante i sanguinosi bombardamenti «umanitari» della Nato sull'ex Jugoslavia e nel periodo della guerra interetnica. Lo incontriamo mentre si prepara a partire per un nuovo «viaggio in inverno» in Serbia dove parteciperà al Festival delle Scuole di cinematografia che si svolge nella città del cinema voluta da Emir Kusturica a Mokra Gora, mentre infuria lo scontro sullo status del Kosovo e tutti aspettano le elezioni presidenziali a Belgrado del 20 gennaio prossimo.

Il neopremier kosovaro albanese Hashim Thaqi ha annunciato che tra qualche settimana proclamerà l'indipendenza del Kosovo dalla Serbia. Ma esistono in Kosovo, dopo otto anni di occupazione Nato e amministrazione Unmik-Onu, le condizioni previste per una indipendenza, vale a dire garanzie democratiche, rispetto delle minoranze e dei diritti umani?

Io non conosco queste condizioni. Ero in Kosovo ad aprile e ci sono stato altre quattro volte recentemente. Sono rimasto veramente impressionato da quel che ho visto nell'enclave di Veliha Hoca, un villaggio con una grande chiesa ortodossa, e poi a Orahovac. Sono due enclave vicine e là si capisce come vivono i serbi, come sono occupati, espropriati di ogni possedimento, costretti a uscire solo alle quattro di mattina, sempre terrorizzati. La Suddeutsche Zeitung, parlando di un'enclave serba, ha scritto incredibilmente: «I serbi pretendono di avere paura». Ecco l'ideologia, il giudizio precostituito. No, i serbi non «pretendono di avere paura», semplicemente vivono nel terrore e hanno subìto tante uccisioni in questo periodo. Lì non ci sono più cimiteri serbi fuori dei villaggi come ovunque in Serbia. A Orahovac i cimiteri sono stati spostati al centro dei villaggi, dentro l'enclave e gli autobus che ogni tanto arrivano da Mitrovica devono stare attenti a non distruggere le nuove tombe. Perfino l'ordinario culto dei morti è impossibile, chi lo esercita può venire ucciso e le stesse lapidi vengono spesso distrutte. Ho visto solo odio in Kosovo. È la Nato ad aver creato questa situazione tragica e insopportabile, la Nato che ha bombardato tutta l'ex Jugoslavia. E ora la Nato e l'Unione europea insistono che bisogna concedere l'indipendenza perché, altrimenti, sennò gli albanesi kosovari uccidono ancora e minacciano una nuova guerra. Ma come si fa a meritare l'indipendenza non per un diritto ma perché si minaccia violenza e un'altra guerra? Quale argomento democratico è questo che viene portato da Europa e Stati uniti? Tantopiù che non hanno mai smesso in questi otto anni di uccidere e terrorizzare. Basta vedere solo un simbolo serbo, un autobus o un pullman che si avvicina ai monasteri più belli d'Europa come Decani o Gracanica, che anche i bambini, in modo automatico, lanciano pietre. I serbi sono ridotti a un gregge di pecore smarrite e impaurite. Hanno parlato della violenza dei serbi contro gli albanesi, ma hanno taciuto in tutti questi anni centinaia e centinaia di uccisioni e la distruzione dei monasteri. Hanno raccontato che i serbi volevano cacciare due milioni di albanesi, per quello è stata giustificata la guerra di bombardamenti aerei. Hanno fatto un gran teatro intorno alla frontiera buono per le troupe televisive del mondo, per la propaganda della Nato. Quei rifugiati, per gran parte in fuga per la paura dei bombardamenti aerei, si sono sistemati appena al di là della frontiera macedone e sono tutti rientrati dopo due mesi. Così hanno inventato una nuova maledetta guerra di foto e servizi tv. Sono stato nel 1996 a Decani a fare una lettura e davanti al monastero allora non c'erano le truppe italiane che ora lo proteggono, lì vicino c'era una sola trattoria serba e non volevano andarsene. Dentro c'erano tracce di un attacco dell'Uck dove era stata uccisa una donna albanese: cinque minuti prima sulla strada le case albanesi avevano spento all'improvviso le luci. Anche i serbi hanno commesso crimini, ed è stata una vergogna per quel popolo e chi lo dirigeva. Ma nessuno descriveva una guerra interetnica, nessuno parlava di questi attacchi armati contro i serbi e gli stessi albanesi moderati da parte dei «guerriglieri della libertà». A pochi giorni dalla guerra della Nato Le Monde e anche molti giornali di sinistra, titolavano «Terrore in piena Europa, 50mila vittime». C'erano tante vittime, ma dell'una e dell'altra parte e molte di albanesi moderati uccisi dall'Uck. Alla fine il Tribunale dell'Aja ha trovato la sepoltura di duemila corpi, perlopiù caduti in combattimento. Ma non le cinquantamila o le «cinquecentomila» vittime con cui titolò nel 1999 il New York Times.

La stessa Corte suprema di Pristina il 6 settembre 2001 ha riconosciuto in una sentenza importante che ci furono violenze dei miliziani serbi ma non un «genocidio», dichiarando nel dispositivo processuale di avere le prove che la fuga di ottocentomila albanesi era motivata dalla paura dei bombardamenti della Nato, che infatti fecero massacri - gli «effetti collaterali» - tra la stessa popolazione albanese. Poi c'è il leader Uck Ramush Haradinaj: la stessa Carla Del Ponte ha detto che è un «macellaio in divisa» e lo ha incriminato per stragi contro serbi e rom del 1998 (prima della messa in scena di Racak). E adesso l'Unione europea è pronta a riconoscere l'indipendenza etnica del Kosovo sotto la guida di Janez Jansa, ora premier della Slovenia presidente di turno Ue, che vanta una «conoscenza del problema»...

Fa bene Janez Jansa a vantare collegamenti con l'Uck, lui è tra i più grandi criminali che i Balcani abbiano mai conosciuto. Lui che si gloria della «guerra patriottica», che non ha esitato ad uccidere a freddo 20 soldati di leva jugoslavi - molti sloveni - che aspettavano su un camion militare, assassinati come cani. Con la motivazione di costruire una nuova Mitteleuropa. Che è una straordinaria regione culturale, poetica e musicale, ma usare la motivazione della musica come base di un'aggressione armata mi pare sia perlomeno un'offesa all'esistenza di Schubert. Janez Jansa è stato l'avanguardia della tragedia jugoslava, che io ho tentato di denunciare subito nel 1991.

Non le sembra che l'Unione europea, responsabile insieme ai vari nazionalismi armati della distruzione della Federazione jugoslava già nel 1991 con i riconoscimenti di indipendenze proclamate su base etnica - «slovenicità» e «croaticità» - ora torni sul luogo del delitto riconoscendo un'altra indipendenza etnica, quella del Kosovo?

Non si salva nessuno. Forse l'Austria, ma è sempre un sapere revanscista. Come per la Germania. E' la consapevolezza della diplomazia, che Fernand Braudel chiamava «lunga durata», perché resta la coscienza della prima e della seconda guerra mondiale. Il resto, francesi e inglesi, sono stati completamente ignoranti dei Balcani. Come tutti gli esperti guerrafondai arrivati in tv a dire «sentite me, io sono l'esperto». Sono la peste dei Balcani.

Eppure tutti questi «esperti» e questi media hanno finora taciuto l'odissea di un milione di profughi serbi, cacciati dalle Krajine croate, dalla Bosnia Erzegovina e dal Kosovo. Profughi che non torneranno più nelle terre d'origine e che costituiscono un dramma per la nuova Serbia. Perché questo silenzio? E tantomeno si parla dei rom kosovari dispersi ormai nelle baraccopoli dei Balcani e in quelle d'Europa...

Nei miei «viaggi in inverno», sono stato molte volte negli hotel che ospitano i profughi, a Nikotin, Friska Gora, Bor, Nis. Ho scritto un grande reportage chiedendo fra l'altro ai giornalisti di raccontare i profughi serbi. Quando entri in uno di quegli hotel vedi gente seduta in terra sulle sue gambe, tutto il giorno inebetita, finché non decide di bere alcool. Con le donne anziane che cercano di salvare la loro dignità e quella dei bambini intorno. Aspettano di morire o di fuggire, vivono come gli emigrati del secolo scorso in America. E nonostante questo ci sono dei giovani che dipingono, per mangiare e per descrivere esistenzialmente quello che sono diventati. Se fossi un giornalista vivrei mesi con quella gente, come faceva Ryszard Kapuscinski. Non lo fa nessuno. In Germania ci sono borse di studio in alcune città per i giovani scrittori perché come ospiti descrivano quelle realtà per un anno. Ho proposto: mandiamoli un mese tra i profughi serbi. Nessuno scrittore si è fatto avanti, preferiscono avere duemila euro di premio per parlare di cucina. Comincio a detestare i giovani scrittori.

Lei è stato accusato d'avere portato una rosa rossa sulla tomba di Milosevic e di avere approvato il massacro di Srebrenica?

È una menzogna assoluta. Il Tribunale di Parigi ha condannato il Nouvel Observateur per diffamazione per queste affermazioni: m'avevano attribuito che io avevo dichiarato d'essere felice solo vicino a Milosevic. Chi mi conosce sa che odio tutti gli uomini di potere. Ma naturalmente tutti i giornali francesi hanno oscurato la condanna. Hanno fatto la campagna contro di me arrivando al risultato della Comédie française che ha annullato un mio lavoro in programma, e poi hanno taciuto che non era vero quello che avevano detto. Amo profondamente la Francia di George Bernanos, di François Mauriac, e soprattutto di Albert Camus ma la cultura di questa Francia è veramente vergognosa. Ci sono ormai le caricature della letteratura e della filosofia come André Gluksmann, Bernard-Henri Lévy, e le macchiette del diritto internazionale e dell'umanitario come Bernard Kouchner, diventato nel frattempo ministro degli esteri. Quanto a Srebrenica hanno fatto la caricatura delle mie parole. Io ho condannato i crimini commessi dai serbi, ho ricordato però che tutto è incomprensibile se non si ricordano le stragi, anche di donne, vecchi e bambini - non come a Srebrenica - perpetrate prima dalle milizie bosniaco musulmane guidate dal comandante di Srebrenica Naser Oric nei villaggi intorno a Srebrenica, a Kravica, a Bratunac. Fatte con l'autorizzazione del presidente Izetbegovic. Era una feroce guerra interetnica e interreligiosa da denunciare tutta quanta.

Non pensa di avere sbagliato ad andare nel 2006 al funerale di Milosevic morto nel carcere dell'Aja?

Non ero invitato e potevo starmene a casa. No, mi sono detto, devo andarci anche se sarà dannoso per me. E infatti hanno subito fatto tsunami contro di me falsando ogni mia parola. Sono riconoscente ai miei libri, ma sono fiero di questa scelta. E' una testimonianza che aiuta anche la nuova Serbia, quella che ora si batte perché il Kosovo non venga sottratto alla sua sovranità, storia e cultura. Così come sono fiero di essere andato prima all'Aja, non per riverire Milosevic, non mi interessava nulla di lui come uomo di potere. So che anche i serbi hanno commesso crimini, che non difendo. Insisto a denunciare la natura di una guerra complessivamente fratricida. Sono andato all'Aja perché era ancora in carcere accusato di tutto e come unico colpevole della guerra dei Balcani che ha visto, dal 1991 al 1995 e poi dal 1996 al 2002, ben sette fronti di guerra, e alcuni con Milosevic non ancora al potere o non più al potere, quando non addirittura coinvolto a sancire la pace, com'è accaduto a Dayton per la Bosnia Erzegovina, con tanto di ringraziamenti Usa. Sono andato all'Aja soprattutto perché penso che il politico in carcere sia molto più interessante di quando comanda. Del resto ero in buona compagnia con l'ex ministro della giustizia statunitense, Ramsey Clark.

Che accadrà, subito nei Balcani, con la proclamazione d'indipendenza del Kosovo?

Non so quanto reggerà l'artificio della Bosnia Erzegovina, né che cosa accadrà nella zona serba di Kosovska Mitrovica, così ben tenuta e produttiva rispetto al disastro economico del resto del Kosovo dove regnano disoccupazione, mafia e dominio degli «aiuti internazionali». E che accadrà in Macedonia con l'esistenza di ben due stati albanesi nell'area? Penso alle gravi responsabilità dell'albanese Ismail Kadaré, non un grande, un buon scrittore. Ma soprattutto un ipernazionalista che ha soffiato sul fuoco della guerra etnica. L'ho incontrato e gli ho detto del mio amore per lo scrittore jugoslavo Ivo Andric e del suo coraggio di uomo libero. Mi ha risposto con una menzogna: non dovevo amare Andric perché era «contro gli albanesi».

Perché uno scrittore come lei, che continua il lavoro sul dolore di vivere che è stato di Franz Kafka, mostra di essere così implicato nelle ferite dei Balcani?

La mia vita di scrittore vivrebbe davvero piccole emozioni senza questa passione. Scrivere è una professione molto nobile, ma se non mi fossi così coinvolto, mischiato nel conflitto jugoslavo non avrei meritato d'essere ancora uno scrittore. Sono fiero di avere scritto sui profughi serbi. Penso che la letteratura, come dico di Erri De Luca, deve essere misericordiosa. Sennò non avrei alcun diritto ad essere scrittore.

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«Merita il Nobel»

Narratore «scorretto», tra avanguardia e ritorni

È nato a Griffen, in Austria, nel 1942 da madre slovena. Scrittore, drammaturgo e poeta, è impegnato negli anni Sessanta con l'avanguardia. Scrive «L'ambulante», «Insulti al pubblico», «Kaspar». Poi con «L'angoscia del portiere prima del calcio di rigore», ('70), torna a una narrativa meno sperimentale. Collabora con Wim Wenders, che trae un film dal suo «Tre Lp americani», sceneggiando «Il cielo sopra Berlino». Tra i suoi romanzi: «Infelicità senza desideri» ('72) «Breve lettera di un lungo addio» ('72), L'ora del vero sentire ('75), «La donna mancina» ('76). Nel '95 esce il saggio «Un viaggio in inverno» contro i pregiudizi antiserbi, e nel '99 un saggio per la guerra in Kosovo. Nel 2004 quando a Elfriede Jelinek venne dato il Nobel, la scrittrice austriaca dichiarò: «Non io ma Peter Handke l'avrebbe meritato».




Osama bin Laden è stato ammazzato. - 14-1-08

di Giulietto Chiesa


*Dovrei mettere il punto interrogativo, per prudenza. Io non l'ho visto, non ho le prove. Ma chi lo dice è stata ammazzata e non era l'ultima arrivata sulla scena pachistana. E la sua morte, molto recente, mi pare come una conferma indiretta della validità della sua rivelazione. Per questo non metto il punto interrogativo. Lo mettano i maestri del giornalismo - italiano e mondiale - che hanno taciuto, insieme alle mille verità dell'11 settembre, anche questa notizia. Per oltre due mesi. Esattamente per due mesi e 11 giorni. Perchè questa notizia, con la "N" maiuscola, risale al 2 novembre 2007.

L'autrice si chiamava Benazir Bhutto. Il luogo della rivelazione il programma in lingua inglese di Al Jazeera "Over the World" condotto da David Frost, che appunto commenta con Benazir l'attentato dell'ottobre precedente che aveva fatto 158 morti, al suo primo ritorno in patria (clicca sulla foto per vedere il video).
Benazir dice, testualmente che "the man who murdered Osama bin Laden" è Omar Sheikh. Ho controllato (e molti prima di me): le labbra dicono proprio così. Qualcuno ricorderà che Omar Sheikh è quell'agente del servizio segreto militare pakistano ISI che trasferì 100 mila dollari a Mohammed Atta il giorno prima l'attentato dell'11/9. Qui finisce la notizia e comincia lo scandalo, anzi una matrioshka infinita di scandali, uno dentro l'altro.
Il primo è sbalorditivo. Al Jazeera ha la notizia in diretta. Il suo conduttore, David Frost, uomo esperto, sembra non accorgersene. Non interrompe Benazir, non chiede chiarimenti.
Il secondo scandalo è il silenzio di tutti i media occidentali (e ovviamente italiani). Anche se Benazir Bhutto avesse detto il falso la sua dichiarazione sarebbe stata una bomba atomica nel panorama mondiale.
Se non altro per essere smentita. Invece nulla. Silenzio. Non se ne sono accorti? Guardo sul contatore di You Tube, questa sera, 13 gennaio 2008, e vedo che 292.364 persone hanno visto quel video. Tutti meno i direttori di tutti i giornali e di tutte le tv dell'occidente. Altre decine di file tv, su You Tube, su Wikipedia, altrove, analizzano, commentano, da due mesi, e nessuno scrive una riga, nessuno dei media del "mainstream" dedica una riga, un 'immagine all'esplosione di interrogativi contenuta in quelle parole.
"L'Economist", illustre paravento quant'altri mai, ha appena dedicato una copertina del suo penultimo numero al Pakistan, definendolo "il luogo più pericoloso del mondo", ma non ha dedicato nemmeno una mezza riga a questa notizia.
E noi siamo tutti impegnati nella lotta mondiale contro il terrorismo, ma nessun governo, nemmeno il governo americano, nemmeno la Cia, nemmeno l'Fbi, si accorgono che colui che ci hanno additato come capo del terrorismo mondiale è stato ammazzato, o potrebbe essere stato ammazzato. Il presidente George Bush continua a ripetere le sue giaculatorie sul terrorismo e le sue minacce all'Iran e nessuno gli ha detto niente. Nemmeno quel dio sulla spalla del quale, quando è di cattivo umore, piange la mattina, dopo averlo pregato di scendere a fargli compagnia.
Non chiedono nemmeno di sapere quando, eventualmente, sarebbe stato ammazzato. Forse perchè qualcuno teme di avere mandato in onda una sua dichiarazione in video post mortem senza saperlo. Chissà se adesso Umberto Eco andrà a rivedere i suoi commenti sulla mancanza della "gola profonda" per l'11 settembre. Certo la povera Benazir Bhutto non era, finchè fu viva, una gola profonda. Lei non c'entrava con l'11 settembre.
Ma adesso a me risulta più chiaro perchè l'hanno ammazzata. Sapeva troppe cose e una di queste l'ha detta. Ed è bastata.
Il resto ci riguarda. Come possiamo tollerare ancora di essere costretti a lasciare nelle mani di bugiardi e cialtroni l'informazione nel nostro paese?


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Most za Beograd – Un ponte per Belgrado in terra di Bari - Associazione culturale di solidarietà con la popolazione jugoslava
via Abbrescia 97, 70121 BARI - mostzabeograd@...  - CF 93242490725 - conto corrente postale 13087754

Emergenza Kosovo a 9 anni dalla “guerra umanitaria”

 

Giovedì 31 gennaio - Ore 17.00

Aula 8 della Facoltà di Lingue (II piano)

Via Garruba 4 – Bari

 

Intervengono

Ugo Villani, docente di Istituzioni di Diritto dell’Unione Europea, Università “La Sapienza”, e di Diritti Umani presso la Luiss

Nico Perrone, docente di Storia dell’America, Università di Bari

Dragan Mraovic, già console jugoslavo a Bari, opinionista collaboratore di Geopolitika, Dan e altre riviste

Augusto Ponzio, docente di Filosofia del linguaggio e Linguistica generale, Università di Bari

Silvia Godelli, assessore al Mediterraneo della Regione Puglia

Laura Marchetti, sottosegretaria al Ministero dell’ambiente

Introduce e coordina

Andrea Catone, associazione “Most za Beograd” – un ponte per Belgrado in terra di Bari




(go to the original URL to read several interesting readers' comments)

It's time to end Serb-bashing


The Serbs have been demonised because they have consistently got in the way of the west's hegemonic ambitions in the region


January 14, 2008 2:30 PM 


On Cif last week Anna di Lellio, who was a political adviser to the former Kosovan prime minister and one-time Kosovan Liberation Army chief of staff, Agim Çeku, claimed that "Serbian nationalism briefly subdued after the fall of Milosevic" is back in full force with its "old tactics". Di Lellio offers very little evidence to back up her assertion, except a declaration from the Serbian parliament that - horror of horrors - the country is determined to defend its territorial integrity in compliance with international law.

What is undoubtedly "back in force" with all its "old tactics" is Serb-bashing, of which Di Lellio is only one of many culprits in the western media (including, it must sadly be said, Cif). The Serbs have been demonised not because they were the party most responsible for the wars of secession in the 1990s - they were not - but because they have consistently got in the way of the west's hegemonic ambitions in the region.

The west wanted Yugoslavia destroyed, with one militarily strong, independent state replaced by several weak and divided Nato/IMF/EU protectorates. "In post-cold war Europe no place remained for a large, independent-minded socialist state that resisted globalisation," admitted George Kenney, former Yugoslavia desk officer of the US state department.

The Serbs' great "crime" was not reading the script. Out of all the groups in the former Yugoslavia, the Serbs, whose population was spread across the country, had most to lose from the country's disintegration. At a meeting at The Hague in October 1991, the leaders of the six constituent republics were presented with a paper entitled "The End of Yugoslavia from the International Scene" by European Community "arbitrators". Only one of them - the Serb leader Slobodan Milosevic - refused to sign his country's death certificate. "Yugoslavia was not created by the consensus of six men and cannot be dissolved by the consensus of six men," he declared.

For his pro-Yugoslav stance, Milosevic was rewarded with over a decade of demonisation in the west's media. Despite his regular election victories in a country where 21 political parties freely operated, Milosevic was (and is) routinely labelled a "dictator", a description which even his consistently hostile biographer Adam LeBor concedes is "incorrect". Some of the attempts to incriminate Milosevic for events he played no part in have been ludicrous: in a Guardian article in 2006 Timothy Garton Ash, a professor of European studies, wrote of Slovenes "trying to break away from Slobodan Milosevic's Yugoslavia in 1991", even though the leader of Yugoslavia at the time was the Croat Ante Markovic (a correction to the claim was published).

In the standard western rewrite of history, Slobo and the Serbs were also to blame for the break-out of war in Bosnia. Yet the man who lit the blue touch paper for that brutal conflict war was not Milosevic, nor the Bosnian-Serb leaders, but the US ambassador Warren Zimmerman, who persuaded Bosnian separatist Alija Izetbegovic to renege on his signing of the 1992 Lisbon agreement, which had provided for the peaceful division of the republic.

Even after the 1995 Dayton agreement brought an end to a totally unnecessary conflict, there was to be no let up in the west's Serbophobia. In Kosovo, the west's strategic objectives meant them siding with the hardliners of the Kosovo Liberation Army, a group, officially classified as a terrorist organisation by the US state department.

No one, certainly no Serb of my acquaintance, denies that Serb forces committed atrocities in the Balkan wars and that those responsible should be held accountable in a court of law (though not one financed by the powers who illegally bombed their country less than 10 years ago). But what makes Serbs so incensed is that whereas Serbian atrocities have received the full glare of the western media spotlight, atrocities committed by other parties in the conflict are all but ignored.

While massive media attention focused on the relatively low-scale tit-for-tat hostilities between Yugoslav forces and the KLA in 1998/9, Operation Storm - where an estimated 200,000 Serbs were driven out of Croatia in an operation which received logistical and technical support from the US - is hardly mentioned. No publicity, either, for massacres such as the slaughter, on Orthodox Christmas Day 1993, of 49 Serbs in the village of Kravice, near Srebrenica. The town recently held a commemorative service to mark the 15th anniversary of the atrocity: no members of "the international community" were present.

Now, with Kosovo again in the headlines, the Serb-bashers are once more out in force. Once again, the dispute is being portrayed in Manichean terms. While much is made of the treatment of Kosovan Albanians by Yugoslav forces in 1998/9, little is said about the KLA's campaign of intimidation which led to an exodus of an estimated 200,000 Serbs, Roma, Bosnians, Jews and other minorities from the province after "the international community" moved in.

"Nowhere in Europe is there such segregation as Kosovo ... Nowhere else are there so many 'ethnically pure' towns and villages scattered across such a small province. Nowhere is there such a level of fear for so many minorities that they will be harassed simply for who they are. For the Serbs and 'other minorities', who suffer from expulsion from their homes, discrimination and restrictions on speaking their own language, the pattern of violence they have endured for so long may be about to be entrenched as law in the new Kosovo, as the future status talks continue."

So concludes the Minority Rights Group report on "liberated" Kosovo - but hey, let's brush that one under the carpet because it doesn't blame Serbs.
The double standards imposed where Serbs are concerned are breathtaking. Independence for Kosovo is a simple issue of self-determination, we are repeatedly told. Yet the same principle does not apply to Bosnian Serbs who wish to join up with Serbia.
Instead of championing Kosovan secessionism in contravention of international law, Britain and the west should, in fact, be reconsidering its policy towards Serbia. It's too late to undo past crimes - such as the barbarous 1999 Nato bombing campaign - but changing its policy on Kosovo would at least be a start on redressing the injustices of the last 20 years. It's high time we gave the Serbs a break.




Kosovo: Wie Sarajevo 1914

1) Wie Sarajevo 1914 - von Jürgen Elsässer

2) Kriegermemoiren ausgewertet

Von Jürgen Elsässer ist gerade erschienen: "Kriegslügen. Der NATO-Angriff auf Jugoslawien". Verlag Kai Himilius, 200 Seiten, 12.80 Euro.


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junge Welt, 16.01.2008. - www.jungewelt.de

Wie Sarajevo 1914

Das Kosovo ist die Lunte an einem Pulverfaß. Völkerrechtswidrige Abspaltung von Serbien "in vier oder fünf Wochen", sagt Separatistenchef Hashim Thaci. 

Von Jürgen Elsässer

 
Der CDU-Bundestagsabgeordnete Willy Wimmer schrieb vor kurzem: "Als 1918 die Welt von gestern in Schutt und Asche fiel und mit viel Perfidie das Fundament für den nächsten großen Konflikt gelegt wurde, wollte man nicht lange nach den Ursachen suchen. Es waren die Pistolenschüsse in Sarajevo, die das Leben des österreichischen Thronfolgerpaares ausgelöscht hatten, hieß es. Jeder konnte sich an dieses Ereignis erinnern, es mußte nicht weiter nach seinen Hintergründen gefragt werden, die sehr viel entscheidender waren für den Ersten Weltkrieg als der Anschlag von Sarajevo. Bislang ist es ausgeblieben, daß man bei den Verhandlungen über die Zukunft des Kosovo aufeinander angelegt hat, aber mögliche Unterschriften unter bestimmte Papiere könnten die Wirkung von Pistolenschüssen haben. Die Zündschnüre sind gelegt und reichen von Nordirland über das Baskenland, Gibraltar und den Kaukasus bis nach Tibet und Taiwan."[1]
 
Die aktuelle Lage auf dem Balkan erinnert auf beklemmende Weise an die Konstellation, die zum Ersten Weltkrieg führte. Deutschland und die anderen Großmächte hatten nach jahrelangen Unruhen auf der Berliner Konferenz 1878 einen Formelkompromiß für die Neuordnung Südosteuropas gefunden: Die umstrittene osmanische Provinz Bosnien sollte de jure weiterhin türkisch bleiben, de facto aber von den Österreichern verwaltet werden. 1908 brach Wien diesen Vertrag und annektierte die Provinz auch de jure. Aus Rache wurde 1914 Thronfolger Franz Ferdinand in Sarajevo erschossen.
 
Ungefähr 100 Jahre später versuchten es die NATO-Mächte mit einem ähnlichen Formelkompromiß: Nach ihrem Angriffskrieg gegen Jugoslawien 1999 setzten sie im UN-Sicherheitsrat die Resolution 1244 durch, die das Kosovo de jure dem südslawischen Staat beläßt, de facto aber der Verwaltung der Vereinten Nationen unterstellt. In der Folge befürworteten die Westmächte jedoch die vollständige Abtrennung der Provinz und ihre von der EU kontrollierte Übergabe an die albanische Bevölkerungsmehrheit – so der Plan des UN-Vermittlers Martti Ahtisaari. Dies wäre völkerrechtlich möglich, sofern entweder Belgrad zustimmt oder wenigstens der UN-Sicherheitsrat eine solche Lösung billigt. Wenn beide Bedingungen nicht gegeben sind, kann sich das Kosovo nur einseitig, also durch einen Akt illegaler Willkür, zu einem selbständigen Staat erklären. Genau dies soll in den nächsten Wochen geschehen.
 
Wie im Übergang vom 19. zum 20. Jahrhundert treffen auf dem Balkan noch immer die Interessen der zentraleuropäischen Staaten, Rußlands und der islamischen Welt aufeinander. Jede brachiale Veränderungen in diesem fragilen Gleichgewicht kann Rückwirkungen auf den ganzen Kontinent haben.

 
Am Rande des Weltkrieges
 
Wie sehr Südosteuropa nach wie vor Zündfunke für einen internationalen Großkonflikt sein könnte, zeigte sich zuletzt in den Tagen nach dem 10. Juni 1999. Eigentlich war die jugoslawische Armee nach 78 Tagen NATO-Bombardierung schon zum Rückzug aus dem Kosovo bereit, das entsprechende Militärabkommen zwischen Belgrad und dem Nordatlantikpakt war ebenso unterschrieben wie die UN-Resolution 1244. Doch während die Truppen von Präsident Slobodan Milosevic abrückten, stießen völlig unerwartet russische Einheiten aus Bosnien nach Pristina vor. Auf ihren Panzern hatten die Soldaten die Aufschrift SFOR, die sie als Teil der UN-mandatierten Stabilisierungstruppe im Nachbarstaat auswies, hastig zu KFOR umgepinselt. KFOR, das war die gerade erst beschlossene Besatzungsstreitmacht für das Kosovo. Der russische Präsident Boris Jelzin hatte zugestimmt, daß sie unter dem Oberbefehl der NATO gebildet wurde – doch seine Generäle wollten wenigstens dafür sorgen, daß Rußland einen strategischen Brückenkopf erhielt.  
 
Der ehemalige deutsche Außenminister Joseph Fischer berichtet in seinen Memoiren, wie dramatisch die Situation war: "Die wenigen russischen Fallschirmjäger konnten die NATO nach deren Einmarsch im Kosovo nicht wirklich herausfordern, dazu war ihre Zahl zu gering und ihre Bewaffnung zu leicht. Die Besetzung des Flughafens konnte gleichwohl nichts anderes heißen, als daß sie aus Rußland eintreffende Verstärkung aus der Luft erwarteten, und daraus konnte sich sehr schnell eine sehr gefährliche direkte Konfrontation mit den USA und der NATO entwickeln. (...) Die Situation wurde noch gefährlicher, als die Nachricht bestätigt wurde, daß die russische Regierung um Überflugrechte für Antonow-Truppentransporter bei den Regierungen in Ungarn, Rumänien und Bulgarien nachgesucht hatte. Es bestand die Absicht, 10 000 Soldaten auf dem Luftweg in das Kosovo oder auch nach Bosnien zu verlegen, um von dort über den Landweg ins Kosovo zu gelangen. Die Ukraine hatte die Überflugrechte bereits erteilt, aber die anderen Regierungen blieben unerschütterlich bei ihrem Nein. Was aber, wenn die russischen Maschinen dennoch fliegen würden? Würden die USA und die NATO sie dann an der Landung hindern? Oder an der Entladung am Boden? Oder die Flugzeuge gar in der Luft abschießen? Hier zeichnete sich die Möglichkeit eines Dramas mit unabsehbaren Folgen ab."[2]
 
Parallel zum Nervenkrieg um die russischen Flugzeuge spitzte sich die Krise am Flughafen Pristina zu. Die schnell nachrückenden Truppen des britischen KFOR-Kontingents hatten die Kanonen auf die renitenten Besatzer des Flugplatzes gerichtet, NATO-Oberbefehlshaber Wesley Clark gab die Order zum Sturmangriff – da bewahrte ein Mann seine Kaltblütigkeit und verweigerte den Befehl. Michael Jackson, der britische Oberkommandeur der KFOR, brüllte den US-Amerikaner am Telefon an: „Ich werde doch für Sie nicht den Dritten Weltkrieg riskieren.“
 
Wie der Westen Präsident Jelzin dazu brachte, die Antonow-Truppentransporter zu stoppen, ist nicht bekannt. Das Gefecht um den Flughafen Pristina wurde jedenfalls nur verhindert, weil Jackson standhaft blieb. Clark nahm den Ungehorsam hin, eigentlich hätte er den Befehlsverweigerer von der Militärpolizei festnehmen lassen müssen. Ein deutscher General hat das im Nachhinein kritisiert. „Das schwächliche Zurückweichen von Briten und Amerikanern war sicher die falsche Antwort in einer Situation, die niemals zu einem ernsten Konflikt zwischen der Nato und Rußland geführt hätte“, schrieb Klaus Naumann, damals Vorsitzender des Nato-Militärausschusses und damit höchster europäischer Offizier im Bündnis.[3]
 

Raketen auf Bondsteel
 
Kann sich in den nächsten Wochen eine ähnliche Zuspitzung ergeben? Bereits im Herbst 2006 machte sich die Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP), einer der wichtigsten Think Tanks in Deutschland, Gedanken über eine von außen forcierte Lösung der Kosovo-Frage.[4] "Diese Aufgaben werden nachhaltiges diplomatisches Engagement fordern und die politischen, militärischen und finanziellen Ressourcen der EU ... beanspruchen."[5] Unter den "militärischen Ressourcen" ist die KFOR zu verstehen, die derzeit etwa 17 000 Soldaten, davon etwa 2500 deutsche, umfaßt.
 
Eine Intervention könnte dabei nicht nur aufs Kosovo zielen, sondern auch auf das eigentliche Serbien: Die Stiftung prognostizierte eine Situation, "die an die Krise im Jahr 1999 erinnert" – also an den NATO-Bombenkrieg![6] Unruhen im Kosovo könnten auf die kernserbischen Provinzen Vojvodina, Sandzak und das Presevo-Tal übergreifen. "Organisierte Massendemonstrationen mit Zusammenstößen zwischen gemäßigten und radikalen Kräften sowie mit der Polizei könnten bis zur Auflösung staatlicher Strukturen führen", hieß es weiter. Wenn die staatlichen Strukturen Serbiens sich auflösen, könnte die EU – nach ihrem eigenen Politikverständnis -  in die Rolle des Stabilisators schlüpfen und "brüderliche Hilfe" leisten. Wozu hat man sonst die Battle Groups?
 
Betrachten wir die voraussichtlichen Abläufe im Frühjahr 2008. Sowohl die NATO wie die Kosovo-Albaner haben weitere Verhandlungen, auf die Belgrad und Moskau gedrängt haben, kategorisch ausgeschlossen. Am vergangenen Donnerstag kündigte Hashim Thaci, der frühere Chef der Terrororganisation UCK und seit kurzem Premier der Provinz Kosovo, an, die formelle Erklärung der Unabhängigkeit werde "innerhalb von vier, fünf Wochen" erfolgen.[7] Am nächsten Tag berichtete die International Herald Tribune mit Bezug auf Diplomatenkreise, daß "Deutschland und die USA übereingekommen sind, Kosovos Unabhängigkeit anzuerkennen", und zwar "nach der zweiten Runde der serbischen Präsidentschaftswahlen am 3. Februar".  Darauf hätten sich Kanzlerin Angela Merkel und Präsident George W. Bush geeinigt.[8] Es ist nicht anzunehmen, daß die CDU-Frontfrau vor dieser Übereinkunft den Rat ihres eingangs zitierten Parteigenossen Willy Wimmer eingeholt hat, der unter Kanzler Helmut Kohl lange Jahre Staatssekretär im Verteidigungsministerium war.
 
Nach der formellen Deklaration der "Republika Kosova" dürften die serbischen Gemeinden nördlich des Ibar-Flusses ihrerseits ihre Treue zu Serbien und damit ihre Nichtzugehörigkeit zu dem neuen Staat bekunden. Vorstellbar wäre dann, daß bewaffnete Trupps der Kosovo-Albaner in die Enklaven der Minderheit, insbesondere in deren Hochburg Nordmitrovica, vorstoßen und den dortigen Widerstand mit brutaler Gewalt brechen. Bei einem ähnlichen Ansatz zu ethnischer Säuberung Mitte März 2004 konnten die skipetarischen Terroristen einen Mob von 50 000 Menschen mobilisieren. Die Wucht des damaligen Angriffes konnte nur gebremst werden, weil sich die KFOR-Soldaten zumindest teilweise den Extremisten entgegenstellte – acht Pogromisten wurden von ihnen erschossen. Im aktuellen Fall muß man allerdings eher damit rechnen, daß sich die KFOR insgesamt so verhält, wie damals einzig das deutsche Kontingent innerhalb der KFOR: Man schaut beiseite und läßt die Terroristen gewähren. 2004 wurden im deutschen Besatzungssektor rund um Prizren alle serbischen Kirchen und Klöster gebrandschatzt.
 
Allerdings haben die Serben im Kosovo mittlerweile Selbstverteidigungsformationen gebildet, von denen die lautstärkste die sogenannte Zar-Lazar-Garde ist – benannt nach einem Helden der historischen Amselfeld-Schlacht 1389. Diese Paramilitärs haben angekündigt, im Falle der Unabhängigkeitserklärung des Kosovo den großen US-Stützpunkt Camp Bondsteel mit Raketen zu beschießen. Es ist schwer zu beurteilen, ob es sich dabei um Maulhurerei oder um ein ernst gemeintes Vorhaben handelt. Kenner der Szene halten es auch für möglich, daß sich unter dem Etikett Zar Lazar eine Bande von Provokateuren westlicher Geheimdienste verbirgt.
 
Im Interesse der NATO-Staaten soll die Abspaltung der Provinz jedenfalls möglichst lautlos und in jedem Fall ohne militärische Auseinandersetzungen vor sich gehen. Der diplomatische Protest Rußlands und selbst kleinerer EU-Staaten wie der Slowakei, Rumäniens und Zyperns wird in Kauf genommen. Die regierungsnahe Bertelsmann-Stiftung hat in einer Studie vom Dezember 2007 das Beispiel Taiwan genannt: Auch die Inselrepublik sei bekannter Maßen nur von wenigen anderen Staaten anerkannt und habe keinen Sitz in der UN, erfreue sich aber dennoch seit 60 Jahren einer gewissen Stabilität und sogar Prosperität. Wunschtraum der NATO-Staaten wäre vermutlich, daß die Kosovo-Albaner nach Ausrufung ihres Staates auf Gewaltausübung gegenüber der serbischen Minderheit verzichten und deren Selbstverwaltungsstrukturen im Norden  zunächst gar nicht antasten. Wenn gleichzeitig die NATO alle Verbindungen zum Mutterland blockieren würde, bliebe den Serben in Mitrovica auf Dauer gar nichts anderes übrig, als sich mit den neuen Machthabern um Hashim Thaci zu arrangieren. 
Diese Strategie eines sanften Sieges der Sezessionisten könnte jedoch relativ einfach durchkreuzt werden. Die FAZ befürchtete zum Jahresende 2007, "die Serben könnten den im serbisch kontrollierten Teil des Kosovos gelegenen Gazivodsko jezero, einen Stausee, absperren und damit viele Gebiete des Kosovos von der Wasserversorgung abschneiden. Das hätte Auswirkungen auf die ohnehin mangelhafte Stromversorgung des Kosovos, denn mit Wasser aus dem Gazivodsko jezero wird auch der Maschinenpark des kosovarischen Kohlekraftwerks unweit von Pristina gekühlt."  Gegen diesen relativ einfach zu bewerkstelligenden Eingriff – für die Besetzung des Dammes würde schon ein Trupp Paramilitärs genügen – würde die NATO sehr schnell mit Waffengewalt vorgehen. "Schon wird über den Einsatz der KFOR zur Verhinderung der Stauung des Sees nachgedacht. Damit wäre dann allerdings rasch jenes militärische Niveau der Konfrontation erreicht, das der Westen eigentlich verhindern will," berichtete die FAZ.[9]


Serbien kann zurückschlagen

Wie würde die Belgrader Regierung reagieren, wenn Albaner und NATO-Soldaten auf Serben schießen? Wird sie den bisherigen Kurs, keinesfalls militärisch zu intervenieren, dann noch beibehalten? Dafür steht vor allem die stärkste Regierungspartei, die Demokraten (DS) um Präsident Boris Tadic und Verteidigungsminister Dragan Šutanovac. Der kleinere Koalitionspartner, die Demokratische Partei Serbien (DSS) von Premier Vojislav Kostunica, ist etwas frecher. Dessen Berater Aleksandar Simic hat expressis verbis erklärt, jeder Staat habe das Recht zur Anwendung von Waffengewalt zum Schutz seiner territorialen Integrität.
Im Spannungsfall gebietet jedoch der Verteidigungsrat mit dem Präsidenten über die Armee, de facto also Tadic. Folglich müßte sich der Westen keine Sorgen machen – wären nicht in Kürze Neuwahlen für das höchste Amt im Staate. Dabei werden dem Kandidaten der oppositionellen Radikalen Partei (RS), Tomislav Nikolic, große Chancen eingeräumt. Schon beim letzten Urnengang 2004 zwang er Tadic in den Stichentscheid und unterlag relativ knapp. Aus Empörung über die bevorstehende Amputation des Kosovo könnte ihn dieses Mal die Mehrheit unterstützen. Dann stünde die serbische Armee unter dem Oberbefehl eines Politikers, der für die Einrichtung einer russischen Militärbasis im Land plädiert und dessen Partei in den Kriegen der neunziger Jahre mit einer eigenen Miliz präsent war.
Diese Aussicht bringt den Zeitplan der Sezessionisten durcheinander. Eigentlich wollte der EU-Rat am 28. Januar die Entsendung einer knapp 2000 Mann starken Polizeitruppe ins Kosovo beschließen – gegen den Willen Belgrads und damit völkerrechtswidrig, aber zur Absicherung der Sezession notwendig. Da der 28. Januar aber kurz vor dem entscheidenden zweiten Wahlgang am 3. Februar liegt, wäre ein derart provokativer Beschluß Rückenwind für Nikolic. Nun soll das Thema vertagt werden. Statt dessen will die Brüssel m selben Tag dem einstigen Schurkenstaat einen Assoziierungsvertrag offerieren und dabei gnädig auf dessen bisherige Konditionierung, die vorherige Auslieferung der sogenannten Kriegsverbrecher Radovan Karadzic und Ratko Mladic, verzichten. Die EU hofft, daß diese Aussicht Tadic die notwendigen Stimmen bringen wird. Dabei haben die Eurokraten möglicherweise die Rechnung ohne den Wirt gemacht: Laut Umfragen von Ende Dezember würden drei Viertel der serbischen Bevölkerung lieber auf einen EU-Beitritt als auf das Kosovo verzichten.

Auch aus Madrid bekommt Belgrad derzeit Schützenhilfe. Premier Jose Zapatero hat, so ein Bericht der serbischen Tageszeitung Express vom 11. Januar, von anderen EU-Regierungen die Zusicherung erhalten, daß Kosovo nicht vor dem 10. März seine Unabhängigkeit erklären wird – also vier Wochen später als von Thaci angekündigt –, da zu diesem Termin in Spanien ein neues Parlament gewählt wird.[10] So will die sozialistische Regierung verhindern, daß die separatistischen Bewegungen im eigenen Land mit dem balkanischen Präzedenzfall Wahlkampf machen – die Basken haben bereits damit begonnen. Im Gegenzug könnte die Mehrheit der Spanier nämlich versucht sein, die Sozialisten, die von der konservativen Opposition als zu nachgiebig gegenüber den abspaltungswilligen Regionen dargestellt werden, beim Urnengang abzustrafen. 

Diese Verzögerungen des Zeitplans stellen jedoch die Geduld der Kosovo-Albaner auf eine harte Probe. Ihnen ist zuzutrauen, daß sie der Entscheidungsfindung auf dem diplomatischen Parkett durch ein paar spektakuläre Gewalttaten etwas nachhelfen. Man darf gespannt sein, wie in diesem Fall die NATO-Mächte reagieren – und die Russen. Diese wählen in diesem Frühjahr nämlich auch einen neuen Präsidenten, und jeder Kandidat, der die slawischen Brüder im Stich läßt, müßte damit rechnen, Wählerzuspruch zu verlieren.
 

* Von Jürgen Elsässer ist gerade erschienen: "Kriegslügen. Der NATO-Angriff auf Jugoslawien". Verlag Kai Himilius, 200 Seiten, 12.80 Euro.
 
[1] Willy Wimmer, Die Kosovo-Falle, Freitag 23.11.2007
[2] Joschka Fischer, Die rot-grünen Jahre, Berlin 2007, S. 243 - 245
[3] z.n. Klaus Naumann, Frieden – der noch nicht erfüllte Auftrag, Bonn 2002, S.60
[4] Franz-Lothar Altmann, Rekonstruktion und Stabilisierung des westlichen Balkan, in: Volker Perthes / Stefan Mair, a.a.o.
[5] Dusan Reljic, Eine europäische Perspektive für das Kosovo, in: Volker Perthes / Stefan Mair, a.a.o.
[6] Dusan Reljic, a.a.o.
[7] Itar-Tass, Kosovo to announce independence early Februar, 09.01.2008
[8] UPI, U.S., German leaders to recognize Kosovo, 11.01.2008
[9] Michael Martens, Am Tag X den Stausee sperren, FAZ 29.12.2007
[10] Novosti, Kosovo will not declare independence before March 10, 11.01.2008


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junge Welt (Berlin)
12.01.2008 / Feuilleton / Seite 13


Kriegermemoiren ausgewertet


Clinton, Albright, Fischer und der Kosovo

Von Rüdiger Göbel


Unter linken Sachbüchern gehört Jürgen Elsässers Band »Kriegslügen. Der NATO-Angriff auf Jugoslawien« ohne Zweifel zu den vielverkauften. Ein Buch, das nicht zu Ende ist, über einen Krieg, der nicht zu Ende ist. Die erstmals im Jahr 2000 erschienene Pflichtlektüre für Kriegsgegner wurde bereits fünfmal überarbeitet und wiederaufgelegt, außerdem ins Französische, Italienische, Serbische und Griechische übersetzt. Jetzt präsentiert der jW-Autor eine »komplett aktualisierte Neuauflage«. Eingearbeitet in die Analyse über die Zerschlagung Jugoslawiens und den völkerrechtswidrigen NATO-Überfall 1999 sind die inzwischen auf den Markt gebrachten Memoiren der Kriegsverantwortlichen, allen voran die Erinnerungen des damaligen US-Präsidenten William Clinton, von dessen Außenministerin Madeleine Albright und ihres deutschen Amtskollegen Joseph Fischer. Daneben hat der Prozeß gegen den früheren jugoslawischen Präsidenten Slobodan Milosevic vor dem Haager Tribunal neue Erkenntnisse zutage gefördert, die aufgenommen wurden – Stichwort: »Massaker in Racak«.

»Warum, so fragte ich mich, mußte ausgerechnet die erste Bundesregierung, die von der politischen Linken gebildet worden war, mit Deutschland wieder in den Krieg ziehen? (...) Die Welt kann sehr ungerecht sein, warum wir?« zitiert Elsässer aus Fischers Memoiren. Und er präsentiert die Antwort des kriegswilligen grünen Außenministers vom Januar 1999 – gut sechs Wochen vor den NATO-Angriffen – gleich mit: »Weil wir gewählt worden waren und weil es im Kosovo um unsere Grundwerte ging.«

Im Vergleich zu den früheren Auflagen ist das jetzt vorgelegte Buch trotz umfassender Aktualisierung stark gestrafft und auf den Kosovo-Komplex konzentriert. Wer verstehen will, wie brisant die drohende Abspaltung der südserbischen Provinz ist, weit über den Balkan hinaus, kommt an Elsässers Analyse nicht vorbei. Der Leser dankt und harrt der in Aussicht gestellten überarbeiteten Bände zum bosnischen Bürgerkrieg und der von Deutschland forcierten Kroatien-Sezession sowie über das Schautribunal gegen den im Haager Gefängnis zu Tode gekommenen Milosevic.



Jürgen Elsässer: 

Kriegslügen. Der NATO-Angriff auf Jugoslawien. 

Vollständig aktualisierte Fassung. Verlag Kai Homilius, Berlin 2008, 198 Seiten, 12,80 Euro




(Dopo quelli da noi segnalati a dicembre - vedi in fondo - ancora un documento storico e... straordinariamente eloquente, dal New York Times di 16 anni fa: "L'Europa, appoggiando i tedeschi, accetta lo smembramento della Jugoslavia")




THE NEW YORK TIMES

January 16, 1992

Europe, Backing Germans, Accepts Yugoslav Breakup


By STEPHEN KINZER,


In a triumph for German foreign policy, all 12 members of the European Community, as well as Austria and Switzerland, recognized the independence of the former Yugoslav republics of Slovenia and Croatia today.

In a series of separate statements, various European governments asserted that the Belgrade Government no longer had a right to rule the two republics.

"Slovenia and Croatia have held referendums that showed clearly that their people want independence," a statement issued by the Danish Foreign Ministry said. "It is now time to fulfill the desire their people have expressed."

In Belgrade, the Serbian-dominated Government denounced the decision on recognition as "contrary to the sovereign rights of Yugoslavia." The Government said it would continue to function until all six Yugoslav republics reached an agreement on their future relations.

But some diplomats said that today's move meant that Yugoslavia had effectively ceased to exist. A Victory for Germany

The action by the European Community marked an important diplomatic victory for Germany, which has vigorously supported Slovenian and Croatian independence. German officials announced last month that they would recognize the two republics regardless of the wishes of other European countries, and Foreign Minister Hans-Dietrich Genscher lobbied intensely for the breakup of Yugoslavia.

Mr. Genscher said in a radio interview today that he was "very happy" with his success. He asserted that Croatia "has achieved the highest imaginable standard of respect for minority rights."

Recognition of Croatia had been jeopardized at the last minute by the release of a European Community report questioning Croatia's commitment to respect the rights of ethnic minorities. The report, prepared by a former French Justice Minister, Robert Badinter, said Croatia should provide constitutional guarantees that human rights and minority rights would be observed. There are 600,000 Serbs among the 4.5 million residents of Croatia, and many of them rose up in rebellion after Croatia declared its independence last year. Croatian fascists slaughtered thousands of Serbs during World War II, and Serbs said they feared they would be victimized again if Croatia became independent. Human-Rights Guarantees

President Franjo Tudjman of Croatia was reported to have given last-minute guarantees that the rights of minorities would be respected in a letter to European Community leaders this week.

France and Britain, two of the countries that today announced recognition of the breakaway republics, said they would not send ambassadors to Croatia until human-rights issues were resolved.

"Implementation of recognition for Croatia presupposes certain conditions," Foreign Minister Roland Dumas of France told reporters in Paris after a Cabinet meeting.

But the 10 other European Community members said they would proceed swiftly to establish full diplomatic relations with Slovenia and Croatia.

Slovenia is at peace, and has for months been functioning as an independent state. But Croatia has been raked by civil war, and one-third of its territory is occupied by Serbian forces.

Leaders of Croatia and Slovenia today expressed gratitude for Germany's support. Foreign Minister Dimitrij Rupel of Slovenia said recognition of his republic's independence was due largely to "the wise policy of the German Government."

But Serbian leaders deplored the European Community's decision and singled out Germany for special criticism. Vladislav Jovanovic, the Serbian Foreign Minister, described Germany's role as "particularly negative," and said he regretted that other European Community leaders had decided to follow the German lead. Disconcerted Europeans

"It is a very serious precedent to encourage unilateral secession in one multinational state," Mr. Jovanovic said in an interview broadcast on British television.

Although most European governments favored eventual recognition of Slovenia and Croatia, some had sought to postpone today's announcement so recognition could be part of an overall peace settlement in the Balkans. But German officials insisted that recognition was the only way to force the Serbs to accept a settlement.

Germany's decision to press for quick recognition of the two republics, disregarding appeals from the United States and the United Nations, marked a new assertiveness that some Europeans find disconcerting.

"Germany is acting in a highly sensitive psychological environment," said a commentary this week in Bonn's principal newspaper, the General-Anzeiger. "The fear of German dominance and unilateralism has grown." Guardians of Security

Foreign Minister Genscher and other German officials say their support for Slovenian and Croatian independence reflects their belief in the principle of self-determination. They also view themselves as guardians of European security in the face of growing instability.

"Hanging on to structures that people no longer want raises tension in Europe," Mr. Genscher asserted last month.

As recently as a year ago, during the gulf war, Germany was criticized by its Western allies for its reluctance to assert itself on the world stage. But in recent months, German leaders have become convinced that there is a dangerous vacuum in Europe, and they have stepped forward to fill it.

Flushed with new self-confidence after unification, they brush aside assertions that they are seeking to rebuild Germany's traditional sphere of influence in central Europe, and insist that their goal is simply to defend democracy and stabilize an increasingly volatile continent.

Domestic politics has also played an important role in Germany's decision to press the cause of Slovenian and Croatian independence. Influential Catholic leaders, as well as the predominantly Catholic Christian Social Union, which is part of the ruling coalition, have strongly pressed the Government to defend Slovenia and Croatia. In addition, the 600,000 Croatians who live permanently in Germany have emerged as a highly vocal and effective lobby on behalf of their homeland.

After residents of Slovenia and Croatia voted for independence in special referendums, fighting broke out in both republics as the Serb-dominated Yugoslav Army sought to prevent them from seceding. The fighting ended quickly in Slovenia, where few Serbs live, but went on to claim thousands of lives and cause great destruction in Croatia.

Slovenia and Croatia are predominantly Catholic and have long historic ties to other nations in Central Europe. Much of the rest of what was Yugoslavia is either Orthodox Christian or Muslim, and was for centuries under the rule of Ottoman Turks.

With Slovenia and Croatia now independent, the fate of the other republics is in doubt. Serbia and its ally Montenegro have said they will seek to maintain some form of federation, but the other two republics, Macedonia and Bosnia and Herzegovina, are seeking independence. Age-Old Border Disputes

Greece strongly opposes recognition of Macedonia, fearing a renewal of age-old border disputes. Bosnia and Herzegovina, which is deeply divided by ethnic and religious hostility, presents the prospect of new factional violence.

Many European diplomats are perplexed by the question of under what circumstances their governments should recognize new nations. The European Community is facing decisions not only on Macedonia and Bosnia and Herzegovina, but also on republics of the former Soviet Union.

The community's decisions will be closely watched by secession-minded groups in many parts of Europe, including Slovakia, northern Italy, and regions of Spain, France and Belgium.

Among the other countries that said they had recognized Slovenia and Croatia or that they would do so on Thursday were Austria, Bulgaria, Canada, Estonia, Hungary, Latvia, Lithuania, Iceland, Malta, Norway, Poland, San Marino, Sweden, Switzerland, Ukraine and the Vatican.


On Dec 15, 2007, at 7:51 PM, Coord. Naz. per la Jugoslavia wrote:


(Abbiamo ripescato in internet due articoli scritti in queste giornate... di 16 anni fa.
Erano i primi mesi della tragedia jugoslava, ed il fronte occidentale ancora non era completamente appiattito sulla linea antijugoslava e serbofobica che ha invece poi prevalso a causa di precise scelte geostrategiche. 
Così, il New York Times riferiva delle forzature tedesche e della opposizione dello stesso Segretario dell'ONU. Il governo Kohl-Genscher aveva preso in ostaggio il summit europeo di Maastricht dichiarando di voler riconoscere a tutti i costi le prime secessioni su base "etnica", per poter precipitare la Jugoslavia in un europeissimo lago di sangue...)


December 15-16 ... 1991

1) THE NEW YORK TIMES - December 15, 1991:
Moving Defiantly on Yugoslavia, Bonn Threatens Rift With Allies

2) THE NEW YORK TIMES - December 16, 1991:
U.N. Yields to Plans by Germany To Recognize Yugoslav Republics


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http://query.nytimes.com/gst/fullpage.html?res=9D0CE7DA113AF936A25751C1A967958260&sec=&spon=&pagewanted=print


THE NEW YORK TIMES

December 15, 1991

Moving Defiantly on Yugoslavia, Bonn Threatens Rift With Allies

By JOHN TAGLIABUE,

(...)

(...)





From:   cdsmireland  @...
Subject: Public Conference in London - KOSOVO: A PREVENTABLE DISASTER
Date: January 13, 2008 8:08:09 PM GMT+01:00


Please pass this on to as many people as you think may be interested :

The Lord Byron Foundation for Balkan Studies
will hold a public briefing and press conference

Thursday, January 17, 2008, 3-5 PM at Central Hall
Westminster, London, SW1H 9NH (opposite Westminster
Abbey, Westminster is nearest underground)

KOSOVO: A PREVENTABLE DISASTER

A major security issue facing the Balkans, Russia, the
West, and elsewhere, is the future of the Serbian
province of Kosovo. Great Britain, as an ally of the
United States and a key member of the EU, is facing a
dilemma: to follow Washington in recognizing Kosovo s
likely UDI, or to uphold the rule of law, the United
Nations Charter, and the Westphalian principles that
still retain their validity. The wrong decision on
Kosovo may undermine the stability of the Balkans for
decades to come; it may impact Britain s ability to
fight Islamic terrorism, and affect her credibility as
a respected upholder of international legality. As
Iraq has shown, predictable mistakes turn into costly
disasters. The speakers will provide a diagnosis of
the problem of Kosovo, and recommend workable and
legal solutions.

PANELISTS

Ambassador James Bissett - Chairman of The Lord Byron
Foundation, former head of Canada s Immigration
Service and former Canadian Ambassador to Yugoslavia.

John Laughland - journalist, academic and author,
writes on international affairs and political
philosophy, trustee of British Helsinki Human Rights
Group and director of the European Foundation.

Dr. Serge Trifkovic - Executive Director of the
Foundation, author of The Sword of the Prophet and
foreign affairs editor of Chronicles: A Magazine of
American Culture.


The Lord Byron Foundation for Balkan Studies was
founded by the late Sir Alfred Sherman in 1994 as a
non-partisan research institute devoted to studying
south-eastern Europe in all its aspects. The
Foundation s research, publications and conferences
are designed to correct the current trend of public
commentary which tends not to understand events but to
construct a propagandistic version of Balkan
rivalries.

Organiser: Yugo Kovach, 01258 880 029 or
Ykovach  @...



(Voir le texte original:
Kosovo ou Unmikistan : le royaume de la corruption, de l’illégalité et du crime
par Maciej Zaremba


www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 07-01-08 - n. 209


  
Kosovo o Unmikistan: il regno della corruzione, dell'illegalità e del crimine

 

Maciej Zaremba

 

Il rinomato giornalista Maciej Zaremba del Dagens Nyheter, noto quotidiano svedese, offre in un inchiesta un quadro dell'incapacità e degli abusi dell'UNMIK (Missione internazionale delle Nazioni Unite nel Kosovo-Metohija).

 

Questa Missione, la più grande della storia dell'ONU, agisce come "primo Stato delle Nazioni Unite al mondo" in quanto le forze internazionali non assicurano solamente la pace e l'acqua potabile, ma stabiliscono un nuovo ordine. Ma in questo nuovo ordine regna la corruzione e l'illegalità, scrive Maciej Zaremba, dopo avere soggiornato sei mesi nella provincia serba, che soprannomina "Unmikistan, paese dell’avvenire."

 

Dopo avere parlato con i cittadini del Kosovo, gli attuali ufficiali e quelli che li hanno preceduti, così come con i rappresentanti dei poteri locali e delle organizzazioni internazionali, riferendosi ai risultati ottenuti, ma anche a tutto ciò che ha visto con i "propri occhi" sul campo, Zaremba ha scoperto con stupore i legami di ufficiali dell'UNMIK con la mafia locale albanese sotto la protezione delle Nazioni Unite. Si aggiungono anche la mole di abusi finanziari restati senza giudizio, i casi di violazione dei diritti dell'uomo, la corruzione e l'incompetenza degli ufficiali. Secondo il giornalista svedese di origine polacca, l'organizzazione mondiale il cui ruolo dovrebbe essere: di assicurare la protezione dei beni e dei diritti dell'uomo degli abitanti del Kosovo, di costruire le fondamenta della democrazia, di assicurare una giustizia efficace ed un'economia di mercato funzionale, ha ottenuto dei risultati contrari, a quelli per cui era stata programmata la sua missione. Il Kosovo è diventato un covo di ingiustizia e di criminalità, un luogo senza legge, il centro europeo del traffico delle donne e della droga!!!

 

Il regno del mercato nero

 

Nella prima delle quattro parti che compongono il suo servizio su "l'Unmikistan", l'autore presenta ai lettori la vita quotidiana nel Kosovo. Comincia dall'aeroporto su cui si è posato il suo aereo e che è diretto dalla direzione islandese per l'aviazione civile; i servizi di telefonia mobile sono assicurati da una compagnia francese che ha come codice di accesso quello di Monaco. Si trovano ogni sei chilometri delle pompe di benzina, "un record fantastico che serve purtroppo solamente per il riciclaggio di denaro del contrabbando, della droga, delle armi e della schiavitù sessuale" ha detto Zaremba.

 

Nei negozi il sapone è della Bulgaria, le camicie di Taiwan, la farina della Cechia, l'acqua dell'Ungheria. Dopo otto anni e 22 miliardi di euro spesi, regna il mercato nero, mentre il mercato legale è in collasso totale!

 

La maggior parte degli abitanti ha l'elettricità solamente per alcune ore al giorno e altri ancora meno. Come, ci si chiede, "mentre lo stato è diretto dalle Nazioni Unite che hanno investito 700 milioni di euro nelle due centrali elettriche, in una regione così ricca in lignite che potrebbe illuminare tutti i Balcani, il Kosovo non può produrre sufficiente elettricità, ma in compenso inquina l'aria 70 volte più della norma permessa dall'Unione Europea?"

 

Studiando come funziona il sistema nel Kosovo, Zaremba ha capito che gli ufficiali così tanto pagati dell'UNMIK, non sono lì per lottare contro la criminalità del posto, il più grande flagello del Kosovo, poiché una tale Missione necessiterebbe di una strategia, di coraggio, di devozione e di responsabilità, ma essi " non provano responsabilità che per le loro carriere, e il Kosovo è solamente un passaggio".

 

Così, i sette "governatori", i capi dell'UNMIK, non hanno mai parlato nei dettagli, nei loro rapporti, circa la stabilità e i progressi della situazione. "Era il solo modo che permetteva loro di avanzare e di fare carriera."

 

"Vi aspettereste che la Missione dell'ONU sia come una spedizione polare, con scopi precisi, un comando deciso, dei mezzi appropriati, dei periti assidui,. Avreste tutto il diritto di pensare questo, tenuto conto dei loro enormi stipendi e del fatto che per ogni incarico nella Missione si sono proposti 229 candidati. Ma la missione non ha nessuna di queste qualità. Chi può credere ancora seriamente che queste forze di polizia, composte di cittadini residenti all'estero di 44 nazioni, di cui la metà proviene da paesi semi-democratici, vadano a rischiare le loro vite per applicare l'ordine e la legge in una regione che ne ha avuti sempre poco?"

 

Le fonti britanniche hanno confidato a Zaremba che la sede delle forze di polizie dell'ONU crollerebbe sotto i rapporti sulla criminalità, che nessuno ha mai voluto aprire. "La maggior parte dei crimini non sono stati mai indagati, ma chi saprebbe farlo, quando si vede la composizione dell'UNMIK, anche se ne avesse la voglia?"

 

La maggior parte dei cittadini non si fida degli ufficiale dell'UNMIK. Zaremba ha scoperto perché. "Ogni mucca in Francia è sovvenzionata 3 euro al giorno, mentre un abitante del Kosovo su due, vive con un terzo di questa somma. Se qualcuno lì ruba, non c’è praticamente nessuna possibilità che il ladro venga trovato, sebbene il Kosovo abbia per ogni abitante, il più grande numero di poliziotti in Europa. 300.000 casi non risolti aspettano nei tribunali. Se siete serbo o Rom si può bruciare la vostra casa, mentre i soldati della NATO guardano con calma l'incendio. E questo è successo numerose volte."

 

Lo stato delle Nazioni Unite ed i sette predoni

 

Nella seconda parte del testo di Zaremba che porta questo titolo, egli non si occupa dei sette capi dell'UNMIK, ma delle disgrazie della Signora Hisari, signora di una certa età e senza fortuna che ha perso la sua linea telefonica, perché il suo inquilino, un certo Jo Truchler, direttore della KEK (la Compagnia di elettricità del Kosovo), non ha pagato la sua fattura di elettricità, che consisteva in 6.900 euro, come il valore di un stipendio e mezzo annuo medio, mentre il suo stipendio in quanto funzionario dell'UNMIK, arriva a 20.000 euro al mese. La proprietaria esasperata si è rivolta al tribunale, ma le è stato detto che il tribunale non aveva nessuna competenza per giudicare il personale dell'UNMIK. La signora ha scritto all'UNMIK che le ha risposto che l'UNMIK non era responsabile degli affari privati dei suoi funzionari.

 

Nel frattempo, l'inquilino senza scrupoli ha lasciato il Kosovo, con 4,3 milioni di dollari che sono stati versati sul suo conto in una banca a Gibilterra . Le indagini hanno dimostrato che Truchler, a cui si era affidata la direzione di una delle più importanti compagnie kosovare, quella stesso che non procura agli abitanti che alcune ore di elettricità al giorno, ha ottenuto questo incarico falsificando dei documenti, non essendo né economista, né ingegnere, ma un piccolo truffatore tedesco!

 

"Quelli che non si ritirano dal Kosovo con le tasche riempite di denaro, sono degli idioti o dei santi" ha detto sotto copertura dell’anonimato un interlocutore di Zaremba. Un altro descrive il Kosovo come "un Eldorado per i ladri", ed un terzo gli ha confidato che era stato in parecchie missioni delle Nazioni Unite attraverso il mondo, ma "che nessuna era stata così corrotta quanto quella del Kosovo". I tre interlocutori che provengono da paesi differenti, sono o sono stati nei posti più importanti nella gerarchia dell'UNMIK. Marie Fuchi che ha diretto il Kosovo Trust Agency nel 2003-2004,è sintetica: l'aiuto giunto al Kosovo è finito nelle mani della mafia locale, e delle somme enormi sono state spese per le attività che non hanno niente da vedere con l'economia del Kosovo, ma sono servite all'arricchimento delle "nomenklature" kosovare e degli alti funzionari dell'UNMIK.

 

In "La storia dei sette predoni”, Zaremba ci spiega come hanno proceduto: Bo Olsen, il nome è inventato, era un piccolo impiegato nel suo paese di origine e, nel Kosovo, diventa consigliere internazionale nella Compagnia di telecomunicazioni PTK. Egli non guadagna che un terzo del suo stipendio, 11.000 euro mensili, ma riesce a mantenersi grazie all’"avvoltoio", un'albanese del Kosovo aiutante di Olsen che guadagna "solamente" 1000 euro, ma che può collocare liberamente un numero illimitato di funzionari stranieri, con stipendi dieci volte più elevati del suo, a condizione che Olsen e lui,ne intaschino una parte.

 

Il terzo complice è un certo Kevin Jeffry, direttore nella stessa Compagnia PTK. Porta da Londra uno dei suoi amici, quale"esperto finanziario" che guadagna 16.000 euro al mese, con i supplementi per la sua automobile di funzionario e quella privata per il week-end, e che è uso giocare durante i sei mesi al poker su internet, invece di lavorare.

 

Appare poi il britannico Roger Reynolds che, tramite il PTK che lo assume, contatta la Compagnia Norway Invest e, per 300.000 euro gli procura un contratto con l'UNMIK di 10 milioni di euro. Poi, lascia la PTK per la Norway-Invest con un stipendio di 20.000 euro mensili pagati per il succoso contratto procurato. La guardia di finanza italiana ("un faro di luce nella storia nera del Kosovo", osserva Zaremba, scopre che il direttore della compagnia norvegese che ha ottenuto il contratto con l'UNMIK è un criminale comune. Così, il contratto è stato annullato, ma il Kosovo non ha mai recuperato i 300.000 euro.

 

Per migliorare la distribuzione di energia elettrica nel Kosovo, l'UNMIK utilizza la compagnia irlandese ESB International, per aiutare la KEK che ha 70.000 euro di perdite all’anno e che toglie l'elettricità agli utenti cinque volte al giorno, e che riesce a farsi pagare un kilowatt utilizzato su due. Gli irlandesi restano tre anni, incassano 10 milioni di euro e lasciano il KEK nello stesso stato in cui l'hanno trovato.

 

Ingiustizie a ripetizione

 

Zaremba continua col darci un lungo elenco di esempi delle illegalità, della criminalità e della corruzione che regna nel Kosovo. Djezide Zodjani che lavorava alle ferrovie, è stata licenziata dopo avere lavorato per 29 anni, con altre impiegate. L'Unmik ha messo alla porta delle donne che avevano una grande esperienza dell'impresa, e dato il posto a dei giovani che ne non hanno nessuna. Le donne licenziate si sono lamentate al tribunale per la discriminazione evidente. Il ricorso è stato respinto perché "le decisioni dell'UNMIK non possono essere messe in discussione, in Kosovo sono al di sopra delle leggi." La signora Zodjani si stupisce: "È possibile che l'ONU c'insegni da una parte dei principi e che dall’altra parte non possano essere applicati?" E Zaremba precisa: "E’ esattamente così…”

 

Continuando la sua serie di capitoli, il giornalista narra il caso istruttivo di Bedri Shabani, impiegato della dogana che ha perso il suo lavoro per avere denunciato un abuso di potere nei suoi confronti. Munito di una documentazione inconfutabile che provava che i suoi capi avevano ricevuto botti di vino dai contrabbandieri, è andato alla polizia delle Nazioni Unite.

 

Il tempo è passato, ma non ha avuto nessuna notizia. Si è rivolto allora ai giornalisti.

 

"E’ stato molto coraggioso ed in accordo con ciò che le Nazioni Unite raccomandano per il Kosovo, ma, in un certo modo, precipitoso, considerando che nel Kosovo si uccide per cose molto meno gravi. Ciò ha portato però dei frutti. Il capo della dogana è stato incarcerato. Ma subito dopo è stato rilasciato perché, in quel momento, il capo dell'UNMIK era il diplomatico tedesco Michael Steiner che intratteneva delle relazioni intime con la ragazza di uno dei responsabile della dogana,… che era il migliore amico del capo incarcerato. ”

 

Shabani ha scritto al Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Anan, perché gli eras tato detto che il Segretario generale era la più alta istanza del Kosovo.

 

Grave errore. Il povero Shabani è stato licenziato dal suo lavoro. Il tribunale di Pristina ha giudicato questo illegale, ma il capo della dogana dell'Unmik ha deciso di non applicare il giudizio del tribunale instaurato dall'ONU, e che giudica secondo le leggi decretate dalla stessa ONU.

 

Nel Kosovo, ci sonomigliaia di Shabani e di Zodjani, perche’ le Nazioni Unite rappresentano l'illegalità e la perdita di ogni illusione, dice Zaremba.

 

Alla fine della sua serie di articoli sugli abusi di potere nel Kosovo, Zaremba avverte i suoi lettori:

 

"Se credete che questi problemi non abbiano nessuno rapporto con voi, permettetemi di informarvi che la mafia del Kosovo vende l'eroina a Kalmar (porto della Svezia), a Saint-Denis, Lione ecc., ecc.; gestisce il traffico della prostituzione ad Oslo, a Parigi, a Londra. E con ogni probabilità, andrà a sponsorizzare il governo a Pristina, quando questa regione otterrà la sua indipendenza." (…)

 

Da B. I. N° 127, dicembre 2007.

 

Tradotto dal Forum Belgrado Italia per www.resistenze.org


(una analisi del giurista Norman Paech sulla posizione del Ministero degli Esteri tedesco, che ha ufficialmente dichiarato che un riconoscimento unilaterale della "indipendenza" kosovara sarebbe ammissibile nel quadro della Risoluzione UN 1244)


Ü. N. Schulz empfangen und weiterleiten wir:

----- Original Message -----
*From:* "Norman Paech, MdB Büro Hamburg"
*Sent:* Monday, January 07, 2008 5:56 PM
*Subject:* Auswärtiges Amt vs. Norman Paech zum Status des Kosovo

Liebe FriedensfreundInnen,

anbei zu Ihrer Information ein Gutachten des Auswärtigen Amtes (2) zum Status des Kosovo sowie eine Stellungnahme von Norman Paech (1) zu diesem Papier.

Mit freundlichen Grüßen
Annette Sawatzki

-- 
Annette Sawatzki
Wahlkreisbüro Prof. Dr. Norman Paech, MdB
Kreuzweg 7
20099 Hamburg
Fon: +49- 40 280 56546
Fax: +49- 40 280 56547
norman.paech  @...


=== (1) ===


Prof. Dr. Norman Paech

„Resolution des Sicherheitsrats 1244 (1999) und eine evtl. Unabhängigkeitserklärung des Kosovo“

Eine Gegenstellungnahme zur Position des Auswärtigen Amtes

Das Auswärtige Amt hat dem Außenpolitischen Ausschuss des Bundestages eine völkerrechtliche Einschätzung der „Resolution des Sicherheitsrates 1244 (1999) und eine evtl. Unabhängigkeitserklärung des Kosovo“ übermittelt. Darin vertritt es angesichts der als unvermeidlich angesehenen Unabhängigkeitserklärung des Kosovo im Frühjahr 2008 im Wesentlichen drei Thesen: 1. Die Resolution 1244 (1999) des UNO-Sicherheitsrats verbiete ebenso wenig die einseitige Unabhängigkeitserklärung des Kosovo wie die anschließende Anerkennung des Kosovo durch Drittstaaten. 2) Die Resolution 1244 (1999) gelte auch nach einer Unabhängigkeitserklärung des Kosovo weiter, was die Fortwirkung der Mandate für UNMIK und KFOR sicherstelle. 3) Dennoch sei eine ausdrückliche Einladung durch das unabhängige Kosovo für die internationalen Präsenzen wünschenswert.

Angesichts der Entschlossenheit der Kosovo-Albaner und der sie unterstützenden USA sowie der meisten EU-Staaten, die Abtrennung des Kosovo von Serbien voranzutreiben und in den nächsten Monaten durchzusetzen, können die zu ihrer Legitimierung vorgetragenen völkerrechtlichen Argumente nicht unwidersprochen bleiben.


1. Weder Resolution 1244 (1999) noch das allgemeine Völkerrecht erlauben die einseitige Unabhängigkeitserklärung des Kosovo.

Resolution 1244 (1999) betont an verschiedenen Stellen, sowohl in der Präambel und dem Hauptteil, als auch in Anlage 2 die Verpflichtung aller Staaten, „die Souveränität und territoriale Unversehrtheit der Bundesrepublik Jugoslawien“ (später Serbien) zu beachten. Diese Verpflichtung ist eine völkerrechtliche Selbstverständlichkeit, die sich auch ohne Rückgriff auf Resolution 1244 aus Art. 2 UN-Charta ergibt. Sie ist also nicht auf die durch Resolution 1244 eingerichtete Übergangsverwaltung beschränkt, sondern gilt unabhängig und jenseits von ihr.

Im Rahmen dieser völkerrechtlichen Pflichten ist durchaus eine Abtrennung des Kosovo von Serbien als endgültige Statuslösung möglich. Sie muss jedoch auf der einvernehmlichen Übereinkunft beider betroffenen Staatsteile beruhen, wie es z.B. bei der Trennung der alten Tschechoslowakei der Fall gewesen ist. Sind die Verhandlungen gescheitert, wie es offensichtlich jetzt angenommen wird, so eröffnet sich nicht automatisch ein Recht auf Sezession. Dies ist genauso wenig der Fall, wie sich nach einem Veto im UNO-Sicherheitsrat ein Recht auf militärische Gewaltanwendung eröffnet. Die einseitige Sezession wurde nur den kolonial unterdrückten Völkern in ihrem Kampf um Unabhängigkeit zur Verwirklichung ihres Selbstbestimmungsrechts zuerkannt. Nachdem diese Epoche der Dekolonisation bis auf einige wenige Fälle (z.B. Westsahara) der Geschichte angehört, wird eine einseitige Sezession nur noch den Völkern zuerkannt, denen nachhaltig die elementaren Grund- und Menschenrechte vorenthalten werden. Das ist jedoch beim Kosovo trotz aller dort in der Vergangenheit begangener Verbrechen heute nicht der Fall. Die neue serbische Verfassung vom Oktober 2006 erkennt dem Kosovo ausdrücklich einen autonomen Status mit weitgehenden Selbstverwaltungsrechten zu.

Der UNO-Sicherheitsrat ist ebenso wie alle Mitgliedstaaten an die Achtung der Souveränität und territorialen Unversehrtheit gebunden und darf sich gem. Art. 2 Ziffer 7 UN-Charta nicht in die inneren Angelegenheiten eines Staates einmischen. Die Abtrennung eines Teils wäre aber auf jeden Fall eine solche unzulässige Einmischung. Eine derart einschneidende Entscheidung wäre auch nicht auf der Basis von Art. 42 Abs. 2 UN-Charta zur Sicherung oder Wiederherstellung des Friedens möglich. Die Einrichtung des Jugoslawientribunals oder die Einschränkung der Souveränität des Irak im kurdischen Norden des Landes durch die Resolution 688 von 1991 sind zwar auf der Basis von Art. 42 Abs. 2 UN-Charta getroffen worden, sind aber mit Maßnahmen der Staatenteilung und -neubildung nicht vergleichbar. Auch die berühmte Teilungsresolution 181 von 1947 war keine konstitutive Teilung Palästinas, sondern nur ein Vorschlag.

Die Kontaktgruppe hat in den „Guiding Principles“ vom November 2005 ausdrücklich alle beteiligten Parteien davon unterrichtet, dass „die Regelung der Kosovo-Frage in voller Übereinstimmung mit den internationalen Standards der Menschenrechte, der Demokratie und des Völkerrechts erfolgen und zur regionalen Sicherheit beitragen“ solle, und ferner, dass „jede Lösung, die einseitig oder mit dem Einsatz von Gewalt herbeigeführt werde, unakzeptabel sei.“ Sie hat also selber jedes einseitige Vorgehen nicht als Beitrag zu einer friedlichen Lösung angesehen, sondern als Störung des Friedens abgelehnt.


2. Die Anerkennung einer unzulässigen Sezession ist ein völkerrechtliches Delikt.

Ein Staat bedarf zu seiner Entstehung nicht der Anerkennung der UNO oder anderer Staaten. Er muss lediglich ein Staatsgebiet, ein Staatsvolk und eine effektive Staatsgewalt vorweisen. Letztere wäre jedoch beim Kosovo zweifelhaft. Dies vor allem deswegen, weil die Resolution 1244 weiterhin verbindlich ist und der Unabhängigkeitserklärung entgegensteht. Sie ist als Beschluss des UN-Sicherheitsrats gem. Art. 25 UN-Charta für alle UN-Mitgliedstaaten verbindlich und damit auch für die EU. Sie verbietet deshalb nicht nur eine Anerkennung des Kosovo als Staat, sondern auch die Ausbildung und Unterstützung seiner eigenen separaten Staatsgewalt, wie es die USA und die EU jedoch beabsichtigen. Statt den abgespaltenen Kosovo anzuerkennen, müsste die deutsche Leitung der UNMIK-Übergangsverwaltung gegen die Unabhängigkeitserklärung vorgehen und ihre Ungültigkeit erklären. Der Leiter der UNMIK ist gleichsam der von den Staaten bestellte Garant von Recht und Ordnung, der Wahrer des Völkerrechts, der nicht tatenlos seine eigene Entmachtung durch ein nicht legitimiertes Provinzparlament hinnehmen dürfte. So haben die Vorgänger des gegenwärtigen Leiters der Protektoratsbehörde im Kosovo schon bei weitaus geringeren Verstößen von Politikern des Kosovo von ihren Amtsvollmachten Gebrauch gemacht und die Akte per Dekret aufgehoben.

Die Regierung in Belgrad hat angekündigt, gegen eine Anerkennung des Kosovo vor dem Internationalen Gerichtshof in Den Haag zu klagen. Ihr zentrales Argument wäre der Bruch des Völkerrechts durch die Anerkennung, da mit ihr das in der UN-Charta verankerte Prinzip der territorialen Unversehrtheit der Staaten verletzt wäre. Es ist derzeit nichts ersichtlich, was einen solchen Verstoß gegen das Völkerrecht rechtfertigen könnte – auch nicht die immer wieder beschworenen Unruhen, die bei einer weiteren Hinauszögerung der endgültigen Entscheidung über den Status des Kosovo zu erwarten wären.

Die Staaten der EU würden mit einer Anerkennung zudem gegen ihre eigenen Prinzipien verstoßen. Die faktische Sezession Nordzyperns haben sie unter Hinweis auf das Völkerrecht ebenso nicht anerkannt, wie sie die Sezessionsbestrebungen der Kurden, Katalanen und der Basken ablehnen. Das Prinzip der territorialen Integrität geht in allen diesen Fällen dem Selbstbestimmungsrecht der Völker in der Form des Sezessionsrechts vor. Das Selbstbestimmungsrecht beschränkt sich auf die Einräumung von Autonomierechten, wie sie z.B. den Katalanen und Basken in weitgehendem Maße, den Kurden aber in gar keiner Weise eingeräumt worden sind.


3. Resolution 1244 (1999) kann eine einseitige völkerrechtswidrige Unabhängigkeitserklärung nicht überdauern.

Es ist zwar richtig, dass Resolution 1244 keine Befristung und keine auflösende Bedingung enthält. Sie dauert solange fort, bis der UN-Sicherheitsrat selbst eine neue Resolution beschließt. Dazu wird es auf Grund der unterschiedlichen Positionen vor allem der Veto-Mächte in absehbarer Zeit nicht kommen. Die Ansicht des Auswärtigen Amtes allerdings, dass der Sicherheitsrat auch nicht die einseitige Unabhängigkeitserklärung sowie die anschließende Anerkennung durch Drittstaaten zu einem Beendigungsgrund für seine Resolution machen wollte, sie also als Mandat für die UNMIKVerwaltung wie die KFOR-Truppen fortbestehen würde, geht an der Realität vorbei. Es ist unverständlich, wie das Auswärtige Amt, ganz abgesehen davon, dass Deutschland seinerzeit nicht Mitglied im Sicherheitsrat war und es auch derzeit nicht ist, zu dieser Interpretation des Willens des Sicherheitsrats kommen kann.

Die Übergangsverwaltung, welche Resolution 1244 (1999) organisieren und garantieren sollte, wäre mit der Unabhängigkeit des Kosovo definitiv vorbei. Die Intention des Sicherheitsrats, den Endstatus mittels einer Vereinbarung zu erreichen, wäre durchkreuzt. Für ihn stand nie eine einseitige Unabhängigkeitserklärung, da völkerrechtswidrig, zur Debatte. Der Resolution 1244 (1999) wäre der faktische Boden entzogen, sie müsste durch eine neue Resolution ersetzt werden. Denn die Mandate für UNMIK und KFOR bezogen sich auf die Sicherung der Übergangsverwaltung. Sie können nicht nach der völkerrechtswidrigen Beendigung des Protektorats umstandslos für die neuen Aufgaben der Sicherung eines von dem Sicherheitsrat so nicht vorgesehenen Zustandes verwendet werden.

Die Anerkennung der Unabhängigkeit durch die USA und die Mehrheit der EU-Staaten würde an dieser rechtlichen Situation zunächst nichts ändern. Solange der Sicherheitsrat keine neue Resolution verabschiedet, besteht die alte Resolution zwar fort. Allerdings vermag sie auf Grund der veränderten Situation nicht mehr das Verbleiben von UNMIK und KFOR im Kosovo auf der bisherigen Grundlage zu legitimieren. Wenn beide nicht in der Lage sind, den völkerrechtsgemäßen Zustand zu gewährleisten, oder es nicht wollen, müssten sie sich zurückziehen.

Eine „Einladung“ durch ein „unabhängiges“ Kosovo an die internationale Staatengemeinschaft, ihre Truppen im Kosovo zu belassen, würde den Widerspruch zwischen völkerrechtswidrigem Status und politischer Entscheidung zunächst nicht auflösen können. Sie könnte allerdings ein Beleg für eine erstarkende effektive (kosovarische) Staatsgewalt sein und unterstreichen, dass der Prozess der Abtrennung faktisch vollzogen ist. Die militärischen Kontingente, die bislang als KFOR-Truppen fungiert haben, könnten ihre Legitimation aber nicht mehr auf die Resolution 1244 gründen.

4. Anstatt die Entwicklung bis zu diesem Punkt kommen zu lassen, die eine „kalte“ Aushebelung der Res. 1244 darstellen würde, müsste alles getan werden, um sie im letzten Augenblick noch zu verhindern. Gegen den erklärten Willen der Kontaktgruppe und der USA dürften die Politiker im Kosovo es nicht wagen, ihre Unabhängigkeit von Serbien zu erklären. Sollten sie es dennoch tun, wäre die unmittelbar folgende Anerkennung das falsche Signal. Auf jeden Fall hätte sie schwerwiegende Folgen für die Glaubwürdigkeit der Ordnungs- und Friedenspolitik der NATOStaaten. Sie haben schon 1999 unter Verletzung des Völkerrechts Jugoslawien bombardiert und würden nun eine staatliche Neugründung fördern, die sie zwar für unvermeidbar halten, die aber erneut das Völkerrecht missachtet. Eine solche Politik untergräbt nicht nur ihre eigene Glaubwürdigkeit und führt zu neuen internationalen Spannungen, sondern trägt zur Erosion zentraler Prinzipien des Völkerrechts bei, wie die Gleichheit und Souveränität der Staaten, die territoriale Integrität und die Unversehrbarkeit der Grenzen. Insofern ist die Stellungnahme des Auswärtigen Amtes kein Beitrag zu einer Friedenslösung sondern das Gegenteil davon. Sie steht in diametralem Widerspruch zu dem ausdrücklichen Bekenntnis des Auswärtigen Amtes zum Völkerrecht als Grundlage seiner Außenpolitik. Eine wiederholte Missachtung des Völkerrechts führt nämlich zu seiner Schwächung und zeitigt negative Konsequenzen für die Lösung anderer vergleichbarer Konflikte. Sie wird sich schließlich auch gegen die Staaten selbst wenden, die seine Prinzipien jetzt unterlaufen. Vor einer solchen Politik ist dringend zu warnen.


Hamburg, 3. Januar 2007

Prof. Dr. Norman Paech, MdB


=== (2) ===

Kosovo
Resolution des Sicherheitsrates 1244 (1999) und eine evtl. Unabhängigkeitserklärung des Kosovo

1. Resolution 1244 (1999) verbietet eine einseitige Unabhängigkeitserklärung und die nachfolgende Anerkennung des Kosovo durch andere Staaten nicht.

• Die in der Präambel sowie im Anhang 2 der Resolution 1244 enthaltene Verpflichtung der Mitgliedstaaten der VN auf die Wahrung der Souveränität und territorialen Integrität der Bundesrepublik Jugoslawien (heute: Republik Serbien) bezieht sich auf das Übergangsregime, das mit der Resolution eingerichtet wurde.
• Resolution 1244 (1999) trifft keine Aussage über den endgültigen Rechtsstatus des Kosovo.
• Resolution 1244 (1999) fordert einen politischen Prozess zur Lösung der Statusfrage. Nachdem alle Möglichkeiten einer Einigung zwischen Serbien und Kosovaren mit ergebnislosem Abschluß des sog. Troika-Prozesses ausgeschöpft sind, sind jedoch andere, völkerrechtlich zulässige Möglichkeiten zur Lösung der Statusfrage nicht länger ausgeschlossen.
• Die Annahme, Resolution 1244 (1999) verbiete jede andere Lösung auch über das klare und definitive Scheitern eines Verhandlungsprozesses hinaus, würde dazu führen, daß beim Scheitern dieses Prozesses überhaupt kein anderer Weg mehr gangbar wäre. Das kann auch der Sicherheitsrat mit dieser Resolution nicht bezweckt haben.

2. Resolution 1244 (1999) gilt auch über eine evtl. einseitige Unabhängigkeitserklärung des Kosovo hinaus fort.

•  Resolution 1244 enthält keine Befristung und keine auflösende Bedingung, bei deren Ablauf bzw. Eintritt die in ihr enthaltenen Mandate automatisch erlöschen würden.
•  Ziff. 19 dieser Resolution ordnet vielmehr ausdrücklich an, daß die Mandate der internationalen zivilen und Sicherheitspräsenzen, die die Resolution vorsieht, solange bestehen, bis der Sicherheitsrat selbst etwas anderes beschließt.
•  Ob der Sicherheitsrat eine Veränderung der Rahmenbedingungen, die in einer einseitigen Unabhängigkeitserklärung des Kosovo und in der Anerkennung des Kosovo als unabhängigem Staat läge, wenigstens konkludent zu einem Beendigungsgrund für seine Resolution machen wollte, ist durch Auslegung der Resolution selbst zu ermitteln. Diese Auslegung ergibt keine Anhaltspunkte für einen solchen Willen des Sicherheitsrates:

- Erfahrungen mit früheren Resolutionen in verschiedenen Bereichen sprechen dagegen, daß der Sicherheitsrat die Entstehung eines sich für unabhängig erklärenden Kosovo zur auflösenden Bedingung seiner Resolution machen wollte. Diese Präzedenfälle demonstrieren im Gegenteil, daß selbst dort, wo sich die Lage fundamental verändert hatte (Bsp.: Sturz des Regimes von Saddam Hussein im Irak) der Sicherheitsrat immer noch Wert darauf legte, selbst die Konsequenzen für seine Resolutionen zu ziehen (in diesem Beispiel: ausdrückliche Aufhebung des Sanktionsregimes Irak in einer neuen Resolution und nicht etwa stillschweigendes Wegfallen der Sanktionen). Es entspricht der Praxis des VN-Sicherheitsrates, Mandate, sofern sie nicht von vorneherein befristet sind, formell zu beenden (Beispiel aus jüngerer Zeit: Beendigung von UNMOVIC im Irak durch Resolution 1762 vom 29. Juni 2007). Auch Ziff. 11 (f) der Resolution 1244 (1999) spricht dagegen, daß der Sicherheitsrat bereits eine Unabhängigkeitserklärung des Kosovo als Beendigungsgrund für seine eigene Resolution werten wollte: Dort ist nämlich von einer Schlußphase die Rede, in der die Staatsgewalt von den provisorischen Einrichtungen auf die im Rahmen einer endgültigen Lösung geschaffenen Institutionen übertragen werden soll. Diese Formulierung ergibt nur dann einen Sinn, wenn auch die Resolution mindestens so lange gelten soll.

- Noch weniger ist anzunehmen, daß der Sicherheitsrat beabsichtigt hat, seine Resolution unter die auflösende Bedingung der Anerkennung eines unabhängigen Kosovo durch andere Staaten zu stellen. Da verschiedene Staaten zu unterschiedlichen Zeitpunkten und manche Staaten auch gar nicht anerkennen werden, würde das bedeuten, daß eine an alle Mitgliedstaaten der VN gerichtete Resolution des Sicherheitsrates für einige Staaten schneller, für andere langsamer wegfiele und für wieder andere unbefristet weitergälte. Es kann dem Sicherheitsrat nicht unterstellt werden, daß er eine derartige Zersplitterung der Geltung seiner Resolution gewollt oder gebilligt hat.

- Gegen eine solche Auslegung der Resolution 1244 (1999) spricht auch der große Wert, den der Sicherheitsrat auf seine Autorität als des für die Wahrung des Weltfriedens und der internationalen Sicherheit hauptsächlich verantwortlichen Organs (Art. 24 der VN-Charta) legt. Auch diese Erfahrung spricht dafür, daß der Sicherheitsrat Fragen von fundamentaler Bedeutung – wie Beginn und Ende von ihm erteilter Kapitel-VII-Mandate – selbst trifft, wenn die Frage entscheidungsreif ist, und nicht von möglicherweise sehr unbestimmten Bedingungen abhängig macht. Dies würde a fortiori gelten, wenn jeder Staat durch die Entscheidung, ob und wann er ein unabhängiges Kosovo anerkennt, selbst die Geltungsdauer einer Sicherheitsratsresolution bestimmen könnte.

- Resolution 1244 (1999) verfolgt das Ziel, für eine Übergangsphase Frieden und Sicherheit zu gewährleisten und dadurch die Herbeiführung einer endgültigen Lösung des Kosovo-Problems zu ermöglichen. Ein „Wegfallen“ der Mandate nach einer Unabhängigkeitserklärung würde diesem Ziel (Beendigung des Konfliktes, Gewährleistung von Sicherheit und Ordnung im Kosovo als einer multiethnischen Gesellschaft) geradezu entgegenwirken. Die Mission müßte beendet werden, wenn sie am dringendsten gebraucht würde. Das kann nicht im Sinne des Sicherheitsrates sein.

3. „Einladung“ der internationalen Präsenzen durch das Kosovo ist wünschenswert

•  Eine Einladung des Kosovo an die internationale Gemeinschaft, die zivilen und Sicherheitspräsenzen auf der bisherigen Grundlage weiterzuführen, wäre – für sich gesehen und unabhängig von Resolution 1244 (1999) – ebenfalls eine ausreichende völkerrechtliche Grundlage für die Fortführung der Missionen.
•  Da Resolution 1244 (1999) fortgilt und weiterhin eine ausreichende Grundlage für die Missionen darstellt, benötigen wir eine Einladung des Kosovo aus rechtlichen Gründen nicht.
•  Aus politischen Gründen wird eine solche Einladung aber von großer Bedeutung sein, weil sie klarstellt, daß die Missionen mit Zustimmung und auf Wunsch von Regierung und Volk des Kosovo weitergeführt werden.




(Voci particolarmente preoccupate sulla posizione occidentale riguardo al Kosovo arrivano dalla Repubblica Ceca, dove non è venuta meno la memoria di cosa successe in seguito al riconoscimento internazionale della "autodeterminazione" dei Sudeti (Patto di Monaco, 1938). Inoltre, militari cechi e slovacchi della KFOR hanno assistito molto da vicino, in questi anni, alle violenze compiute contro la parte non-schipetara della popolazione autoctona del Kosovo come anche contro gli schipetari democratici... a cura di IS)


Historical parallels: Czechoslovakia 1938, Serbia 2008

1) Serbia to "become the first country in Europe to have been humiliated by a land grab since the Munich agreement” ?
November 23, 2007

2) Czech Parliament may reject an independent Kosovo
January 8, 2008

3) Former Czech Foreign Minister Jirí Dienstbier: "In Kosovo itself, no one calls himself a Kosovan. 
Rather, they identify themselves as Albanians, Serbs, Turks or Roma"
January 8, 2008

4) September 1938: last-minute appeals for moderation as Hitler builds up forces on the Czech border

5) FLASHBACK:
Kosovo: Czech First-Hand Account Of Ethnic Terror
The Prague Post - March 25, 2004


Vedi anche, see also:

Historical parallels show EU’s Kosovo policy is insane
By: Jiří Hanák, Czech Business Weekly 07. 01. 2008

Most of the following documents have been collected by Rick Rozoff


=== 1 ===


West ‘pressing to dismember Serbia’

BELGRADE The Serbian Prime Minister has said that powerful Western nations have asked his country to give up the province of Kosovo voluntarily and to be an accomplice to the creation of a new Albanian state.

Vojislav Kostunica said: “We must now decide whether Serbia will succumb to this violence and become the first country in Europe to have been humiliated by a land grab since the Munich agreement.” That led in 1938 to Hitler’s dismemberment of Czechoslovakia. Officials from Serbia and Kosovo are to hold talks about the future status of the province over three days in Baden, Austria, next week, after talks on Tuesday failed.

Belgrade insists that Kosovo, which has been under UN administration since 1999, is part of its territory and history. It is willing to grant its southern province wide autonomy, but not the independence demanded by the ethnic Albanian majority. (AFP)

West  ‘pressing to dismember Serbia’ - Times Online
November 23, 2007


=== 2 ===


Radio Prague - January 8, 2008

Czech Parliament may reject an independent Kosovo


The Serbian province of Kosovo is expected to declare
independence from Serbia early this year. 

The Czech foreign policy on this hot issue has been
following the moderate attitude of the European Union
calling for an agreement between the Serbian
government and Kosovo’s Albanian majority. 

But the lower house of the Czech Parliament might push
for a change in the Czech stance. An opposition MP
wants a resolution passed denouncing a unilateral
declaration of independence for Kosovo. 

After the UN Security Council failed in December to
reach a compromise on the issue of the status of the
Serbian province of Kosovo, the European Union assumed
a leading role in implementing a solution. 
....
An opposition MP Kateøina Koneèná, of the Communist
Party, wants to change this. She says she will motion
a resolution in the Chamber of Deputies denouncing any
unilateral declaration of independence by Kosovo’s
Albanians. 

“Kosovo as such has always belonged to Serbia. If this
is not respected, we are really worried that – apart
from damaging Serbia – a wave of similar actions in
other European countries might break out. This is very
dangerous at a time when Europe wants to share a
common foreign policy and take common measures in its
foreign policy.” 

The Social Democrats, the stronger of the two
opposition parties in the Czech parliament’s lower
house, share a similar view citing international
guarantees given to Serbia by the EU and NATO over
territorial integrity. Social Democrat Jan Hamáèek is
the head of the Chamber of Deputies’ Foreign Affair
Committee. 

“We have issued a statement calling for further
negotiations on the matter. The statement does not
support any unilateral declaration of independence.
The Czech Social Democrats are against it.” 

In their effort to change the official Czech position
on Kosovo, the opposition might find unexpected allies
in the MPs of the strongest party of the house, the
coalition Civic Democrats. Jan Vidím is one of them. 

“I am personally very sceptical with regard to a
unilateral declaration of independence by Kosovo
Albanians. If the Chamber of Deputies gets to vote on
a resolution rejecting this declaration, I might well
support it.” 

Communist MP Kateøina Koneèná wants to put the vote on
the agenda of Parliament’s extraordinary session on
January 15, before a European Union envoy visits
Kosovo at the end of the month. 

If passed, the opposition hopes the motion would
change the Czech policy on an independent Kosovo. But
Martin Povejšil, of the Foreign Ministry, says under
the Czech constitution, it will still be up to the
government to decide. 

“Parliament will not be able to change the
constitution in this respect. Legally, the government
will still have the authority to decide on a possible
recognition or non-recognition of Kosovo’s
independence. Any parliamentary stance on that issue
will of course have its political impact but it will
not limit the constitutionally-given powers of the
cabinet.” 


=== 3 ===


Pravo (Czech Republic) - January 8, 2008 

No such thing as a Kosovan 

Former Czech Foreign Minister Jirí Dienstbier, who for
many years served as special rapporteur for the UN
High Commissioner for Human Rights in the Balkans,
understands Serbia's hesitation to accept an
independent Kosovo: 

"International mediators have never seriously sought
compromise; rather, they have only tried to pressure
Serbia to accept Kosovo's independence. 

"Russia was the only one that always saw this as the
worst option for stabilizing the Balkans. 

"Attempts to support recognition of an independent
Kosovo lead to bizarre notions. 

"The term 'Kosovan' sounds multi-ethnic. But in Kosovo
itself, no one calls himself a Kosovan. 

"Rather, they identify themselves as Albanians, Serbs,
Turks or Roma." 


=== 4 ===


Radio Prague - January 10, 2008

September 1938: last-minute appeals for moderation as
Hitler builds up forces on the Czech border

By David Vaughan


This week we continue our look into the dramatic
events in Czechoslovakia just before World War Two. By
the summer of 1938, Hitler’s Germany was demanding
nothing less than the immediate annexation of the
entire Sudetenland – all parts of Bohemia and Moravia
with a German speaking majority. 

The Sudeten German Party had made big gains among
German speakers in local elections earlier that year,
and the Nazi rhetoric of their leaders was
unambiguous.

The radio archives include a recording of one
prominent Sudeten German politician, Wilhelm
Sebekowsky, talking at a huge political rally in
Dresden on 19th September 1938, a few days after his
party had been banned in Czechoslovakia for leading an
attempted coup in the Sudetenland:

“Victory will be ours,” he screamed, as the crowd as
the crowd responded with deafening and prolonged
cheers, “because the vision of Adolf Hitler must
triumph!”

Two weeks later, victory was indeed theirs, as Britain
and France agreed in Munich to allow Hitler to march
into the Sudetenland. 

Yet there were also Sudeten Germans who remained
vehemently opposed to Hitler. 

The leader of the Sudeten German Social Democrats,
Wenzel Jaksch, gave a moving talk on Radio Prague’s
English shortwave broadcasts 16th September 1938, just
days before the fateful Munich conference.

“Czechs and Germans cannot annihilate each other. Each
nationality has its failings and its virtues. Somehow
or other a formula for an honest and peaceful
cooperation of the nationalities has eventually to be
found, not only in our country, but in the whole of
Europe. 

"Let us join all forces to avoid that our home
borderland will become a cause of conflict or a
battlefield. 

"Let us create a higher standard of cooperation of the
two nationalities who dwell upon a soil assigned to
them by destiny and which are called to be the bridge
linking the German and Slav peoples.”

Radio Prague also broadcast an address by the
anti-Nazi Sudeten German priest, Emmanuel Joseph
Reichenberger, appealing in vain to his fellow Sudeten
Germans not to let themselves be seduced by the
fanatical rhetoric of their leaders.

“We are standing on the edge of a precipice. An
unbounded campaign of hate has claimed its first
victims. 

"I speak as a German who truly loves his people and
home and wishes to protect them from destruction. We
must not bear the burden of the hatred and curses of
the rest of the world. 

"I speak as a human being and a Christian, who sees
God’s image in every human soul, who believes in
worthier ways of settling human and inter-state
differences than war and annihilation. Sudeten German
men and women: think of your responsibility towards
your family before God, your home and our people.
Pray, work, sacrifice for peace. God wishes it.”

A sober message there from the Sudeten German priest
and democrat, Emmanuel Joseph Reichenberger, who not
long afterwards was forced into exile as Hitler took
over the Sudetenland.


=== 5 ===

From:   Rick Rozoff
Subject: [yugoslaviainfo] Kosovo: Czech First-Hand Account Of Ethnic Terror
Date: March 27, 2004 2:58:34 PM GMT+01:00


The Prague Post - March 25, 2004

KFOR troops struggle to prevent further clashes between ethnic Albanians and Serbs in Kosovo.  

By Eva Munk 


-"They smashed everything inside, including our
communications center, made a big pile in front and
set it on fire. Then they turned their attention to
the adjacent Serb cemetery. They knocked over
tombstones, dug up the coffins and scattered the bones
in them." 
-"In Serbian enclaves, Kosovo Albanians are destroying
property, burning houses, chasing people away and even
lynching them. The Serbs are trying to defend
themselves and we are trying to keep them apart." 
-Mobs of ethnic Albanians attacked Serb enclaves and
KFOR units, leaving 24 dead and about 850 more
wounded, 22 of them seriously. 
Mobs razed hundreds of Serb houses and 17 Orthodox
churches and monasteries. 
-[K]osovar leaders say the only way to resolve the
underlying causes of the conflict is to give the
province independence. But European leaders agree that
such a move could again destabilize the Balkans -- not
to mention what such a move would mean for Kosovo's
Serb and Romany minorities. 
"Of course they would kill us or drive us out," said
Romany journalist Jackie Buzoli. 


Captain Jindrich Plescher had never seen anything like
it.

"We were defending a Serb Orthodox church in the town
of Podujevo against a mob of 500 Albanians, but there
were too many for us," he recalled. "When they broke
through the wall [around the church], we got orders to
retreat. 

"They smashed everything inside, including our
communications center, made a big pile in front and
set it on fire. Then they turned their attention to
the adjacent Serb cemetery. They knocked over
tombstones, dug up the coffins and scattered the bones
in them." 

For the first time March 21, the professionally
optimistic voice of Plescher, press spokesman for the
Czech-Slovak KFOR battalion in Kosovo, sounded tired. 

"Sorry, we've been on our feet since last week," he
said. "Our boys have been rounding up Serb families,
pulling them out of cellars and out of burning houses
-- saving their lives." 

Czech and Slovak soldiers have been supporting KFOR's
Brigade center -- a multinational unit consisting of
Finnish, Swedish and Irish troops, located around the
administrative center of Pristina -- since mobs of
ethnic Albanians went on a rampage against Kosovo's
Serb minority March 17. 

"The Serbs are very happy to see Czech and Slovak
troops. They see us as keepers of the peace," Plescher
said. 

For most of the week, they helped defend Serb enclaves
in the towns of Lipljan, Plemetina, Babin Most,
Caglavica and Gracanica. By March 21 they had
consolidated around the village of Obiliç, a Serb
enclave northwest of Pristina, and were evacuating the
remaining Serb inhabitants to military headquarters in
the city. The Serb homes in the village were ransacked
and burned, said unit commander Josef Kopecky. 


Albanian rage 

In times of peace, the 500-strong Fourth Czech-Slovak
KFOR battalion keeps the peace in an area of 1,000
square kilometers (386 square miles) in the northeast
corner of the province, including 104 kilometers (65
miles) of borderland and a long stretch of the
Belgrade-Pristina highway. The area was expanded by
179 square kilometers March 22 to include more
ethnically mixed villages. 

Now their mission is simply to protect Serbs from
enraged mobs of ethnic Albanians. 

"The residents have gone to war with each other using
whatever they can -- iron bars, rifles, handguns and
even grenades," Kopecky said March 19. "In Serbian
enclaves, Kosovo Albanians are destroying property,
burning houses, chasing people away and even lynching
them. The Serbs are trying to defend themselves and we
are trying to keep them apart." 

No Czech or Slovak soldiers have been hurt, except for
one Slovak who was hit on the head with a rock,
Plescher said. "He was up on his feet again the next
day. Please, please tell everyone back home that all
our boys are alive and well." 

The Czech government had planned to withdraw 100
troops from Kosovo by May 1. But the performance of
the Czech soldiers in quelling the riots has made the
government change its mind about downsizing the force
in the province, Czech Prime Minister Vladimir Spidla
told reporters. 


The rampage broke out March 17 after two Albanian boys
were drowned in the Ibar river, reportedly chased
there by Serbs. That event triggered the worst
violence the province has seen since 1999. Mobs of
ethnic Albanians attacked Serb enclaves and KFOR
units, leaving 24 dead and about 850 more wounded, 22
of them seriously. 

Mobs razed hundreds of Serb houses and 17 Orthodox
churches and monasteries. 

Ironically, the riots started days after UN
Undersecretary General for Peacekeeping Jean-Marie
Guehenno praised evident progress in Kosovo and urged
displaced persons to return to their homes. 

That hardly seems likely now. 

Instead, NATO plans to augment its 17,000-strong
presence in the province with 2,000 more troops. UN
officials and the commander of NATO forces in Southern
Europe, Admiral Gregory Johnson, are now saying the
riots appear to have been well-planned and organized. 

In Serbia, the violence triggered anti-Albanian
protests, and several mosques were burned. 

Serbian Foreign Minister Goran Silvanovic said the
riots prove that KFOR and UN forces have no real
authority in the province and are incapable of
protecting Kosovo's minorities. 


Independence demand 

For their part, Kosovar leaders say the only way to
resolve the underlying causes of the conflict is to
give the province independence. But European leaders
agree that such a move could again destabilize the
Balkans -- not to mention what such a move would mean
for Kosovo's Serb and Romany minorities. 

"Of course they would kill us or drive us out," said
Romany journalist Jackie Buzoli. 

So far, according to Romany activist and Kosovo
correspondent Paul Polansky, the Albanians' rage has
bypassed the Roma, who are merely being urged not to
help the Serbs. 


Eva Munk can be reached at news@... 








Pornografia e chiesa cattolica: lo scandalo T2

11.01.2008    scrive Franco Juri


TV via cavo, internet e telefonia. La società T-2 sta sbaragliando la concorrenza. Anche grazie all'offerta di canali dal contenuto pornografico. Niente di strano, se non che proprietaria della T-2 è la chiesa cattolica slovena


Mentre la Slovenia, in qualità di presidente di turno dell'UE, inaugura alla grande il suo semestre ospitando a Lubiana la Commissione europea e tanti accademici europei per parlare di »Dialogo interculturale«, dietro alle quinte della composita realtà slovena e dei suoi poteri forti, quelli che in questo momento di più condizionano le scelte a lunga gittata del governo in carica, si consuma una paradossale storia di ipocrisia e „doppia morale“. 

Protagonista è questa volta il vertice stesso della Chiesa cattolico-romana slovena, in particolare la Conferenza episcopale di Maribor. 

Lo scandalo si chiama T-2, attualmente forse la più popolare società di servizi di telecomunicazione (TV via cavo, internet e telefonia) in Slovenia. La popolarità di T-2, che da più di due anni sta facendo incetta di utenti anche per i suoi prezzi concorrenziali e sin dal 2005 per un'offerta innovativa in internet (sistema VDSL) , è dovuta anche alle sue proposte particolarmente »liberali« dei suoi pacchetti TV. 

Tra i programmi cui hanno accesso i clienti di T-2 ce ne sono vari di contenuto decisamente pornografico. Pornografia? Niente di strano, niente di particolare; un optional, messo a disposizione dei telespettatori da vari servizi di telecomunicazione. T-2 è semplicemente quello che in Slovenia offre più pornografia. E allora? 

Non ci sarebbe nulla da obiettare se la triple play T-2 non fosse di proprietà della Conferenza episcopale di Maribor. Proprio così; con una quota di azioni di maggioranza assoluta che la Chiesa cattolica detiene mediante la società finanziaria Zvon Ena, fondatrice e proprietaria di T-2. 

L'holding Zvon Ena, che ha importanti quote di capitale in diverse e importanti imprese slovene ( Sava Kranj, Helios, Lesnina, Hoteli Bernardin, la Banca di Celje, l'holding Inford, la Krekova družba, l'industria di zinco di Celje ecc.) è per il 52%, con azioni acquistate alla fine del 2005 per un valore di 50 milioni di euro, ma oggi notevolmente lievitate, di proprietà della società »Gospodarstvo Rast« fondata direttamente dalla Conferenza episcopale di Maribor e affidata a Mirko Krašovec, un influente uomo d'affari al servizio del vertice ecclesiastico per promuovere gli interessi economici e finanziari della potente chiesa slovena. 

Prima dell' offerta di Krašovec la Zvon Ena era di proprietà della Krekova Banka, un'istituzione originariamente legata anch'essa alla chiesa cattolica di Maribor ( Krašovec ne è stato il principale ispiratore). Più tardi la Krekova Banka è stata acquistata dall'austriaca Raiffeisen Zentralbank, ma Mirko Krašovec ha mantenuto il posto di membro del comitato di controllo nella nuova Raiffeisen Krekova, gestendo con particolare destrezza gli interessi della Conferenza episcopale che rappresenta. 

Dopo due anni di ottimi affari la T-2 e la Zvon Ena sono ora al centro dello scandalo forse più dolente per i vertici della chiesa slovena. L'opinione pubblica è venuta pian piano a sapere che il servizio di telecomunicazioni più popolare e »pornografico« della Slovenia è in mano alla Chiesa cattolica, quella stessa Chiesa che nel paese rimane il principale baluardo della morale cristiana e della famiglia; un baluardo che dai suoi pulpiti lancia strali e anatemi contro decadenza, immoralità e costumi lascivi. Una chiesa decisamente schierata con il conservatorismo di Papa Ratzinger. 

Ostentando sorpresa – dopo che la prorietà di T-2 era ormai un segreto di Pulcinella – è corso a Maribor persino il cardinale Franc Rode, l'uomo del Papa, il primo cardinale sloveno nella storia, vicinissimo all'Opus Dei, e protagonista tempo fa di una storia di raccomandazioni a favore della società italiana di costruzioni Grassetto in un contenzioso di questa con lo stato sloveno. Il favore glielo chiese allora il cardinale Tarcisio Bertone, oggi Segretario di Stato del Vaticano. 

Rode è volato a Maribor per raccomandare ai suoi vescovi una soluzione che tolga la chiesa dal pasticcio, magari salvando capra e cavoli. Evidente l' imbarazzo dei prelati sloveni che in due anni »non si erano accorti« che il proprio servizio di telecomunicazioni offriva ai fedeli sei programmi pornografici. E Rode esige che i vescovi si tirino fuori dall'affare e ripuliscano l'immagine della chiesa immacolata. La curia prende qualche giorno di tempo e poi decide di uscire da T-2, ma cercando di salvare per vie traverse i suoi affari, magari pensando a prestanomi e società by-pass che riducano la visibilità del legame tra il vertice cattolico e i programmi pornografici della famosa »triple play«. Insomma, niente più benedizioni dirette al sesso sfrenato in TV.

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Quando i monsignori diventano lobbisti

25.05.2006    scrive Franco Juri


Il neocardinale sloveno Franc Rode intercede su richiesta di un collega per un'impresa di costruzione italiana. Ma non è abbastanza discreto, e la notizia trapela suscitando interrogativi imbarazzanti. Quali sono i legami tra governo, chiesa e imprese in Slovenia?


Erano passati solo cinque giorni dalla nomina cardinalizia di Franc Rode, il primo prelato sloveno a guadagnarsi la berretta scarlatta e a poter finalmente partecipare a pieno titolo ai concistori. Per la Slovenia, secondo la sua chiesa ed il governo, si trattava di un evento storico: Franc Rode avrebbe finalmente affermato, dal prestigioso pulpito cardinalizio in Vaticano, “gli interessi sloveni” anche lì, a Roma, aveva sottolineato nell'occasione con particolare enfasi il premier Janez Janša. 

La Chiesa slovena sta diventando, giorno dopo giorno, un protagonista particolarmente attivo e presente nelle diverse sfere sociali del paese. Il suo pieno appoggio alle riforme neoliberali del governo Janša ne fa uno degli alleati strategici più importanti della coalizione attualmente alla guida del paese. Scuole private, denazionalizzazione, banche e istituzioni finanziarie, organizzazioni umanitarie, una forte presenza nei media, sempre più controllati dal governo, e due forti “reti” paraecclesiastiche presenti sul territorio: l'Ordine dei Cavalieri di Malta, con influenti adepti tra i ministri e nella diplomazia, e l'Opus Dei, coadiuvato dal nunzio apostolico a Lubiana, lo spagnolo Santos Abril y Castillo, in cerca anch'essa di un suo ruolo attivo nell'opera di sistematica desecolarizzazione in corso nella Slovenia membro dell' Unione Europea. 

Ma cinque giorni dopo la sua “storica” promozione Rode viene abbordato dal ben navigato cardinale genovese Tarcisio Bertone che di punto in bianco gli chiede un favore né sacro, né liturgico, bensì molto profano e legato agli appalti italiani in Slovenia. E così lo convince ad intervenire presso il governo di Lubiana per sbloccare l'impasse venutasi a creare nel contenzioso tra l'impresa di costruzione italiana Grassetto e la DARS, l'agenzia statale slovena per le autostrade. 

Una vecchia storia di soldi che si trascina dal 1999, da quando cioè la Grassetto ottenne l'appalto per il traforo della galleria di Trojane, tra Lubiana e Celje, esibendo al bando di concorso un preventivo estremamente competitivo, un “prezzo stracciato” pari a 14 miliardi di talleri sloveni (circa 60 milioni di euro) che gli altri concorrenti giudicarono, a ragione, irreale, in quanto non considerava la difficile struttura geomorfologica del monte da perforare. 

La Grassetto ottenne l'appalto, ma poi, nel corso dei lavori che procedettero tra mille intoppi, aumentò i costi fino a raggiungere e a ottenere un prezzo molto più elevato di quello preventivato. Ma le spese per l'impresa italiana continuarono ulteriormente a lievitare, e - saldato il conto pattuito - la Grassetto richiese altri 54 milioni di euro “per danni”, il che avrebbe praticamente raddoppiato la spesa iniziale. Visto il categorico rifiuto della DARS, l'impresa Grassetto si rivolse al tribunale dove la causa si è impantanata, non essendoci gli estremi per un'interpretazione plausibile delle clausule del contratto. 

Ma ecco che l'occasione di smuovere il tutto si presenta con l'apparizione di un cardinale sloveno a Roma. Che i cardinali fossero importanti mediatori e lobbisti di grossi interessi economici e finanziari in Italia e altrove, è cosa più che risaputa. Il dettaglio trascurato da Rode è stato però che il lobbing cardinalizio si fa seguendo regole precise; prima di tutto quella di non lasciare tracce dei propri “favori”. Franc Rode invece, seguendo un'etica un tantino teutonica, le cose le fa in regola, rispettoso dell' ufficialità e nella piena fiducia nel destinatario del suo intervento. E il 3 aprile scrive a Janez Janša su lettera intestata, con tanto di firma orgogliosamente completa: Franc Kard. Rode, C.M. prefekt. 

Nella missiva si richiama alla richiesta del cardinale Bertone che propone, in nome della Grassetto, un patteggiamento che eviti ulteriori lungaggini giudiziarie. Rode sposa la causa di Bertone e della Grassetto e consiglia al premier di far accettare alla DARS il pagamento di un risarcimento pari alla metà della somma richiesta. 

Passa un mese e la lettera viene integralmente pubblicata sulle pagine di Mladina. Chi l'ha spedita alla redazione del settimanale sloveno più “disobbediente”? Una talpa? Qualche imbronciato funzionario della DARS? C' è chi sostiene che una lettera di questo calibro possa uscire dall' ufficio di Janša solo con il consenso dello stesso. Che l'astuto Janša sia interessato a ridimensionare nella coalizione il peso ingombrante dei clericali? Troppo complicato. E così il mistero s'infittisce e l'imbarazzo monta. Un cardinale che porta la zucchetta color porpora da soli cinque giorni fa già il lobbista? E per giunta senza rispettare le sacre regole della discrezione? 

La TV di stato e il quotidiano Delo, controllati ormai dal governo e dalla chiesa, censurano o “ignorano” la notizia. A scriverne sono solo le due testate slovene ancora indipendenti: Mladina e Dnevnik. L'inviato a Roma di quest'ultimo cerca inutilmente di strappare a monsignor Tarcisio Bertone una risposta, un commento. È stato veramente lui a chiedere a Rode il favore per la Grassetto? Bertone non si espone e il suo ufficio risponde laconico; il cardinale non ha scritto o firmato alcun documento. L'ingenuo novizio sloveno si arrangi. Nel frattempo però le cose si sono mosse e dal gabinetto di Janša è già partita una lettera che induce gli organi competenti a risolvere il caso, informando in merito sia il premier che il cardinal Rode.