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Tanti auguri dai “fronti di pace”...

1) Tanti auguri dai “fronti di pace”. Parole ed opere dei nostri “Signori della guerra”.
 Comunicato della Rete nazionale Disarmiamoli! – 24.12.2007

2) L’Italia non legittimi azioni unilaterali in Kosovo. Dichiarazione di trentasei Senatori dell'Unione

3) Napolitano con la baionetta: «Finanziare le missioni italiane»

4) «Kosovo, il presidente Napolitano sbaglia»
Intervista al generale Fabio Mini, ex comandante della Nato in Kosovo

5) Tana De Zulueta: L'Italia gestisce il peso di un fallimento... Auguri!



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Tanti auguri dai “fronti di pace”.
Parole ed opere dei nostri “Signori della guerra”.

 

Comunicato della Rete nazionale Disarmiamoli! – 24.12.2007
 
Le Forze Armate italiane – enunciava Napolitano lo scorso 4 novembre - rischiano di dover fronteggiare «nuove e possibili emergenze». Vanno - ricorda - «dall’aggravarsi della situazione in Afghanistan, dall’incombere di gravi incognite nella regione che abbraccia l’Irak e l’Iran, dal riaccendersi di acute contrapposizioni nei vicini Balcani, dal persistere di tensioni nel quadro politico e istituzionale in Libano, dal trascinarsi di una crisi lacerante nel Medio Oriente. L’Italia ha il dovere di sostenere questo impegno e di percepire come proprio l’obiettivo di migliorare le capacità delle nostre forze armate».

 

Le indicazioni del Presidente della Repubblica sono seguite alla lettera, come si evince dalle scelte economiche, politiche, diplomatiche e propagandistiche del governo Prodi.

 

La Legge Finanziaria 2008, approvata grazie ai voti di maggioranza e senatori a vita (un solo NO è risuonato nell’aula del Senato), ha formalizzato l’ulteriore aumento del 12% delle spese militari.

 

In questi giorni di vigilia, i vari esponenti del governo sono impegnati nei vari “fronti di pace”, a salutare i superpagati “bravi ragazzi” dell’esercito professionale e a programmare le future attività di “peacekeeping”.

 

Afghanistan

«Ho avuto un momento di commozione nel vedere i soldati italiani impegnati nell’opera di ricostruzione». Il premier Romano Prodi, nel corso della sua visita al contingente italiano a Kabul, si emoziona di fronte all'impegno e alla passione che militari italiani mettono quotidianamente a disposizione dei civili afgani. E si è congedato facendo gli auguri di Natale e di buon anno nuovo. Non sapremo mai quale accoglienza avrebbero offerto al nostro primo ministro i civili afgani abitanti nell’area di Farah, dove nelle scorse settimane gli elicotteri da combattimento Mangusta e i carri armati Dardo hanno contribuito attivamente alla “ricostruzione” della zona.

 

Libano

Lorenzo Forcieri, il solo sottosegretario alla Difesa rimasto disponibile (l’altro, Marco Verzaschi, deve rispondere di corruzione e concussione nell’integerrimo espletamento delle sue funzioni di ex Assessore alla Sanità in Lazio, giunta  Storace) è andato in Libano, dove ha salutato le truppe italiane di stanza al comando Unifil. "Il governo italiano e tutto il nostro Paese è orgoglioso dell'eccellente lavoro svolto dalle nostre truppe nell'ambito delle missioni internazionali come quella libanese", ha detto Forcieri. Alla fine dell’incontro è stata espressa preoccupazione per l’instabilità interna, che potrebbe provocare un'involuzione della situazione.
L’appoggio incondizionato del governo italiano all’illegittimo governo Sinora e la collaborazione stretta con Israele, nell’eventualità di una probabile ripresa del conflitto, crediamo non aiuteranno i soldati italiani presenti in Sud Libano.

 

Kosovo

Il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, dopo aver presieduto la riunione del Consiglio di sicurezza dell’ONU sul futuro della provincia serba ha detto che: “Quella che si profila per il Kosovo sarà non un'indipendenza piena ma sotto tutela internazionale”.
Il profondo disaccordo tra le parti, albanese (USA - UE) e serba (Russia) verrà risolto attraverso un maggiore impegno militare, in primis dell’esercito italiano, che ha mobilitato un battaglione pronto ad intervenire alla bisogna.

 

Che dire? Una vigilia di speranza, per un futuro di pace e prosperità nell’area. ENI, Finmeccanica e O.N.G. di riferimento ringraziano.

 

Il movimento contro la guerra dice NO, e si prepara alle prossime scadenze - a partire dalla giornata internazionale NoWar del 26 gennaio 2008 - verso una grande manifestazione nazionale contro il rifinanziamento delle missioni all’estero.
 
www.disarmiamoli.org  info@...  3381028120  3384014989


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http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=16436

L’Italia non legittimi azioni unilaterali in Kosovo

su L'ERNESTO del 21/12/2007


E’ ormai evidente come la secessione del Kosovo dalla Serbia rischi di innescare un nuovo conflitto nei Balcani, estendibile a breve ai già delicati equilibri in Bosnia e Macedonia. Questo pericolo è segnalato da un rapporto dell'intelligence NATO del 13 dicembre scorso e deve essere assolutamente evitato. Sarebbe oltremodo contraddittorio concedere al Kosovo ciò che si nega alla Repubblica Serba di Bosnia, alimentando così quel legittimo sospetto che vede le diplomazie dei maggiori stati adottare la politica dei “due pesi e delle due misure”. Vogliamo augurarci che il governo italiano abbia tratto lezione dagli avvenimenti passati e non si appresti a sostenere scelte unilaterali che alimenterebbero nuovi conflitti.

E’ altrettanto evidente come la partecipazione italiana ad una nuova missione militare europea in Kosovo, senza il mandato delle Nazioni Unite, si configurerebbe come una legittimazione delle forze secessioniste in Kosovo e un atto ostile nei confronti della Serbia. Di questo non ha alcun bisogno la politica estera italiana né quella europea.

Il fallimento del negoziato in sede di Nazioni Unite conferma che la strada della secessione unilaterale del Kosovo, sostenuta apertamente dagli Stati Uniti e da alcuni stati dell’Unione Europea, getterebbe nuovamente il peso del conflitto sulla spalle dell’Europa, rendendo drammatiche le responsabilità negative dell’Italia nel nuovo scenario balcanico.

L’Italia ha grandi responsabilità sulla stabilità dei Balcani e sulla questione del Kosovo in particolare. Parte di queste responsabilità sono effetto della decisione presa otto anni fa di partecipare ai bombardamenti della NATO contro un paese europeo – la Serbia – e di condividere la creazione di un protettorato militare internazionale in Kosovo. Ma le responsabilità di oggi rischiano di essere più gravi di quelle nella guerra scatenata nel 1999.

Esortiamo pertanto il governo italiano a sottrarsi da qualsiasi sostegno, legittimazione e riconoscimento di iniziative unilaterali di secessione nella regione. Di conseguenza a non inviare nuovi contingenti in Kosovo. Nessuna soluzione di pace e duratura è possibile se non è rispettosa dei diritti e della storia di tutti i soggetti esistenti nei Balcani.

Le senatrici e i senatori della Repubblica che firmano quest’appello si batteranno nelle sedi dovute e necessarie – Commissione Affari Esteri e Difesa al Senato, Aula Parlamentare e a livello pubblico e sociale – al fine di evitare un’altra svolta tragica nei Balcani.

Sen. Francesco Martone 
capogruppo Prc-Se Comm.ne Affari Esteri Senato
Sen. Giorgio Mele 
capogruppo SD Comm.ne Affari Esteri Senato
Sen. Armando Cossutta 
capogruppo PdCI-Verdi Comm.ne Affari Esteri Senato
Sen. Fosco Giannini 
capogruppo Prc-Se Comm.ne Difesa Senato
Senatrice Silvana Pisa 
capogrupp SD Comm.ne Difesa Senato
Senatrice Manuela Palermi 
capogruppo PdCI-Verdi Commissione Difesa Senato 
Sen. Josè Luiz Del Roio 
Prc – Se
Senatrice Lidia Menapace 
Prc-Se
Sen.Giovanni Russo Spena 
Prc- Se 
Sen.Cesare Salvi 
SD
Senatrice Franca Rame 
Gruppo Misto
Sen.Franco Turigliatto 
Gruppo Misto-Sinistra Critica
Sen.Piero Di Siena 
SD
Sen.Claudio Grassi 
Prc-Se
Sen.Paolo Brutti 
SD
Senatrice A.Maria Palermo 
Prc-Se
Senatrice Olimpia Vano 
Prc-Se
Senatrice M.Celeste Nardini 
Prc-Se
Senatrice Haidi Gaggio Giuliani 
Prc-Se
Senatrice Tiziana Valpiana 
Prc-Se
Sen. Nuccio Jovene 
SD
Sen. Giovanni Gonfalonieri 
Prc-Se
Senatrice Anna Donati 
PdCI-Verdi
Sen. Salvatore Allocco 
Prc-Se
Sen.Fernando Rossi 
Gruppo Misto
Sen.Giuseppe Di Lello 
Prc-Se
Senatrice Silvana Amati 
Partito Democratico -L’Ulivo
Sen.Raffaele Tecce 
Prc- Se
Sen.Stefano Zuccherini 
Prc-Se
Sen.Gianpaolo Silvestri 
PdCI-Verdi
Senatrice Maria Pellegatta 
PdCI – Verdi
Sen. Dino Tibaldi 
PdCI-Verdi
Sen.Mauro Bulgarelli 
PdCI-Verdi
Sen.Natale Ripamonti 
PdCI-Verdi
Sen.Tommaso Sodano 
Prc-Se
Senatrice Loredana De Petris 
PdCI-Verdi


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http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/22-Dicembre-2007/art14.html

Kosovo e Afghanistan

Napolitano: «Finanziare le missioni italiane»

Sa. M.
Roma

Confermare, finanziare e sostenere tutte le missioni all'estero, in particolare quella in Afghanistan e quella in Kosovo. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo saluto di fine anno alle truppe - in videoconferenza - ha impugnato la baionetta: «Dobbiamo trovare le risorse per le forze armate e per le missioni in cui siamo impegnati all'estero. Si tratta di responsabilità costose, alle quali però l'Italia non può sottrarsi». 
Negli ultimi giorni la questione del finanziamento delle missioni militari italiane è tornata al centro dell'attenzione del quirinale. Non più tardi di martedì scorso, il comunicato del consiglio supremo di difesa aveva richiamato l'attenzione alla «necessità di fornire adeguata copertura economica alle missioni». E, seppure informalmente, il ministro della Difesa Arturo Parisi aveva confermato che le Forze armate non accetteranno tanto facilmente eventuali tagli o ridimensionamenti. Il discorso di Napolitano chiude il cerchio. E infatti il capo di stato maggiore della Difesa, ammiraglio Gianpaolo Di Paola, ha mostrato di apprezzare: «La vicinanza del paese è assolutamente fondamentale per le forze armate». 
Dopo aver parlato della «necessita di una soluzione pacifica» per l'Afghanistan, il presidente ha scelto di mettere i piedi nel piatto della delicata questione kosovara, con un discorso che è prima di tutto una promessa di fiducia incondizionata in quel che fa il governo Prodi e il suo ministro degli esteri, Massimo D'Alema: «Siamo pienamente consapevoli della eccezionale delicatezza di questo momento per il Kosovo e per la nostra missione: è forse il tema su cui è maggiormente impegnata la nostra diplomazia». E poi, ed è il passaggio più scivoloso: «Siamo sicuri che farete la vostra parte e darete il vostro contributo affinché il problema dello status del Kosovo si realizzi nelle condizioni migliori dal punto di vista della pace e della collaborazione tra le diverse etnie». In realtà, al momento non è chiaro neppure quale sarà il ruolo dei militari italiani nell'area. Ritirata, al Consiglio di sicurezza Onu, la mozione che premeva per il riconoscimento dell'indipendenza, il ministro D'Alema punta molto sulla missione Ue che dovrebbe essere inviata nell'area per «pacificare», ma che nei fatti servirebbe a sostenere l'evenutale dichiarazione di indipendenza di Pristina. Giusto ieri, però, trentasei senatori dell'Unione hanno diffuso un appello in cui chiedono al governo di tenersi lontano dalla missione europea. Tra i firmatari, oltre al promotore Fosco Giannini, ci sono i capigruppo di Sd Cesare Salvi e di Rifondazione Giovanni Russo Spena.


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il manifesto
22 Dicembre 2007

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/22-Dicembre-2007/art12.html

«Kosovo, il presidente Napolitano sbaglia»

Intervista Parla il generale Fabio Mini, ex comandante della Nato in Kosovo: «Situazione di stallo per l'Italia all'Onu»

Tommaso Di Francesco

«È davvero uno stallo, anche per l'Italia e purtroppo il presidente Napolitano sbaglia». Parla il generale Fabio Mini, ex comandante della Nato in Kosovo sulle «ombre» del ruolo italiano per l'inestricabile nodo balcanico nel Consiglio di sicurezza dell'Onu, dopo le «luci» della moratoria sulla pena di morte.

Il ministro degli esteri D'Alema, presidente di turno del Consiglio di sicurezza, ha relazionato sul cosiddetto fallimento del negoziato per lo status, e allo stesso tempo ha tentato di inserire nel quadro della legalità delle Nazioni unite, la missione che si chiama «civile e di polizia» decisa dall'Unione europea. Ma è tornato a mani vuote: non c'è stato compromesso, ha detto. Perchè?

Innanzitutto perché la missione europea non è vista bene soprattutto dai kosovari albanesi i quali hanno una lobby fortissima negli Stati uniti, anche sul riconoscimento di un eventuale dichiarazione unilaterale d'indipendenza. La promessa dell'indipendenza fatta da Bush a marzo era chiara. E quindi si sentono forti. I kosovari albanesi vogliono gli americani, non vogliono gli europei. D'altra parte, una nuova missione europea che riguardi una parte della ricostruzione e una parte delle questioni giuridiche e di polizia, è una missione minimalista che non affronta i grandi problemi ed è senza appoggi internazionali molto forti.
E poi c'è il no della Russia che minaccia il veto. Ma ora si mostra anche disposta ad aprire alla «missione Ue» solo se rispetta la 1244, cioè il riconoscimento della sovranità della Serbia sul Kosovo...
Giuridicamente la missione Ue potrebbe essere proponibile, nel senso che se una organizzazione internazionale, ancorché regionale, si offre volontaria può farlo ma con l'accordo delle parti, serba e albanese in questo caso - ovviamente l'accordo per ora non c'è. Ma potrebbe farla soprattutto con l'accordo internazionale, per un mandato di almeno una parte non indifferente dell'Onu. E anche questo non è il caso, per ora. D'altra parte bisogna riconoscere che la 1244 - con cui l'Onu assumeva la pace di Kumanovo dopo i raid della Nato sull'ex Jugoslavia - metteva veramente un vincolo secco che era quello del riconoscimento della sovranità della Serbia sul Kosovo. Questo non è stato mai messo in discussione, anzi la 1244 rimandava ad un accordo tra le parti, non ad una imposizione dall'alto sullo status finale.

C'è stata polemica tra il presidente della Commissione esteri della Camera Umberto Ranieri e il ministro degli esteri britannico Miliband che sosteneva che la 1244 garantisce l'indipendenza...

Ha fatto bene Ranieri, perché non è vero, è falso, anzi in un certo senso è vero il contrario. Dirò di più: i serbi si sono veramente molto arrabbiati, anche per un fatto fondamentale che un articolo nell'appendice della Risoluzione Onu 1244 stabilisce che ci possa essere l'intervento di forze di polizia o comunque forze di sicurezza serbe in Kosovo soprattutto per dare sicurezza ai siti patrimoniali e religiosi. Non è mai successo.

Ma non crede che l'ambiguità vera sia rappresentata dalla motivazione con cui si vuole avviare la missione Ue, quella di preparare e gestire l'indipendenza?

E' una pregiudiziale che non fa onore al tentativo, nel senso che qualsiasi traccheggiamento verso l'indipendenza è visto male dai serbi i quali non l'approveranno mai perché è una perdita di sovranità. Per il Kosovo una soluzione immediata non c'è, non bisogna dunque avere fretta.

Le commissioni esteri e difesa della Camera sono andate in Kosovo, anche a Decani. Lì padre Sava ha detto di sentirsi in un «limbo»...

Anch'io penso al Kosovo come ad un limbo. Ma non credo che a padre Sava o al vescovo Artemje di Gracanica, dove vive la seconda grande enclave serba, siano contenti del limbo. Non ne possono più, però si rendono conto da realisti quali sono che la soluzione che gran parte della comunità internazionale vuole è soltanto quella dell'indipendenza. Per adesso.

C'è dunque una situazione di stallo per la diplomazia italiana. Con un Parlamento che dice cose diverse dal governo e, in aula, impegna all'unanimità il governo a non riconoscere proclamazioni d'indipendenza unilaterali...

Se uno stato vuole rimanere stato e quindi vuole rimanere ente che fa parte del consesso internazionale vigente, con tutto quello che è sancito dalla Carta delle Nazioni unite, questo stato deve essere sovrano e quindi la sovranità gli deve essere riconosciuta. La Comunità internazionale, della quale l'Italia fa parte, non può pertanto riconoscere quello che sta per accadere in Kosovo, vale a dire una dichiarazione unilaterale d'indipendenza. Altrimenti si smantellerebbe il sistema degli stati.

C'è stato in questi giorni un allarme dei Servizi europei e dell'intelligence italiana su una precipitazione nei Balcani.

Non vedo la lotta armata immediata e deflagrante. Quello che vedo è invece una lotta armata strisciante, nel senso che ci saranno di sicuro delle forze estremiste che vorranno premere sui pochi serbi rimasti in Kosovo e quindi ci saranno ancora espulsioni, possibilità di larvate od occulte pulizie etniche, così come da parte serba soprattutto nazionalista ci saranno anche dei tentativi di instaurare organizzazioni clandestine in Kosovo. La situazione è difficilissima da gestire e non vorrei essere nei panni dell'Ue che va lì con un mandato di supervisione senza poteri effettivi.

Napolitano ieri si è rivolto ai militari di Pristina dicendosi sicuro del loro buon lavoro «affinché il problema dello status del Kosovo si realizzi nelle condizioni previste, dal punto di vista della pace e della collaborazione tra le diverse etnie, come d'altronde indica il piano dell'Onu»...

Sono un po' perplesso. Sono sette anni che andiamo avanti con queste parole ma i fatti non dicono così. I kosovari albanesi non vogliono assolutamente uno stato multietnico, a parole lo dicono sempre, di fatto non lo vogliono. Così come dall'altra parte anche i serbi non riconoscono molti diritti agli albanesi rimasti nella parte a nord dell'Ibar di Mitrovica. Quindi il Kosovo multietnico è una speranza, è veramente qualche cosa nella quale potremmo sperare perchè tutti dobbiamo essere multietnici, tutti gli stati dovrebbero esserlo. Il fatto fondamentale è che però i soldati in questo hanno poche possibilità. Perché il piano dell'Onu non c'è. Il fatto che le Nazioni unite non abbiamo mai tentato seriamente di costituire un Kosovo multientico è nella realtà. I rientri dei profughi serbi sono falliti. Anzi sono stati boicottati. Quando io parlavo di fare rientrare due comunità piccolissime vicino a Pec, ho trovato veramente ostacoli solo nell'amministrazione Unmik-Onu. Non volevano rischiare. O non c'erano soldi, andavano solo a chi volevano loro. Il Kosovo multietnico nel piano dell'Onu non c'è mai stato.

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http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=16427

L'Italia gestisce il peso di un fallimento

di Tana De Zulueta*

su Il Manifesto del 20/12/2007

Kosovo

Sull'uscio della commissione esteri della Camera, il ministro Massimo D'Alema ha preannunciato una missione «a luci ed ombre» per se stesso presso l'Onu. E così è stato. Mentre il voto sulla moratoria sulla pena di morte è stato un netto successo per lui, per l'Italia e per l'Europa, la discussione sullo status finale del Kosovo si sta rivelando un vero e proprio letto di spine. La politica, quando dichiara di avere davanti a se solo la scelta tra un male e un altro, non può che prendere atto di avere, se non fallito, almeno mancato un'occasione. Oggi l'Unione Europea si trova nella necessità di subire scelte altrui per quanto riguarda il futuro della provincia serba del Kosovo. E mestamente se ne prende atto. Lo testimonia la (scarsa) discussione in Parlamento. Il 29 novembre l'aula della Camera ha votato due mozioni sullo status del Kosovo, della maggioranza e della Lega Nord, e le ha approvate tutt'e due. Gli impegni erano: ricerca d'una soluzione condivisa, «scoraggiando iniziative unilaterali», unità europea e la sollecitazione «in tempi brevi dell'accordo di stabilizzazione e associazione Ue-Serbia». Un premio di consolazione che lascia i responsabili politici di Belgrado piuttosto freddi. Anche perché non ritengono, probabilmente a ragione, quest'esito né sufficiente né imminente. Mentre l'amputazione di un pezzo di quello che continuano a considerare il proprio territorio lo è.
Siamo all'«ineluttabiltà». Emersa anche dalla lettera alla presidenza portoghese Ue, cofirmata dai governi italiano, inglese, francese e tedesco che dava conto del fallimento dei negoziati, avvertendo che è meglio lasciar perdere, per evitare «un ulteriore irrigidimento». Siamo ben lontani da quell'impegno a cercare in tutti modi un accordo condiviso, anche dopo il limite annunciato. Si profila, invece, una indipendenza sotto «supervisione» della Nato e di una massiccia missione civile europea. In quale quadro di diritto non è dato sapere, e su questo c'è scontro al Consiglio di Sicurezza. Il sottosegretario Craxi, non sembrava troppo convinto quando ha detto che la futura missione Ue «potrebbe operare nella cornice giuridica» della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244 - che autorizzò l'ingresso della Nato, ma confermando anche che il Kosovo fa parte del territorio sovrano della Serbia e l'Ue aspira à mandare un suo rappresentante in Kosovo in sostituzione di quello dell'Onu. E se la Russia non è d'accordo?
L'unica certezza è la prospettiva dell'instabilità, ben oltre il Kosovo. Otto anni sono passati invano. In un incontro in Parlamento l'ex-ministro francese Hubert de Védrine ha ribadito che l'indipendenza sarà pure «ìneluetable» ma è pur sempre «regrettable» e per un ambasciatore europeo che ha partecipato al negoziato la la separazione del Kosovo potrebbe fare venire meno la ragione d'essere della Bosnia. Paese costituito, dentro la camicia di forza degli accordi di Dayton, per imporre una nazione multietnica E la Macedonia?
Commentando il passaggio delicato, D'Alema ha fatto notare che mentre gli Stati Uniti hanno fortemente sostenuto l'indipendenza del Kosovo e la Russia l'ha osteggiata, l'Europa è destinata a reggere tutto il peso del problema. Auguri.

*Vicepresidente della Commissione esteri della Camera




AUGURI DI NATALE


Ricambiamo gli auguri ricevuti da questo signore, che ha mirabilmente interpretato il senso della istituzione del "Giorno del Ricordo":

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From:   marcohcw@...
Subject: ...
Date: December 25, 2007 4:43:38 AM GMT+01:00
Return-Path: <marcohcw@...>
Received: from swip.net (212.247.154.205) by mail-mx-3.tiscali.it (7.3.130) id 475672F504898721 for jugocoord@...; Tue, 25 Dec 2007 04:43:34 +0100
Received: from [79.7.186.56] (account eu472391@... HELO marcoa033b1538) by mailfe07.swip.net (CommuniGate Pro SMTP 5.1.13) with ESMTPA id 744873732 for jugocoord@...; Tue, 25 Dec 2007 04:43:28 +0100
X-Cloudmark-Score: 0.000000 []
Message-Id: <000c01c846a8$566c0930$05000400@marcoa033b1538>
Mime-Version: 1.0
Content-Type: multipart/related; type="multipart/alternative"; boundary="----=_NextPart_000_0006_01C846B0.B78738E0"
X-Priority: 3
X-Msmail-Priority: Normal
X-Mailer: Microsoft Outlook Express 6.00.2900.3028
X-Mimeole: Produced By Microsoft MimeOLE V6.00.2900.3028

SIETE DEGLI SLAVI DI MERDA.... VI AMMAZZEREMO TUTTI ! VIVA L'ITALIA! ISTRIA, FIUME E DALMAZIA, TERRE IRREDENTE, TERRE NOSTRE!    .... VOI SLAVI SIETE UNA PIAGA CHE BISOGNA DEBELLARE. EUROPA UNITA? SI, MA SENZA CANI DI MERDA COME VOI!   . VI SCHIACCEREMO COME INSETTI. 

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Allegata al messaggio troviamo una cartina del litorale istriano-dalmata accompagnata da uno scudetto tricolore verde-bianco-rosso e dalle scritte: "ISTRIA FIUME DALMAZIA" "RITORNEREMO". 

(CNJ)




Wesley Clark darf kein Zeuge sein

 

Eine Nachlese zum Miloševic-Prozess von Germinal Civikov



Am 14. April 2007 wartete die kroatische Tageszeitung Jutarnji list mit der Schlagzeile auf, die Chefanklägerin des Jugoslawien-Tribunals in Den Haag, Carla del Ponte, habe einen Deal mit Belgrad geschlossen und einen Schuldspruch des Internationalen Gerichtshofs (IGH) in der Völkermordanklage Bosnien-Herzegowinas gegen Jugoslawien verhindert. Sie habe in einer Absprache mit Belgrad, die jeder rechtlichen Grundlage entbehre, diesem obersten Gerichtshof der UNO entscheidende Beweisstücke verheimlicht. Es ist ein unglaublicher Bericht, den man sich zunächst damit zu erklären versucht, dass die Chefanklägerin des Tribunals bekanntlich auch in Kroatien keine gute Presse hat. Beim Bericht handelt es sich aber um einen offenen Brief des Chefanklägers im Miloševic-Prozess, Sir Geoffrey Nice, und das will schon etwas besagen. Nach dem Tod des prominenten Angeklagten gab es für ihn keine Verwendung mehr beim Tribunal. Was könnte ihn so gegen seine Ex-Chefin aufgebracht haben? Für seine Verdienste, unter der Führung von Frau del Ponte fünf Jahre lang irgendwelche Beweise für die Schuld von Miloševic vorzubringen, wurde er unlängst immerhin geadelt!

Bekanntlich hat der IGH am 26. Februar 2007 Jugoslawien bzw. Serbien von der Beschuldigung freigesprochen, am Völkermord und anderen Verbrechen in Bosnien beteiligt gewesen zu sein. Nicht nur für die bosnischen Muslime dürfte das eine herbe Enttäuschung gewesen sein. Man muss den Wortlaut des Urteils im Auge behalten, will man sich die helle Aufregung von Geoffrey Nice erklären. Wissen muss man auch, dass sich der IGH nahezu alle Beweise, die er für sein Urteil benötigte, vom Jugoslawien-Tribunal geben ließ. Mehrmals ließ die Anklagebehörde des Tribunals verlautbaren, dass die von Bosnien beim IGH eingereichten Beweise alle vom Tribunal kämen. Die 15 Richter beim IGH haben diese Beweise offensichtlich anders gewogen als die Ankläger des Tribunals, und mit ihnen auch die Medien. In besonderer Weise betrifft das Urteil der Richter beim IGH aber auch den Miloševic-Prozess. Wenn diesem Urteilsspruch zufolge Belgrad weder im Bosnienkrieg mitgemischt noch die serbisch-bosnische Führung kontrolliert hat, dann darf man sich schon fragen, wie es um die Beweislage im Miloševic-Verfahren bestellt war. Hatte man damals eine Anklage ohne überzeugende Beweise erhoben?

Chefanklägerin del Ponte reagierte prompt auf die Beschuldigung seitens ihres langjährigen Untergebenen. „Ganz energisch“ wies sie seine Behauptungen zurück, Dokumente vor dem Internationalen Gerichtshof verheimlicht oder mit Belgrad ein Abkommen geschlossen zu haben. Nie habe sie mit Belgrad über solche Angelegenheiten paktiert, und was den IGH betrifft, so habe dieser Gerichtshof immer souverän darüber entschieden, welche Dokumente er zu der Klage Bosniens verlangte und welche der ihm zur Verfügung gestellten Beweisstücke er näher in Betracht zog.

Gemessen an der schweren Beschuldigung kann man die Antwort, die Frau del Ponte am 16. April verbreiten ließ, nur als lapidar bezeichnen. Aber mit ihrem vormaligen Untergebenen ist sie noch lange nicht fertig. Jedenfalls scheint Nice das Startzeichen zu einer regelrechten Demontage del Pontes gegeben zu haben. Am 23. April 2007 meinte der ehemalige Ermittler der Anklagebehörde, Marc Attila Hoare, in der bosnischen Zeitung Dnevni Avaz, seine Chefin sei nicht gerade eine schlaue Person, kenne sich daher nicht aus, wie man einen politischen Deal abschließe, und sei einfach in die Falle getappt. Am nächsten Tag meldete sich in derselben Zeitung Graham Blewitt, ehemaliger Vizechefankläger des Tribunals, zu Wort: Er kenne die Methoden seiner früheren Chefin gut, sie sei durchaus imstande, einen Deal mit den Serben geschlossen zu haben.

Nach dem Urteilsspruch des IGH beeilten sich mehrere Spin-Doctors des Tribunals, uns weiszumachen, es gebe keine Zusammenhänge zwischen dem Urteilsspruch des IGH und dem Miloševic-Prozess. Der IGH beschäftige sich mit zwischenstaatlichen Konflikten, während das Jugoslawien-Tribunal die individuelle Schuld einzelner mutmaßlicher Kriegsverbrecher untersuche. Wie bitte? Die Chefanklägerin des Tribunals del Ponte, die federführend beim Aufstellen der Bosnien-Anklage war, und ihr Hauptankläger Nice, der fünf lange Jahre Gestalt und Richtung der Beweisführung vorgab, liegen sich wegen des Urteils des IGH auf offener Straße in den Haaren, und das soll nichts mit dem Miloševic-Prozess zu tun haben? Da wusste es Antonio Cassese schon besser. Als langjähriger Präsident des Jugoslawien-Tribunals ging er hart mit seinen Kollegen beim IGH ins Gericht. Sie hätten eine unrealistisch hohe Messlatte angelegt und sich einer rätselhaften Argumentation bedient, meinte er in seinem Kommentar zum Thema (La Republica / Der Standard, 28.2.07). Nur so sei der Freispruch des IGH zu erklären. Die Pointe bewahrte sich Cassese für den Schlusssatz seines Kommentars auf: „Und wenn Ex-Präsident Miloševic noch am Leben wäre, hätte man ihn von der Anklage des Völkermords freigesprochen.“ Dies klingt fast, als möchte der namhafte Richter den Tod des prominenten Angeklagten Slobodan Miloševic als wünschenswert begrüßen. Schlimmer wäre nur sein Freispruch gewesen.

In der Klage Bosniens gegen Jugoslawien bzw. Serbien ist der IGH zu einem Freispruch gekommen, da die Beweislage aus dem Miloševic-Prozess für einen Schuldspruch zu dürftig war. Dieser Gedanke ist heute vielen unerträglich, besonders denjenigen unter den Meinungsmachern, die sich öffentlich als „Anwälte der Anklage“ betätigten und, blind für alle Pannen und Peinlichkeiten der Beweisführung, deren angeblichen Erfolge feierten. So erklärt sich z.B. Marlise Simons den Freispruch des IGH damit, dass dieser Gerichtshof die wichtigsten Beweise nicht eingesehen habe. Wie in der New York Times vom 9. April 2007 zu lesen ist, habe Belgrad Schlüsseldokumente aus den Jahren 1992 bis 1995 über seine Rolle in den Kriegen in Bosnien und Kroatien vor dem IGH geheim gehalten. Das soll auch Mitschriften von Sitzungen des Obersten Verteidigungsrates in Belgrad betreffen. Dieser Artikel löste den offenen Brief von Nice aus, der sich zu bestätigen beeilte, Serbien habe die Genehmigung zu dieser Geheimhaltung ausgerechnet von der Chefanklägerin des Tribunals bekommen. Ferner hebt er in seinem Brief hervor, del Ponte habe dieses Zugeständnis ausdrücklich gegen seinen Willen gemacht. Man darf gespannt sein, wie dieser Angriff auf die Chefanklägerin enden wird.

Wenn es um die Beweislage der Bosnien-Anklage gegen Jugoslawien bzw. Serbien so bestellt ist, kann man sich fragen, wie es denn mit der Beweislage in der Kroatien-Anklage aussehen mag. Die Probe aufs Exempel bekommen wir erst, wenn sich eines Tages der IGH auch zu der Klage von Kroatien äußert. Denn auch Kroatien meint, es sei das Opfer eines serbischen Völkermords, und hat sechs Jahre nach Bosnien auch eine Klage gegen Jugoslawien bzw. Serbien wegen Völkermord und Kriegsverbrechen in Ostslawonien und Dalmatien eingereicht. Nach dem ergangenen Urteil zu Bosnien schien Zagreb zunächst die Erfolgshoffnungen aufgegeben zu haben, und die Regierung erwog sogar, die Klage gänzlich zurückzuziehen und eine außergerichtliche Einigung mit Belgrad zu suchen. Die Mär von den geheim gehaltenen Beweisen machte Zagreb wieder Mut. So hat Premierminister Ivo Sanader am 12. April 2007 den Brief von Nice als sehr ernste Sache bezeichnet. Er wolle die UNO einschalten, sollte es wahr sein, dass dem IGH Beweise vorenthalten wurden. Denn auch mit Bezug auf die Klage Kroatiens wird der IGH auf der Grundlage der Beweise im Miloševic-Prozess urteilen müssen.

Das Kosovo ist (noch) kein unabhängiger Staat, und nur deshalb hat die Führung der Kosovo-Albaner nicht auch beim IGH eine Klage wegen Völkermords und Kriegsverbrechen gegen Jugoslawien bzw. Serbien eingereicht. Schade, denn sonst hätten die Richter des IGH auch die Beweise zu der Kosovo-Anklage gegen Miloševic bewerten können. Wie es aber um diese bestellt ist, wissen wir heute aufgrund von Hunderten von Zeugenverhören. Sehr aufschlussreich für eine Bewertung der gegen Miloševic erhobenen Kosovo-Anklage ist auch der Prozess gegen Milan Milutinovic, den ehemaligen Präsidenten Serbiens, und fünf weitere Politiker und Generäle, die wegen Kriegsverbrechen im Kosovo angeklagt sind. Die Anklage gegen die „Amselfelder Sechs“ ist eine mildere Variante der Kosovo-Anklage gegen Miloševic, und die meisten Zeugen der Anklage wurden schon in jenem Prozess gehört. Schon zu Beginn haben allerdings die Richter zwei der wichtigsten Beweisstücke der Anklage abgelehnt: den OSZE-Report As seen, as told („Wie gesehen, so erzählt“) und den Sammelband der Menschenrechtsorganisation Human Rights Watch unter dem Titel Under Orders. War Crimes in Kosovo. Die darin enthaltenen Dokumente seien (oft anonyme) Geschichten aus zweiter und dritter Hand und daher als Beweise unannehmbar, meinten die Anwälte der Angeklagten, und die Richter stimmten zu. Diese nun als Beweis wertlosen Bände waren aber eine Art Fundament der Kosovo-Anklage gegen Miloševic, wurden dementsprechend auch von den Richtern gewürdigt und waren Gegenstand Dutzender Zeugenverhöre.

Wie viel von dem, was einst im Miloševic-Prozess erlaubt, ja erwünscht war, nunmehr nicht mehr möglich ist, veranschaulicht der Fall des Zeugen Wesley Clark. Als Zeuge der Anklage hatte der Oberbefehlshaber der Nato im Jugoslawienkrieg auch die in Washington aufgestellten Regeln für sein Verhör nach Den Haag mitgenommen. Sie legten fest, welche Fragen ihm gestellt werden konnten, wie und was alles in „geschlossenen Sitzungen“ zu geschehen habe und der Öffentlichkeit nicht preisgegeben werden dürfe. Außerdem verlangte Washington, alle Verhörprotokolle vor ihrer Freigabe redigieren zu können. Dies alles wurde damals von den Richtern genehmigt. Der Zeuge selber nahm sich alle Freiheiten heraus, etwa mitten in einer Sitzung mit seinem Parteifreund Bill Clinton zu telefonieren und Wahlkampf zu betreiben, ohne dass die Richter eingriffen. Zur Sache erklärte er am 15. Dezember 2003, Miloševic habe ihm gegenüber in einem Gespräch zugegeben, vom Srebrenica-Massaker gewusst und nichts dagegen unternommen zu haben. Miloševic seinerseits verneinte, mit Clark dieses Thema auch nur berührt zu haben.

Dem IGH reichte dieser „Beweis“ des früheren Nato-Oberbefehlshabers offensichtlich nicht. Dennoch wollten die Ankläger im Prozess gegen die „Amselfelder Sechs“ diesen gegen Miloševic so erfolgreichen Zeugen erneut einsetzen. Am 6. März 2007 weigerte sich aber der Vorsitzende Richter Iain Bonomy, Clark als Zeugen zu hören – schon gar nicht unter den von den USA aufgestellten Bedingungen. Die Anklage ging in Berufung, und am 24. April bestätigte der Appellationsgerichtshof den Beschluss des Vorsitzenden Richters.


 


Germinal Civikov lebt als freier Journalist und Autor in Den Haag. In Novo73/74 analysierte er in seinem Artikel „Das Kriegsverbrechertribunal – a joint criminal enterprise“ den Prozess gegen den ehemaligen jugoslawischen Präsidenten Slobodan Miloševic.


von Germinal Civikov erschien 2006 "Der Miloševic-Prozess, Bericht eines Beobachters"
bei Promedia, Wien. Mit einem Vorwort von Jos de Putter und einem Nachwort von Cathrin Schütz.




BEATI I CRIMINALI DI GUERRA, PERCHE`DI ESSI E`IL REGNO DEI CIELI


"un cammino serio e di riflessione ... un lungo e profondo percorso di fede e ricerca ..."

"l'ex leader laburista ha ammesso per la prima volta che la fede si è rivelata "estremamente importante" nell'influenzare le sue decisioni politiche, compreso l'intervento militare in Iraq"

"Blair, il più giovane Primo Ministro del Regno dopo Lord Liverpool (...), ha impegnato le Forze armate britanniche in quattro guerre, in Kosovo, Sierra Leone, Afghanistan ed Iraq"

"Nel suo percorso spirituale, Blair è stato accompagnato da un cappellano dell'aeronautica, John Walsh"

"Blair, peraltro, è in questi giorni nell'occhio del ciclone sulla stampa cinese, che lo attacca per aver accettato un compenso di 237mila sterline per visitare un complesso turistico di lusso a Dingguan"

"I critici di sinistra asseriscono però che Blair abbia tradito i principi dei padri fondatori del Labour e che il suo governo si sia spostato troppo a destra, non prestando sufficiente attenzione a tradizionali principi laburisti come la redistribuzione della ricchezza"

«Non è un pazzo, per molti cattolici è qualcosa di peggio: un ipocrita», dice Damian Thompson, direttore del Catholic Herald. E aggiunge: «La guerra in Iraq fu condannata senza riserve dal Papa e anche ora c’è disagio al pensiero che un guerrafondaio stia per essere accolto nella Chiesa»


Fonti: 

GB/ BLAIR DIVENTA CATTOLICO, UNA CONVERSIONE ANNUNCIATA 
Soddisfazione Santa Sede, Downing Street: questione familiare (APCOM)

Tony Blair si converte al cattolicesimo. Ieri la comunione a Westminster

Primo Natale da cattolico per Blair. La stampa cinese lo attacca: venale

Blair: «Se credi in Dio ti danno del pazzo»



LA PRIMA "LIBERAZIONE" DELLA KOSOVA-TETOVA


(da parte dei fascisti e dei nazisti, aprile 1941)

The first liberation of Kosova (April 1941)
Military and Historical Maps / Cartografia:

http://www.geocities.com/ga57/albania/kosova41.html

Sull'origine nazifascista del secessionismo kosovaro vedi anche gli
articoli raccolti alla pagina:
https://www.cnj.it/documentazione/kosova.htm


Note sul 17° congresso del Partito comunista cinese

1) Note sul 17° congresso del Partito comunista cinese - di Fausto Sorini

2) Le vie inesplorate del “socialismo con caratteristiche cinesi” - di Marcello Graziosi


L'articolo di Fausto Sorini qui riprodotto appare sull'ultimo numero de "l'ernesto" (5/2007) assieme al reportage
"Breve viaggio nel lavoro e nell’economia della Cina costiera" di Bruno Casati, leggibile alle pagine
oppure
ed assieme all'ottimo commento di Domenico Losurdo: "Boicottare le Olimpiadi di Pechino?"  
L'indice completo della rivista si può leggere alla pagina:  http://www.lernesto.it/index.aspx?m=53&did=4 


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Note sul 17° congresso del Partito comunista cinese

di Fausto Sorini

su L'ERNESTO del 25/10/2007


Si è concluso nei giorni scorsi il 17° congresso nazionale del Partito comunista cinese (PCC), alla presenza 2.217 delegati in rappresentanza di 73 milioni di iscritti, organizzati in 3,5 milioni di organizzazioni di base disseminate in tutto il Paese. 

Il congresso ha approvato la relazione del segretario Hu Jintao (a nome del Comitato centrale uscente), una risoluzione finale e una di modifica di alcuni articoli dello Statuto del partito. Ed ha eletto i nuovi organismi dirigenti. 

Il nuovo CC (rinnovato per la metà dei suoi membri) ha confermato Hu Jintao alla guida del partito per i prossimi 5 anni ed ha eletto gli organismi più ristretti (Ufficio Politico, Segreteria, Comitato permanente dell’Ufficio politico). Da questi risulterebbe - sia pure in un contesto di sintesi e di enfatizzazione della direzione collegiale, volte ad evitare ogni personalizzazione o frattura interna – un sostanziale rafforzamento (non scontato) delle posizioni di Hu Jintao. Ciò nell’ambito di una dialettica che, schematizzando, si è sviluppata tra chi pone l’accento sulla necessità di proseguire la linea dello sviluppo accelerato anche pagando alti costi sociali; e chi invece, come Hu Jintao, sottolinea gli elementi qualitativi della nozione di “sviluppo” e pone l’accento su esigenze di riequilibrio, equità sociale, compatibilità ambientali, sviluppo della democrazia socialista, innovazione della teoria marxista. 


Bilancio politico e sintesi storica e teorica 

Il rapporto introduttivo è suddiviso in 12 capitoli, che rappresentano altrettanti capisaldi della linea e delle priorità del PCC. 

1. Nel primo capitolo, si tira un bilancio dell’attività degli ultimi 5 anni. Si evidenziano i punti di avanzamento realizzati in termini di sviluppo economico (con una crescita media annua del PIL superiore al 10%); la sostanziale stabilità dei prezzi; l’aumento complessivo dei redditi reali della popolazione e la diminuzione dei livelli di povertà; la maggiore attenzione dedicata ai problemi dell’ambiente, della democrazia, dell’innovazione teorica, della lotta contro la corruzione e per il rafforzamento della “natura di avanguardia” del partito nelle nuove contraddizioni della società cinese, in coerenza con le propria finalità socialiste; la crescita considerevole del ruolo internazionale della Cina. 

Ma, nondimeno, si sottolinea che nonostante tali risultati, si è ancora”lontani dalle aspettative della popolazione” e che restano aperti molti problemi e difficoltà, come quelli relativi ad una “crescita realizzata con eccessivi costi sociali e ambientali”; “squilibri nello sviluppo tra città e campagna, tra regioni, tra sviluppo economico e avanzamento sociale”; problemi di “occupazione, sicurezza sociale, distribuzione del reddito, educazione e salute pubblica, alloggi, sicurezza del lavoro, povertà, corruzione, burocratismo...”. 

2. Nel secondo capitolo, assai impegnativo nella definizione del profilo politico-ideologico del PCC e del suo bilancio storico, emerge la volontà di ricercare una sintesi storica e teorica di tutto il percorso della Cina popolare, evitando rotture o scomuniche di vario genere (diversamente da quella che fu, in proposito, l’esperienza del partito sovietico). Ovvero, di “sintetizzare l’insieme della saggezza e dei contributi di diverse generazioni di comunisti cinesi”.

Si ricorda che la trentennale politica di riforma e di apertura ispirata dalla seconda generazione (Deng Xiaoping), “una autentica nuova rivoluzione” a cui il PCC continua ad ispirarsi, “è stata condotta sulle fondamenta costruite dalla prima generazione di dirigenti del partito sotto la guida di Mao Zedong”, i cui meriti storici non vengono ripudiati, ma sussunti dentro una sintesi storica e teorica che pure comprende una valutazione critica della “rivoluzione culturale” e della teoria del “primato della lotta di classe” rispetto alla centralità dello sviluppo delle forze produttive, nella “fase primaria di costruzione del socialismo” e in un paese ancora in via di sviluppo come la Cina.

Nel solco della ispirazione di Deng, si afferma il valore della teoria delle “Tre rappresentanze”, che ha caratterizzato la politica della terza generazione e della leadership di Yang Zemin, che ha dato nuovo impulso allo sviluppo del “socialismo di mercato” in un contesto internazionale assai complesso, riconoscendo il ruolo progressivo e il valore di differenti strati sociali (operai, contadini, tecnici, intellettuali, strati intermedi produttivi e imprenditoriali) in questa fase “primordiale” della costruzione del socialismo. Una fase, sottolinea la relazione, destinata comunque a “durare per una lunga fase storica”, in cui “la contraddizione principale continuerà ad essere quella tra necessità materiali e culturali crescenti della popolazione e inadeguatezza della produzione materiale volta a soddisfarle”.

Questa linea ha consentito, tra l’altro, di “ridurre da 250 a 20 milioni l’area di povertà nelle zone rurali”. Si sottolinea però che - nel contesto delle nuove contraddizioni create dallo sviluppo accelerato in Cina - è necessario porre oggi l’accento su politiche di riequilibrio e di equità sociale, di sviluppo sostenibile ed eco-compatibile: concetti che vengono riassunti nelle nozioni di “concezione scientifica dello sviluppo” ed “armonia sociale” (quest’ultima, di chiara derivazione confuciana) che caratterizzano la linea della nuova direzione cinese.

“Assumendo un profilo ideologico marxista - cito dalla relazione - il PCC ha ricercato costantemente le risposte alle maggiori questioni teoriche e pratiche incontrate : cos’è il socialismo e come costruirlo, quale tipo di partito costruire e come, quale tipo di sviluppo per la Cina e come conseguirlo. Il Partito ha cercato di adattare costantemente il marxismo alle condizioni concrete della Cina, per arricchire così la propria base teorica, politica e programmatica. Il socialismo e il marxismo hanno mostrato grande vitalità in terra cinese...Solo il socialismo può salvare la Cina e solo una politica di riforme e di apertura può garantire lo sviluppo della Cina, del socialismo e del marxismo...Nel corso storico della politica di riforma e di apertura, il PCC ha cercato di coniugare i suoi quattro principi cardinali (la prospettiva socialista, la dittatura democratica del popolo, la funzione dirigente del Partito comunista, il marxismo-leninismo e il pensiero di Mao Zedong) alle condizioni concrete e peculiari della Cina”.

“La concezione del socialismo con peculiarità cinesi costituisce un insieme di teorie scientifiche che includono la teoria di Deng Xiaoping, la concezione delle Tre rappresentanze, l’idea di uno sviluppo scientifico (sostenibile) ed altre importanti acquisizioni strategiche. Questo sistema esprime l’assunzione del Partito – e lo sviluppo – del marxismo-leninismo e del pensiero di Mao Zedong e incarna l’elaborazione e il duro lavoro di diverse generazioni di comunisti cinesi...Non c’è fine alla pratica e all’innovazione, che noi dobbiamo costantemente sviluppare per emancipare le nostre menti, bandendo rigidità e stagnazione...Il nostro è un sistema di pensiero dinamico, completamente aperto e in costante evoluzione”. 


Un approccio qualitativo alla nozione di sviluppo 

3. Nel terzo capitolo si articola l’idea cardine della nuova direzione cinese per una “concezione scientifica dello sviluppo”, ovvero quella che nella nostra cultura abbiamo assunto come sviluppo socialmente ed ecologicamente compatibile, e che – dice il rapporto - deve essere parte integrante di una concezione socialista dello sviluppo. Una concezione cioè non meramente quantitativa, ma qualitativa dei parametri dello sviluppo e della crescita economica, che la nuova direzione del PCC assume come “principio guida”, assieme a quello di una “società socialista fondata sull’armonia sociale”, fino a farne oggetto di apposite integrazioni nello Statuto del partito.

Si rileva che “la crescita economica è stata pagata troppo cara in termini di risorse, squilibri e compatibilità ambientali...Il trend del divario crescente nella distribuzione del reddito non è stato ancora adeguatamente rovesciato, abbiamo ancora un numero rilevante di persone povere o a basso reddito sia nelle città che nelle campagne, ed è diventato sempre più difficile conciliare gli interesse di tutte le parti sociali”. Pertanto, “la concezione di uno sviluppo scientifico, nella sua essenza, pone al centro gli interessi della grande maggioranza del popolo, per uno sviluppo equilibrato e sostenibile” e si propone “in modo energico la costruzione di una società socialista armoniosa”, posto che “l’armonia, l’equità sociale, la giustizia devono essere peculiarità essenziali del socialismo”. 

4. Nel quinto capitolo si propone l’obbiettivo di costruire, entro il 2020, una “società di media prosperità...quadruplicando il PIL annuo pro-capite rispetto al dato del 2.000” (da 856 dollari a 3.500). La qual cosa (ma la relazione non lo dice) potrebbe portare il PIL complessivo della Cina, calcolato a parità di potere d’acquisto, ad un livello superiore a quello degli Stati Uniti, al primo posto nella classifica mondiale. Dunque, una “media prosperità” corroborata da una “espansione della democrazia socialista”, da una crescente “equità e giustizia sociale”, da una “prevalenza dei valori di una cultura e di un’etica socialista nella popolazione”, con un diffuso “sistema di sicurezza sociale”, oggi ancora largamente deficitario; “l’eliminazione della povertà” ed un forte “incremento dell’incidenza relativa delle fonti rinnovabili e non inquinanti di energia”. 

5. Nel sesto capitolo, si entra più nel dettaglio dei caratteri di uno “sviluppo sano e rapido” dell’economia nazionale”, tra cui segnaliamo (per titoli) :

-un’”autonoma capacità”, sempre meno dipendente dall’estero, “di sviluppo dell’innovazione scientifica, tecnologica, manageriale”;

-l’estensione e la crescita di “grandi imprese multinazionali, pubbliche o a prevalente controllo pubblico, sempre più competitive sul mercato mondiale”. 

(Si consideri che già nel 2006 l’84% del PIL cinese è stato prodotto dalle 500 maggiori imprese cinesi. E che tra queste, ben 349 – che hanno espresso l’85% della ricchezza prodotte tra tutte le 500 – sono imprese statali o controllate dallo Stato. Mentre solo 89 sono quelle private, che hanno espresso una ricchezza pari all’8,4% delle 500); 

-il “riequilibrio nello sviluppo città-campagna”, con la “modernizzazione di una nuova agricoltura su basi socialiste”, e il “tra regioni a diverso grado di sviluppo”;

-uno “sviluppo ecologicamente sostenibile”;

-una “ristrutturazione profonda ed equa del sistema fiscale e di regolazione macro-economica”;

-il sostegno a diverse forme di proprietà e di imprenditorialità, nel quadro di una “prevalenza strategica del settore pubblico”. 


Democrazia e cultura socialista 

6. Un intero capitolo (il sesto) viene dedicato alla necessità di “operare con fermezza nello sviluppo di una democrazia socialista”, e la cosa è in sé comunque indicativa di una prospettiva e di una riflessione in corso, quali che siano i limiti in questo campo tuttora persistenti nel contesto cinese, e che certamente non possono rappresentare un “modello” per le società capitalistiche più sviluppate. 

Tale sviluppo democratico viene collocato entro parametri che non sono certamente quelli di una imitazione dei modelli di democrazia liberale che caratterizzano le società capitalistiche dell’Occidente (su ciò, almeno per ora, la linea di demarcazione è netta, anche se esistono nel PCC tendenze che spingono in questo senso). Per cui, dentro un contesto in cui si riconferma la “leadership del partito comunista”, si intende operare per un “approfondimento della democrazia interna di partito”, per rendere vitale “il sistema della cooperazione multipartitica” (in Cina esistono otto piccoli partiti, oltre il PCC, espressione di settori sociali, religiosi, culturali, la cui attivizzazione può rappresentare un’inizio primordiale di sperimentazione di nuove forme di pluralismo controllato); il “rispetto dei diritti umani; la definizione di procedure democratiche di elezione; la promozione a livelli alti di responsabilità di personalità non iscritte al partito (recente la nomina, per la prima volta, di due ministri-ndr); la fine di ogni arbitrio leaderistico, ad ogni livello, e la piena attuazione di un primato della legalità in cui cominci gradualmente ad operare un sistema di articolazione e divisione dei poteri tra le diverse istituzioni sociali e statali (governo, parlamento, enti locali, magistratura, sindacati, associazioni di categoria, associazioni religiose, gruppi etnici, giornali, riviste...). In nome dell’unità nazionale si prospetta cioè “una crescente armonia tra i diversi partiti politici, le diverse etnie e religioni, i diversi strati sociali e i nostri compatrioti che vivono all’estero”. 

Si prospetta inoltre “un sistema di autogoverno per i livelli primari della società” (enti e comunità locali...), quasi a voler avviare - con la prudenza e la gradualità che caratterizza l’approccio della direzione cinese sui temi più delicati e controversi - una fase di sperimentazione di forme più avanzate di democrazia e partecipazione popolare, partendo dal basso, evitando gli scossoni e i rischi che ciò determinò nell’improvvida e avventuristica perestroika gorbacioviana (lo stesso criterio che del resto fu seguito da Deng e dai suoi successori nella riforma economica, iniziata a piccoli passi e con estrema gradualità ben 30 anni fa, prima di pervenire a svolte più radicali). Un approccio che, in materia di riforma del sistema politico, potremmo definire di tipo “andropoviano” e che nell’esperienza sovietica non riuscì purtroppo ad affermarsi. 

7. Nel settimo capitolo si pone il tema dello “sviluppo intenso di una cultura socialista” di massa, a riprova che il gruppo dirigente cinese è ben consapevole, marxianamente, che l’emergere strutturale, nella società cinese, di forti spinte ad una cultura di mercato, individualistica, di tipo borghese, soprattutto nelle nuove generazioni, se non adeguatamente contrastata e governata – sul piano sociale, materiale, ma anche su quello culturale e dei valori - potrebbe compromettere nel tempo le basi stesse della prospettiva socialista, nella società e nel partito. (L’esperienza storica del PCUS e dello stesso PCI rappresentano in proposito esempi emblematici, ancorché negativi...). Ciò richiede – si dice – “un forte sforzo innovativo della teoria marxista”, senza il quale le capacità propulsive e di attrazione del marxismo e di una cultura finalizzata al socialismo possono essere messe fortemente a rischio nella vita presente e futura della Cina. Ciò richiede un “complesso lavoro sul piano ideologico, che sappia anche rispettare le divergenze e consentire una diversità di approcci”. 

8. Nell’ottavo capitolo vengono dettagliate una serie di indicazioni relative alla costruzione di una “società socialista fondata sull’armonia sociale”, riconducibili alla citata prospettiva di costruzione di uno Stato sociale che garantisca giustizia, equità, riequilibrio nella distribuzione della ricchezza. E dove si allude, tra l’altro, alla necessità di introdurre “meccanismi automatici di incremento e rivalutazione” dei redditi da lavoro dipendente. 


La Cina e il mondo 

9. Il nono capitolo affronta il tema della “modernizzazione della difesa nazionale e delle Forze armate”, che debbono essere “più rivoluzionarie, più moderne e più conformi agli standard internazionali, con una integrazione ed un progresso non sbilanciato tra questi tre fattori”. 

10. Il decimo capitolo tratta la questione di Taiwan e della “riunificazione nazionale pacifica della madre patria, sulla base del principio Un Paese, due sistemi, tramite negoziati formali e pacifici”, come già si è fatto con successo nel caso di Hong Kong e Macao. E viene nel contempo avvertita la classe dirigente di Taiwan ( e i suoi amici nel mondo) che “la Cina non tollererà mai alcuna secessione”. 

11. L’undicesimo capitolo è dedicato alla politica estera, in modo assolutamente sintetico e senza entrare nell’analisi di singoli scenari (come è tradizione della direzione cinese da diversi congressi). Su questo tema si tende a diplomatizzare tutta una serie di divergenze con altri Paesi, a partire dagli USA, in nome di una realpolitik finalizzata a non inasprire alcun tipo di contenzioso, oppure si parla per allusioni. 

Ci si limita a richiamare alcuni principi guida - certo non asettici o fuori dal tempo - quali :

-la priorità alla “pace, alla cooperazione pacifica per lo sviluppo, alla difesa della natura e del Pianeta come unica casa comune di tutta l’umanità”;

-il sostegno alle dinamiche di “un mondo multipolare e sempre più interdipendente”: un processo considerato “irreversibile”;

-una valutazione per cui “i rapporti di forza internazionali stanno cambiando a favore delle forze che vogliono il mantenimento della pace e della stabilità internazionale”; benché “il contesto mondiale siano lungi dall’essere tranquillo”, dove “continuano a manifestarsi forme di egemonismo e di politica di potenza, conflitti locali e zone calde, squilibri crescenti nell’economia mondiale, con un divario crescente tra Nord e Sud, nonché vecchie e nuove minacce alla sicurezza”;

-l’imperativo che tutti “rispettino regole e principi della Carta delle Nazioni Unite” e del “diritto internazionale” e si impegnino alla “risoluzione pacifica di tutte le controversie internazionali, respingendo il ricorso alla guerra”;

-la “difesa ferma della sovranità della Cina e della sua integrità territoriale”;

-il “rispetto pieno del diritto di ogni popolo e Paese alla scelta sovrana delle proprie vie di sviluppo, senza interferenze da parte di alcuno”;

-il “sostegno agli sforzi dei Paesi in via di sviluppo a superare il divario Nord-Sud”;

-lo “sviluppo di relazioni di amicizia e cooperazione con tutti i Paesi sulla base dei cinque principi della Coesistenza pacifica”. 


Partito marxista 

12. Il dodicesimo ed ultimo capitolo è dedicato al tema della “costruzione del Partito, in uno spirito di riforma e innovazione”. E qui si evidenziano :

-la necessità di rafforzare “le capacità di governo del partito, la qualità dei quadri, il loro stretto legame fiduciario con la popolazione, la loro estraneità a fenomeni di corruzione” : condizioni necessarie, tra le altre, per salvaguardare e rilanciare “la natura di avanguardia del partito e il suo carattere di partito marxista”; 

-“lo sviluppo ideologico e teorico del Partito” che presuppone anche in questo ambito un approccio “innovativo del proprio patrimonio teorico” ed una “ferma adesione agli ideali del comunismo e del socialismo alla cinese”;

-l’ ”espansione della democrazia interna di partito, il rispetto delle opinioni dei suoi membri, l’incremento della trasparenza nei processi decisionali, la creazione di un clima favorevole per discussioni democratiche,...una attuazione del centralismo democratico che impedisca e prevenga decisioni arbitrarie da parte di singoli o gruppi minoritari di persone”. Ciò richiede anche “l’introduzione di nuovi sistemi di voto e procedure elettorali interne, che comprendano regole trasparenti di selezione dei quadri e forme di competizione tra una pluralità di punti di vista e di candidature”, con una “particolare attenzione ai quadri femminili”, e al rispetto delle “minoranze etniche” (un richiamo questo, al “nostro popolo multi-etnico”, che ricorre incessantemente nella relazione);

-la “promozione di non comunisti ai livelli più alti della direzione dello Stato” (come la recente nomina di due ministri esterni al PCC);

-“ridurre il numero di documenti e incontri ufficiali, bandendo ogni formalismo, burocratico”;

-“combattere la corruzione, nei suoi effetti e nelle sue cause originarie, sapendo che dal successo di questa lotta dipende in buona misura la credibilità del Partito agli occhi della popolazione, la sua stessa sopravvivenza”. Avendo piena consapevolezza del “principio basilare del materialismo storico per cui, in ultima analisi, sono i popoli che fanno la storia”. 

Così, infine, nella parte conclusiva: “Sarà necessario più di un decennio di duro e costante lavoro per raggiungere l’obbiettivo di una società mediamente prospera e altri decenni per pervenire al livello di una modernizzazione nei suoi tratti essenziali. E ci vorranno almeno una decina, forse più decine di generazioni, per consolidare e sviluppare un sistema socialista. Siamo consapevoli delle difficoltà e dei pericoli che ci attendono. Dobbiamo essere preparati alle avversità in tempo di pace, attenti a tutti i pericoli potenziali, mantenendo sempre ferma la nostra fiducia nel marxismo e nel socialismo con le peculiarità del nostro Paese”. 

Ci sarà modo e tempo per ritornare sulle questioni poste da questo importante appuntamento dei comunisti cinesi. Credo sia utile affrontare la discussione sulla base di una pur minima e succinta informazione documentale, anche al fine di evitare stereotipi, luoghi comuni e approcci propagandistici di vario segno, che non aiutano a capire. Mentre abbiamo invece bisogno soprattutto di capire, se è vero, come ha scritto di recente Fidel Castro, che “ per tutti quelli che, come noi, credono nel socialismo, quello che la Cina sta facendo rappresenta una speranza. Non è azzardato affermare che il futuro del socialismo nei prossimi decenni dipenderà in larga misura da quello che la Cina saprà realizzare”.

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www.resistenze.org - popoli resistenti - cina - 14-12-07 - n. 207

Le vie inesplorate del “socialismo con caratteristiche cinesi”

 

La Cina e il 17° Congresso del Partito Comunista*
 
di Marcello Graziosi

 

Non è banale iniziare queste brevi – e forse disordinate - annotazioni ringraziando la newsletter de L’ernesto per l’opportunità che offre di proseguire e aggiornare la discussione sulla Cina, il più grande tra i paesi in prepotente via di sviluppo, il solo che – guidato dal più grande partito comunista del mondo – considera sé stesso in transizione verso il “socialismo con caratteristiche cinesi”. Intervengo stimolato da quanti mi hanno preceduto – dalle “note” di Fausto Sorini ai due articoli di Bruno Casati per la rivista “Gramsci oggi” – come dalla necessità di superare un approccio - assai diffuso all’interno della sinistra anche radicale italiana – che tende ad interpretare i processi in atto nel grande paese asiatico con la supponenza di chi ha solamente da insegnare e nulla da apprendere, evidenziando da subito un grande – e per certi versi clamoroso - paradosso: in questi ultimi anni nessuno ha fatto parlare direttamente i comunisti cinesi della loro esperienza, delle grandi contraddizioni come delle grandi potenzialità che essa ha determinato, dello stato di un partito che oggi conta 73 milioni di iscritti e 3.500 organizzazioni di base in uno sterminato paese, di come vivono i giovani nelle città e nelle campagne, delle loro speranze e aspettative, delle condizioni di lavoro e di vita in un paese che tra qualche anno faticherà a riconoscere sé stesso. Si ha un po’ l’impressione di parlare della Cina come se i cinesi – con la loro millenaria cultura, le loro tradizioni, le loro articolate esigenze e aspettative – non esistessero: l’ultima, grande inchiesta degna di menzione sulla Repubblica popolare è quella del grande giornalista e scrittore statunitense Edgar Snow – il cantore della Lunga Marcia del 1936 – e risale al 1966.

 

A parte qualche caso sporadico, poco o nulla è stato fatto in questa direzione: Deng Xiaoping, padre della Cina moderna, rimane una sorta di fantasma che ogni tanto aleggia nelle discussioni, mentre sarebbe forse il caso di raccoglierne gli scritti fondamentali, ormai introvabili, in una sorta di antologia, in grado di ricostruire anche quella che è stata la discussione interna al PCC fino all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso e anche oltre. Su Jiang Zemin e Hu Jintao – vale a dire su altri tre lustri di evoluzione nella vita del partito e del paese – è stato pubblicato ancora meno, nonostante sulla Cina si scrivano ormai fiumi di inchiostro. Non sarebbe interessante, soprattutto per chi intende tenere viva la discussione teorica e politica intorno alla “transizione al socialismo” dopo la caduta dell’URSS, conoscere di più quella che è stata ed è l’esperienza cinese a partire dalla voce dei protagonisti? La Cina continua ad essere, su questo terreno, lontana anche per noi.

 

E’ bene chiarire, a questo punto, un aspetto importante e di grande rilevanza politica e culturale per non ingenerare equivoci o fraintendimenti: i cinesi, pur avendo saputo modificare in profondità la struttura economica di un enorme paese senza abbandonare i riferimenti strategici e politici al socialismo e pur trovandosi ad agire in una realtà nazionale e internazionale – la globalizzazione e la violenta offensiva del capitalismo e dell’imperialismo dopo la disgregazione dell’URSS – assai complessa, non ambiscono ad emergere come “modello” per tutti. Questo è un aspetto importante anche per il futuro, soprattutto se letto alla luce di quelle che sono state le dinamiche interne al movimento operaio e comunista dello scorso secolo, a partire dal fallimento della rivoluzione nell’Occidente capitalistico e dal conseguente isolamento della rivoluzione d’Ottobre: la Cina potrebbe costituire – e in effetti costituisce – un esempio attrattivo per tanti paesi in via di sviluppo con governi che abbiano a cuore la crescita autonoma del proprio paese e il miglioramento delle condizioni di vita della propria gente, ma non per i paesi a capitalismo avanzato. Così come, d’altro canto, sarebbe ingiusto, abominevole e fuorviante continuare a interpretare e valutare l’esperienza cinese con la lente deformante della supposta superiorità dei sistemi democratici occidentali, in profonda crisi di identità, sempre più escludenti, autoritari e decadenti, non di rado ormai imposti al resto del mondo attraverso guerre di conquista e distruzioni. In Occidente i sistemi a democrazia liberale sono ormai ridotti a puro esercizio formale, essendo sganciati da ogni visione di riscatto sociale e politico delle masse popolari e rimanendo un fattore escludente rispetto ai nuovi cittadini stranieri, mentre in Cina potrebbero determinarsi le condizioni per coniugare democrazia e socialismo, esercizio delle libertà personali, diritti individuali e grande progetto collettivo e nazionale. Le riforme sono, su questo terreno, assai più lente e difficili rispetto alla sfera economica, ma il loro dispiegarsi inevitabile di fronte ad una società sempre più complessa e istruita e fattore determinante per la sopravvivenza della transizione. Se i cinesi non possono (e non intendono) essere un modello per noi, noi, altrettanto, non possiamo pretendere di essere il metro di paragone non solo per la Cina ma per il mondo intero.

 

La lotta alla corruzione all’interno del partito si inserisce precisamente all’interno di questo contesto: come potrebbe, il PCC, sopravvivere a lungo di fronte all’accelerazione delle riforme se dovessero prevalere al proprio interno – dal governo nazionale all’ultima e più sperduta delle municipalità - gli interessi individuali dei singoli funzionari o di gruppi di potere? L’esempio mostruoso del PCUS aleggia ancora nella memoria di tanti e sarebbe assolutamente sbagliato e inutile rimuoverlo. Il PCC si sta muovendo con molta più determinazione su questo terreno, dando un segnale incoraggiante di vitalità, soprattutto se consideriamo, di nuovo, quanto accaduto in URSS: l’istituzione che ha perseguito con più coerenza e autonomia la lotta contro la dilagante corruzione, arrivando ad inquisire la figlia di Breznev, - vale a dire il KGB allora diretto da Andropov – è stata la sola ad avere credito tra la gente e la sola sopravvissuta alle macerie.

 

Crescita economica, complessità sociale e partito unico

 

I numeri, le cifre della prepotente crescita economica cinese sono semplicemente da capogiro, tanto che il governo di Pechino è il solo a porsi il problema di come rallentare, o razionalizzare tale vorticoso sviluppo. Su questo terreno, la distanza dall’Unione Sovietica è abissale tanto sul piano quantitativo, quanto su quello qualitativo: nonostante un interessante e serrato dibattito sulle relazioni tra piano e mercato e sull’introduzione di elementi “capitalistici” all’interno dell’economia pianificata – dibattito iniziato all’epoca della NEP leniniana e ripreso con forza a partire dagli anni ’60 del secolo scorso - e nonostante l’introduzione di qualche più o meno timido tentativo di riforma, il sistema economico sovietico è rimasto di fatto impostato su quello che era il modello staliniano, fondamentale per un’intera fase storica (collettivizzazione dei rapporti agrari, mobilitazione delle forze produttive, sviluppo dell’industria pesante, rigido centralismo) ma non in grado di fornire risposte adeguate ai bisogni di una società che si faceva sempre più complessa in tempo di pace o relativa pace e stabilità. La lunga stagnazione degli anni ’70 – economica ma anche politica, sociale e culturale – ha colpito in profondità la credibilità dell’intero sistema agli occhi delle masse popolari e, soprattutto, delle giovani generazioni che sono cresciute – schematizzo brutalmente – cedendo al fascino di quelli che un’abile e articolata campagna di informazione presentava come i grandi “valori culturali” e le “libertà” del capitalismo occidentale. Falsi miti che sarebbero stati duramente pagati da un paese intero nel corso del decennio eltsiniano, quando la controrivoluzione ha mostrato il proprio vero volto. La stagione di profonde – pur se graduali – riforme inaugurata da Andropov è stata troppo breve per lasciare segni tangibili in un sistema ormai funzionante all’ombra di sé stesso e destinato, semplicemente, ad esaurirsi.

 

La Cina, oggi, sembra non correre il rischio di una deriva “sovietica”, anche se alcune delle contraddizioni determinate dal grande sviluppo quali e quantitativo dei fattori produttivi si impongono con un carattere sempre più “strutturale” – caratterizzante cioè una più o meno lunga fase - e non semplicemente congiunturale o facilmente reversibile. Non sono, cioè, solamente il rovescio della medaglia, un semplice prezzo da pagare, una subordinata o un corollario rispetto al processo di riforma, ma sono parte del processo stesso e, di conseguenza, dovrebbero rimanere al centro della riflessone del gruppo dirigente di Pechino.

 

Gli aspetti importanti e positivi della transizione cinese sono stati più volte ricordati ai tanti e prevenuti detrattori e oggetto di analisi e discussione anche all’interno della sinistra comunista non solo in Italia: tassi di crescita che consentono un’espansione sempre maggiore del mercato interno e il miglioramento complessivo delle condizioni di vita di milioni di esseri umani; la ricerca di investimenti stranieri non solamente finalizzata ad attirare capitali e valuta pregiata garantendo tassi di interesse vantaggiosi o facili guadagni (processo, questo, funzionale ai grandi centri del capitalismo finanziario internazionale a guida USA), ma volta a determinare un miglioramento qualitativo dei prodotti destinati non solamente all’export come anche a soddisfare le sempre maggiori esigenze del mercato interno; direzione collettiva del sistema economico e prevalenza del settore pubblico nella produzione della ricchezza, elemento che consente la possibilità di investire nuovamente gli utili nelle infrastrutture, nella ricerca, nella scuola o nell’università e nella formazione; utilizzo autonomo della valuta pregiata incamerata (la Cina è, nel bene e nel male, il primo finanziatore del debito USA e uno dei pochi paesi che non si lascia dettare da Washington la politica valutaria). Non sono stati, insomma, i cinesi a dettare le regole di funzionamento del capitalismo globale, ma dentro questo processo sono riusciti con intelligenza e pazienza a far valere i propri punti di forza, suscitando reazioni scomposte da parte dei paesi avanzati, che mai come ora vedono in bilico la propria superiorità e i propri privilegi.

 

Esistono anche, però, i costi della crescita e quelle che emergono come contraddizioni “strutturali”, i nodi che si troveranno ad affrontare i dirigenti cinesi già a partire dai prossimi anni: l’agricoltura cresce molto più lentamente dell’industria, elemento che allarga il divario tra città e campagna e finisce per innescare un colossale processo di migrazione interna dalle aree rurali alle periferie urbane, processo tipico di un paese in crescita ma assai difficile da governare sul piano della risposta sociale e culturale; cresce il divario tra le zone costiere e industriali – dove cioè si concentra la crescita – e il resto del paese; diritti del lavoro e forme di autorganizzazione dei lavoratori (nelle aziende pubbliche come anche in quelle private o straniere che sfruttano lavoratori cinesi); il sistema di protezione sociale (a partire dalla sanità: è bene ricordare che la Cina si interessa, ad esempio, all’esperienza di alcune regioni italiane in materia di costruzione di un sistema socio-sanitario pubblico) non è all’altezza e fatica a tenere il passo con le nuove esigenze poste dai bisogni di una società sempre più complessa; tale società, soprattutto nelle grandi città, comincia a porsi il problema non solo dei bisogni primari, ma anche della rappresentanza politica come della qualità della vita collettiva (l’aria che si respira, l’acqua che si beve o l’ambiente nel quale si vive) e individuale (tempo di vita e tempo libero, tecnologie ed elettrodomestici, mezzi di trasporto e molto altro ancora). Sbaglia, e di grosso, chi ritiene marginali questi ultimi aspetti: lo sviluppo economico è senza dubbio indispensabile, ma non sufficiente. Un recente sondaggio, ad esempio, rivela che i cittadini di Pechino sarebbero disposti anche a pagare una tassa per poter vivere in un ambiente migliore, meno inquinato e più confacente ai propri desideri. La soluzione non può essere certamente questa, ma l’episodio è sintomatico di una coscienza che cresce, di un bisogno – anche se non materiale – che si afferma come fenomeno di massa, collettivo. Come coniugare la crescita economica con la salvaguardia dell’ambiente nel senso più ampio del termine? Come garantire gli approvvigionamenti energetici, sempre più indispensabili, con le nuove energie rinnovabili, terreno sul quale la Cina potrebbe essere all’avanguardia anche rispetto all’Occidente, ridimensionando fortemente anche i disegni di aggressione USA e la “geopolitica del petrolio”? E’ possibile, su questo terreno, ipotizzare modelli di sviluppo differenti, che tengano conto del pessimo stato dell’ambiente nel suo complesso e del fatto che le risorse del pianeta sono finite, ma sarebbe curioso (e disonesto) chiederlo sempre agli altri, e soprattutto ai paesi in via di sviluppo. Come dire: i paesi a capitalismo avanzato hanno saccheggiato l’intero pianeta, mettendolo a ferro e fuoco per i profitti di pochi e il benessere di non molti milioni di esseri umani, mentre i restanti miliardi di individui, che per secoli hanno patito schiavitù e povertà, devono crescere con garbo e moderazione e rispettare i vincoli ambientali. Sarebbe questo un atteggiamento aristocratico, che si tradurrebbe inevitabilmente nella difesa dei privilegi dell’Occidente. Anche i cinesi, gli indiani, i brasiliani, i sudafricani hanno diritto ad utilizzare lavatrici, lavastoviglie, robot da cucina, automobili e telefonini. In questo contesto, il nodo ambientale si presenta in tutta la sua drammaticità di fronte a tutti: paradossalmente, i segnali più positivi vengono non a caso dai paesi in via di sviluppo, mentre i peggiori dagli Stati Uniti.

 

Una prima, importante risposta dei comunisti cinesi è stata l’introduzione del principio dello “sviluppo armonico”, concetto recuperato dal sistema filosofico confuciano che può trovare grandi riscontri anche nella nostra epoca. Molto dipenderà, ovviamente, da quali azioni concrete intraprenderà nei prossimi anni il governo cinese, ma l’introduzione di questo principio non può essere considerata né banale, né scontata. Forse, anzi probabilmente, non sarà sufficiente, ma a giudicarla tale non può essere chi fa ancora meno in questo senso.

 

La Cina nel mondo

 

Ovvero, la Cina e il contesto nel quale si trova e si troverà ad agire. Di fronte a un rapido deterioramento del quadro internazionale, il governo cinese ha scelto non senza ragione la via della prudenza, pur senza rinunciare a far sentire il proprio peso in determinate circostanze e senza rinunciare al disegno di costruire relazioni multipolari anche attraverso vaste alleanze regionali, impostando i propri rapporti economici – con riferimento particolare all’Africa e all’America Latina – sulla base dei principi di Bandung (non ingerenza e reciproco beneficio) e capovolgendo così letteralmente la logica brutale e militarista degli Stati Uniti e dei propri alleati. L’obiettivo, sacrosanto, di Pechino è quello di salvaguardare per quanto possibile la pace (pur se precaria e relativa), in modo da poter sviluppare la propria economia e le proprie relazioni sociali in un contesto di “distensione” e “convivenza pacifica”, per usare – non a caso – due termini di riferimento importanti per la politica estera sovietica a partire dagli anni ’60 del secolo scorso.

 

Il quesito è bruciante: fino a quando gli Stati Uniti consentiranno alla Cina di crescere e svilupparsi in un contesto più o meno pacifico e non decideranno di far valere (o minacciare pesantemente di far valere) la propria supremazia militare prima che sia troppo tardi? L’egemonia del PCC rimarrà salda anche di fronte a eventuali piani di disgregazione più o meno violenta del paese sponsorizzati da Washington e, con ogni probabilità, da Tokyo e Bruxelles? Più volte abbiamo ragionato di questo, ma la sensazione è che i tempi stringano e la minaccia di Bush di scatenare un terzo conflitto mondiale si colloca precisamente in questa direzione. Quando gli Stati Uniti si sono resi conto che la politica di “coesistenza pacifica” e “distensione” avrebbe finito per favorire l’URSS, o comunque dinamiche che avrebbero indebolito la propria supremazia sul piano globale, non hanno esitato a giocare la carta della corsa agli armamenti e della militarizzazione unilaterale dell’Europa e dello spazio, costringendo Mosca ad una frenetica rincorsa che ha finito per complicare ulteriormente la già difficile condizione economica sovietica. Ancora prima, al termine del secondo conflitto mondiale, gli USA non hanno esitato a sganciare la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki per sancire la propria superiorità sul piano internazionale, come primo atto di quel processo che sarebbe terminato con la Dottrina Truman e la Guerra Fredda.

 

Senza entrare nel merito dei singoli scenari (da Taiwan al Giappone, alla difficile situazione indiana, alla presenza delle forze Usa e Nato a ridosso dei propri confini, al braccio di ferro con gli USA in Africa), la Cina, insieme a diversi altri paesi (BRIC ma non solo), sta insidiando il primato economico e, di conseguenza, politico degli Stati Uniti e degli altri paesi a capitalismo avanzato. Questo processo potrebbe non affermarsi pacificamente e, di conseguenza, potrebbe avere pesanti ripercussioni sulla transizione al socialismo alla cinese.

 

Se i comunisti cinesi riusciranno a portare pace, sviluppo e prosperità al proprio popolo, potranno dire di aver vinto una scommessa con la storia lunga sicuramente più di un secolo. A dimostrazione che socialismo e diritti individuali, socialismo e democrazia non sono concetti opposti ma coniugabili. Un’esperienza, quella cinese, che ha tanti nodi irrisolti e scelte difficili davanti a sé, ma che non ha – giunta a questo punto - precedenti nella storia.

 

* L'articolo è stato scritto per la newsletter della rivista comunista "L'ernesto"

 




Die neue Kosovo-Krise

1) Jürgen Elsässers Neues Buch über die Kosovo-Krise:

"Kriegslügen. Der Nato-Angriff auf Jugoslawien". 
Komplett aktualisierte Neuauflage 2008, 205 Seiten, 12.80 Euro. 
Verlag Kai Homilius

2) Countdown (GFP 10.12.2007)

3) Aufs engste verflochten (GFP 17.12.2007)

4) Hass auf Versailles (GFP 21.12.2007)

5) Kosovo in völker- und verfassungsrechtlicher Sicht
(Alexander S.Neu in Ossietzky, 06.08.2007)


Siehe auch:


Jürgen Wagner: Kosovo: EUropas erste Kolonie



OSZE warnt vor neuem Roma Exodus

Der OSZE-Hochkommissar für nationale Minderheiten, Knut Vollebaek, hat im Zusammenhang mit der erwarteten Ausrufung der Unabhängigkeit des Kosovo vor einem neuerlichen Flüchtlingsstrom von Roma gewarnt. Viele der noch im Kosovo lebenden Roma könnten in die Nachbarstaaten Mazedonien und Montenegro flüchten, wenn ihre Sicherheit, insbesondere in den südlichen Teilen des Kosovo nicht gewährleistet wird, sagte Vollebaek in Helsinki... (14. Dezember 2007)



Angst vor neuer Gewalt: Die ersten Roma verlassen den Kosovo

Aus Angst vor einem Ausbruch neuer Gewalt sind offenbar die ersten Roma aus Kosovo weggezogen. Wie Mitarbeiter des Roma und Ashkali Dokumentationszentrums in Gracanica feststellten, haben mindestens sieben Roma-Familien die serbische Enklave verlassen... (11. Dezember 2007)



Neuer Länderkurzbericht von amnesty international (6. Dezember 2007)

Bei den seit langem andauernden Verhandlungen über den künftigen Status des Kosovo zeichnet sich kein Kompromiss ab. Ein erneuter Ausbruch der Gewalt in der Region könne daher nicht ausgeschlossen werden, meint die deutsche Sektion von amnesty international. Zur aktuellen Lage im Kosovo hat amnesty international einen neuen Länderkurzbericht vorgelegt. Er kann hier herunter geladen werden:



EU-Kommission: Kosovo mit nur wenigen Fortschritten beim Schutz von Menschenrechten

Kosovo hat im Bereich Menschenrechte und Schutz der Minderheiten nur wenig Fortschritte gemacht. Das geht aus dem jährlichen Fortschrittbericht zu den Beitritts- und Kandidatenländern hervor, den die EU-Kommission in Brüssel vorgelegt hat... (7. November 2007)




USA bitten Kroatien im Fall von neuem Massenexodus um Aufnahme von Flüchtlingen

Laut der kroatische Tageszeitung Jutarnji List haben die Vereinigten Staaten Kroatien um die Aufnahme von Flüchtlingen gebeten habe, um sie außerhalb des NATO- und EU-Territoriums zu halten – für den Fall, dass die Unabhängigkeit Kosovos eine neue Flüchtlingskrise zur Folge haben sollte... (5. Oktober 2007)



«Serbe, Türke, Marsmensch»

Im Kosovo leben neben der albanischen Mehrheit nicht nur SerbInnen, sondern noch etliche andere ethnische Minderheiten. Ein Besuch bei diesen bedrängten Gemeinschaften. Von Jean-Arnault Dérens (WOZ vom 04.10.2007)



"Bilder, wie man sie höchstens aus der Dritten Welt kennt" 

ZDF-„heute“-Moderator Steffen Seibert war vier Tage lang für UNICEF im Kosovo unterwegs, um sich dort ein Bild von der Lage der Kinder zu machen. Im Mittelpunkt seiner Reise stand die Situation von Roma-Kindern... (1. Oktober 2007)

Tagebuch Tag 1: Pristina
Tagebuch Tag 2: Mitrovica
Tagebuch Tag 3: Preliushe und Gjakova
Tagebuch Tag 4: Mitrovica


=== 1 ===

-------- Original-Nachricht --------
Datum: Mon, 10 Dec 2007 13:25:24 +0100
Von: "Jürgen Elsässer" 
Betreff: Kosovo-Krise: Neues Buch

bitte weitermailen

Lang vergriffen – endlich aktualisiert und neu aufgelegt:


Jürgen Elsässer, "Kriegslügen. Der Nato-Angriff auf Jugoslawien". 
Komplett aktualisierte Neuauflage 2008, 205 Seiten, 12.80 Euro. 
Verlag Kai Homilius

Seit dem 10. Dezember stehen die Zeichen im Kosovo wieder auf Sturm: Nach dem Scheitern der Verhandlungen über den Status der Provinz wollen die Albaner weg von Serbien und einen eigenen Staat ausrufen. Belgrad will das mit allen Mitteln verhindern, die NATO hat  ihre Truppen in der Region verstärkt und in Alarmbereitschaft versetzt. Der "Corriere della sera" schrieb vor kurzem: "Der nächste Krieg auf dem Balkan droht." Ist die Bundeswehr wieder dabei, wenn es gegen die Serben geht? Eine Wiederholung der Geschichte befürchtet Jürgen Elsässer in seinem aktuellen Buch "Kriegslügen. Der Nato-Angriff auf Jugoslawien". Buchpremiere: 21. Dezember (s.u.); im Buchhandel am 24. Dezember.

Das Buch ist auch ein ideales Geschenk für Freunde und Kollegen, die Sie vor der nächsten Balkankrise über den Stand der Dinge informieren wollen. Die Wiener Tageszeitung "Die Presse" schrieb anläßlich der Erstausgabe: "Wenn Joschka Fischer zurücktreten muß, dann hoffentlich wegen dieses Buches." Gerne versende ich den Band auch mit Signatur! (Mehr zum Inhalt und Bestellmöglichkeiten siehe unten).

Bisher sind folgende Buchvorstellungen mit Jürgen Elsässer geplant – dabei gibt es auch Gelegenheit zur Debatte über die aktuellen Zuspitzungen auf dem Balkan und über mögliche Protestmaßnahmen:

Freitag, 21.12.2007, Berlin
19.30 Uhr: Buchvorstellung in der serbisch-orthodoxen Kirche

Sonntag, 13.01.2008, Berlin
13.00 Uhr: Buchpremiere in DR. SELTSAMS WOCHENSCHAU, Wirtshaus Max & Moritz,
Oranienstraße 162, 10969 Berlin-Kreuzberg, Bus M 29, U 8 Moritzplatz.

Samstag, 16.02.2008, Neubrandenburg
10.00 Uhr: Lesung in der Arche N, Reitbahnweg 38

Sonntag, 24.02.2008, Berlin
Podiumsdiskussion im Rahmen eines Kulturfestivals
Details folgen

Donnerstag, 24.04., Berlin
19.00 Uhr: Lesung im Antiquariat Eichler, Sesenheimer Str. 17 (Nähe Deutsche Oper)

Weitere Veranstaltungen sind auf Anfrage möglich.


Bestellmöglichkeiten:

Am besten, Sie bestellen gleich mehrere Bücher – entweder von "Kriegslügen", oder "Kriegslügen" kombiniert mit anderen Büchern. Bei Mehrfachbestellungen gibt es Preisnachlaß (siehe unten). Noch erhältlich sind:

Jürgen Elsässer, "Angriff der Heuschrecken. Zerstörung der Nationen und globaler Krieg" (erschien 2007, 16.90 Euro). Heiß diskutiert!

Jürgen Elsässer, "Make Love and War. Wie Grüne und Achtundsechziger  die Republik verändern" (160 Seiten, 14.50 Euro). Das zuckersüße Geburtstagspräsent zum 40. Jahrestag von 68!

Jürgen Elsässer, Ratne Lazi ("Kriegslügen" auf serbisch, Stand 2005). 15 Euro.

Jürgen Elsässer, Kako je Dzihad stigao na Balkan (Serbische Ausgabe von "Wie der Dschihad nach Europa kam", das auf deutsch vergriffen ist; außerdem ist das Buch noch in Französisch erhältlich). 17,50 Euro

Preisnachlaß bei Bestellung über info@...:

Ein Buch – Vollpreis plus 2,50 Euro Porto/Verpackung
Zwei Bücher – Vollpreis, Porto/Verpackung ENTFÄLLT
Drei Bücher – Vollpreis MINUS 5 EURO, Porto/Verpackung entfällt
Vier Bücher – Vollpreis MINUS 10 Euro, Porto/Verpackung entfällt

Höhere Stückzahlen nach Vereinbarung.

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Auszug / Leseprobe aus der Einleitung von Jürgen Elsässer, "Kriegslügen":

Der Krieg, der nicht zu Ende ist

Und das Buch, das nicht zu Ende ist: Vorwort zur komplett aktualisierten Neuauflage 2008


Der Kosovokonflikt und die Nato-Aggression gegen Jugoslawien sind nicht Geschichte, sondern bestimmen die Gegenwart. Das ist der Hauptgrund, warum dieses längst vergriffene Buch nun in einer neuen Fassung erscheint. Bereits vorher wurde es seit seinem ersten Erscheinen im Jahr 2000  fünf Mal überarbeitet und wiederaufgelegt und außerdem ins Französische, Italienische, Serbische und Griechische übersetzt.

Die Parzellierung des Balkan, die in den neunziger Jahren mit der Zerschlagung Jugoslawiens begonnen hat, fand im Jahre 2006 ihre Fortsetzung mit der Trennung Montenegros von Serbien. Bei Redaktionsschluß dieses Buches im Winter 2007 stand die Abspaltung des Kosovos bevor. An die Stelle der prosperierenden südslawischen Föderation, die der Partisanenführer Josep Broz Tito nach der Verjagung der Nazi-Besatzer 1944 geschaffen hatte, ist ein Flickenteppich instabiler Mini-Republiken getreten. Vor allem der albanische Irridentismus, der mit Unterstützung der Nato seine Ziele gegen Belgrad  durchsetzen konnte, bedroht mit Gebietsansprüchen gegenüber Mazedonien, Montenegro und Griechenland weitere Staaten. Ob die Europäische Union diese Gefahr eindämmen kann oder ob die Region wieder zum
weltpolitischen Pulverfaß wird, ist alles andere als ausgemacht. Im Juni 1914 waren Schüsse in Sarajevo der Auslöser eines Weltkrieges. Heute trifft im Gebiet zwischen Adria und Schwarzem Meer der Vormarsch der Nato-Mächte auf die Interessenssphären Rußlands und der islamischen Welt – eine Mischung, ähnlich explosiv wie vor 100 Jahren.

Kriegslügen wurde im Vergleich zur letzten Ausgabe vom Frühjahr 2004 komplett aktualisiert. Die seither erschienen Memoiren der verantwortlichen Politiker, etwa des damaligen US-Präsidenten Bill Clinton, seiner Außenministerin Madeleine Albright und vor allem des grünen Außenministers Joseph "Joschka" Fischer,  wurden kritisch gesichtet. Daneben hat insbesondere der Prozeß gegen den früheren jugoslawischen Präsidenten Slobodan Milosevic in Den Haag eine Unmenge neue Erkenntnisse gefördert, die eingearbeitet wurden. Unzählige Zeugenaussagen konnten Berücksichtigung finden und Zahlen über die Opfer des Bürgerkrieges wie der Nato-Aggression auf den neuesten Stand gebracht werden. Wer beispielsweise wissen will, wie viele UCK-Terroristen unter den angeblichen Ziviltoten des sogenannten Racak-Massakers waren, wie stark die Krebsrate nach dem Abwurf der Nato-Uranmunition anstieg oder wie viele Leichen von Kosovo-Albanern tatsächlich bei den Exhumierungsarbeiten gefunden wurden, wird kein besser belegtes und aktuelleres Kompendium als das hier vorliegende finden. Nicht nur überarbeitet, sondern komplett neu verfaßt wurde ein Kapitel über die Beratungen und Entscheidungsfindungen in der rot-grünen Regierung unter Kanzler Gerhard Schröder. Die Erinnerungen des damaligen Bundesfinanzministers Oskar Lafontaine waren dafür sehr hilfreich.

(...)

Bestellungen und mehr über:
www.juergen-elsaesser.de


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Countdown 

10.12.2007


PRISTINA/BELGRAD/BERLIN (Eigener Bericht) - Am heutigen Montag beginnt der Countdown zur Abspaltung der Provinz Kosovo von Serbien. Damit erreicht Berlin ein seit Jahren systematisch verfolgtes Ziel. Brüssel und Washington haben die Verhandlungen zwischen Belgrad und Pristina für beendet erklärt und leiten nun konkrete Schritte zur Anerkennung eines Staates Kosovo ein. Die Maßnahmen erfolgen unter vorsätzlichem Bruch internationalen Rechts und beinhalten Versuche, den UN-Generalsekretär für schwere Provokationen gegenüber Moskau in Anspruch zu nehmen. Serbische Bemühungen, auf völkerrechtlich zulässiger Grundlage eine Lösung für den Konflikt zu finden, wurden von den kosovarischen Anführern schon längst nicht mehr ernst genommen, weil ihren Sezessionsplänen die Unterstützung Deutschlands und der Vereinigten Staaten sicher war. Die derzeitigen Planungen sehen die Abtrennung des Kosovo spätestens im Mai 2008 vor. Sie laufen auf ein von NATO-Truppen besetztes und von EU-Personal verwaltetes Protektorat hinaus, das dem serbischen Hoheitsgebiet endgültig entrissen worden ist. Das Vorhaben droht neue gewalttätige Unruhen auf dem Gebiet mehrerer südosteuropäischer Staaten zu entfachen.

Mit dem endgültigen Abschluss der Verhandlungen zwischen Belgrad und Pristina, der am vergangenen Wochenende bekanntgegeben worden ist, beginnt die letzte Phase operativer Maßnahmen zur Abtrennung der Provinz Kosovo von Serbien. UN-Generalsekretär Ban Ki-Moon erhält am heutigen Montag offiziell einen Bericht der sogenannten Troika (USA, Russland, Deutschland/EU), der das Scheitern der jüngsten Gespräche dokumentiert. Berlin schließt übereinstimmend mit Washington weitere Vermittlungsbemühungen kategorisch aus. Damit setzt die Bundesregierung die bisherige deutsche Politik konsequent fort, die seit den 1990er Jahren die Sezession der Provinz förderte und sie zuletzt gezielt vorantrieb (german-foreign-policy.com berichtete [1]).

Fahrplan

Einen konkreten Fahrplan zur Durchsetzung des flagranten Völkerrechtsbruchs hat jetzt die International Crisis Group vorgelegt. Im Vorstand des Thinktanks sind zahlreiche prominente Politiker vertreten, die den Machtzentren westlicher Staaten entstammen oder sich auf sie ausrichten. Dazu gehören unter anderem Zbigniew Brzezinski (ehemaliger Sicherheitsberater des US-Präsidenten), der ehemalige niederländische Ministerpräsident Wim Kok, der ehemalige norwegische Außenminister Thorvald Stoltenberg sowie der frühere deutsche Außenminister Joseph Fischer. Neben Fischer, zu dessen ersten Amtshandlungen es gehörte, den Krieg gegen Serbien im Jahr 1999 politisch durchzusetzen, sind weitere Politiker Mitglied in der Organisation, die ebenfalls maßgeblich mit der Abspaltung des Kosovo befasst waren: der ehemalige finnische Staatspräsident Martti Ahtisaari, der den ersten offiziellen Plan zur Sezession der serbischen Südprovinz vorgelegt hat, sowie Wesley Clark, der 1999 den Krieg gegen Serbien als Oberbefehlshaber der NATO-Streitkräfte leitete. Deutschland ist mit dem ehemaligen CDU-Verteidigungsminister Volker Rühe, mit der SPD-Außenpolitikerin Uta Zapf und dem ehemaligen Vorsitzenden der Stiftung Wissenschaft und Politik, Christoph Bertram, unter den Senior Advisers des Thinktanks überparteilich vertreten.

Rechtsbruch

Der Fahrplan der International Crisis Group [2] sieht zunächst vor, dass der Europäische Rat sich am kommenden Freitag (14. Dezember) mit dem Kosovo befasst. Die EU-Staats- und Regierungschefs sollen die Vorschläge des ehemaligen finnischen Staatspräsidenten Martti Ahtisaari zur Umsetzung der Sezession für gut befinden und der Übernahme von Besatzungsaufgaben durch Brüssel zustimmen. Mit einer solchen Erklärung, heißt es, habe UN-Generalsekretär Ban Ki-Moon genügend Rückhalt, um gegen den Widerstand der Veto-Macht Russland mitzuteilen, er befürworte eine EU-Intervention im Kosovo "zur weiteren Umsetzung der Resolution 1244". Dies bedeutet nicht nur eine handstreichartige Entmachtung Russlands auf UNO-Ebene, die in Moskau als schwerwiegender Affront verstanden werden muss. Die Aufforderung signalisiert zudem absolute Willkür im Umgang mit UNO-Resolutionen, folglich mit internationalem Recht. Denn die Resolution 1244, in deren Namen die EU-Intervention eingeleitet werden soll, wurde ausdrücklich "in Bekräftigung des Bekenntnisses aller (UNO-)Mitgliedstaaten zur Souveränität und territorialen Unversehrtheit der Bundesrepublik Jugoslawien und der anderen Staaten der Region" verabschiedet. Sie lässt die Sezession des Kosovo, die Berlin und Washington nun durchsetzen, nicht zu.

Protektorat

Im Januar, schreibt die International Crisis Group, soll dann schließlich die kürzlich neu gewählte Regierung in Pristina ankündigen, die Eigenstaatlichkeit des Kosovo nach einer Übergangsfrist von 120 Tagen zu erklären - also im Mai 2008. Zugleich soll sie die EU und die NATO um zivile und militärische Besatzungsmaßnahmen bitten, also de facto ihre frisch gewonnene Macht sofort an die westlichen Länder übertragen. Im Gegenzug müssten die USA und "so viele EU-Staaten wie möglich" sich dafür stark machen, dass die angebliche Eigenstaatlichkeit, faktisch der Protektoratsstatus des Kosovo, rasch anerkannt werde.

Gebirgsjäger

Unruhen werden billigend in Kauf genommen; erste gewalttätige Auseinandersetzungen fanden bereits am vergangenen Wochenende statt. Die Bundeswehr hat ihre Aktivitäten in den Nachfolgestaaten Jugoslawiens daher intensiviert. Am 16. November meldete das deutsche NATO-Reservebataillon ("Operational Reserve Force", ORF) im Süden Serbiens seine volle Einsatzbereitschaft an den KFOR-Befehlshaber und begann mit Patrouillen. Die ersten Einsätze erfolgten an der 1991 gezogenen Grenze zwischen Serbien und Mazedonien, es folgten Kontrollen entlang der Linie, die das Kosovo von den nördlichen Landesteilen Serbiens trennt. Dort wird in Kürze der neue Staat "Kosovo" eine weitere Grenze auf dem Gebiet des früheren Jugoslawien hochrüsten. Die rund 550 Soldaten des deutschen ORF-Bataillons, die sich am vergangenen Wochenende mit einem Manöver auf Unruhen vorbereiteten, entstammen hauptsächlich dem Gebirgsjägerbataillon 232 aus Bischofswiesen-Strub (bei Berchtesgaden, Bundesland Bayern). Dessen Tradition geht auf das 1938 gegründete Gebirgsjägerregiment 100 (II. Bataillon in Strub) zurück. Die Soldaten des Gebirgsjägerregiments 100 waren in Kriegsverbrechen der Wehrmacht involviert.[3] Das Gebirgsjägerbataillon 232 war bereits mehrfach in Kroatien, in Bosnien-Herzegowina und in Mazedonien im Einsatz. Die Einheit trainierte schon im Juni für Szenarien, wie sie jetzt bei Auseinandersetzungen anlässlich der Sezession Pristinas erwartet werden.

Observation

Aktuelle Bedeutung kommt auch dem Einsatz deutscher Soldaten im Rahmen der sogenannten LOT ("Liaison and Observation Teams") in Bosnien-Herzegowina zu. Eine Eskalation der dortigen Spannungen wird gegenwärtig nicht ausgeschlossen, da in der Bevölkerung der Republik Srpska die Meinung herrscht, man könne gleiche Rechte wie die Kosovaren geltend machen und die Sezession aus Bosnien-Herzegowina in Betracht ziehen.[4] Der Westen teilt diese Ansicht nicht, da sie serbische Positionen stärkt. Die EUFOR-Besatzungstruppen unterhalten in dem Land ein Netzwerk aus Gruppen von je drei bis acht Soldaten ("LOT"), die in zivilen Wohnhäusern außerhalb der Militärareale untergebracht sind, enge Verbindung zu Bevölkerung und Behörden aufbauen und auf diese Weise "ein aktuelles und authentisches Lagebild" erstellen können.[5] Sie seien "Seismographen für ethnische Spannungen", heißt es beim Einsatzführungskommando der Bundeswehr in Potsdam, wo sämtliche Auslandsoperationen deutscher Truppen koordiniert und ausgewertet werden.[6]

Vojvodina-Frage

Die bevorstehende Unabhängigkeitserklärung der Regierung im Kosovo führt zu neuen Sezessionsbestrebungen unter anderem in der Vojvodina. Diese Region, in der eine starke ungarische Minderheit lebt, hat seit den Regierungstagen Titos - wie bislang das Kosovo - den Status einer autonomen serbischen Provinz. Wie der Vorsitzende der dortigen Regierungspartei LSV, Nenad Canak, erklärt, stellt sich bei einer Sezession des Kosovo auch eine "Vojvodina-Frage".[7] Er verlangt eine weitere Dezentralisierung und Regionalisierung Serbiens mit größerer Autonomie für die Vojvodina, für den Bezirk Sumadija, für Belgrad und für den Sandzak (dort lebt ein großer muslimischer Bevölkerungsteil). Canak zufolge werde die Regierung in Belgrad ihren Aufgaben nicht gerecht, sei träge und ineffektiv. Mit ähnlichen Vorwürfen hatten 1991 die Regierungen Sloweniens und Kroatiens ihre Sezessionsbestrebungen begründet.


[2] Kosovo Countdown: A Blueprint for Transition; International Crisis Group Europe Report N°188, 06.12.2007
[4] s. dazu Angelpunkt
[6] Am Puls der Bevölkerung; www.einsatz.bundeswehr.de 07.12.2007
[7] Kostres: Vojvodina ceka Kosovo; Vecernje novosti 07.12.2007



http://www.tesseramento.it/immigrazione/pagine52298/
newsattach1124_Manifesto%2020-12%20b.pdf
IL MANIFESTO
20 dicembre 2007

La Slovenia entra in Schengen, eppure non è solo una festa

Franco Juri

Oggi - stasera tardi, alle 23,55 cadranno significativamente le barre
dei due confini - anche la Slovenia entra solennemente nella
«famiglia» di Schengen, lo spazio comune europeo di libera
circolazione in cui i confini interni, tra gli stati che vi
aderiscono, rimangono tali solo potenzialmente. E',ovviamente, un
giorno di festa per gli sloveni; con l' introduzione dell' euro - un
anno fa - la caduta, anzi lo spostamento a sud del confine esterno
dell'Unione europea, i cittadini della Slovenia possono finalmente
percepire l' Europa ed i suoi vantaggi anche in termini meno
astratti. Abbattere un confine è sempre motivo di gioia, tantopiù se
la frontiera che scompare è stata per decenni considerata una
«cortina di ferro», almeno sul piano ideologico, visto che su quello
funzionale il confine tra Italia e Jugoslavia fu per decenni un
modello di permeabilità senza paragoni lungo la linea di demarcazione
tra Est e Ovest. E Trieste, con la sua complessa e sofferta realtà
storica, fatta anche di pregiudizi, nazionalismi e spesso di
animosità antislovena, è di fronte ad una nuova appassionante sfida
in cui dovrà sfoderare la sua pragmatica flessibilità ma anche
riabilitare - senza provinciali sotterfugi - il suo tanto decantato
cosmopolitismo. Ma Schengen, soprattutto in Istria, non è solo festa.
Per un confine che crolla uno, a soli dieci chilometri in linea d'
aria più a sud- si irrigidisce. Ironia vuole che a irrigidirsi sia
una frontiera di stato nata solo sedici anni fa, a seguito dell'
indipendenza di Slovenia e Croazia e della disintegrazione della
Jugoslavia. Il 25 giugno del 1991 non furono in pochi a brindare con
spumante alla sbarra che tagliava in due la penisola istriana, una
penisola multiculturale in cui veniva mozzata in due anche una
comunità italiana dai connotati regionali specifici ora rimessi in
gioco dalle nuove realtà geopolitiche dell'area. E così, se gli
sloveni hanno un motivo valido per festeggiare, i croati - e
soprattutto i multiculturali istriani- difficilmente condividono la
gioia dei loro «cugini» settentrionali. Anche perché le autorità di
Lubiana il regime di Schengen sono decise ad applicarlo con
particolare zelo lungo i seicento e passa chilometri di frontiera con
la Croazia. L' hanno fatto capire, oltre che con una legislazione
particolarmente restrittiva in tema di immigrazione o di asilo
politico, abbattendo, nel corso dei preparativi, alcuni vecchi ponti
con una lunga storia locale di convivenza e di vincoli famigliari sul
fiume Sotla/Sutla, risparmiando invece quelli sul Kolpa/Kupa dopo le
proteste della popolazione locale e alcune interrogazioni
dell'opposizione in parlamento. L'accesso ai ponti residui, alcuni
dei quali in verità pensili o quasi fatiscenti, ma con una forte
carica simbolica ed emotiva per le genti di confine, è ora impedito
da una serie di sbarre. La gente di confine spera che ad attutire il
colpo di scure sia l' accordo di piccolo traffico di frontiera (Sops)
in vigore tra i due paesi vicini da alcuni anni. Questo accordo,
predisposto sulla falsa riga degli estinti accordi di Udine tra
Jugoslavia e Italia, agevola parzialmente la circolazione della
popolazione locale. Ma non è stato facile tutelarlo dalle pressioni
della burocrazia europea. E' chiaro però che le iniziative
frontaliere basate sulla libera circolazione tra Croazia e Slovenia
verranno ora fortemente ridimensionate. Inoltre il contenzioso
territoriale lungo il confine con Zagabria non è concluso. Alle
spalle ci sono 16 anni di fastidiosi incidenti, potenzialmente sempre
in procinto di riattivarsi; l'arbitrato internazionale o una
soluzione alla Corte dell'Aia, paventata dai premier Janez Jansa e
Ivo Sanader alcuni mesi fa, rimangono nel congelatore e ancor oggi
non si capisce bene quale sia o sarà l'esatto percorso del confine
esterno europeo tra Slovenia e Croazia. Schengen potrebbe avere un
impatto positivo nel fissare una situazione di fatto che soprattutto
Lubiana contesta nei negoziati, con particolare enfasi in Istria,
dove qualcuno - anche tra i partiti di governo (ad esempio quello
popolare Sls)- vorrebbe spostare l'attuale confine almeno di una
ventina di chilometri più a sud. C'è poi l'inesistente confine di
mare, dove il contenzioso si fa particolarmente aspro alla luce della
zona ittico-ecologica dichiarata nel 2004 sulla metà orientale
dell'Adriatico dalla Croazia, zona congelata allora per i paesi
dell'Ue su pressione di Italia e Slovenia, ma che dal primo gennaio
dovrebbe entrare in vigore anche per questi due paesi Ue. E'
probabile che si raggiunga un compromesso in extremis e la Croazia
possa evitare così un fuoco di sbarramento italo-sloveno contro la
sua adesione all'Unione.
La linea di Schengen quindi si trasferisce oggi a sud tra mille
incognite, ma i festeggiamenti non amano i dubbi. Barroso arriva
domani a Skofije-Rabuiese sorridente per brindare con Jansa e Amato
(sull' arrivo di Prodi e D' Alema non c'è alcuna certezza) ad un
evento storico. La caduta di un confine lo è, indubbiamente. Come lo
è l'ulterione innalzamento di un altro a soli pochi chilometri dal
primo.

(français / italiano)

Dalai Lama, servo della CIA

1) Dalai Lama, l'ambasciatore cinese contro Bertinotti
2) Il Tibet, la Cina e i Lama-party della sinistra “radical” (Sergio Ricaldone)
3) Les Chinois ont-ils liquidé les Tibétains ? (Jean-Paul Desimpelaere)


Sui tentativi di "balcanizzazione" della Cina vedi anche i molti articoli e link raccolti alla pagina:


=== 1 ===


Dalai Lama, l'ambasciatore cinese contro Bertinotti

su l'Unità del 18/12/2007

Mentre Folena attaca Prodi

DIVENTA UN CASO diplomatico la visita del Dalai Lama a Montecitorio. Con toni insolitamente duri per un ambasciatore, il rappresentante di Pechino in Italia si è lamentato direttamente con il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, per l'intervento del premio Nobel ad una cerimonia alla Camera dei Deputati giovedì scorso. «Al presidente Bertinotti ho manifestato l'auspicio che il Parlamento italiano, la massima istituzione di questo Paese, non offra facilitazioni né luogo al Dalai Lama», ha detto l'ambasciatore cinese Dong Jinyi al termine dell'incontro con Bertinotti. Il Dalai Lama, ha aggiunto, «fa una forte attività separatista», visto che oltre ad essere un «leader religioso», fa anche «politica» con l'obiettivo di «attirarsi simpatie» allo scopo di «separare il Tibet dalla Cina». Jinyi ha quindi attaccato duramente il leader buddista: «Le sue parole sono bugie e menzogne, fa propaganda per un governo in esilio che rivendica l'indipendenza del Tibet» e la sua autorevolezza, «non essendo l'unico leader del buddismo tibetano, non è in alcun modo assimilabile a quella del Papa». L'intervento dell'ambasciatore cinese ha indotto il presidente della Camera ad una garbata, ma puntuale replica. «Il presidente della Camera - ha dichiarato il suo portavoce, Fabio Rosati - ha ribadito all'ambasciatore cinese il significato ed il valore della iniziativa della Camera». «L'incontro - ha aggiunto - è stato realizzato per la rilevanza internazionale del Dalai Lama, premio Nobel per la pace, e per dare voce alla istanza culturale e religiosa del popolo tibetano: una istanza che il Dalai Lama ha rappresentato riconoscendo l'integrità geografica della Repubblica popolare cinese». Ma la visita ha avuto code polemiche anche all'interno della maggioranza. Emma Bonino, ministro per le Politiche Europee, ha detto di non aver «condiviso» la decisione del presidente del Consiglio di non ricevere il Dalai Lama per «ragioni di Stato». «Prendo atto della scelta del premier», ha aggiunto l'esponente radicale, ma «ritengo che su determinati punti occorra spiegare ai nostri amici cinesi che i nostri valori sono diversi». Un dibattito nel quale, in serata, è intervenuto anche Massimo D'Alema: «Non credo che il governo fosse tenuto a parlare con il Dalai Lama», ha sottolineato il ministro degli Esteri, che dopo aver ricordato di aver incontrato diverse volte l'autorità religiosa tibetana e di essere «lieto» del suo ritorno in Italia, ha aggiunto: «Il Dalai Lama non ci ha chiesto incontri» ed anzi, dimostrandosi «molto più intelligente di alcuni suoi sponsor, ha detto di non volere che la sua visita fosse un motivo per turbare le relazioni con la Cina». Pietro Folena, di Rifondazione, commenta: «Al presidente Prodi dico che il rispetto dei diritti umani è la prima ragion di Stato per un paese libero dell'Unione europea che i buoni rapporti commerciali con la Cina non possono certo essere meno importanti della causa di 6 milioni di tibetani oppressi dal regime di Pechino. Non possiamo essere sempre l'Italietta che si spaventa di fronte alle potenze straniere. La Germania si è comportata in modo del tutto opposto e avremmo dovuto imitarla».


=== 2 ===

http://www.resistenze.org/sito/te/po/ci/poci7n19-002422.htm

www.resistenze.org - popoli resistenti - cina - 19-12-07 - n. 207

Il Tibet, la Cina e i Lama-party della sinistra “radical”
 
Sergio Ricaldone per www.resistenze.org
 
Le mutevoli folgorazioni che spesso influenzano le scelte del ceto politico di sinistra riservano sempre delle bizzarre sorprese: dalle calde foreste del Chiapas l’attenzione ora si è spostata ai freddi altopiani del Tibet, a sostegno del Dalai Lama e con chiari intenti anticinesi.  Emerge, come d’abitudine, la propensione a pontificare su quello che succede in casa altrui e, come sempre, il separatismo (del Kosovo, della Cecenia o del Tibet) è una bandiera che certa sinistra continua a sventolare con desolante supponenza.  Proviamo ad immaginare la reazione se i comunisti cinesi dovessero offrire il loro sostegno ai separatisti della Padania. Allora, chi è e cosa vuole questo stravagante Dalai Lama che all’austerità dei templi buddisti preferisce confortevoli soggiorni negli hotel a 5 stelle dell’emisfero occidentale?
 
Riteniamo utile riassumere i fatti storicamente assodati che hanno segnato i principali passaggi del Tibet, dall’oscuro medioevo lamaista al suo attuale trend di sviluppo economico e sociale come entità autonoma del grande pianeta Cina.
 
Dal 1727 – ossia ben prima che la Padania e il regno delle due Sicilie diventassero parte integrante dello Stato italiano – il Tibet è diventato, a sua volta, parte integrante della Cina, sotto forma di dipendenza autonoma.  In quanto tale è sempre stato dominato (fino alla rivoluzione) da un regime teocratico autoritario, con tutto il potere concentrato nella mani del Dalai Lama, capo spirituale e temporale.
 
Tutta la terra era di proprietà del Gran Lama e della gerarchia teocratica buddista-lamaista, espressione di un rapporto di produzione feudale basato sulla servitù della gleba, con larghe fasce di schiavitù.  L’investitura del Lama era sottoposta e ratificata alla corte imperiale di Pechino.  Questa prassi è stata mantenuta anche nel periodo del Kuomintang.
 
La Repubblica popolare cinese ha assunto il controllo del territorio tibetano il 23 maggio 1951.  Da quel momento inizia un lungo processo di trasformazione sociale che comprende l’abolizione della servitù della gleba e della schiavitù, la distribuzione dei pascoli ai contadini senza terra (non esistono a quell’altitudine altre significative coltivazioni agricole) e la costituzione di cooperative. Inizia nel contempo il programma di alfabetizzazione di massa con partenza da quota zero.
 
La costituzione cinese riconosce al Tibet (e non solo al Tibet) lo status di repubblica autonoma che comprende il riconoscimento della lingua, della cultura e della religione (all’incirca quello che la Costituzione italiana riconosce alle regioni autonome della Valle d’Aosta e del Trentino-Alto Adige).
 
Nel 1959 un tentativo insurrezionale di bande armate addestrate dalla CIA in California (archivi resi pubblici dalla stessa CIA) viene sventato dalla popolazione di Lhasa che insorge in massa e costringe il Dalai Lama alla fuga in India.   Sono totalmente false le accuse di genocidio rivolte alla Cina: la popolazione è più che raddoppiata negli ultimi 40 anni e, dei 2,7 milioni di abitanti, il 90% è di origine tibetana, e solo il 10% è composto da residenti di etnie diverse. La speranza di vita è salita dai 35 anni dei primi anni cinquanta ai 69 di oggi.  Credo che l’ultima persona al mondo titolata a parlare di diritti umani sia il Dalai Lama.
 
Spunti interessanti sulla politica di smembramento perseguita da Washington contro la Cina sono presenti nel libro “La grande scacchiera” di Z. Brzezinski, un insospettabile autore celebrato come lucido stratega del pensiero imperialista americano.   A chi si sentisse irresistibilmente attratto dal tema dei “diritti umani” di ispirazione lamaista consiglierei di farsi la faticosa gita che dal Tibet, attraverso il colle sud dell’Everest, conduce nel contiguo Nepal, il piccolo stato himalayano sconvolto fino al 2006 da una guerriglia contadina, scoppiata nel 1996.  Seguendo l’esempio dei loro fratelli tibetani, con cui sono legati da secoli, i contadini nepalesi sono insorti per liberarsi dalla servitù della gleba e dalla schiavitù, ossia dagli stessi rapporti feudali che il Dalai Lama amministrava nel Tibet prima della rivoluzione.  L’inviato in Nepal di Le Monde Diplomatique, Cedric Gouverneur, ha scritto sul n° 11 del 2003: “Una parola ritorna costantemente sulla bocca di ogni guerrigliero intervistato: sviluppo!  Gli insorti vogliono medici, strade, ponti, elettricità, dighe e poter esportare i loro raccolti. Vogliono semplicemente uscire dalla miseria”.  Evidentemente sono state le trasformazioni nel Tibet moderno che hanno acceso le speranze dei loro fratelli nepalesi.  Vediamole queste trasformazioni.  
 
Dalla metà degli anni 90 il PIL del Tibet è aumentato del 13% l’anno, ossia più degli eccezionali ritmi di sviluppo della stessa Cina.  Le opere edili sono raddoppiate e il commercio, che fino ad una decina di anni fa si svolgeva quasi esclusivamente col confinante Nepal, è cresciuto di 18 volte rispetto al 95. Con gli stessi ritmi vengono sviluppati il sistema sanitario e quello scolastico (entrambi inesistenti nel passato).  Nel 2001 il governo di Pechino ha stanziato 65 miliardi di yuan per finanziare progetti di infrastrutture che permettano ai tibetani di uscire dal medioevo buddista- lamaista e di approdare nell’universo contemporaneo usufruendo dei vantaggi offerti dal progresso economico e sociale che sta trasformando la Cina popolare.
 
Fino a pochi mesi fa l’unica via di comunicazione tra il Tibet e il resto della Cina era una strada dissestata che partendo da Golmund (provincia del Qinghai) consentiva ai camion di accedere a Lhasa in 50/60 ore di viaggio.  Oggi lo stesso percorso si compie in 16 ore sul modernissimo “treno del cielo” che corre lungo i binari della più alta ferrovia del pianeta: oltre 1200 km. costruiti lungo un itinerario da fantascienza, a oltre 5.000 m. di altitudine.
 
Sarebbe questa la “devastazione freddamente calcolata dalle autorità cinesi” che,   come ci racconta il Dalai Lama, starebbe distruggendo le tradizioni e la cultura religiosa del popolo tibetano?
 
Possibile che il ceto politico di sinistra non venga sfiorato dal dubbio di cadere nel ridicolo prestando fede alle lamentazioni di questo bizzarro personaggio?

 
=== 3 ===


La CIA sponsor du Dalaï Lama

Jean-Paul Desimpelaere

 

Patrick French, alors qu'il était directeur de la « Free Tibet Campaign » (Campagne pour l'indépendance du Tibet) en Angleterre, a été le premier à pouvoir consulter les archives du gouvernement du Dalaï-Lama en exil. Il en a tiré des conclusions étonnantes.

 


Les Chinois ont-ils liquidé les Tibétains ? 


Il en est arrivé à la conclusion dégrisante que les preuves du génocide tibétain par les Chinois avaient été falsifiées et il a aussitôt donné sa démission en tant que directeur de la campagne pour l'indépendance du Tibet (1). 

Dans les années soixante, sous la direction du frère du Dalaï-Lama, Gyalo Thondrup, des témoignages furent collectés parmi les réfugiés tibétains en Inde. French constata que les chiffres des morts avaient été ajoutés en marge par après. Autre exemple, le même affrontement armé, narrée par cinq réfugiés différents, avait été comptabilisée cinq fois. Entre-temps, le chiffre de 1,2 million de tués par la faute des Chinois allait faire le tour du monde. 

French affirme que ce n'est tout bonnement pas possible : tous les chiffres concernent des hommes. Et il n'y avait que 1,5 million de Tibétains mâles, à l'époque. Il n'y en aurait donc quasiment plus aujourd'hui. Depuis, la population a augmenté pour atteindre presque 6 millions d'habitants actuellement, soit presque deux fois plus qu'en 1954. Chiffre donné et par le Dalaï-Lama et les autorités chinoises, étonnamment d'accord pour une fois. 

Des observateurs internationaux (la Banque mondiale, l'Organisation mondiale de la santé) se rangent d'ailleurs derrière ces chiffres. N'empêche qu'aujourd'hui encore, le Dalaï-Lama continue à prétendre que 1,2 million de Tibétains sont morts de la faute des Chinois. 

Le dalaï-lama est-il une sorte de pape du bouddhisme mondial ? 

Ici, il convient de relativiser les choses. 6 % de la population mondiale est bouddhiste. C'est peu. En outre, le dalaï-lama n'est en aucun cas le représentant du bouddhisme zen (Japon), ni du bouddhisme de l'Asie du Sud-Est (Thaïlande), ni non plus du bouddhisme chinois. Le bouddhisme tibétain représente seulement 1/60e de ces 6 %. Et, enfin, il existe de plus au Tibet quatre écoles séparées. Le Dalaï-Lama appartient à l'une d'elles : la « gelugpa » (les bonnets jaunes). Bref, un pape suivi par peu de fidèles religieux, mais par beaucoup d'adeptes politiques… 

Qui sont ses sponsors ? 

De 1959 à 1972 : 

- 180.000 dollars par an pour lui personnellement, sur les fiches de paie de la CIA (documents libérés par le gouvernement américain ; le dalaï-lama a nié la chose jusqu'en 1980) 

- 1,7 million de dollars par an pour la mise en place de son réseau international. 

Ensuite le même montant a été versé via une dotation du NED, une organisation non gouvernementale américaine dont le budget est alimenté par le Congrès. Le Dalaï-Lama dit que ses deux frères gèrent « les affaires ». Ses deux frères, Thubten Norbu (un lama de rang supérieur) et Gyalo Thondrup avaient été embauchés par la CIA dès 1951, le premier pour collecter des fonds et diriger la propagande et le second pour organiser la résistance armée. 

La bombe atomique indienne : le bouddha souriant 

Dès le début, c'est-à-dire quand il est devenu manifeste que la révolution chinoise allait se solder par un succès en 1949, les USA ont essayé de convaincre le dalaï-lama de gagner l'exil. Ils mirent de l'argent, toute une logistique et leur propagande à sa disposition. Mais le dalaï-lama et son gouvernement voulaient que les États-Unis envoient une armée sur place comme ils l'avaient fait en Corée et ils trouvèrent donc la proposition américaine trop faible. (Modern War Studies, Kansas University, USA, 2002). En 1959, les Etats-Unis parvenaient quand même à convaincre le dalaï-lama de quitter le Tibet, mais il fallait encore convaincre l'Inde de lui accorder l'asile. Eisenhower proposait un « marché » à Nehru : l'Inde acceptait le dalaï-lama sur son territoire et les Etats-Unis octroyaient à 400 ingénieurs indiens une bourse d'études afin qu'ils s'initient à la « technologie nucléaire » aux États-Unis. Le marché fut accepté (2). En 1974, la première bombe A indienne fut affublée du surnom cynique de... « bouddha souriant » (3). 


1 « Tibet, Tibet », P. French, Albin Michel, 2005. 
2 Le major américain William Corson, responsable des négociations de l'époque, Press Trust of India, 10/8/1999. 
3 Raj Ramanna, ancien directeur du programme nucléaire de l'Inde, 10/10/1997, Press Trust of India. 



FOIBE: la verità.

Contro il revisionismo storico


Il prossimo 9 febbraio 2008 si terrà a Milano il convegno "Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico".

Il comitato promotore considera questa iniziativa necessaria ed importante, uno spartiacque verso la riconquista della verità storica basata su quanto accaduto e non su come gli eredi degli ispiratori del nazi-fascismo vorrebbero raccontarla. A fronte di una campagna che mira ad instaurare una vera e propria egemonia politica e culturale è necessario superare un'impostazione meramente difensiva della questione, con una risposta politica determinata e documentata alle menzogne ed alle falsità di forze reazionarie e revisioniste.

Con questo convegno si vuole:

- dare una prospettiva di lettura critica basata sui fatti della storia e della realtà, con particolare riferimento alle avventure coloniali e imperiali dell'Italia prefascista e fascista;
- valorizzare il ruolo fondamentale avuto dalla Resistenza per le conquiste politiche, sociali e civili successive alla 2^ guerra mondiale;
- valorizzare gli ideali della lotta antifascista nell'attuale contesto storico;
- raccogliere e socializzare la preziosa eredità della lotta al fascismo per la costruzione di un altro mondo possibile e necessario, basato sulla pace, la libertà, la democrazia compiuta, l'emancipazione sociale e la dignità umana.
- valorizzare l'importanza dell'antifascismo attuale anche esprimendo solidarietà a chi è colpito dalla repressione statale.

Il programma è in via di definizione, ma sostanzialmente avrà la seguente articolazione:

durata dalle 10/10.30 alle 17; una relazione introduttiva e interventi su: aggressione italiana alla Jugoslavia e le conseguenze dell'occupazione (con la partecipazione anche di un antifascista jugoslavo); aggressione coloniale in Africa (per delineare il contesto storico-politico in cui poi avverrà l'aggressione alla Jugoslavia); campi di concentramento fascisti; Foibe; esuli; revisionismo storico e rinascita del neofascismo oggi, alla luce del contesto politico attuale che vede un pericoloso risveglio della destra radicale e neo-fascista e una sua pericolosa sottovalutazione. Verrà dato spazio anche a domande ed interventi del pubblico.

Per tutte queste considerazioni invitiamo realtà organizzate, associazioni e soggettività ad aderire al seguente appello e partecipare al convegno.


Per una giornata della verità e non del ricordo addomesticato

In questi anni il revisionismo (da destra a "sinistra") ha fatto carte false pur di deformare, falsificare e cancellare la storia. Nel nome della "pacificazione" e della costruzione di un'artificiosa "memoria condivisa" viene condotta una campagna di stravolgimento della verità storica, tesa alla sistematica assoluzione del fascismo e alla denigrazione di chi lo ha realmente combattuto - in particolare dei comunisti, che ebbero un ruolo fondamentale nell'antifascismo e nella Resistenza - arrivando alla vergogna di mettere sullo stesso piano nazi-fascisti ed antifascisti, repubblichini e partigiani, combattenti per la libertà ed oppressori o, peggio ancora, presentando i carnefici come vittime e martiri e i perseguitati come aggressori.

Con l'istituzione della "Giornata del Ricordo" del 10 febbraio, questa campagna ha avuto anche il suo appuntamento ufficiale in cui i cosiddetti "infoibati" vengono presentati come martiri "solo perché italiani". Si tenta cinicamente di sfruttare il sentimento d'appartenenza nazionale per riproporre l'infame connubio tra fascismo e Italia e una visione nazionalista e sciovinista della storia e della realtà. Il tutto con l'avallo della massima carica dello Stato, che non solo ha straparlato di barbarie ed espansionismo slavo nel definire il movimento partigiano sul confine orientale (che, vogliamo ribadire, fu italiano, sloveno e croato), ma ha anche concesso medaglie ai familiari dei presunti "martiri dell'italianità", tra cui, ad esempio, Vincenzo Serrentino, giustiziato dopo regolare processo in quanto criminale di guerra ricercato dalle Nazioni Unite.

Questa ri-scrittura della storia è funzionale allo sdoganamento politico e ideologico delle attuali organizzazioni fasciste e della destra radicale, che sono considerate ormai, da parte del centro-destra e non solo, come partner politici ed elettorali del tutto legittimi. Queste formazioni sono facili strumenti da utilizzare contro i movimenti politici e sociali non omologati e non compatibili con l'attuale sistema politico, come dimostra il crescendo di azioni squadristiche sempre più gravi.

Tutto questo ha prodotto una reazione espressasi in una miriade d'iniziative di vario livello da parte di gruppi, associazioni e organizzazioni, cui va reso il giusto merito.

Pertanto, il Comitato promotore invita le formazioni politiche, le associazioni, i gruppi, i centri culturali, le organizzazioni sindacali, i centri sociali e le soggettività ad aderire a questo appello e a partecipare al convegno "FOIBE: la verità. Contro il revisionismo storico" che si terrà a Milano il 9 febbraio 2008.

Il Comitato è anche disponibile a promuovere o partecipare ad iniziative ed incontri locali sulle tematiche che saranno trattate nel convegno e mette a disposizione documenti e materiale di contro-informazione e di riflessione, che analiticamente demoliscono la vergognosa e velenosa campagna d'intossicazione e di falsificazione contro il movimento comunista, l'antifascismo e la Resistenza.


Milano, 27 novembre 2007

Il comitato promotore

Associazione L'altra Lombardia - SU LA TESTA - Milano
Associazione/Drustvo Promemoria per la difesa dei valori dell'antifascismo e dell'antinazismo/za varovanje vrednot protifasizma in protinacizma - Trieste/Trst
Centro popolare "La fucina" - Sesto San Giovanni (MI)
Collettivo Comunista Antonio Gramsci - Trento
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia
Lotta e Unità per l'organizzazione proletaria
Resistenza storica - Udine


Per adesioni e info scrivere a: convegnofoibe2008@...


Promotori e primi firmatari:

Gino Candreva - direttivo dell'Istituto pedagogico della Resistenza
Claudia Cernigoi - direttrice del periodico "La nuova alabarda"
Margherita Hack - astrofisica
Alessandra Kersevan - ricercatrice storica
Giacomo Scotti - giornalista e scrittore
G.A.M.A.D.I. - Gruppo Atei Materialisti Dialettici
Miriam Pellegrini Ferri - partigiana Giustizia e Libertà
Spartaco Ferri - partigiano Brigata Garibaldi
Andrea Martocchia - direttivo Coordinamento Nazionale Jugoslavia e comitato presidenza GAMADI
Mauro Cristaldi - comitato presidenza GAMADI
Maria Fierro - comitato presidenza GAMADI
Roberto Gessi - comitato presidenza GAMADI
Franco Costanzi - comitato presidenza GAMADI
Luigi Cortesi - direttore rivista "Giano. Pace ambiente problemi globali"
Mariella Megna - L'altra Lombardia - SU LA TESTA
Rivista Teoria & Prassi
Lucio Garofalo
Marcello Paolocci
Andrea Vecchi - comitato politico regionale Prc Emilia Romagna
Francesca Rodella - collettivo studenti SU LA TESTA


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=== Comunicato stampa ===
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Comunicato stampa

19 dicembre 2007 

Oggetto: convegno foibe Milano 9 febbraio 2008: le associazioni degli esuli dispongono, l’assessore Barzaghi (Prc) obbedisce. 


Dopo che l’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD) ha spudoratamente definito “negazionista” (vedi allegati n. 1 e 2) il convegno da noi promosso "Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico", l'assessore all'Istruzione ed edilizia scolastica della Provincia di Milano Giansandro Barzaghi (Prc) ci ha comunicato il ritiro della sua firma dall’appello, l’adesione all’iniziativa e, quel che è più grave, la concessione della Sala Guicciardini (vedi allegato n.3). L’assessore dopo aver letto l’appello aveva non solo offerto la disponibilità della sala Guicciardini, ma aveva insistito per essere inserito tra i promotori. 
Con questa decisione l’assessore ha invece scelto di assecondare gli sforzi dell’ANVGD per imporre quella che nel nostro appello è definita “una vera e propria egemonia politica e culturale”, che l’iniziativa da noi promossa intende contrastare. Alcuni dati per avere l’idea di cosa sia l’ANVGD. L’associazione ha dichiarato sin dalla sua nascita superata la discriminante antifascista. Coerentemente a ciò ha annoverato tra i suoi presidenti personaggi come Libero Sauro (vedi allegato n. 4), comandante dopo l’8 settembre ’43 del Reggimento Istria della Milizia difesa Territoriale (l’equivalente della Guardia Nazionale Repubblicana della RSI), formazione di volontari al servizio dei nazisti nella Zona d’operazioni Litorale Adriatico, e Maurizio Mandel (vedi allegato n. 4), medico, presunto criminale di guerra in Jugoslavia. E tra i suoi dirigenti Bruno Coceani, prefetto di Trieste di nomina nazista, Arturo De Maineri, segretario del Partito fascista repubblicano a Fiume durante l’occupazione nazista e altri simili personaggi. L’associazione è ancora oggi dichiaratamente irredentista, dato che suo primo scopo statutario (vedi allegato n. 5) è quello di riportare Istria, Fiume e Dalmazia dentro i confini italiani. 
L’assessore Barzaghi ha scelto di schierarsi con costoro, assumendosi naturalmente la responsabilità politica di questa scelta. Noi, coerentemente con quanto scritto nell’appello, lottiamo per  “la riconquista della verità storica basata su quanto accaduto e non su come gli eredi degli ispiratori del nazi-fascismo vorrebbero raccontarla”  e confermiamo che la nostra iniziativa si terrà a Milano il 9 febbraio 2008 in una sede che definiremo quanto prima. Siamo convinti che questa scelta contribuirà a sviluppare con più forza la lotta al fascismo, al colonialismo, all’imperialismo e al revisionismo storico. Per quanto riguarda l’infamante accusa di “negazionismo” più volte lanciata contro promotori, partecipanti e aderenti all’iniziativa, l’ANVGD ne risponderà secondo i termini di legge. 


Il comitato promotore del convegno “Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico”

Associazione L’altra Lombardia – SU LA TESTA - Milano

Associazione/Društvo Promemoria per la difesa dei valori dell’antifascismo e dell’antinazismo/za varovanje vrednot protifašizma in protinacizma - Trieste/Trst

Centro popolare  “La fucina” – Sesto San Giovanni (MI)

Collettivo Comunista Antonio Gramsci - Trento

Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia

Lotta e Unità per l'organizzazione proletaria 

Resistenza storica - Udine


Allegati:

1. Dichiarazioni ANVGD 10 dicembre 2007
2. Comunicato ANVGD 30 novembre 2007 
3. Carteggio con Assessore Barzaghi (PRC) da cui si evince che da un’adesione senza riserve si passa nel giro di un mese al boicottaggio totale (revoca anche della concessione della sala)
4. Note biografiche su Libero Sauro e su Maurizio Mandel
5. Copia dello statuto dell’ANVGD


=== 1 ===


FOIBE/ ESULI CONTRO PROVINCIA MILANO: CONVEGNO NEGAZIONISTA IL 9-2

10/12/2007 19:38

Milano, 10 dic. (Apcom) - L'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, fondata nel 1947 dagli italiani fuggiti dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, definisce "negazionista" la manifestazione "Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico" organizzata nella sede della Provincia di Milano il 9 febbraio 2008, propria alle vigilia della Giornata del Ricordo. Il convegno, che annovera tra i promotori e primi firmatari l'assessore provinciale all'Istruzione ed edilizia scolastica Giansandro Barzaghi (Prc), è in programma nella sala Guicciardini di Palazzo Isimbardi. "Non siamo neanche stati interpellati", ha fatto notare l'associazione, durante la presentazione del francobollo dedicato alla città di Fiume con la scritta "Terra orientale già italiana".
L'associazione di esuli giuliano-dalmati ha invece apprezzato la decisione del Comune di Milano di intitolare a Fiume il tratto dei Bastioni di Porta Venezia tra Piazza della Repubblica (già Piazza Fiume) e i Giardini Montanelli. Palazzo Marino ha già intitolato due piazze a Istria e ai Martiri delle Foibe. La nuova intitolazione, ha annunciato oggi il vice sindaco Riccardo De Corato, potrebbe avvenire il 10 febbraio 2008.


=== 2 ===


Negazionisti già all'attacco per il 10 febbraio

venerdì, 30 novembre 2007

Il Giorno del Ricordo si avvicina e le forze negazioniste sono già scese in campo per propinare agli ignari italiani le loro balzane tesi sulla storia degli Esuli. Il 9 febbraio a Milano (Sala Guicciardini della Provincia di Milano, 100 posti) si terrà il consueto e desueto convegno negazionista, che negli intenti resi pubblici se la prende con tutto e tutti, dall'ultimo degli Infoibati al Presidente della Repubblica. Il titolo è già tutto un programma: "Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico".

A questa cinica ed invereconda iniziativa risultano promotori:

"Associazione L'altra Lombardia - SU LA TESTA - Milano
Associazione/Drustvo Promemoria per la difesa dei valori dell'antifascismo e dell'antinazismo/za varovanje vrednot protifasizma in protinacizma - Trieste/Trst
Centro popolare "La fucina" - Sesto San Giovanni (MI)
Collettivo Comunista Antonio Gramsci - Trento
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia
Lotta e Unità per l'organizzazione proletaria
Resistenza storica - Udine"

Ad essi si aggiungono promotori e primi firmatari noti e meno noti. Li citiamo tutti, con un mezzo sorriso di compassione:

Giansandro Barzaghi - (Prc) - assessore all' istruzione ed edilizia scolastica della Provincia di Milano
Gino Candreva - direttivo dell'Istituto pedagogico della Resistenza
Claudia Cernigoi - direttrice del periodico "La nuova alabarda"
Margherita Hack - astrofisica
Alessandra Kersevan - ricercatrice storica
Giacomo Scotti - giornalista e scrittore
G.A.M.A.D.I. - Gruppo Atei Materialisti Dialettici
Miriam Pellegrini Ferri - partigiana Giustizia e Libertà
Spartaco Ferri - partigiano Brigata Garibaldi
Andrea Martocchia - direttivo Coordinamento Nazionale Jugoslavia e comitato presidenza GAMADI
Mauro Cristaldi - comitato presidenza GAMADI
Maria Fierro - comitato presidenza GAMADI
Roberto Gessi - comitato presidenza GAMADI
Franco Costanzi - comitato presidenza GAMADI
Luigi Cortesi - direttore rivista "Giano. Pace ambiente problemi globali"
Mariella Megna - L'altra Lombardia - SU LA TESTA
Rivista Teoria & Prassi
Lucio Garofalo
Marcello Paolocci
Andrea Vecchi - comitato politico regionale Prc Emilia Romagna
Francesca Rodella - collettivo studenti SU LA TESTA"


=== 3 ===

Da "L'altra Lombardia - SU LA TESTA" <laltralombardia@...
Date 26/10/07 3:34:55 pm
Subject INVITO
Attachments: appello_convegno.doc (54k) 

Caro Giansandro,

ti inoltro, in allegato, l'appello per la costruzione di un Convegno internazionale per il prossimo 10 febbraio 2008, volto a contrastare il revisionismo storico dilagante e a riaffermare la verità storica, con particolare riferimento all'avventura coloniale fascista e prefascista sul confine nord-orientale (aggressione alla Jugoslavia)e in Africa.
Sarei onorato se tu volessi entrare a far parte del comitato promotore.
Comunque sono a chiederti la tua disponibilità ad intervenire sulle strutture dell'amministrazione provinciale per la concessione di uno spazio dove poter tenere il convegno.
Ti pregherei di darmi un riscontro al più presto e spero di incontrarti presto.
Grazie.
Saluti
per il comitato promotore
Giorgio Riboldi

---

From "Giansandro Barzaghi" <g.barzaghi@...
Date  15/11/07 5:56:53 pm
Subject R: INVITO

Caro Riboldi,
ho dato il mio parere favorevole sia al far parte del comitato che alla concessione di uno spazio dove fare il convegno.
Ti contatterà il mio collaboratore, il dottor Federico Gamberini.
Cordiali saluti.
Giansandro Barzaghi 

---

Da : "Pierangela Maria Costa" <p.costa@...>
Oggetto : da Ass. BARZAGHI - Convegno 9 febbraio 2008 - Ritiro adesione, ritiro adesione appello, ritiro concessione sala Guicciardini
Data : Thu, 13 Dec 2007 10:36:16 +0100

Gentilissimi,

In relazione al Convegno internazionale da voi proposto per il prossimo 9 febbraio 2008 volto ad approfondire l'avventura coloniale fascista e prefascista sul confine nord-orientale e in Africa, abbiamo appreso da fonti di informazione che i contenuti e lo schieramento delle forze promotrici non corrispondo più a quanto da voi inizialmente prospettato. Pertanto ritiro la mia adesione al comitato, ritiro la mia adesione all'appello e ritiro la concessione dello spazio della Sala Guicciardini.

Distinti saluti.

Giansandro Barzaghi


=== 4 ===

LIBERO SAURO
 
Fu presidente dell’ANVGD negli anni dal 1954 al 1963 e in seguito membro della sua direzione.
Per quanto riguarda i suoi trascorsi:
Nell’autunno del 1943, in Istria, il Capitano di Corvetta Libero SAURO, figlio dell’eroe Nazario, raccogliendo attorno a sé Volontari disposti a imbracciare le armi per difendere le proprie case, aveva costituito un’unità divenuta poi 2° Reggimento della Milizia di Difesa Territoriale. Questa formazione ha conteso il passo alle milizie di Tito per tutto il 1944 e fino al maggio del 1945. Pagando un alto, misconosciuto, tributo di sangue, 352 Caduti fra Ufficiali, Sottufficiali e Militi, ha ammainato l’ultimo Tricolore su quel lembo d’Italia.
 
 
MAURIZIO MANDEL
 
Medico, fu presidente dell’ANVGD nel 1955-56.
Per quanto riguarda i suoi trascorsi: tra il 1918 ed il 1922 a Zara fu a capo dell’organizzazione nazionalista “Sempre pronti”
Durante la guerra venne distaccato presso il Governatore del Montenegro. Il suo nominativo lo ritroviamo tra  quelli dei NOMINATIVI SOTTOPOSTI ALLA COMMISSIONE D'INCHIESTA PER I PRESUNTI CRIMINALI DI GUERRA ITALIANI (situazione al 25 gennaio 1947)
Probabilmente corrisponde al “Dr. Manjel –major - Head of Medical Section attached to Governor at Catinje” che ritroviamo nel United Nations - War Crimes Commission CROWCASS (Central register of war criminals and security sospects) -  Registry of War Criminals - Consolidated wanted list (http://www.criminidiguerra.it/Crowcass6.htm).
Mandel non fu mai processato ne consegnato alla Jugoslavia


=== 5 ===


ASSOCIAZIONE NAZIONALE VENEZIA GIULIA E DALMAZIA
STATUTO
(aggiornato con le modifiche approvate dal XVIII Congresso Nazionale di Roma 2006)

(...)

II - SCOPI E FUNZIONI

Art .2
L'Associazione accoglie ed unisce i giuliani, fiumani e dalmati ed i connazionali che sentono e vivono i loro stessi problemi: essa persegue fini patriottici, morali, culturali ed assistenziali, con esclusione di ogni fine di lucro.
In particolare si propone di:

a) compiere ogni legittima azione che possa agevolare il ritorno delle Terre Italiane della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia in seno alla Madrepatria, concorrendo sul piano nazionale al processo di revisione del Trattato di Pace per quanto riguarda l'assetto politico di tali terre anche nel quadro del processo di unità europea (...)



L'INFORMAZIONE AI TEMPI DELLA GUERRA


E' stata perfetta e senza alcuna smagliatura la censura operata dai
principali mass-media italiani sulla partecipatissima manifestazione
che si è tenuta sabato 15 dicembre 2007 a Vicenza.
I telegiornali RAI e Mediaset e tutti i principali mezzi di
informazione sono riusciti a nascondere completamente almeno 40mila
persone che hanno marciato contro la costruzione di una nuova,
ennesima base militare statunitense sul nostro territorio.
Può certamente dirsi ormai compiuta la militarizzazione di quello che
era un tempo il giornalismo italiano, di cui rimane oggi solo una
ripugnante poltiglia di "embedded", convinti servi del potere
politico-militare o precarizzati e ricattati senza speranze.
Ad infrangere questa ferrea dittatura che vige in Italia, segnaliamo:
- il sito http://www.nodalmolin.it/ con immagini e testi relativi
alla manifestazione;
- la cronaca del "Manifesto" (eccezione che conferma la regola tra i
quotidiani italiani), che riproduciamo di seguito.
(a cura di Italo Slavo)

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/16-Dicembre-2007/
art18.html

Centomila No al Dal Molin

Malgrado le parole del presidente Napolitano, malgrado il freddo, la
neve e Trenitalia, la manifestazione di ieri a Vicenza è andata oltre
ogni aspettativa. Pochi i politici presenti e molti fischi anche per
i partiti «amici». Per fermare il raddoppio della base Usa

BENEDETTO VECCHI
Inviato a Vicenza

La voce sale di tono ed alla fine è quasi un urlo liberatorio: «Siamo
più di ottantamila persone, forse centomila. La cosa del corteo è
ancora chilometri indietro». La risposta sono fischietti impazziti,
battimani a ripetizione, bandiere bianche con la scritta «No Dal
Molin». «NoTav», «No Mose», «No F35» sbandierate con forza. Ogni
dubbio, ogni timore si è sciolto come la neve che aveva imbiancato la
città durante la notte. Sin dalla mattina i volti scrutavano la
stazione di Vicenza per vedere se i treni portavano manifestanti. A
Milano arrivano voci di piccoli tafferugli perché la polizia non
voleva far partire i manifestanti, mentre molti pullman erano in
ritardo per le nevicate della notte e del primo mattino.
Ma i timori più forti erano dovuti a quella dichiarazione del
presidente della repubblica Giorgio Napoletano che, in visita negli
Stati Uniti, aveva mandato a dire che la decisione era presa, che i
contrari potevano scrivere lettere o fare altro, tanto nulla avrebbe
portato il governo a cambiare la sua scelta. Era dunque inutile anche
manifestare in piazza il dissenso e che era per questo meglio restare
a casa. Invece la manifestazione di Vicenza contro il raddoppio della
base militare statunitense è andata al di là delle più ottimistiche
previsioni degli organizzatori. Non ci sono state neanche le
contestazioni a ministri o esponenti di partito presenti nel governo
Prodi. Anche perché quelli che sono venuti nella città veneta erano
davvero pochi. Giovanni Russo Spena, Francesco Caruso, Lalla Tropia
di Rifondazione comunista. Franco Turigliatto, eletto nelle file di
Rifondazione comunista e ora all'interno dell'avventura di Sinistra
critica dopo essere uscito dal partito di Franco Giordano. E se
Francesco Caruso faceva avanti e indietro per poi fermarsi nei pressi
del camion dei Giovani comunisti, gli altri parlamentari erano
invisibili, come fantasmatico era lo striscione firmato da «Sinistra
arcobaleno», schiacciato tra i militanti del partito comunista dei
lavoratori di Ferrando e la galassia dei gruppi anarchici presenti
nel corteo.
Già, perché la lettura politica della manifestazione di ieri è
abbastanza chiara. Le ottanta, centomila persone che hanno percorso
in lungo e largo la città veneta hanno espresso una distanza siderale
da quanto avviene a Montecitorio o nelle segreterie dei partiti,
nessuno escluso, anche se le critiche più feroci erano indirizzate
contro il governo Prodi e la sua ala sinistra, colpevoli secondo i
manifesti di aver disatteso le promesse elettorale e gli impegni
presi da parte di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi
di porre all'ordine del giorno un ripensamento sulla decisione di
raddoppiare la base statunitense. Come reagirà il centrosinistra al
successo della manifestazione è però argomento del giorno dopo. Più
importante è cercare di capire come continueranno la mobilitazioni
contro l'inizio dei lavori. Perché i protagonisti della
manifestazione sono le donne e gli uomini che hanno reagito alla
«strategia del silenzio» e hanno pacificamente occupato Vicenza.
Gran parte dei manifestanti hanno scelto di mettersi dietro il camion
del presidio permanente. Sono scout, over-quaranta con un
significativo curriculum di pacifismo «radicale» alle spalle,
attivisti dei centri sociali di ogni dove, militanti dei sindacati di
base, abitanti della Val di Susa, agit prop dei comitati contro gli
inceneritori della Campania. Tanti, tantissimi i vicentini, che hanno
ritmato per tutto il corteo la loro opposizione alla base militare
delle loro città, sostenendo con gli striscioni e i - pochi - slogan
che il rifiuto dei lavori non è dovuto certo alla convinzione di
mantenere lo status quo vicentino. Con un linguaggio avvertito si
potrebbe dire che sono l'altra città, quella che non ama il «modello
di sviluppo del nord-est». In un melange di generazioni, culture
politiche diverse.
I «No Tav» si sentono quasi a casa loro. E quando dal palco un loro
portavoce invita a «resistere per esistere» e che tra Vicenza e la
Val di Susa non ci sono molte differenze, allude a una tessitura di
una rete - sociale e politica - che pensa di poter far valere le
proprie ragioni attraverso la costruzione di un consenso che guardi
tuttavia criticamente alle realtà locali da cui prendono avvio le
mobilitazioni. In fondo, sono stati proprio i valsusini ad affermare
che il rifiuto della Tav non era teso a mantenere la realtà così come
è, ma per affermare il diritto a prendere il destino nelle proprie
mani. La posta in gioco è proprio questa. Che dalle polis greche in
poi è problema di democrazia, cioè di chi prende la parola perché non
ha mai avuto il potere di farlo.
Il corteo ha attraversato in lungo e largo la città. Ha attraversato
quartieri dove la «strategia della tensione» ha portato a chiudere
negozi e a sprangare le finestre. Ma quando poi il corteo ha toccato
lateralmente il centro cittadino, i negozi erano invece aperti.
Infine, i comizi finali con delegati da tutta Europa e dagli Stati
Uniti (molti i gruppi di statunitensi, da quelli contro la guerra in
Iraq a quelli dei veterani del Golfo a quelli che chiedono
l'impeachment di George W. Bush). Hanno preso la parola Dario Fo, che
ha definito pazzi gli esponenti del centrosinistra che si schierano
contro i loro elettori, mentre parole al vetriolo sono state
pronunciate contro il presidente della repubblica («è andato negli
Stati Uniti dove ha fatto la first lady di George Bush»). Don Gallo
ha infine preso la parola per definire «figli di puttana» chi ha
deciso il raddoppio della base. Espressione per cui valgono le parole
della scrittrice Arundhati Roy: «Avrà forse ragione, ma non mi
piacciono le persone che insultano le donne».
Poi il corteo si è nuovamente messo in marcia per raggiungere l'area
dove è previsto il raddoppio della base militare. A guastare la festa
ci ha provato Trenitalia che non voleva far partire i manifestanti
venuti da fuori perché non avevano pagato il biglietto. Momenti di
tensione, ma poi è intervenuto Gino Sperandio, altro deputato di
Rifondazione comunista presente al corteo, che ha pagato il prezzo
imposto da Trenitalia.


POISON DUST 
and Ramsey Clark's New Year's Message

1) Ramsey Clark's New Year's Message from IAC

2) Poison DUst' director explains video

3) The POISON DUst EDUCATORS' PACKET


See also: Poison DUst (by David Hoskins)

http://www.iacenter.org/poison-dust.htm



=== 1 ===

International Action Center
55 W. 17th St., 5th Floor, New York, NY 10011
212-633-6646     www.iacenter.org

 A New Year’s Message from IAC founder Ramsey Clark

Dear friends,

            The year 2007 has been another marked by endless war, lawlessness and cruelty by the Bush administration.  Thousands more Iraqis have been killed or injured.   The enormous humanitarian crisis effects millions of Iraqis, including children, who lack basic necessities--housing, healthcare, electricity, even food.  More U.S. soldiers are dying or injured, then facing inadequate care and benefits. The administration continues to use deception and lies to whip up hostility to Iran, as they did prior to the Shock and Awe bombings of Iraq in 2003.  Bush and his cronies continue to defy international law and human rights with the brutal, illegal detentions at Guantanamo, and widespread use of torture.

            Contrary to the will of the people in the U.S. who oppose this horrific war, the administration has no plans to withdraw the troops and end this criminal occupation. Bush is demanding tens of billions of dollars more for war, on top of the $476 billion which has already been spent for destruction, while millions here need healthcare and housing, and those devastated by Hurricane Katrina have been abandoned by the government.

             But there is reason to be hopeful. There is great opposition here to the government’s endless war and brutality, and outrage at its attacks on civil liberties and basic rights here at home, including the merciless witch-hunt against immigrants.  It is crucial that this opposition grows and strongly challenges the Bush administration’s every move.   We must all demand accountability for the current war and the impeachment of President Bush and his partners-in-crime; this is a powerful way to stop an attack on Iran and prevent other wars of aggression by future administrations.

            The International Action (IAC) Center has been a major organizing force against U.S. wars and military interventions for 16 years, going back to its anti-sanctions campaign and protests of the first Gulf war.  This principled organization of activists has stood up and bravely opposed U.S. aggression against Iraq, Cuba, Panama, Haiti, Venezuela, Palestine, Lebanon, Somalia, Iran and Korea. 

            The IAC has organized countless demonstrations, meetings, and forums in numerous cities against the U.S. intervention in Iraq.  Its organizers have produced videos and books--translated into many languages--for anti-war protesters here and around the world.  It has made an excellent contribution for activists and educators with “Poison Dust,” a video produced by the People’s Video Network, on the perilous effects of U.S. depleted uranium weapons.

            IAC leaders and I just returned from an international conference in Kolkata (Calcutta), India, called by the All-India Anti-Imperialism Forum, which has asked the IAC to play a leading role in a worldwide organization to end colonialism and globalization which they established.

            The IAC has taken on struggles against racism, injustice, and much more—from standing with Hurricane Katrina survivors in their quest for justice, to supporting immigrants’ rights, to opposing the death penalty and challenging military recruitment.  Wherever the IAC is needed, it’s there, with its program of organizing and activism!

            The IAC looks forward to a new year of struggle against war and injustice.

            Our New Year’s Resolution for 2007 must be to organize together tirelessly to end this horrendous war and bring all U.S. troops home from Iraq NOW! 

            We must act together to stop a new war against Iran or any other nation.  We must strive to promote international friendship, sharing and true respect for humankind and to oppose the policies of domination, globalization, and war.

            We must all do more!  We invite you to join in the new year of activism with the IAC and to support its vital work. 

            You can make a difference! 


Donate to the International Action Center!


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'Poison DUst' director explains video

By Workers World Milwaukee bureau 
Published Apr 26, 2007 9:54 PM


Community members and political activists attended the Milwaukee premier film screening of the Peoples Video Network (PVN) documentary “Poison DUst” on April 21 at the Center Street Library, an important gathering space for the Black community. The event was dedicated to long-time International Action Center organizer Rachael Nasca, who died unexpectedly on March 22.

A slate of community activists spoke before Sue Harris, director of “Poison DUst,” screened the documentary and engaged in a question and answer session.

IAC-Milwaukee member Bryan G. Pfeifer opened the program by describing the origins, history and mission of the IAC. He hailed recent youth actions in Wisconsin—including a recent protest against an Army recruiting station for which 21 youth were arrested, youth protesting restrictive racist policies at Mayfair Mall, and the occupation of the multi-millionaire Sen. Herb Kohl’s Madison office by dozens of members of the Campus Anti-War Network. He ended by calling on all those present to support the May 1 “Day without Latinos” statewide civil rights march and boycott sponsored by Milwaukee-based Voces de la Frontera.

Leaflets for the May 1 action were distributed, as were “Stop the War on Iran” posters and announcements of upcoming events sponsored by the Industrial Workers of the World, the Latin American Solidarity Committee at UW-Milwaukee and Africans on the Move.

People’s poet De’Shawn Ewing (Pyramid) electrified the crowd with two of his poems connecting the domestic war and the U.S. war on Iraq and other countries. Ewing’s words interspersed these themes with themes of the Black freedom struggle, including the murder of Emmett Till.

Ammar Nsoroma, a member of Africans on the Move and the Pan African Revolutionary Socialist Party and a well-known people’s artist in Milwaukee with many murals throughout the city to his credit, said that the war on Iraq is an outgrowth of capitalism and imperialism and that to end all wars for profit these economic systems must be abolished and replaced with socialism.

During the question and answer session Harris described how “Poison DUst” has been screened numerous times publicly throughout the United States and internationally, including in Cuba, Korea and Japan.

One woman described her outrage at not hearing about depleted uranium anywhere in the corporate media until she received a leaflet for this event. She said she would now be getting the word out and asked for more information, as did many others.

During and after the event many took copies of “Poison DUst” for personal viewing but also to screen for loved ones, veterans and at other community spaces.

Longtime community activist and people’s poet Eric Jefferson closed with his poem “Blessed Summer.”

The Peoples Video Network donated a copy of “Poison DUst” to the Center Street Library and a copy to the Central Library that could potentially be circulated throughout the 30 branches in the Milwaukee County Library System.

To obtain a copy of “Poison DUst” call PVN at 212-633-6646 or see www.peoplesvideo.org.


Articles copyright 1995-2007 Workers World. Verbatim copying and distribution of this entire article is permitted in any medium without royalty provided this notice is preserved. 

Workers World, 55 W. 17 St., NY, NY 10011
Email: ww@...


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Let’s reach our youth BEFORE they’re contaminated!

Don’t let our kids be guinea pigs!

POISON DUst EDUCATORS' PACKET

**Order the Poison DUst Educator's Packet at http://www.iacenter.org/DUeducatorpackets.html
Packet contains 2 different length film versions of Poison DUst, lesson plans, photos, bibliography, class projects, reprints and more.

Three years ago, The Daily News ran a story about reservists returning from Iraq in2004 from the same unit who were suffering from what euphemistically has been called “Gulf War Syndrome.” It turned out that they all had been exposed to radioactive dust during their tour of duty in Iraq. The short term and long term effects of this exposure are slowly emerging into public consciousness.*

The military has yet to acknowledge the severity and the extent of the damage to our young men and women and to their offspring.

Today, half of the 697,000 U.S. Gulf War troops from the 1991 war have reported serious medical problems and a significant increase in birth defects among their newborn children.

The effects on the Iraqi population are far greater.**

Many other countries and U.S. communities near DU weapons plants, testing facilities, bases and arsenals have also been exposed to this radioactive material which has a half-life of 4.4 billions years.

This issue is of particular importance to high school students who are considering joining the military after they graduate. In addition to all the obvious dangers, entering the military today puts them at risk for cancer and all the symptoms associated with radiation and heavy metal poisoning—fatigue, muscle weakness, headaches, to name a few. There is now also ample documentation that exposure to the dust can cause birth defects in their children, the same birth defects that are showing up in Iraqi children.****

What’s in the dust? Depleted Uranium

The military says depleted uranium emits low-level-radiation, and is therefore harmless, but for decades scientists have demonstrated the lethal effects of low level radiation on human beings and their offspring.***

DU is a central component of the U.S. military arsenal.

It is in the tanks, the shells, the bombs. It is used in training as well as in battle. It is almost everywhere the U.S. military stations its troops. Our youth and their loved ones need to know what they face when they go into the military.

Poison DUst is a film that pulls together the crucial information about DU. It includes interviews with veterans contaminated by DU; simple, scientific explanations about the nature of DU and radiation by noted authorities such as nuclear physicist Dr. Michio Kaku, epidemiologist Dr., Sr. Rosalie Bertell and Dr. Helen Caldicott, supplemented by clear, uncomplicated graphics; a visual history of military use of toxic substances affecting troops and target populations; and information about the proliferation of DU. It also discusses what we can do about this crisis.

The full length dvd, released by Lightyear Entertainment in 2006, is available commercially through, Netflix, Amazon.com, Border Books and Leftbooks.com.
Now the producers have compiled a comprehensive Educators Packet of Poison DUst for teachers, parents, veterans, community and anti-war groups, and for use by the youth themselves.


“Students should watch this video because it’s good people know so they can tell their families and let it spread.”
-Shuhana, NYC 12th grader

Order the Poison DUst Educator's Packet at http://www.iacenter.org/DUeducatorpackets.html


The Poison DUst Educators Packet includes:

• A 30 minute educators' version of the DVD Poison DUst suitable for classroom viewing
• An 84 minute, full-length Version of Poison DUst, with additional interviews    and information.
• Short “primers” and articles with background information and resources
• An online bibliography, with links to a multitude of resources for class projects and research papers through the Poison DUst website, http://www.poisondust.com. Also on the website is a link to the Depleted Uranium Education Project (http://www.iacenter.org/depleted/du.htm ), and full chapters from the book, Metal of Dishonor (http://www.iacenter.org/depleted/mettoc.htm ).
• A set of detailed lesson plans for use with a range of audiences and presentation lengths. Some of the lesson plans were developed by NYC teachers and 12th grade students. Not only were the lessons integrated into their high school curriculum, the students themselves then enthusiastically and creatively brought their new knowledge into their communities. 
• The students’ DU Outreach Project is also documented in the packet.
• A Photo Gallery of pictures for mounting on chart paper on walls around a room. Students can look at the pictures and captions and write their reactions as part of an introduction before viewing Poison DUst.
• Brainstorming ideas by students and teachers for other possible uses of Poison DUst, as well as student questions and comments.

Order the Poison DUst Educator's Packet at http://www.iacenter.org/DUeducatorpackets.html

Footnotes:
* Vet's Ills Mounting Fast, by Juan Gonzales, Published on Tuesday, February 7, 2006 by the New York Daily News - "Nearly 120,000 veterans - more than one of every four who served in Iraq and Afghanistan - have already sought treatment at Veterans Health Administration hospitals for a wide range of illnesses, according to an internal study the VHA completed late last year." http://www.democracynow.org/static/Vets.shtml
**Flounders, Sara, "Another War Crime? Iraqi Cities 'Hot' with Depleted Uranium", 2003 http//www.PoisonDUst.org
*** Nichols, Bob, ‘Depleted, it ain’t! So-called depleted uranium, that is!’, 5/31/2005, Project Censored Award Winner & Online Journal Contributing Writer http//www.onlinejournal.com/Commentary/053105Nichols/ 053105nichols.html
****Iraqi cancers, birth defects blamed on U.S. depleted uranium. By LARRY JOHNSON SEATTLE POST-INTELLIGENCER FOREIGN DESK EDITOR ...
seattlepi.nwsource.com/national/95178_du12.shtml - 44k - May 26, 2007 -