Informazione
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=16436
L’Italia non legittimi azioni unilaterali in Kosovo
su L'ERNESTO del 21/12/2007
E’ ormai evidente come la secessione del Kosovo dalla Serbia rischi di innescare un nuovo conflitto nei Balcani, estendibile a breve ai già delicati equilibri in Bosnia e Macedonia. Questo pericolo è segnalato da un rapporto dell'intelligence NATO del 13 dicembre scorso e deve essere assolutamente evitato. Sarebbe oltremodo contraddittorio concedere al Kosovo ciò che si nega alla Repubblica Serba di Bosnia, alimentando così quel legittimo sospetto che vede le diplomazie dei maggiori stati adottare la politica dei “due pesi e delle due misure”. Vogliamo augurarci che il governo italiano abbia tratto lezione dagli avvenimenti passati e non si appresti a sostenere scelte unilaterali che alimenterebbero nuovi conflitti.
E’ altrettanto evidente come la partecipazione italiana ad una nuova missione militare europea in Kosovo, senza il mandato delle Nazioni Unite, si configurerebbe come una legittimazione delle forze secessioniste in Kosovo e un atto ostile nei confronti della Serbia. Di questo non ha alcun bisogno la politica estera italiana né quella europea.
Il fallimento del negoziato in sede di Nazioni Unite conferma che la strada della secessione unilaterale del Kosovo, sostenuta apertamente dagli Stati Uniti e da alcuni stati dell’Unione Europea, getterebbe nuovamente il peso del conflitto sulla spalle dell’Europa, rendendo drammatiche le responsabilità negative dell’Italia nel nuovo scenario balcanico.
L’Italia ha grandi responsabilità sulla stabilità dei Balcani e sulla questione del Kosovo in particolare. Parte di queste responsabilità sono effetto della decisione presa otto anni fa di partecipare ai bombardamenti della NATO contro un paese europeo – la Serbia – e di condividere la creazione di un protettorato militare internazionale in Kosovo. Ma le responsabilità di oggi rischiano di essere più gravi di quelle nella guerra scatenata nel 1999.
Esortiamo pertanto il governo italiano a sottrarsi da qualsiasi sostegno, legittimazione e riconoscimento di iniziative unilaterali di secessione nella regione. Di conseguenza a non inviare nuovi contingenti in Kosovo. Nessuna soluzione di pace e duratura è possibile se non è rispettosa dei diritti e della storia di tutti i soggetti esistenti nei Balcani.
Le senatrici e i senatori della Repubblica che firmano quest’appello si batteranno nelle sedi dovute e necessarie – Commissione Affari Esteri e Difesa al Senato, Aula Parlamentare e a livello pubblico e sociale – al fine di evitare un’altra svolta tragica nei Balcani.
Sen. Francesco Martone
capogruppo Prc-Se Comm.ne Affari Esteri Senato
Sen. Giorgio Mele
capogruppo SD Comm.ne Affari Esteri Senato
Sen. Armando Cossutta
capogruppo PdCI-Verdi Comm.ne Affari Esteri Senato
Sen. Fosco Giannini
capogruppo Prc-Se Comm.ne Difesa Senato
Senatrice Silvana Pisa
capogrupp SD Comm.ne Difesa Senato
Senatrice Manuela Palermi
capogruppo PdCI-Verdi Commissione Difesa Senato
Sen. Josè Luiz Del Roio
Prc – Se
Senatrice Lidia Menapace
Prc-Se
Sen.Giovanni Russo Spena
Prc- Se
Sen.Cesare Salvi
SD
Senatrice Franca Rame
Gruppo Misto
Sen.Franco Turigliatto
Gruppo Misto-Sinistra Critica
Sen.Piero Di Siena
SD
Sen.Claudio Grassi
Prc-Se
Sen.Paolo Brutti
SD
Senatrice A.Maria Palermo
Prc-Se
Senatrice Olimpia Vano
Prc-Se
Senatrice M.Celeste Nardini
Prc-Se
Senatrice Haidi Gaggio Giuliani
Prc-Se
Senatrice Tiziana Valpiana
Prc-Se
Sen. Nuccio Jovene
SD
Sen. Giovanni Gonfalonieri
Prc-Se
Senatrice Anna Donati
PdCI-Verdi
Sen. Salvatore Allocco
Prc-Se
Sen.Fernando Rossi
Gruppo Misto
Sen.Giuseppe Di Lello
Prc-Se
Senatrice Silvana Amati
Partito Democratico -L’Ulivo
Sen.Raffaele Tecce
Prc- Se
Sen.Stefano Zuccherini
Prc-Se
Sen.Gianpaolo Silvestri
PdCI-Verdi
Senatrice Maria Pellegatta
PdCI – Verdi
Sen. Dino Tibaldi
PdCI-Verdi
Sen.Mauro Bulgarelli
PdCI-Verdi
Sen.Natale Ripamonti
PdCI-Verdi
Sen.Tommaso Sodano
Prc-Se
Senatrice Loredana De Petris
PdCI-Verdi
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http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/22-Dicembre-2007/art14.html Napolitano: «Finanziare le missioni italiane» Sa. M.
Kosovo e Afghanistan
Roma
Confermare, finanziare e sostenere tutte le missioni all'estero, in particolare quella in Afghanistan e quella in Kosovo. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo saluto di fine anno alle truppe - in videoconferenza - ha impugnato la baionetta: «Dobbiamo trovare le risorse per le forze armate e per le missioni in cui siamo impegnati all'estero. Si tratta di responsabilità costose, alle quali però l'Italia non può sottrarsi».
Negli ultimi giorni la questione del finanziamento delle missioni militari italiane è tornata al centro dell'attenzione del quirinale. Non più tardi di martedì scorso, il comunicato del consiglio supremo di difesa aveva richiamato l'attenzione alla «necessità di fornire adeguata copertura economica alle missioni». E, seppure informalmente, il ministro della Difesa Arturo Parisi aveva confermato che le Forze armate non accetteranno tanto facilmente eventuali tagli o ridimensionamenti. Il discorso di Napolitano chiude il cerchio. E infatti il capo di stato maggiore della Difesa, ammiraglio Gianpaolo Di Paola, ha mostrato di apprezzare: «La vicinanza del paese è assolutamente fondamentale per le forze armate».
Dopo aver parlato della «necessita di una soluzione pacifica» per l'Afghanistan, il presidente ha scelto di mettere i piedi nel piatto della delicata questione kosovara, con un discorso che è prima di tutto una promessa di fiducia incondizionata in quel che fa il governo Prodi e il suo ministro degli esteri, Massimo D'Alema: «Siamo pienamente consapevoli della eccezionale delicatezza di questo momento per il Kosovo e per la nostra missione: è forse il tema su cui è maggiormente impegnata la nostra diplomazia». E poi, ed è il passaggio più scivoloso: «Siamo sicuri che farete la vostra parte e darete il vostro contributo affinché il problema dello status del Kosovo si realizzi nelle condizioni migliori dal punto di vista della pace e della collaborazione tra le diverse etnie». In realtà, al momento non è chiaro neppure quale sarà il ruolo dei militari italiani nell'area. Ritirata, al Consiglio di sicurezza Onu, la mozione che premeva per il riconoscimento dell'indipendenza, il ministro D'Alema punta molto sulla missione Ue che dovrebbe essere inviata nell'area per «pacificare», ma che nei fatti servirebbe a sostenere l'evenutale dichiarazione di indipendenza di Pristina. Giusto ieri, però, trentasei senatori dell'Unione hanno diffuso un appello in cui chiedono al governo di tenersi lontano dalla missione europea. Tra i firmatari, oltre al promotore Fosco Giannini, ci sono i capigruppo di Sd Cesare Salvi e di Rifondazione Giovanni Russo Spena.
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il manifesto
22 Dicembre 2007
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/22-Dicembre-2007/art12.html
«Kosovo, il presidente Napolitano sbaglia»
Intervista Parla il generale Fabio Mini, ex comandante della Nato in Kosovo: «Situazione di stallo per l'Italia all'Onu»
Tommaso Di Francesco
«È davvero uno stallo, anche per l'Italia e purtroppo il presidente Napolitano sbaglia». Parla il generale Fabio Mini, ex comandante della Nato in Kosovo sulle «ombre» del ruolo italiano per l'inestricabile nodo balcanico nel Consiglio di sicurezza dell'Onu, dopo le «luci» della moratoria sulla pena di morte.
Il ministro degli esteri D'Alema, presidente di turno del Consiglio di sicurezza, ha relazionato sul cosiddetto fallimento del negoziato per lo status, e allo stesso tempo ha tentato di inserire nel quadro della legalità delle Nazioni unite, la missione che si chiama «civile e di polizia» decisa dall'Unione europea. Ma è tornato a mani vuote: non c'è stato compromesso, ha detto. Perchè?
Innanzitutto perché la missione europea non è vista bene soprattutto dai kosovari albanesi i quali hanno una lobby fortissima negli Stati uniti, anche sul riconoscimento di un eventuale dichiarazione unilaterale d'indipendenza. La promessa dell'indipendenza fatta da Bush a marzo era chiara. E quindi si sentono forti. I kosovari albanesi vogliono gli americani, non vogliono gli europei. D'altra parte, una nuova missione europea che riguardi una parte della ricostruzione e una parte delle questioni giuridiche e di polizia, è una missione minimalista che non affronta i grandi problemi ed è senza appoggi internazionali molto forti.
E poi c'è il no della Russia che minaccia il veto. Ma ora si mostra anche disposta ad aprire alla «missione Ue» solo se rispetta la 1244, cioè il riconoscimento della sovranità della Serbia sul Kosovo...
Giuridicamente la missione Ue potrebbe essere proponibile, nel senso che se una organizzazione internazionale, ancorché regionale, si offre volontaria può farlo ma con l'accordo delle parti, serba e albanese in questo caso - ovviamente l'accordo per ora non c'è. Ma potrebbe farla soprattutto con l'accordo internazionale, per un mandato di almeno una parte non indifferente dell'Onu. E anche questo non è il caso, per ora. D'altra parte bisogna riconoscere che la 1244 - con cui l'Onu assumeva la pace di Kumanovo dopo i raid della Nato sull'ex Jugoslavia - metteva veramente un vincolo secco che era quello del riconoscimento della sovranità della Serbia sul Kosovo. Questo non è stato mai messo in discussione, anzi la 1244 rimandava ad un accordo tra le parti, non ad una imposizione dall'alto sullo status finale.
C'è stata polemica tra il presidente della Commissione esteri della Camera Umberto Ranieri e il ministro degli esteri britannico Miliband che sosteneva che la 1244 garantisce l'indipendenza...
Ha fatto bene Ranieri, perché non è vero, è falso, anzi in un certo senso è vero il contrario. Dirò di più: i serbi si sono veramente molto arrabbiati, anche per un fatto fondamentale che un articolo nell'appendice della Risoluzione Onu 1244 stabilisce che ci possa essere l'intervento di forze di polizia o comunque forze di sicurezza serbe in Kosovo soprattutto per dare sicurezza ai siti patrimoniali e religiosi. Non è mai successo.
Ma non crede che l'ambiguità vera sia rappresentata dalla motivazione con cui si vuole avviare la missione Ue, quella di preparare e gestire l'indipendenza?
E' una pregiudiziale che non fa onore al tentativo, nel senso che qualsiasi traccheggiamento verso l'indipendenza è visto male dai serbi i quali non l'approveranno mai perché è una perdita di sovranità. Per il Kosovo una soluzione immediata non c'è, non bisogna dunque avere fretta.
Le commissioni esteri e difesa della Camera sono andate in Kosovo, anche a Decani. Lì padre Sava ha detto di sentirsi in un «limbo»...
Anch'io penso al Kosovo come ad un limbo. Ma non credo che a padre Sava o al vescovo Artemje di Gracanica, dove vive la seconda grande enclave serba, siano contenti del limbo. Non ne possono più, però si rendono conto da realisti quali sono che la soluzione che gran parte della comunità internazionale vuole è soltanto quella dell'indipendenza. Per adesso.
C'è dunque una situazione di stallo per la diplomazia italiana. Con un Parlamento che dice cose diverse dal governo e, in aula, impegna all'unanimità il governo a non riconoscere proclamazioni d'indipendenza unilaterali...
Se uno stato vuole rimanere stato e quindi vuole rimanere ente che fa parte del consesso internazionale vigente, con tutto quello che è sancito dalla Carta delle Nazioni unite, questo stato deve essere sovrano e quindi la sovranità gli deve essere riconosciuta. La Comunità internazionale, della quale l'Italia fa parte, non può pertanto riconoscere quello che sta per accadere in Kosovo, vale a dire una dichiarazione unilaterale d'indipendenza. Altrimenti si smantellerebbe il sistema degli stati.
C'è stato in questi giorni un allarme dei Servizi europei e dell'intelligence italiana su una precipitazione nei Balcani.
Non vedo la lotta armata immediata e deflagrante. Quello che vedo è invece una lotta armata strisciante, nel senso che ci saranno di sicuro delle forze estremiste che vorranno premere sui pochi serbi rimasti in Kosovo e quindi ci saranno ancora espulsioni, possibilità di larvate od occulte pulizie etniche, così come da parte serba soprattutto nazionalista ci saranno anche dei tentativi di instaurare organizzazioni clandestine in Kosovo. La situazione è difficilissima da gestire e non vorrei essere nei panni dell'Ue che va lì con un mandato di supervisione senza poteri effettivi.
Napolitano ieri si è rivolto ai militari di Pristina dicendosi sicuro del loro buon lavoro «affinché il problema dello status del Kosovo si realizzi nelle condizioni previste, dal punto di vista della pace e della collaborazione tra le diverse etnie, come d'altronde indica il piano dell'Onu»...
Sono un po' perplesso. Sono sette anni che andiamo avanti con queste parole ma i fatti non dicono così. I kosovari albanesi non vogliono assolutamente uno stato multietnico, a parole lo dicono sempre, di fatto non lo vogliono. Così come dall'altra parte anche i serbi non riconoscono molti diritti agli albanesi rimasti nella parte a nord dell'Ibar di Mitrovica. Quindi il Kosovo multietnico è una speranza, è veramente qualche cosa nella quale potremmo sperare perchè tutti dobbiamo essere multietnici, tutti gli stati dovrebbero esserlo. Il fatto fondamentale è che però i soldati in questo hanno poche possibilità. Perché il piano dell'Onu non c'è. Il fatto che le Nazioni unite non abbiamo mai tentato seriamente di costituire un Kosovo multientico è nella realtà. I rientri dei profughi serbi sono falliti. Anzi sono stati boicottati. Quando io parlavo di fare rientrare due comunità piccolissime vicino a Pec, ho trovato veramente ostacoli solo nell'amministrazione Unmik-Onu. Non volevano rischiare. O non c'erano soldi, andavano solo a chi volevano loro. Il Kosovo multietnico nel piano dell'Onu non c'è mai stato.
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http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=16427 L'Italia gestisce il peso di un fallimento di Tana De Zulueta* su Il Manifesto del 20/12/2007 Kosovo Sull'uscio della commissione esteri della Camera, il ministro Massimo D'Alema ha preannunciato una missione «a luci ed ombre» per se stesso presso l'Onu. E così è stato. Mentre il voto sulla moratoria sulla pena di morte è stato un netto successo per lui, per l'Italia e per l'Europa, la discussione sullo status finale del Kosovo si sta rivelando un vero e proprio letto di spine. La politica, quando dichiara di avere davanti a se solo la scelta tra un male e un altro, non può che prendere atto di avere, se non fallito, almeno mancato un'occasione. Oggi l'Unione Europea si trova nella necessità di subire scelte altrui per quanto riguarda il futuro della provincia serba del Kosovo. E mestamente se ne prende atto. Lo testimonia la (scarsa) discussione in Parlamento. Il 29 novembre l'aula della Camera ha votato due mozioni sullo status del Kosovo, della maggioranza e della Lega Nord, e le ha approvate tutt'e due. Gli impegni erano: ricerca d'una soluzione condivisa, «scoraggiando iniziative unilaterali», unità europea e la sollecitazione «in tempi brevi dell'accordo di stabilizzazione e associazione Ue-Serbia». Un premio di consolazione che lascia i responsabili politici di Belgrado piuttosto freddi. Anche perché non ritengono, probabilmente a ragione, quest'esito né sufficiente né imminente. Mentre l'amputazione di un pezzo di quello che continuano a considerare il proprio territorio lo è.
Siamo all'«ineluttabiltà». Emersa anche dalla lettera alla presidenza portoghese Ue, cofirmata dai governi italiano, inglese, francese e tedesco che dava conto del fallimento dei negoziati, avvertendo che è meglio lasciar perdere, per evitare «un ulteriore irrigidimento». Siamo ben lontani da quell'impegno a cercare in tutti modi un accordo condiviso, anche dopo il limite annunciato. Si profila, invece, una indipendenza sotto «supervisione» della Nato e di una massiccia missione civile europea. In quale quadro di diritto non è dato sapere, e su questo c'è scontro al Consiglio di Sicurezza. Il sottosegretario Craxi, non sembrava troppo convinto quando ha detto che la futura missione Ue «potrebbe operare nella cornice giuridica» della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244 - che autorizzò l'ingresso della Nato, ma confermando anche che il Kosovo fa parte del territorio sovrano della Serbia e l'Ue aspira à mandare un suo rappresentante in Kosovo in sostituzione di quello dell'Onu. E se la Russia non è d'accordo?
L'unica certezza è la prospettiva dell'instabilità, ben oltre il Kosovo. Otto anni sono passati invano. In un incontro in Parlamento l'ex-ministro francese Hubert de Védrine ha ribadito che l'indipendenza sarà pure «ìneluetable» ma è pur sempre «regrettable» e per un ambasciatore europeo che ha partecipato al negoziato la la separazione del Kosovo potrebbe fare venire meno la ragione d'essere della Bosnia. Paese costituito, dentro la camicia di forza degli accordi di Dayton, per imporre una nazione multietnica E la Macedonia?
Commentando il passaggio delicato, D'Alema ha fatto notare che mentre gli Stati Uniti hanno fortemente sostenuto l'indipendenza del Kosovo e la Russia l'ha osteggiata, l'Europa è destinata a reggere tutto il peso del problema. Auguri.
*Vicepresidente della Commissione esteri della Camera
Wesley Clark darf kein Zeuge sein
Eine Nachlese zum Miloševic-Prozess von Germinal Civikov
Am 14. April 2007 wartete die kroatische Tageszeitung Jutarnji list mit der Schlagzeile auf, die Chefanklägerin des Jugoslawien-Tribunals in Den Haag, Carla del Ponte, habe einen Deal mit Belgrad geschlossen und einen Schuldspruch des Internationalen Gerichtshofs (IGH) in der Völkermordanklage Bosnien-Herzegowinas gegen Jugoslawien verhindert. Sie habe in einer Absprache mit Belgrad, die jeder rechtlichen Grundlage entbehre, diesem obersten Gerichtshof der UNO entscheidende Beweisstücke verheimlicht. Es ist ein unglaublicher Bericht, den man sich zunächst damit zu erklären versucht, dass die Chefanklägerin des Tribunals bekanntlich auch in Kroatien keine gute Presse hat. Beim Bericht handelt es sich aber um einen offenen Brief des Chefanklägers im Miloševic-Prozess, Sir Geoffrey Nice, und das will schon etwas besagen. Nach dem Tod des prominenten Angeklagten gab es für ihn keine Verwendung mehr beim Tribunal. Was könnte ihn so gegen seine Ex-Chefin aufgebracht haben? Für seine Verdienste, unter der Führung von Frau del Ponte fünf Jahre lang irgendwelche Beweise für die Schuld von Miloševic vorzubringen, wurde er unlängst immerhin geadelt!
Bekanntlich hat der IGH am 26. Februar 2007 Jugoslawien bzw. Serbien von der Beschuldigung freigesprochen, am Völkermord und anderen Verbrechen in Bosnien beteiligt gewesen zu sein. Nicht nur für die bosnischen Muslime dürfte das eine herbe Enttäuschung gewesen sein. Man muss den Wortlaut des Urteils im Auge behalten, will man sich die helle Aufregung von Geoffrey Nice erklären. Wissen muss man auch, dass sich der IGH nahezu alle Beweise, die er für sein Urteil benötigte, vom Jugoslawien-Tribunal geben ließ. Mehrmals ließ die Anklagebehörde des Tribunals verlautbaren, dass die von Bosnien beim IGH eingereichten Beweise alle vom Tribunal kämen. Die 15 Richter beim IGH haben diese Beweise offensichtlich anders gewogen als die Ankläger des Tribunals, und mit ihnen auch die Medien. In besonderer Weise betrifft das Urteil der Richter beim IGH aber auch den Miloševic-Prozess. Wenn diesem Urteilsspruch zufolge Belgrad weder im Bosnienkrieg mitgemischt noch die serbisch-bosnische Führung kontrolliert hat, dann darf man sich schon fragen, wie es um die Beweislage im Miloševic-Verfahren bestellt war. Hatte man damals eine Anklage ohne überzeugende Beweise erhoben?
Chefanklägerin del Ponte reagierte prompt auf die Beschuldigung seitens ihres langjährigen Untergebenen. „Ganz energisch“ wies sie seine Behauptungen zurück, Dokumente vor dem Internationalen Gerichtshof verheimlicht oder mit Belgrad ein Abkommen geschlossen zu haben. Nie habe sie mit Belgrad über solche Angelegenheiten paktiert, und was den IGH betrifft, so habe dieser Gerichtshof immer souverän darüber entschieden, welche Dokumente er zu der Klage Bosniens verlangte und welche der ihm zur Verfügung gestellten Beweisstücke er näher in Betracht zog.
Gemessen an der schweren Beschuldigung kann man die Antwort, die Frau del Ponte am 16. April verbreiten ließ, nur als lapidar bezeichnen. Aber mit ihrem vormaligen Untergebenen ist sie noch lange nicht fertig. Jedenfalls scheint Nice das Startzeichen zu einer regelrechten Demontage del Pontes gegeben zu haben. Am 23. April 2007 meinte der ehemalige Ermittler der Anklagebehörde, Marc Attila Hoare, in der bosnischen Zeitung Dnevni Avaz, seine Chefin sei nicht gerade eine schlaue Person, kenne sich daher nicht aus, wie man einen politischen Deal abschließe, und sei einfach in die Falle getappt. Am nächsten Tag meldete sich in derselben Zeitung Graham Blewitt, ehemaliger Vizechefankläger des Tribunals, zu Wort: Er kenne die Methoden seiner früheren Chefin gut, sie sei durchaus imstande, einen Deal mit den Serben geschlossen zu haben.
Nach dem Urteilsspruch des IGH beeilten sich mehrere Spin-Doctors des Tribunals, uns weiszumachen, es gebe keine Zusammenhänge zwischen dem Urteilsspruch des IGH und dem Miloševic-Prozess. Der IGH beschäftige sich mit zwischenstaatlichen Konflikten, während das Jugoslawien-Tribunal die individuelle Schuld einzelner mutmaßlicher Kriegsverbrecher untersuche. Wie bitte? Die Chefanklägerin des Tribunals del Ponte, die federführend beim Aufstellen der Bosnien-Anklage war, und ihr Hauptankläger Nice, der fünf lange Jahre Gestalt und Richtung der Beweisführung vorgab, liegen sich wegen des Urteils des IGH auf offener Straße in den Haaren, und das soll nichts mit dem Miloševic-Prozess zu tun haben? Da wusste es Antonio Cassese schon besser. Als langjähriger Präsident des Jugoslawien-Tribunals ging er hart mit seinen Kollegen beim IGH ins Gericht. Sie hätten eine unrealistisch hohe Messlatte angelegt und sich einer rätselhaften Argumentation bedient, meinte er in seinem Kommentar zum Thema (La Republica / Der Standard, 28.2.07). Nur so sei der Freispruch des IGH zu erklären. Die Pointe bewahrte sich Cassese für den Schlusssatz seines Kommentars auf: „Und wenn Ex-Präsident Miloševic noch am Leben wäre, hätte man ihn von der Anklage des Völkermords freigesprochen.“ Dies klingt fast, als möchte der namhafte Richter den Tod des prominenten Angeklagten Slobodan Miloševic als wünschenswert begrüßen. Schlimmer wäre nur sein Freispruch gewesen.
In der Klage Bosniens gegen Jugoslawien bzw. Serbien ist der IGH zu einem Freispruch gekommen, da die Beweislage aus dem Miloševic-Prozess für einen Schuldspruch zu dürftig war. Dieser Gedanke ist heute vielen unerträglich, besonders denjenigen unter den Meinungsmachern, die sich öffentlich als „Anwälte der Anklage“ betätigten und, blind für alle Pannen und Peinlichkeiten der Beweisführung, deren angeblichen Erfolge feierten. So erklärt sich z.B. Marlise Simons den Freispruch des IGH damit, dass dieser Gerichtshof die wichtigsten Beweise nicht eingesehen habe. Wie in der New York Times vom 9. April 2007 zu lesen ist, habe Belgrad Schlüsseldokumente aus den Jahren 1992 bis 1995 über seine Rolle in den Kriegen in Bosnien und Kroatien vor dem IGH geheim gehalten. Das soll auch Mitschriften von Sitzungen des Obersten Verteidigungsrates in Belgrad betreffen. Dieser Artikel löste den offenen Brief von Nice aus, der sich zu bestätigen beeilte, Serbien habe die Genehmigung zu dieser Geheimhaltung ausgerechnet von der Chefanklägerin des Tribunals bekommen. Ferner hebt er in seinem Brief hervor, del Ponte habe dieses Zugeständnis ausdrücklich gegen seinen Willen gemacht. Man darf gespannt sein, wie dieser Angriff auf die Chefanklägerin enden wird.
Wenn es um die Beweislage der Bosnien-Anklage gegen Jugoslawien bzw. Serbien so bestellt ist, kann man sich fragen, wie es denn mit der Beweislage in der Kroatien-Anklage aussehen mag. Die Probe aufs Exempel bekommen wir erst, wenn sich eines Tages der IGH auch zu der Klage von Kroatien äußert. Denn auch Kroatien meint, es sei das Opfer eines serbischen Völkermords, und hat sechs Jahre nach Bosnien auch eine Klage gegen Jugoslawien bzw. Serbien wegen Völkermord und Kriegsverbrechen in Ostslawonien und Dalmatien eingereicht. Nach dem ergangenen Urteil zu Bosnien schien Zagreb zunächst die Erfolgshoffnungen aufgegeben zu haben, und die Regierung erwog sogar, die Klage gänzlich zurückzuziehen und eine außergerichtliche Einigung mit Belgrad zu suchen. Die Mär von den geheim gehaltenen Beweisen machte Zagreb wieder Mut. So hat Premierminister Ivo Sanader am 12. April 2007 den Brief von Nice als sehr ernste Sache bezeichnet. Er wolle die UNO einschalten, sollte es wahr sein, dass dem IGH Beweise vorenthalten wurden. Denn auch mit Bezug auf die Klage Kroatiens wird der IGH auf der Grundlage der Beweise im Miloševic-Prozess urteilen müssen.
Das Kosovo ist (noch) kein unabhängiger Staat, und nur deshalb hat die Führung der Kosovo-Albaner nicht auch beim IGH eine Klage wegen Völkermords und Kriegsverbrechen gegen Jugoslawien bzw. Serbien eingereicht. Schade, denn sonst hätten die Richter des IGH auch die Beweise zu der Kosovo-Anklage gegen Miloševic bewerten können. Wie es aber um diese bestellt ist, wissen wir heute aufgrund von Hunderten von Zeugenverhören. Sehr aufschlussreich für eine Bewertung der gegen Miloševic erhobenen Kosovo-Anklage ist auch der Prozess gegen Milan Milutinovic, den ehemaligen Präsidenten Serbiens, und fünf weitere Politiker und Generäle, die wegen Kriegsverbrechen im Kosovo angeklagt sind. Die Anklage gegen die „Amselfelder Sechs“ ist eine mildere Variante der Kosovo-Anklage gegen Miloševic, und die meisten Zeugen der Anklage wurden schon in jenem Prozess gehört. Schon zu Beginn haben allerdings die Richter zwei der wichtigsten Beweisstücke der Anklage abgelehnt: den OSZE-Report As seen, as told („Wie gesehen, so erzählt“) und den Sammelband der Menschenrechtsorganisation Human Rights Watch unter dem Titel Under Orders. War Crimes in Kosovo. Die darin enthaltenen Dokumente seien (oft anonyme) Geschichten aus zweiter und dritter Hand und daher als Beweise unannehmbar, meinten die Anwälte der Angeklagten, und die Richter stimmten zu. Diese nun als Beweis wertlosen Bände waren aber eine Art Fundament der Kosovo-Anklage gegen Miloševic, wurden dementsprechend auch von den Richtern gewürdigt und waren Gegenstand Dutzender Zeugenverhöre.
Wie viel von dem, was einst im Miloševic-Prozess erlaubt, ja erwünscht war, nunmehr nicht mehr möglich ist, veranschaulicht der Fall des Zeugen Wesley Clark. Als Zeuge der Anklage hatte der Oberbefehlshaber der Nato im Jugoslawienkrieg auch die in Washington aufgestellten Regeln für sein Verhör nach Den Haag mitgenommen. Sie legten fest, welche Fragen ihm gestellt werden konnten, wie und was alles in „geschlossenen Sitzungen“ zu geschehen habe und der Öffentlichkeit nicht preisgegeben werden dürfe. Außerdem verlangte Washington, alle Verhörprotokolle vor ihrer Freigabe redigieren zu können. Dies alles wurde damals von den Richtern genehmigt. Der Zeuge selber nahm sich alle Freiheiten heraus, etwa mitten in einer Sitzung mit seinem Parteifreund Bill Clinton zu telefonieren und Wahlkampf zu betreiben, ohne dass die Richter eingriffen. Zur Sache erklärte er am 15. Dezember 2003, Miloševic habe ihm gegenüber in einem Gespräch zugegeben, vom Srebrenica-Massaker gewusst und nichts dagegen unternommen zu haben. Miloševic seinerseits verneinte, mit Clark dieses Thema auch nur berührt zu haben.
Dem IGH reichte dieser „Beweis“ des früheren Nato-Oberbefehlshabers offensichtlich nicht. Dennoch wollten die Ankläger im Prozess gegen die „Amselfelder Sechs“ diesen gegen Miloševic so erfolgreichen Zeugen erneut einsetzen. Am 6. März 2007 weigerte sich aber der Vorsitzende Richter Iain Bonomy, Clark als Zeugen zu hören – schon gar nicht unter den von den USA aufgestellten Bedingungen. Die Anklage ging in Berufung, und am 24. April bestätigte der Appellationsgerichtshof den Beschluss des Vorsitzenden Richters.
BEATI I CRIMINALI DI GUERRA, PERCHE`DI ESSI E`IL REGNO DEI CIELI
"un cammino serio e di riflessione ... un lungo e profondo percorso di fede e ricerca ..."
"l'ex leader laburista ha ammesso per la prima volta che la fede si è rivelata "estremamente importante" nell'influenzare le sue decisioni politiche, compreso l'intervento militare in Iraq"
"Blair, il più giovane Primo Ministro del Regno dopo Lord Liverpool (...), ha impegnato le Forze armate britanniche in quattro guerre, in Kosovo, Sierra Leone, Afghanistan ed Iraq"
"Nel suo percorso spirituale, Blair è stato accompagnato da un cappellano dell'aeronautica, John Walsh"
"Blair, peraltro, è in questi giorni nell'occhio del ciclone sulla stampa cinese, che lo attacca per aver accettato un compenso di 237mila sterline per visitare un complesso turistico di lusso a Dingguan"
"I critici di sinistra asseriscono però che Blair abbia tradito i principi dei padri fondatori del Labour e che il suo governo si sia spostato troppo a destra, non prestando sufficiente attenzione a tradizionali principi laburisti come la redistribuzione della ricchezza"
«Non è un pazzo, per molti cattolici è qualcosa di peggio: un ipocrita», dice Damian Thompson, direttore del Catholic Herald. E aggiunge: «La guerra in Iraq fu condannata senza riserve dal Papa e anche ora c’è disagio al pensiero che un guerrafondaio stia per essere accolto nella Chiesa»
Fonti:
(da parte dei fascisti e dei nazisti, aprile 1941)
The first liberation of Kosova (April 1941)
Military and Historical Maps / Cartografia:
http://www.geocities.com/ga57/albania/kosova41.html
Sull'origine nazifascista del secessionismo kosovaro vedi anche gli
articoli raccolti alla pagina:
https://www.cnj.it/documentazione/kosova.htm
1) Note sul 17° congresso del Partito comunista cinese - di Fausto Sorini
2) Le vie inesplorate del “socialismo con caratteristiche cinesi” - di Marcello Graziosi
Note sul 17° congresso del Partito comunista cinese
di Fausto Sorini
su L'ERNESTO del 25/10/2007
newsattach1124_Manifesto%2020-12%20b.pdf
IL MANIFESTO
20 dicembre 2007
La Slovenia entra in Schengen, eppure non è solo una festa
Franco Juri
Oggi - stasera tardi, alle 23,55 cadranno significativamente le barre
dei due confini - anche la Slovenia entra solennemente nella
«famiglia» di Schengen, lo spazio comune europeo di libera
circolazione in cui i confini interni, tra gli stati che vi
aderiscono, rimangono tali solo potenzialmente. E',ovviamente, un
giorno di festa per gli sloveni; con l' introduzione dell' euro - un
anno fa - la caduta, anzi lo spostamento a sud del confine esterno
dell'Unione europea, i cittadini della Slovenia possono finalmente
percepire l' Europa ed i suoi vantaggi anche in termini meno
astratti. Abbattere un confine è sempre motivo di gioia, tantopiù se
la frontiera che scompare è stata per decenni considerata una
«cortina di ferro», almeno sul piano ideologico, visto che su quello
funzionale il confine tra Italia e Jugoslavia fu per decenni un
modello di permeabilità senza paragoni lungo la linea di demarcazione
tra Est e Ovest. E Trieste, con la sua complessa e sofferta realtà
storica, fatta anche di pregiudizi, nazionalismi e spesso di
animosità antislovena, è di fronte ad una nuova appassionante sfida
in cui dovrà sfoderare la sua pragmatica flessibilità ma anche
riabilitare - senza provinciali sotterfugi - il suo tanto decantato
cosmopolitismo. Ma Schengen, soprattutto in Istria, non è solo festa.
Per un confine che crolla uno, a soli dieci chilometri in linea d'
aria più a sud- si irrigidisce. Ironia vuole che a irrigidirsi sia
una frontiera di stato nata solo sedici anni fa, a seguito dell'
indipendenza di Slovenia e Croazia e della disintegrazione della
Jugoslavia. Il 25 giugno del 1991 non furono in pochi a brindare con
spumante alla sbarra che tagliava in due la penisola istriana, una
penisola multiculturale in cui veniva mozzata in due anche una
comunità italiana dai connotati regionali specifici ora rimessi in
gioco dalle nuove realtà geopolitiche dell'area. E così, se gli
sloveni hanno un motivo valido per festeggiare, i croati - e
soprattutto i multiculturali istriani- difficilmente condividono la
gioia dei loro «cugini» settentrionali. Anche perché le autorità di
Lubiana il regime di Schengen sono decise ad applicarlo con
particolare zelo lungo i seicento e passa chilometri di frontiera con
la Croazia. L' hanno fatto capire, oltre che con una legislazione
particolarmente restrittiva in tema di immigrazione o di asilo
politico, abbattendo, nel corso dei preparativi, alcuni vecchi ponti
con una lunga storia locale di convivenza e di vincoli famigliari sul
fiume Sotla/Sutla, risparmiando invece quelli sul Kolpa/Kupa dopo le
proteste della popolazione locale e alcune interrogazioni
dell'opposizione in parlamento. L'accesso ai ponti residui, alcuni
dei quali in verità pensili o quasi fatiscenti, ma con una forte
carica simbolica ed emotiva per le genti di confine, è ora impedito
da una serie di sbarre. La gente di confine spera che ad attutire il
colpo di scure sia l' accordo di piccolo traffico di frontiera (Sops)
in vigore tra i due paesi vicini da alcuni anni. Questo accordo,
predisposto sulla falsa riga degli estinti accordi di Udine tra
Jugoslavia e Italia, agevola parzialmente la circolazione della
popolazione locale. Ma non è stato facile tutelarlo dalle pressioni
della burocrazia europea. E' chiaro però che le iniziative
frontaliere basate sulla libera circolazione tra Croazia e Slovenia
verranno ora fortemente ridimensionate. Inoltre il contenzioso
territoriale lungo il confine con Zagabria non è concluso. Alle
spalle ci sono 16 anni di fastidiosi incidenti, potenzialmente sempre
in procinto di riattivarsi; l'arbitrato internazionale o una
soluzione alla Corte dell'Aia, paventata dai premier Janez Jansa e
Ivo Sanader alcuni mesi fa, rimangono nel congelatore e ancor oggi
non si capisce bene quale sia o sarà l'esatto percorso del confine
esterno europeo tra Slovenia e Croazia. Schengen potrebbe avere un
impatto positivo nel fissare una situazione di fatto che soprattutto
Lubiana contesta nei negoziati, con particolare enfasi in Istria,
dove qualcuno - anche tra i partiti di governo (ad esempio quello
popolare Sls)- vorrebbe spostare l'attuale confine almeno di una
ventina di chilometri più a sud. C'è poi l'inesistente confine di
mare, dove il contenzioso si fa particolarmente aspro alla luce della
zona ittico-ecologica dichiarata nel 2004 sulla metà orientale
dell'Adriatico dalla Croazia, zona congelata allora per i paesi
dell'Ue su pressione di Italia e Slovenia, ma che dal primo gennaio
dovrebbe entrare in vigore anche per questi due paesi Ue. E'
probabile che si raggiunga un compromesso in extremis e la Croazia
possa evitare così un fuoco di sbarramento italo-sloveno contro la
sua adesione all'Unione.
La linea di Schengen quindi si trasferisce oggi a sud tra mille
incognite, ma i festeggiamenti non amano i dubbi. Barroso arriva
domani a Skofije-Rabuiese sorridente per brindare con Jansa e Amato
(sull' arrivo di Prodi e D' Alema non c'è alcuna certezza) ad un
evento storico. La caduta di un confine lo è, indubbiamente. Come lo
è l'ulterione innalzamento di un altro a soli pochi chilometri dal
primo.
Dalai Lama, l'ambasciatore cinese contro Bertinotti
su l'Unità del 18/12/2007
Mentre Folena attaca Prodi
DIVENTA UN CASO diplomatico la visita del Dalai Lama a Montecitorio. Con toni insolitamente duri per un ambasciatore, il rappresentante di Pechino in Italia si è lamentato direttamente con il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, per l'intervento del premio Nobel ad una cerimonia alla Camera dei Deputati giovedì scorso. «Al presidente Bertinotti ho manifestato l'auspicio che il Parlamento italiano, la massima istituzione di questo Paese, non offra facilitazioni né luogo al Dalai Lama», ha detto l'ambasciatore cinese Dong Jinyi al termine dell'incontro con Bertinotti. Il Dalai Lama, ha aggiunto, «fa una forte attività separatista», visto che oltre ad essere un «leader religioso», fa anche «politica» con l'obiettivo di «attirarsi simpatie» allo scopo di «separare il Tibet dalla Cina». Jinyi ha quindi attaccato duramente il leader buddista: «Le sue parole sono bugie e menzogne, fa propaganda per un governo in esilio che rivendica l'indipendenza del Tibet» e la sua autorevolezza, «non essendo l'unico leader del buddismo tibetano, non è in alcun modo assimilabile a quella del Papa». L'intervento dell'ambasciatore cinese ha indotto il presidente della Camera ad una garbata, ma puntuale replica. «Il presidente della Camera - ha dichiarato il suo portavoce, Fabio Rosati - ha ribadito all'ambasciatore cinese il significato ed il valore della iniziativa della Camera». «L'incontro - ha aggiunto - è stato realizzato per la rilevanza internazionale del Dalai Lama, premio Nobel per la pace, e per dare voce alla istanza culturale e religiosa del popolo tibetano: una istanza che il Dalai Lama ha rappresentato riconoscendo l'integrità geografica della Repubblica popolare cinese». Ma la visita ha avuto code polemiche anche all'interno della maggioranza. Emma Bonino, ministro per le Politiche Europee, ha detto di non aver «condiviso» la decisione del presidente del Consiglio di non ricevere il Dalai Lama per «ragioni di Stato». «Prendo atto della scelta del premier», ha aggiunto l'esponente radicale, ma «ritengo che su determinati punti occorra spiegare ai nostri amici cinesi che i nostri valori sono diversi». Un dibattito nel quale, in serata, è intervenuto anche Massimo D'Alema: «Non credo che il governo fosse tenuto a parlare con il Dalai Lama», ha sottolineato il ministro degli Esteri, che dopo aver ricordato di aver incontrato diverse volte l'autorità religiosa tibetana e di essere «lieto» del suo ritorno in Italia, ha aggiunto: «Il Dalai Lama non ci ha chiesto incontri» ed anzi, dimostrandosi «molto più intelligente di alcuni suoi sponsor, ha detto di non volere che la sua visita fosse un motivo per turbare le relazioni con la Cina». Pietro Folena, di Rifondazione, commenta: «Al presidente Prodi dico che il rispetto dei diritti umani è la prima ragion di Stato per un paese libero dell'Unione europea che i buoni rapporti commerciali con la Cina non possono certo essere meno importanti della causa di 6 milioni di tibetani oppressi dal regime di Pechino. Non possiamo essere sempre l'Italietta che si spaventa di fronte alle potenze straniere. La Germania si è comportata in modo del tutto opposto e avremmo dovuto imitarla».
=== 2 ===
http://www.resistenze.org/sito/te/po/ci/poci7n19-002422.htm
Il Giorno del Ricordo si avvicina e le forze negazioniste sono già scese in campo per propinare agli ignari italiani le loro balzane tesi sulla storia degli Esuli. Il 9 febbraio a Milano (Sala Guicciardini della Provincia di Milano, 100 posti) si terrà il consueto e desueto convegno negazionista, che negli intenti resi pubblici se la prende con tutto e tutti, dall'ultimo degli Infoibati al Presidente della Repubblica. Il titolo è già tutto un programma: "Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico".
A questa cinica ed invereconda iniziativa risultano promotori:
"Associazione L'altra Lombardia - SU LA TESTA - Milano
Associazione/Drustvo Promemoria per la difesa dei valori dell'antifascismo e dell'antinazismo/za varovanje vrednot protifasizma in protinacizma - Trieste/Trst
Centro popolare "La fucina" - Sesto San Giovanni (MI)
Collettivo Comunista Antonio Gramsci - Trento
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia
Lotta e Unità per l'organizzazione proletaria
Resistenza storica - Udine"
Ad essi si aggiungono promotori e primi firmatari noti e meno noti. Li citiamo tutti, con un mezzo sorriso di compassione:
Giansandro Barzaghi - (Prc) - assessore all' istruzione ed edilizia scolastica della Provincia di Milano
Gino Candreva - direttivo dell'Istituto pedagogico della Resistenza
Claudia Cernigoi - direttrice del periodico "La nuova alabarda"
Margherita Hack - astrofisica
Alessandra Kersevan - ricercatrice storica
Giacomo Scotti - giornalista e scrittore
G.A.M.A.D.I. - Gruppo Atei Materialisti Dialettici
Miriam Pellegrini Ferri - partigiana Giustizia e Libertà
Spartaco Ferri - partigiano Brigata Garibaldi
Andrea Martocchia - direttivo Coordinamento Nazionale Jugoslavia e comitato presidenza GAMADI
Mauro Cristaldi - comitato presidenza GAMADI
Maria Fierro - comitato presidenza GAMADI
Roberto Gessi - comitato presidenza GAMADI
Franco Costanzi - comitato presidenza GAMADI
Luigi Cortesi - direttore rivista "Giano. Pace ambiente problemi globali"
Mariella Megna - L'altra Lombardia - SU LA TESTA
Rivista Teoria & Prassi
Lucio Garofalo
Marcello Paolocci
Andrea Vecchi - comitato politico regionale Prc Emilia Romagna
Francesca Rodella - collettivo studenti SU LA TESTA"
E' stata perfetta e senza alcuna smagliatura la censura operata dai
principali mass-media italiani sulla partecipatissima manifestazione
che si è tenuta sabato 15 dicembre 2007 a Vicenza.
I telegiornali RAI e Mediaset e tutti i principali mezzi di
informazione sono riusciti a nascondere completamente almeno 40mila
persone che hanno marciato contro la costruzione di una nuova,
ennesima base militare statunitense sul nostro territorio.
Può certamente dirsi ormai compiuta la militarizzazione di quello che
era un tempo il giornalismo italiano, di cui rimane oggi solo una
ripugnante poltiglia di "embedded", convinti servi del potere
politico-militare o precarizzati e ricattati senza speranze.
Ad infrangere questa ferrea dittatura che vige in Italia, segnaliamo:
- il sito http://www.nodalmolin.it/ con immagini e testi relativi
alla manifestazione;
- la cronaca del "Manifesto" (eccezione che conferma la regola tra i
quotidiani italiani), che riproduciamo di seguito.
(a cura di Italo Slavo)
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/16-Dicembre-2007/
art18.html
Centomila No al Dal Molin
Malgrado le parole del presidente Napolitano, malgrado il freddo, la
neve e Trenitalia, la manifestazione di ieri a Vicenza è andata oltre
ogni aspettativa. Pochi i politici presenti e molti fischi anche per
i partiti «amici». Per fermare il raddoppio della base Usa
BENEDETTO VECCHI
Inviato a Vicenza
La voce sale di tono ed alla fine è quasi un urlo liberatorio: «Siamo
più di ottantamila persone, forse centomila. La cosa del corteo è
ancora chilometri indietro». La risposta sono fischietti impazziti,
battimani a ripetizione, bandiere bianche con la scritta «No Dal
Molin». «NoTav», «No Mose», «No F35» sbandierate con forza. Ogni
dubbio, ogni timore si è sciolto come la neve che aveva imbiancato la
città durante la notte. Sin dalla mattina i volti scrutavano la
stazione di Vicenza per vedere se i treni portavano manifestanti. A
Milano arrivano voci di piccoli tafferugli perché la polizia non
voleva far partire i manifestanti, mentre molti pullman erano in
ritardo per le nevicate della notte e del primo mattino.
Ma i timori più forti erano dovuti a quella dichiarazione del
presidente della repubblica Giorgio Napoletano che, in visita negli
Stati Uniti, aveva mandato a dire che la decisione era presa, che i
contrari potevano scrivere lettere o fare altro, tanto nulla avrebbe
portato il governo a cambiare la sua scelta. Era dunque inutile anche
manifestare in piazza il dissenso e che era per questo meglio restare
a casa. Invece la manifestazione di Vicenza contro il raddoppio della
base militare statunitense è andata al di là delle più ottimistiche
previsioni degli organizzatori. Non ci sono state neanche le
contestazioni a ministri o esponenti di partito presenti nel governo
Prodi. Anche perché quelli che sono venuti nella città veneta erano
davvero pochi. Giovanni Russo Spena, Francesco Caruso, Lalla Tropia
di Rifondazione comunista. Franco Turigliatto, eletto nelle file di
Rifondazione comunista e ora all'interno dell'avventura di Sinistra
critica dopo essere uscito dal partito di Franco Giordano. E se
Francesco Caruso faceva avanti e indietro per poi fermarsi nei pressi
del camion dei Giovani comunisti, gli altri parlamentari erano
invisibili, come fantasmatico era lo striscione firmato da «Sinistra
arcobaleno», schiacciato tra i militanti del partito comunista dei
lavoratori di Ferrando e la galassia dei gruppi anarchici presenti
nel corteo.
Già, perché la lettura politica della manifestazione di ieri è
abbastanza chiara. Le ottanta, centomila persone che hanno percorso
in lungo e largo la città veneta hanno espresso una distanza siderale
da quanto avviene a Montecitorio o nelle segreterie dei partiti,
nessuno escluso, anche se le critiche più feroci erano indirizzate
contro il governo Prodi e la sua ala sinistra, colpevoli secondo i
manifesti di aver disatteso le promesse elettorale e gli impegni
presi da parte di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi
di porre all'ordine del giorno un ripensamento sulla decisione di
raddoppiare la base statunitense. Come reagirà il centrosinistra al
successo della manifestazione è però argomento del giorno dopo. Più
importante è cercare di capire come continueranno la mobilitazioni
contro l'inizio dei lavori. Perché i protagonisti della
manifestazione sono le donne e gli uomini che hanno reagito alla
«strategia del silenzio» e hanno pacificamente occupato Vicenza.
Gran parte dei manifestanti hanno scelto di mettersi dietro il camion
del presidio permanente. Sono scout, over-quaranta con un
significativo curriculum di pacifismo «radicale» alle spalle,
attivisti dei centri sociali di ogni dove, militanti dei sindacati di
base, abitanti della Val di Susa, agit prop dei comitati contro gli
inceneritori della Campania. Tanti, tantissimi i vicentini, che hanno
ritmato per tutto il corteo la loro opposizione alla base militare
delle loro città, sostenendo con gli striscioni e i - pochi - slogan
che il rifiuto dei lavori non è dovuto certo alla convinzione di
mantenere lo status quo vicentino. Con un linguaggio avvertito si
potrebbe dire che sono l'altra città, quella che non ama il «modello
di sviluppo del nord-est». In un melange di generazioni, culture
politiche diverse.
I «No Tav» si sentono quasi a casa loro. E quando dal palco un loro
portavoce invita a «resistere per esistere» e che tra Vicenza e la
Val di Susa non ci sono molte differenze, allude a una tessitura di
una rete - sociale e politica - che pensa di poter far valere le
proprie ragioni attraverso la costruzione di un consenso che guardi
tuttavia criticamente alle realtà locali da cui prendono avvio le
mobilitazioni. In fondo, sono stati proprio i valsusini ad affermare
che il rifiuto della Tav non era teso a mantenere la realtà così come
è, ma per affermare il diritto a prendere il destino nelle proprie
mani. La posta in gioco è proprio questa. Che dalle polis greche in
poi è problema di democrazia, cioè di chi prende la parola perché non
ha mai avuto il potere di farlo.
Il corteo ha attraversato in lungo e largo la città. Ha attraversato
quartieri dove la «strategia della tensione» ha portato a chiudere
negozi e a sprangare le finestre. Ma quando poi il corteo ha toccato
lateralmente il centro cittadino, i negozi erano invece aperti.
Infine, i comizi finali con delegati da tutta Europa e dagli Stati
Uniti (molti i gruppi di statunitensi, da quelli contro la guerra in
Iraq a quelli dei veterani del Golfo a quelli che chiedono
l'impeachment di George W. Bush). Hanno preso la parola Dario Fo, che
ha definito pazzi gli esponenti del centrosinistra che si schierano
contro i loro elettori, mentre parole al vetriolo sono state
pronunciate contro il presidente della repubblica («è andato negli
Stati Uniti dove ha fatto la first lady di George Bush»). Don Gallo
ha infine preso la parola per definire «figli di puttana» chi ha
deciso il raddoppio della base. Espressione per cui valgono le parole
della scrittrice Arundhati Roy: «Avrà forse ragione, ma non mi
piacciono le persone che insultano le donne».
Poi il corteo si è nuovamente messo in marcia per raggiungere l'area
dove è previsto il raddoppio della base militare. A guastare la festa
ci ha provato Trenitalia che non voleva far partire i manifestanti
venuti da fuori perché non avevano pagato il biglietto. Momenti di
tensione, ma poi è intervenuto Gino Sperandio, altro deputato di
Rifondazione comunista presente al corteo, che ha pagato il prezzo
imposto da Trenitalia.
International Action Center
55 W. 17th St., 5th Floor, New York, NY 10011
212-633-6646 www.iacenter.org
A New Year’s Message from IAC founder Ramsey Clark
Dear friends,
The year 2007 has been another marked by endless war, lawlessness and cruelty by the Bush administration. Thousands more Iraqis have been killed or injured. The enormous humanitarian crisis effects millions of Iraqis, including children, who lack basic necessities--housing, healthcare, electricity, even food. More U.S. soldiers are dying or injured, then facing inadequate care and benefits. The administration continues to use deception and lies to whip up hostility to Iran, as they did prior to the Shock and Awe bombings of Iraq in 2003. Bush and his cronies continue to defy international law and human rights with the brutal, illegal detentions at Guantanamo, and widespread use of torture.
Contrary to the will of the people in the U.S. who oppose this horrific war, the administration has no plans to withdraw the troops and end this criminal occupation. Bush is demanding tens of billions of dollars more for war, on top of the $476 billion which has already been spent for destruction, while millions here need healthcare and housing, and those devastated by Hurricane Katrina have been abandoned by the government.
But there is reason to be hopeful. There is great opposition here to the government’s endless war and brutality, and outrage at its attacks on civil liberties and basic rights here at home, including the merciless witch-hunt against immigrants. It is crucial that this opposition grows and strongly challenges the Bush administration’s every move. We must all demand accountability for the current war and the impeachment of President Bush and his partners-in-crime; this is a powerful way to stop an attack on Iran and prevent other wars of aggression by future administrations.
The International Action (IAC) Center has been a major organizing force against U.S. wars and military interventions for 16 years, going back to its anti-sanctions campaign and protests of the first Gulf war. This principled organization of activists has stood up and bravely opposed U.S. aggression against Iraq, Cuba, Panama, Haiti, Venezuela, Palestine, Lebanon, Somalia, Iran and Korea.
The IAC has organized countless demonstrations, meetings, and forums in numerous cities against the U.S. intervention in Iraq. Its organizers have produced videos and books--translated into many languages--for anti-war protesters here and around the world. It has made an excellent contribution for activists and educators with “Poison Dust,” a video produced by the People’s Video Network, on the perilous effects of U.S. depleted uranium weapons.
IAC leaders and I just returned from an international conference in Kolkata (Calcutta), India, called by the All-India Anti-Imperialism Forum, which has asked the IAC to play a leading role in a worldwide organization to end colonialism and globalization which they established.
The IAC has taken on struggles against racism, injustice, and much more—from standing with Hurricane Katrina survivors in their quest for justice, to supporting immigrants’ rights, to opposing the death penalty and challenging military recruitment. Wherever the IAC is needed, it’s there, with its program of organizing and activism!
The IAC looks forward to a new year of struggle against war and injustice.
Our New Year’s Resolution for 2007 must be to organize together tirelessly to end this horrendous war and bring all U.S. troops home from Iraq NOW!
We must act together to stop a new war against Iran or any other nation. We must strive to promote international friendship, sharing and true respect for humankind and to oppose the policies of domination, globalization, and war.
We must all do more! We invite you to join in the new year of activism with the IAC and to support its vital work.
You can make a difference!
'Poison DUst' director explains video Community members and political activists attended the Milwaukee premier film screening of the Peoples Video Network (PVN) documentary “Poison DUst” on April 21 at the Center Street Library, an important gathering space for the Black community. The event was dedicated to long-time International Action Center organizer Rachael Nasca, who died unexpectedly on March 22. A slate of community activists spoke before Sue Harris, director of “Poison DUst,” screened the documentary and engaged in a question and answer session. IAC-Milwaukee member Bryan G. Pfeifer opened the program by describing the origins, history and mission of the IAC. He hailed recent youth actions in Wisconsin—including a recent protest against an Army recruiting station for which 21 youth were arrested, youth protesting restrictive racist policies at Mayfair Mall, and the occupation of the multi-millionaire Sen. Herb Kohl’s Madison office by dozens of members of the Campus Anti-War Network. He ended by calling on all those present to support the May 1 “Day without Latinos” statewide civil rights march and boycott sponsored by Milwaukee-based Voces de la Frontera. Leaflets for the May 1 action were distributed, as were “Stop the War on Iran” posters and announcements of upcoming events sponsored by the Industrial Workers of the World, the Latin American Solidarity Committee at UW-Milwaukee and Africans on the Move. People’s poet De’Shawn Ewing (Pyramid) electrified the crowd with two of his poems connecting the domestic war and the U.S. war on Iraq and other countries. Ewing’s words interspersed these themes with themes of the Black freedom struggle, including the murder of Emmett Till. Ammar Nsoroma, a member of Africans on the Move and the Pan African Revolutionary Socialist Party and a well-known people’s artist in Milwaukee with many murals throughout the city to his credit, said that the war on Iraq is an outgrowth of capitalism and imperialism and that to end all wars for profit these economic systems must be abolished and replaced with socialism. During the question and answer session Harris described how “Poison DUst” has been screened numerous times publicly throughout the United States and internationally, including in Cuba, Korea and Japan. One woman described her outrage at not hearing about depleted uranium anywhere in the corporate media until she received a leaflet for this event. She said she would now be getting the word out and asked for more information, as did many others. During and after the event many took copies of “Poison DUst” for personal viewing but also to screen for loved ones, veterans and at other community spaces. Longtime community activist and people’s poet Eric Jefferson closed with his poem “Blessed Summer.” The Peoples Video Network donated a copy of “Poison DUst” to the Center Street Library and a copy to the Central Library that could potentially be circulated throughout the 30 branches in the Milwaukee County Library System. To obtain a copy of “Poison DUst” call PVN at 212-633-6646 or see www.peoplesvideo.org.