Informazione


Il diritto internazionale condannato a morte...


La sentenza è drastica, gravissima e senza appello: il diritto internazionale è stato condannato a morte. 
Ma quando è stata emessa la sentenza? Pochi giorni fa, ai danni del presidente della repubblica irachena Saddam Hussein, da parte di un tribunale fantoccio strumento delle truppe di occupazione occidentali? O forse più di tre anni fa, con l'inizio della sanguinosa aggressione ed occupazione dell'Iraq da parte degli angloamericani, sostenuta peraltro dai loro servitori italiani? O magari più di sette anni fa, con la aggressione NATO contro la Jugoslavia? O prima ancora, con l'embargo ed il deliberato squartamento politico-diplomatico della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia? Oppure già con il micidiale embargo ai danni della popolazione irachena? O con l'impiego di uranio impoverito, in Iraq come in Jugoslavia? O con le bombe a grappolo? Oppure non in Iraq ne' in Jugoslavia, ma in qualcun altro dei tanti paesi aggrediti dall'imperialismo: forse in Afghanistan, o in Somalia, o in Palestina, o in Vietnam qualche decennio fa, o prima ancora?...
Potremmo continuare. Ma ci interessa rimarcare una cosa sola: il processo-farsa e la vergognosa condanna a morte di Saddan Hussein non sono che l'ennesimo atto con cui l'imperialismo, statunitense in primis, attenta a quei brandelli di legalità internazionale edificati dopo la II Guerra Mondiale. Ricordiamoci di Slobodan Milosevic, che è stato assassinato da un analogo "tribunale internazionale" senza nemmeno essere formalmente condannato a morte. È stato assassinato negandogli le cure mediche richieste, oppure attraverso la somministrazione di qualche deleterio medicinale che accelerasse il deterioramento del suo stato di salute, oppure in tutti e due i modi, da un "tribunale" altrettanto politico ed altrettanto illegittimo quanto quello iracheno. "Tribunale" che continua a svolgere la sua discutibile attività nella indifferenza generale. "Tribunale" che nega agli imputati il diritto alla difesa: recentissimo il caso di Seselj, al quale sono stati imposti "avvocati d'ufficio" contro la sua volontà, come era già stato fatto con Milosevic. "Tribunale" che continua il suo sporco lavoro nella indifferenza generale.
Dovrebbe saperlo bene Antonio Cassese quando scrive che << a Bagdad si e’ celebrata una farsa. I giudici sono stati nominati dal governo e da esso sostituiti quando non si allineavano sulle posizioni ufficiali delle autorita’ o si dimostravano scarsamente efficaci. Il tribunale sin dall’inizio e’ stato finanziato dagli USA, che hanno anche elaborato il suo Statuto. Imputazioni precise contro gli otto imputati sono state formulate solo a meta’ processo. La Corte non ha consentito alla difesa di convocare un certo numero di testimoni a discarico che dovevano ancora essere ascoltati» (di seguito riportiamo integralmente il suo articolo). Dovrebbe saperlo bene, perché Antonio Cassese e’ stato presidente del "Tribunale ad hoc" dell’Aja. 

(A cura di I. Slavo. 
Sull'assassinio di Milosevic vedi la raccolta di documenti - in costruzione - alla pagina https://www.cnj.it/MILOS/index.htm
Sul carattere illegittimo e criminale del "tribunale ad hoc" dell'Aia vedi ad esempio: 
PROCESSO MILOSEVIC: UN "PROCESSO ALLE INTENZIONI" - http://it.groups.yahoo.com/group/icdsm-italia/message/231)


1) Il processo senza giustizia con un verdetto farsa (di ANTONIO CASSESE)
2) Justice is impossible under occupation. Workers World statement on the verdict against Saddam Hussein 
3) Proceedings and Verdict in the show trial of Mr. Hussain are illegal (Dirk Adriaensens and Abdul Ilah Al Bayaty - members of the BRussells Tribunal Advisory Committee)
4) Saluti da Saddam... Una iniziativa aTorino
5) International Action Center Statement - November 06-06


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La condanna di Saddam un grave errore
Con l'Iraq pronto ad infiammarsi


Il processo senza giustizia con un verdetto farsa


di ANTONIO CASSESE


Anche a Norimberga i vincitori hanno processato i vinti. Ma almeno il processo è stato equo. A Bagdad si è invece celebrata, per i fatti di Dujail, una farsa. I giudici sono stati nominati dall'esecutivo (il Consiglio di governo) e da esso sostituiti quando non si allineavano sulle posizioni ufficiali delle autorità o si dimostravano scarsamente efficaci. Il tribunale sin dall'inizio è stato finanziato dagli Usa, che hanno anche elaborato il suo Statuto, poi formalmente approvato dall'Assemblea nazionale irachena, nell'agosto 2005. Imputazioni precise contro gli otto imputati sono state formulate solo a metà processo. La Corte non ha consentito alla difesa di convocare un certo numero di testimoni a discarico che dovevano ancora essere ascoltati. 

Inoltre, molti documenti prodotti dall'accusa contro gli imputati (tra cui l'ordine di Saddam Hussein di eseguire la condanna a morte inflitta ai civili che avrebbero attentato alla vita del dittatore e l'ordine di conferire onorificenze alle forze di sicurezza che avevano arrestato e interrogato i presunti colpevoli), sono stati contestati dalla difesa, che ha affermato trattarsi di falsi. Per verificarne l'autenticità, il tribunale non ha convocato esperti internazionali (come sarebbe stato doveroso), ma esperti iracheni che, secondo la difesa, erano legati a filo doppio all'attuale ministero dell'interno iracheno. Insomma, un processo privo di qualsiasi seria garanzia dei diritti della difesa. 

Certo, non è facile processare un ex dittatore che cerca di usare le udienze pubbliche per comizi e polemiche politiche. I giudici però non avrebbero dovuto rispondere alle arringhe pretestuose dell'ex-dittatore urlando più di lui o espellendolo dalla sala delle udienze, ma con equilibrio e serenità, limitando ad esempio il suo tempo di parola, inducendolo a discutere i problemi specifici del processo, e soprattutto affrontando seriamente i problemi giudiziari che gli avvocati di Saddam sollevavano. In una parola, mostrandosi pazienti, equilibrati ed imparziali. 

La condanna a morte dei tre maggiori imputati è sbagliata sotto un triplice profilo. Anzitutto, si tratta di una punizione che non è affatto credibile perché conclude un processo-farsa. In secondo luogo, la pena capitale è stata oramai condannata dalla vasta maggioranza della comunità internazionale. Anche se paesi come gli USA e la Cina continuano a praticarla, si può dire che la pena di morte è diventata, sul piano internazionale, se non illegale, almeno illegittima. Prova ne sia che tutti i tribunali internazionali finora istituiti dalle Nazioni Unite (alcuni, come quello dell'Aja per l'ex Jugoslavia e quello per il Ruanda, con il fortissimo sostegno degli americani) bandiscono la pena di morte. 

Lo stesso vale per la Corte penale internazionale, il primo tribunale internazionale a vocazione universale, che oramai agisce come suprema istanza penale internazionale per ben 104 Stati. In terzo luogo, la pena di morte inflitta ai tre imputati costituisce un grave errore politico, perché naturalmente aggraverà la situazione in Iraq. Il paese è da tempo in preda ad una sanguinosa guerra civile, anche se i vertici statunitensi, per ragioni politiche, si ostinano a negare che sia in atto una vera e propria insurrezione armata. Saddam Hussein diventerà un martire, oltre ad essere già considerato un eroe dell'antiamericanismo. L'odio per il gruppo dirigente iracheno e per gli americani aumenterà a dismisura e i massacri si moltiplicheranno. 

L'appello che subito interporranno i condannati non potrà che rinviare l'esecuzione capitale, anche in attesa che vengano celebrati contro l'ex dittatore altri processi, per fatti, tra cui il genocidio dei Curdi negli anni '80, che appaiono obiettivamente molto più gravi del massacro di Dujail. In breve, in Iraq anche sul versante della giustizia è stata imboccata una strada radicalmente sbagliata, e appare assai probabile che si arriverà alla peggiore soluzione possibile. 

(6 novembre 2006)


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Justice is impossible under occupation


Published Nov 6, 2006 11:05 AM

Workers World statement on the verdict against Saddam Hussein


The U.S.-machinated “trial” and the Nov. 5 guilty verdict and death sentence against Iraqi President Saddam Hussein and two of his colleagues are nothing more nor less than a continued attack on the people of Iraq and all the peoples of the region threatened by U.S. imperialism. No good for the people can come from a U.S.-dictated punishment of the Iraqi president. The “trial” is a frontal attack by the conquering power on Iraqi sovereignty at a time when the 2003 U.S. conquest of Iraq is collapsing under the determined assault of Iraqi resistance fighters.

The whole conduct of the Baghdad kangaroo court was intended to justify the completely illegal and aggressive U.S.-British assault on Iraq in 2003 and their subsequent seizure of the Iraqi people’s resources, especially Iraq's oil and natural gas reserves. No one should be deceived that it has anything to do with the charges in the indictment against the Ba’athist leaders. With Washington responsible for the deaths of over 2 million Iraqis during 16 years of wars and sanctions, it should be apparent to all that the verdict has nothing to do with U.S. concern for the Iraqi people.

Even if the trial had been conducted in an impeccably fair manner in all its details, the court and the charges could not stand up as legitimate. But its conduct was far from fair. There is no legal basis for such a trial under the Geneva Conventions. The acts the prisoners were charged with did not take place as acts of war.

Three defense lawyers were among nine people associated with the trial who were assassinated. Another defense lawyer was wounded. A judge was replaced when others decided he was too soft on Saddam Hussein and gave him too much opportunity to speak in court.

Even Malcolm Smart, director of Amnesty International’s Middle East and North Africa Program and no friend of Hussein, said of the verdict, “We don't consider it was a fair process. The court was not impartial. There were not adequate steps taken to protect the security of defense lawyers and witnesses...."

Given the obvious bias of the court, the verdict was no surprise. Nor was its timing, as the administration of President George W. Bush is presenting this news as a victory for the occupation forces and for his Iraq policy.

The timing of the verdict shows the utter subservience of the court to the most minute demands of imperialism. The timing alone should disqualify the verdict, inasmuch as it is prima facie evidence that the proceeding was closely coordinated with Bush, showing the dominant political role of Washington. It demonstrates the impossibility of there being any judicial validity behind the sentence. If Bush dictated the timing, it must be presumed that he also had a hand in the verdict.

Bush has already welcomed the verdict as a “milestone in the Iraqi people’s efforts.” He says this when the disastrous Iraq war and occupation has become a millstone around the neck of the Republican Party in its attempt to maintain control of the Congress in the midterm elections.

It should also be clear that this verdict has nothing to do with evaluating Saddam Hussein’s historic role. An extensive Workers World Party statement at the time of Hussein’s capture in December 2003 evaluated his often contradictory historic role and especially the negative impact of his government’s decision to “wage a reactionary bourgeois war of conquest against Iran.” (workers.org/ww/2004/hussein1225.php) The U.S. took advantage of that war in the 1980s to the detriment of both Iran and Iraq. At this time, too, none of the forces struggling against imperialism for sovereignty and self-determination in the Gulf region can gain from the U.S.-imposed verdict against Saddam Hussein.

While the verdict’s impact on the Iraq occupation and on the U.S. elections is still a question, there is no doubt that anyone who opposes the U.S. war on the people of the Middle East should also stand up and protest Washington’s criminal attempt to impose an illegal verdict against an individual who represented the sovereign state that U.S. imperialism is attempting to conquer.

The verdict will bring no justice to Iraq. As Workers World said in its Dec. 25, 2003, statement, “Justice for the Iraqi people will begin on the day that the war criminals in Washington are put on trial.”

Workers World, Nov. 5, 2006



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SOURCE :  

Justice ?

1. The Court was illegal.
2. The trial had no legal basis. (see below)
3. The attorneys were assassinated.
4. The judge was removed by Bush's puppets.
Justice ? What did they want to hide ?

MICHEL COLLON


MALCOLM SMART, DIRECTOR OF AMNESTY INTERATIONAL'S MIDDLE EAST AND NORTH AFRICA PROGRAMME :
"Obviously we deplore the verdict of the death penalty against Saddam and one of his co-accused. We don't consider it was a fair process. The court was not impartial. There were not adequate steps taken to protect the security of defence lawyers and witnesses..."

Proceedings and Verdict 
in the show trial of Mr. Hussain are illegal

Dirk Adriaensens (member of the BRussells Tribunal Executive Committee). 

Abdul Ilah Al Bayaty (member of the BRussells Tribunal Advisory Committee). 

(05 November 2006) 



The BRussells Tribunal has already alerted World public opinion on June 29 that the proceedings against Mr. Hussain should be halted. We raised fundamental legal questions about the detention and trial of Mr. Hussain in light of existing rules of the laws and customs of war (humanitarian law), and the laws established under the international system of human rights. These bodies of law are binding on all judicial actions. 

We confirm that neither the Special Tribunal nor its verdict issued today are legal or could serve the cause of peace and justice. We ask all people who believe in peace and justice to condemn the US illegal occupation and illegal actions, including Mr Hussain's trial.

We notice that most Human Right Organisations have also condemned the proceedings of the trial and today's verdict. Amnesty International's Malcolm Smart declared: "Obviously we deplore the verdict of the death penalty against Saddam and one of his co-accused. We don't consider it was a fair process. The court was not impartial. There were not adequate steps taken to protect the security of defence lawyers and witnesses... "
We also notice the double standards of the brutal occupation forces and its puppet government. With rivers of blood flowing on the streets of Baghdad, the whole Saddam trial looks meaningless! It does not mark the prevailing of justice nor the rule of law! 
There are Iraqi political figures in power, who are linked to the sectarian killing and the death squads, when will they be held accountable? 

We hope that the US and it's puppet government come to their senses and stop all proceedings against Mr. Hussain, cancel the verdict, stop the illegal occupation of Iraq, get the foreign troops out, and leave Iraq to the Iraqis. 

Dirk Adriaensens (member of the BRussells Tribunal Executive Committee). 
Abdul Ilah Al Bayaty (member of the BRussells Tribunal Advisory Committee).


Declaration on the legal necessity to halt the proceedings against POW President Saddam Hussain. 

1. On June 21, 2006, attorney Khamis al-Obaidi was killed in Baghdad. He is the third defense counsel for Mr. Saddam Hussain to be killed, joining Mr. Sadoun al-Janabi, killed in October 2005 and Adel al-Zubaidi, killed in November 2005. Attorney Thamir al-Khuzaie was wounded in the November incident. 

2. Attorney al-Obaidi was the ninth person connected with the trial of Mr. Hussain to be killed, prompting another attorney in the case, Najeeb al-Naimi (former Qatari minister of justice), to state: "there is no security. All of us have received threats." 

3. The murder of yet another defense counsel has prompted many concerned with the overall situation in Iraq to question whether all proceedings should be halted due to the undue risk of the participants' lives and safety. While agreeing that proceeding should be halted on safety grounds, we also have more fundamental legal questions about the detention and trial of Mr. Hussain in light of existing rules of the laws and customs of war (humanitarian law), and the laws established under the international system of human rights. These bodies of law are binding on all judicial actions. 

4. In order to sort out all the possible irregularities if not violations of fair trial rules from both humanitarian and human rights law, we must first state that Mr. Hussain is a prisoner of war. This is because he was the commander-in-chief of the armed forces of Iraq in the war by the United States against Iraq. As a POW, he is entitled to all provisions of Geneva Convention III of 1949, Protocol Additional I to the Geneva Conventions, and all binding customary humanitarian law relating to confinement of POWs. Of particular note in this regard is Article 22 of Geneva Convention III, which provides that POWs may not be held in penitentiaries unless in the interest of the POWs themselves. It appears that Article 22 is being violated in the confinement of Mr. Hussain, and we also question whether there is full application of the rights set out in Articles 25 - 27 regarding other conditions. In this light we urge that the authorities allow full access of the International Committee of the Red Cross or other competent organization to assess the conditions of confinement. It appears that the US has clear physical control over Mr. Hussain. 

5. Of key importance in this situation is to determine who may try Mr. Hussain and for what acts. While the invasion of Iraq by the United States forces was illegal, the Geneva Conventions nonetheless apply, and under provisions of the Geneva Convention, the United States, as the Occupying Power, may charge and try Mr. Hussain for acts in contravention of humanitarian law. Whether on Occupying Power could try a POW for human rights violations occurring outside the context of the armed conflict raises serious questions. (That question was only partially raised in the Astiz case: Mr. Astiz was captured in the Malvinas War, but was alleged to have participated in human rights violations in Argentina. Several States wanted to try him for those violations, but he was instead returned to Argentina by the Protecting Power). The United States, for political reasons, did not want to try Mr. Hussain itself because Mr. Hussain had not committed any actionable offences against the United States, either during the US-Iraqi war or at any other time. Further, the United States would not have been able to validly sentence Mr. Hussain unless as a result of a proceeding in the same courts as it uses for its own armed forces (Article 102), provided that a number of other conditions are met. The United States could turn Mr. Hussain to a neutral State (or in Geneva Convention language Protecting Power), but also for political reasons did not choose to do so. In fact, the United States has not authorized any State[s] as Protecting Power[s]. However, as the Astiz case suggests, a Protecting Power itself can neither try a person under its protection in its own courts for criminal acts committed in another State, nor turn a Protected Person over to a third party State. The United States could also try Mr. Hussain in its own civil courts "if its laws permit civil courts jurisdiction over its own armed forces (Article 84). Instead, the United Stated turned Mr. Hussain over to a specially constituted "court" of occupied Iraq, supposedly under the command of a judicial system controlled by the "Iraqi" government. The "Iraqi" government, however, is not an independent State, but one controlled by the Occupying Power. In the situation in Iraq, there is essentially no functioning, independent judiciary, and there had not been any provision in the old judicial system for trying POWs in civilian courts. The Occupying Power destroyed any possibility of Iraqi military tribunals as the venue for trying Mr. Hussain. The Iraqi court is inherently biased and fails to meet minimun standards of impartiality. The situation, then, is one of total judicial abnormality with a lack of legal authority. Accordingly, the trial of Mr. Hussain should be halted until such time as there is a court with proper legal authority and with jurisdiction over the alleged acts at issue. 

6. While the court itself is a legal aberration and must be halted on that ground alone, it is still important to point out that in the process as a whole, there have been numerous violations of other minimum requirements for either military or civil courts, as set out in Article 9 and 14 of the International Covenant on Civil and Political Rights. So even if there may be some grounds for "legalizing" an illegal tribunal, the proceedings in themselves would require nullification of either imposition of or carrying out any sentence. 

7. It is important to note that the crimes that Mr. Hussain is currently charged with did not take place in the context of the current war: in fact they did not take place in the context of any war and thus are not actionable as breaches of the Geneva Conventions or other instruments or principles of humanitarian law. The alleged crimes are criminal law violations, not war crimes. Conditions in Iraq preclude meaningful, impartial investigation into the events, and even if a proper-constituted court were to be established, fair trial rules relating to evidence may be impossible to meet. 

8. The trial of Mr. Hussain is taking place in a context of the daily commission of grave breaches of the Geneva Conventions by the Occupying Power. Under such conditions alone, the trial should be halted as impossible under the circumstances. 

9. The 1945 Nuremberg Charter states clearly: "To initiate a war of aggression ..is not only an international crime, it is the supreme international crime, differing only from other war crimes in that it contains within itself the accumulated evil of the whole." The UN Charter and its Definition of Aggression (GA Res. 3314) reinforce this rule. Since the invasion under the Nuremberg and UN Charters was utterly illegal, all that followed from it is illegal, from Mr. Bremer's laws to the new constitution to the trial of Mr. Hussain. 

10. For the reasons set out above, the current judicial proceedings against Mr. Hussain should be halted. The provisions of Geneva Convention III relating to Protecting Powers and POWs should be implemented regarding Mr. Hussain and all similarly situated persons of the government in place at the time of the invasion of Iraq who are detained in Iraq. All persons involved with the proceedings must be fully protected. 
To all those who respect international legality: Please raise your voice against the constant breaking of international rules governing Mr. Saddam Hussain's trial. 

The BRussells Tribunal, in defence of international law, and in solidarity with the defense counsel and staff and with the families of those killed.
29 June 2006.

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posted by Sherif El Sebaie at 12:40 PM  

martedì, ottobre 31, 2006

Saluti da Saddam


Anche se con un po' di ritardo, ci tenevo a far giungere ai lettori di questo blog il messaggio inviato dall'ex-Presidente Saddam Hussein. No, non sto scherzando.

Alcuni giorni fa, in effetti, ho avuto l'onore di essere uno dei relatori invitati a parlare de "Il Processo a Saddam Hussein", argomento a cui è stato dedicato uno degli appuntamenti più in vista dell'edizione 2006 di Festival Storia. Il Festival, ideato e diretto dal professor Angelo d’Orsi, docente di Storia del Pensiero Politico Contemporaneo presso l'Università degli Studi di Torino, nasce con l’obiettivo di realizzare una rassegna internazionale di public history: quattro giorni di iniziative diversificate, rivolte a un ampio pubblico, nelle quali trasmissione della conoscenza e capacità di intrattenimento siano sempre contraddistinte da un rigoroso scrupolo scientifico. In effetti la manifestazione si avvale di un Comitato Scientifico internazionale di tutto rispetto, attualmente composto dagli storici Aldo Agosti (Università di Torino), Luciano Canfora (Università di Bari), Paola Carucci (Università “La Sapienza” di Roma), Victoria de Grazia (Columbia University, New York), Giuseppe Galasso (Università “Federico II” di Napoli), Gilles Pécout (École Normale Supérieure di Parigi), José Enrique Ruiz-Doménec (Universidad Autónoma de Barcelona), Giuseppe Sergi (Università di Torino), Françoise Waquet (Centre National de la Recherche Scientifique, Parigi).

Il tema della II Edizione era "Il processo nei secoli", al quale si è voluto premettere, a mo’ di titolo, “Imputato, alzatevi!”, una frase canonica tante volte letta o udita nei gialli degli scorsi decenni. Il Festival ha quindi proposto una ricca selezione di processi, dall'antichità ai nostri giorni: processi che hanno avuto un peso dal punto di vista dei cambiamenti di costume, processi emblematici – a carattere politico, religioso, di opinion – che hanno svolto un ruolo importante, su diversi piani (istituzionale, giudiziario, sociale…) nelle diverse epoche in cui si sono celebrati, segnando cesure, ponendo problemi alla coscienza dei contemporanei. Il primo era quello a Gesù Cristo, di cui si è parlato con Giovanni Filoramo, Padre Samir Khalil Samir, Ermis Segatti, Giorgio Bouchard, Rav Alberto Moshe Somekh, Ida Zatelli, Habib Tengour, Gustavo Zagrebelsky e Carlo Augusto Viano. Poi, fra gli altri, si è parlato anche del processo a Luigi XIV, di quello mancato a Napoleone Bonaparte, Norimberga, Eichmann, i processi dell'inquisizione, alla mafia, quelli finanziari ecc ecc. Tra i numerosissimi ospiti invitati a parlarne anche Marco Travaglio, Peter Gomez e Mario Almerighi. Insomma, c'era veramente l'imbarazzo della scelta. Uno degli appuntamenti conclusivi, infine, era quello dedicato appunto a Saddam Hussein. Se n'è parlato con Claudio Moffa, docente di Diritto e Storia dell'Africa e dell'Asia e direttore del Master Enrico Mattei in Medio Oriente (Università di Teramo), Augusto Sinagra, docente di Diritto delle Comunità europee e internazionale (Università di Roma "La Sapienza"), il sottoscritto e Ziad Najdawi, membro del consiglio difensivo di Saddam Hussein, che ha portato un messaggio da parte del presidente deposto. In particolare, Saddam Hussein, "ogni volta che sente di un soldato italiano ferito o caduto vittima di un attacco in Iraq, si sente profondamente addolorato" e "ringrazia il popolo italiano per aver esercitato pressione sul proprio governo per indurlo a ritirare le sue forze dal territorio dell'Iraq, che ha sempre intrattenuto con l'Italia proficui e costruttivi rapporti di amicizia".

Quello che è emerso, unanimamente, dal dibattito moderato da Mimmo Càndito, inviato de “La Stampa”, docente di Giornalismo presso l'Università di Genova nonché presidente italiano di “Reporter senza frontiere” di fronte ad un teatro incredibilmente gremito fino a Mezzanotte passata, è che il processo a Saddam è sostanzialmente una montatura statunitense destinata a distogliere l'attenzione dall'illegalità della guerra, dalle menzogne raccontate per giustificarla e dall'attuale disastro militare da cui l'amministrazione statunitense non sa come uscire. La Risoluzione 1511 del Consiglio di Sicurezza nelle Nazioni unite del 16 Ottobre 2003, che ha legalizzato la presenza delle forza d’occupazione in Iraq non ha cancellato a posteriori - e non avrebbe comunque potuto farlo - la lesione del diritto internazionale di cui si sono resi responsabili gli Stati Uniti e i loro alleati. Il tribunale istituito per processare Saddam è quindi illegale per tutta una serie di motivi: 1) è stato istituito dalle forze occupanti 2) non offre le minime garanzie di imparzialità verso l’accusato e di autonomia nei confronti dell'occupante 3) sono assenti le norme di diritto positivo iracheno sulla base delle quali giudicare i crimini del presidente deposto 4) il Tribunale applica pene non previste dall'ordinamento penale nel momento in cui i comportamenti (successivamente considerati illeciti) sono stati tenuti 5) la concessione ai giudici di una discrezionalità così ampia da attribuire loro un vero e proprio potere normativo... e tutta una serie di altri accorgimenti legali che dimostrano che quello è un tribunale che processa un imputato la cui condanna è stata già scritta, a prescindere, sulla base di una volontà politica che non è nemmeno quella degli iracheni. Questa è l'opinione che deve trarre chiunque si trovi ad affrontare l'argomento in buona fede, ovviamente. Non è quindi casuale che Angelo D'Orsi, direttore del Festival, abbia voluto sottolineare su L'Espresso che "D'altra parte, al Festival della Storia è invitato chi è ritenuto un interlocutore competente". Forse proprio per questo motivo non ho visto Magdi Allam in giro. Ma che i suoi fan non si preoccupino: ho provveduto a segnalare al pubblico, con dovizia di particolari, l'interessantissimo..ehm.. "


http://www.agitproponline.com/notizie/notizie.asp?id=444

Neofascisti, una storia taciuta

Nel Dopoguerra Capi della decima Mas reclutati per addestrare reparti
israeliani

La nascita del Msi fu favorita dai servizi segreti americani

Esce oggi dal Mulino un documentato libro sul neofascismo in Italia a
cura dello storico Giuseppe Parlato. Un volume ricco sul piano della
ricerca (materiali anche inediti, tratti dagli archivi americani e
dagli archivi privati dei protagonisti, oltre che carte riservate del
ministero degli Interni), ma che non mancherà di suscitare
discussione sia per alcune interpretazioni, sia per l´intonazione
complessiva, che pare ispirata da un sostanziale superamento della
bussola antifascista. Fascisti senza Mussolini - questo il titolo,
con il sottotitolo: Le origini del neofascismo in Italia 1943-1948 -
esce a ridosso del sessantesimo anniversario del Movimento Sociale
Italiano, fondato a Roma il 26 dicembre del 1946. Parlato ne rovescia
la tradizionale lettura d´un partito meramente nostalgico,
lumeggiando i rapporti con gli Usa in funzione anticomunista. Un
´estesa trama di contatti - quelli tra neofascisti e amministrazione
americana - che risale a prima della fine della guerra, grazie al
lavoro di tessitura di alcuni fascisti clandestini al Sud, oltre che
di Borghese e Romualdi, con ambienti dei servizi segreti
statunitensi. Non mancano pagine sorprendenti, specie sul
reclutamento nell´immediato dopoguerra degli uomini della Decima Mas
(tra le più zelanti nel difendere il Führer dell´Olocausto) come
addestratori dei reparti d´assalto israeliani. L´autore di Fascisti
senza Mussolini è un allievo di Renzo De Felice, insegna Storia
contemporanea alla Libera Università San Pio V di Roma, presso la
quale ricopre la carica di Rettore. È anche vicepresidente della
Fondazione Ugo Spirito.
Professor Parlato, lei riconduce le origini del Movimento Sociale al
fascismo clandestino operante tra il 1943 e il 1945 nel Sud dell
´Italia liberata.
«Sì, da lì discendono una serie di legami che consentono di leggere
la nascita del Msi in modo totalmente diverso: non un movimento di
reduci, ma una forza atlantica e nazionale nel quadro della Guerra
fredda. Tra i personaggi-chiave della tessitura segreta negli anni
della guerra spicca il principe Valerio Pignatelli della Cerchiara,
un irrequieto e romantico personaggio mandato nel Sud per organizzare
i gruppi fascisti. Le carte che ho consultato nei Nara, i National
Archives and Records Administration, mostrano i contatti del nobile
calabrese, che di fatto era il capo del fascismo clandestino, e
soprattutto della sua influente moglie con ambienti dell´Oss, che
facevano capo ad Angleton».
Quali episodi le paiono rivelatori?
«Nell´aprile del 1944 la principessa Pignatelli - che aveva
collaborato con il marito nella creazione di una vasta rete
clandestina tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia - attraversò l
´Italia scortata da agenti dell´Oss. Ora appare sconcertante che in
piena guerra la moglie di uno dei capi riconosciuti del fascismo
clandestino meridionale potesse tranquillamente varcare le linee,
attesa dai tedeschi e poi da Mussolini, e più tardi tornarsene a
Napoli con l´appoggio logistico e morale dell´Oss».
C´è anche il particolare del figlio.
«A Roma nello stesso periodo operava Emanuele De Seta, figlio della
principessa e collaboratore di Peter Tompkins, agente segreto
americano in Italia. In seguito Valerio Pignatelli si sarebbe
guardato bene dal parlare del coinvolgimento dei servizi. E in campo
neofascista questa ipotesi della collaborazione con il nemico storico
è sempre stata rigettata con veemenza».
Anche Valerio Junio Borghese, capo della Decima Mas, andava tessendo
rapporti con i servizi statunitensi.
«Sì, in quel caso il tramite fu l´ammiraglio Agostino Calosi,
responsabile dell´Ufficio Informazioni della Regia Marina del Sud. L
´attenzione degli americani per la Decima Mas fu notevole. Basti
pensare che il 26 aprile del 1945 Borghese riuscì a rifugiarsi a casa
di amici, per poi essere messo in salvo dallo stesso Angleton, che
andò a prenderselo a Milano. I documenti americani non dicono quando
esattamente cominciarono i primi contatti sotterranei, probabilmente
alla fine del 1944. È evidente che anticiparono d´un paio d´anni la
guerra fredda».
Meno conosciuto, in questa trama segreta, è il ruolo di Pino Romualdi.
«Sin dall´autunno del 1944 Romualdi, che era vicesegretario del
Partito Fascista Repubblicano, entrò in contatto con l´Oss attraverso
il suo segretario, l´ingegner Nadotti. Fu grazie a queste relazioni
che il 27 aprile del 1945 riuscì a scampare alla fucilazione. Ma non
furono contatti finalizzati alla salvezza personale. Sia Romualdi,
sia Borghese e i fascisti clandestini di Pignatelli si ponevano il
problema del "dopo", creando le basi del futuro Movimento Sociale».
Ma gli americani se ne fidavano?
«Quando nel 1946 Nino Buttazzoni, altro capo riconosciuto della
Decima Mas, tenta di sottolineare presso gli Alleati la potenzialità
anticomunista dei neofascisti, l´agente informatore che redige il
rapporto si mostra disponibile al progetto. Però attenzione alle
semplificazioni. I servizi americani non erano omogenei. In molte
note informative la destra neofascista è vista con timore e
perplessità. Se ci furono aperture e spiragli, fu per la paura del
pericolo comunista: questo era molto avvertito negli ambienti vicini
ad Angleton».
Lei scrive che il reclutamento dei neofascisti iniziò prestissimo, all
´indomani della Liberazione: sia da parte della Dc che del Pci.
«Il proselitismo cominciò nei campi di concentramento, circa
centodieci, dove furono rinchiusi i fascisti. A Terni, al principio
del 1946, durante la visita del vescovo agli internati, si fece
capire ai fascisti che, se avessero voluto uscire presto, l
´iscrizione alla Dc non sarebbe stata inopportuna».
Anche la Chiesa, lei documenta, ebbe un ruolo nell´ordito di rapporti
che darà poi origine al Msi.
«Molti fascisti latitanti, tra cui reduci di Salò, trovarono riparo
presso il Seminario maggiore al Laterano, lo stesso che durante l
´occupazione tedesca aveva ospitato De Gasperi, Nenni e Saragat.
Figure come quelle di Giorgio Pini e Giorgio Almirante ebbero lavoro
presso istituzioni ecclesiastiche. Roma si presentava come "una
mammona sensibile e accogliente", così la raccontano i testimoni».
Lei insiste anche sulla campagna di reclutamento ad opera del Pci.
«Ha raccontato Sandro Curzi che nel campo di reclusione di Coltano ci
andava anche lui, insieme ad altri suoi compagni: la direttiva del
partito era conquistare gli internati alla causa comunista. Già
durante la guerra, alla fine del 1941, dai microfoni di radio Milano
Libertà Togliatti s´era rivolto a chi aveva creduto nel fascismo.
Dopo la fine della guerra fu Pajetta ad aprire per primo la strada al
recupero, con una serie di interventi sull´Unità».
Quest´apertura è nota, come l´appello di Togliatti ai fratelli in
camicia nera. Lei però va oltre, sostenendo che l´idea di Togliatti
era quella di travasare nel Pci l´intera classe dirigente fascista.
«Naturalmente è una mia interpretazione, e come tale può essere
discussa. D´altra parte analogo processo era avvenuto sul piano
sindacale: la Cgil ereditò dirigenti e struttura organizzativa del
sindacato fascista. Ma il progetto di Togliatti era ancora più
ambizioso: annettere al partito la spina dorsale dell´amministrazione
che aveva operato sotto il fascismo. L´amnistia e l´affossamento dell
´epurazione vanno visti in questa chiave».
Sempre secondo la sua ricostruzione, la Dc comprese l´operazione.
«Intanto Togliatti non si aspettava che i rapporti tra fascisti e
servizi segreti americani fossero così intensi. E poi i democristiani
smontarono il piano di Togliatti, opponendovi subito una contromossa:
intanto la reimmissione nello Stato dei funzionari e degli impiegati
già epurati, successivamente la "non opposizione" alla costituzione
di un unico movimento neofascista, legale, strutturato, e in grado di
partecipare alle elezioni. In questo modo De Gasperi riuscì a
sventare la campagna comunista di conquista dei fascisti».
Fu grazie al referendum del 1946 che Romualdi acquistò un ruolo
politico.
«Si trattò in realtà di una beffa, che però gli riuscì. Promise sia
ai monarchici che ai repubblicani la neutralità dei neofascisti in
cambio della promessa dell´amnistia. Va detto che intanto lavorava
sotterraneamente per far arrivare al governo la minaccia d´una
possibile azione eversiva. Infatti i verbali del consiglio dei
ministri, prima e dopo il referendum, ci mostrano tutta la
preoccupazione per un possibile golpe da parte della Corona con l
´aiuto della manovalanza fascista».
Un dettaglio non secondario è che Romualdi era latitante, condannato
a morte in contumacia da una straordinaria Corte d´Assise.
«Ma non mancarono incontri segreti con esponenti dei vari partiti,
dal Psi alla Dc, che schierò alcuni dirigenti molto vicini a De
Gasperi. Colloqui che si intensificheranno in vista dell´amnistia.
Con il falso nome di Dottor Rossi, Romualdi andò a parlare con Ivanoe
Bonomi nell´appartamento privato dei nipoti, in piazza della Libertà,
a Roma. Probabilmente l´ex capo del governo non realizzò con chi
stesse parlando, ma accettò di porre fine alla legislazione
straordinaria contro i fascisti e di favorire l´amnistia».
Una pagina sorprendente è quella sui rapporti tra Decima Mas e Israele.
«Fu Ada Sereni, nel giugno del 1946, a rivolgersi all´ammiraglio
Calosi perché le indicasse elementi fidati che da un lato potessero
condurre le imbarcazioni dirette in Israele, dall´altro fossero in
grado di addestrare alla guerriglia le formazioni militari degli
ebrei palestinesi presenti in Italia: questo in vista dell
´inevitabile scontro con gli inglesi, decisi ad opporsi allo sbarco
degli ebrei in Palestina. Calosi le indicò uomini della Decima Mas,
che furono reclutati a tale scopo. Due anni più tardi sarà Fiorenzo
Capriotti ad accettare l´incarico di trasferirsi in Israele per
addestrare unità specializzate della neonata marina. Diventerà in
brevissimo tempo uno dei più apprezzati consiglieri militari».
Secondo la sua ricostruzione l´attentato all´ambasciata britannica,
nell´ottobre del 1946, fu il risultato della collaborazione tra
fascisti e destra sionista.
«Sì, Romualdi confessò che c´era anche il loro zampino».
Professore, posso muoverle un´obiezione? Lei dà una ricostruzione
molto dettagliata del neofascismo, ma un ragazzo che non sappia cos´è
stato il fascismo non coglie minimamente la drammaticità della
dittatura e della Repubblica di Salò. Molti dei personaggi dei quali
lei tratta furono responsabili di violenze o comunque conniventi con
un regime oppressivo e persecutore. L´ideologia nera lascerà poi una
traccia nella storia d´Italia, fino alla stagione delle stragi.
«Penso che il compito d´uno storico sia ricostruire le vicende nella
loro fattualità, soprattutto se di quel periodo è stato scritto
finora molto poco. Non credo che debbano intervenire giudizi di
carattere etico. Se entro in un´ottica morale, se faccio l´errore di
avvertire il lettore "guarda, sono dei criminali", finisco per
condizionarlo, anche perché "criminali" si trovano anche nelle file
avversarie. E così che l´ideologia annulla la ricerca storica».
Da un libro sull´eredità del fascismo ci si aspetta la sottolineatura
delle vaste zone d´ombra. Nella sua narrazione si sorvola sulle
vittime dei fascisti, mentre ci si sofferma a lungo sulle vittime
delle violenze partigiane. Anche il fatto che molte figure
compromesse con la dittatura e con Salò rimangano in posti chiave
dello Stato non sembra turbarla più di tanto. Altri storici, a
cominciare dalle ricerche fondamentali di Claudio Pavone, individuano
in questa continuità un grave vulnus per la crescita democratica del
paese.
«Ma il mio compito non è scandalizzarmi. Certo, lei mi fa notare che
sulla continuità tra fascismo e postfascismo è uscito un libro
importante come quello di Claudio Pavone, ma con accenti molto
diversi dai miei. Considero positivo che emerga una nuova generazione
di storici capace di sottrarsi a categorie moralistiche».
Morali, non moralistiche, professore, non disgiunte da ricostruzioni
storiografiche documentate.
«Va bene, morali. Ma io rimango persuaso che lo storico debba
compiere un passo indietro rispetto all´etica. Solo così può capire
la storia del Novecento italiano. Credo poi che il mio libro
scontenterà sostanzialmente un´altra categoria di lettori, ossia
coloro che hanno sempre coltivato un´immagine reducistica e
testimoniale del Msi. Non è un caso che i contatti con i servizi
segreti americani, con gli ambienti ecclesiastici, con i gruppi
monarchici, con settori massonici, ebbene tutta questa tessitura sia
rimasta per sessant´anni sotto una coltre di silenzio. Il mio lavoro
riempie una pagina rimasta fin troppo a lungo bianca».

da "La Repubblica" - 9 novembre 2006

Une bombe de l'Otan qui n'a pas explosé retrouvée sur le toit d'une
école


NIS (afp, 3 novembre) - Une bombe larguée par l'aviation de l'Otan
pendant les frappes de 1999 et qui n'avait pas explosé a été
retrouvée vendredi sur le toit d'une école primaire à Nis (sud), a
appris un correspondant de l'AFP auprès des autorités locales.
La bombe a été découverte par deux ouvriers qui étaient employés pour
réparer le toit de l'école "Cele Kula" à Nis (220 km au sud-est de
Belgrade).
Une équipe d'experts était attendue en provenance de Belgrade pour
neutraliser l'engin.
L'aviation de l'Otan avait exécuté entre mars et juin 1999 des
bombardements pour faire cesser la répression du régime de Slobodan
Milosevic contre les séparatistes albanais du Kosovo.
A Nis, 25 personnes, dont 22 civils avaient été tués lors de frappes
aériennes de l'aviation de l'Alliance nord Atlantique.


SOURCE : http://fr.groups.yahoo.com/group/alerte_otan/messages
Liste gérée par des membres du Comité de Surveillance OTAN.

( L'enfer selon l'OTAN
« Civilisation » ? Vous avez dit « civilisation » ?


L'inferno secondo la NATO

«Civilizzazione»? Avete parlato di «civilizzazione»?

di William Bowles
(traduzione dal francese di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
29 ottobre 2006
 
Civilizzato (aggettivo) : colto, istruito, raffinato, illuminato, forbito, elegante, sofisticato, cortese.
Civilizzare (verbo): illuminare, istruire, coltivare, migliorare, far progredire, sviluppare, raffinare.

  

Povero vecchio Dante Alighieri ! Se oggigiorno fosse ancora dei nostri, io sono sicuro che troverebbe difficile trovare le parole per descrivere i mali diffusi dalle sedicenti nazioni civili nei confronti dei senza-difesa del pianeta, supponendo poi che lui fosse completamente al corrente di quello che sta avvenendo.    
Mi rendo conto che non dovrei essere stupito, ma nondimeno lo sono. Stupito, in primo luogo, di vivere all’interno di una cultura barbara che è stata capace di farsi passare per civilizzata, e secondariamente, che questa cultura abbia potuto persuadere il mondo di essere in possesso di credenziali di civilizzazione di prima categoria. E in terzo luogo, che sia stata capace di conservare questa illusione almeno per cinquecento anni. 
La maggior parte di noi associa l’idea di civilizzazione alla conoscenza e al rispetto per la cultura, tuttavia la radice della parola è quella di cittadino.   

« I missili hanno colpito dei serbatoi di stoccaggio del complesso petrolchimico [a Panchevo, a nord-est di Belgrado], provocando la diffusione nell’atmosfera di più di 900 tonnellate di cloruro di vinile monomero (VCM), altamente cancerogeno. Al levar del sole, le nubi di VCM incombevano sopra tutta la città, facendo registrare un limite di tossicità quasi 10.600 volte più alto di quello consentito per la sicurezza dell’uomo, e le nubi che si levavano dall’insediamento industriale erano così dense che i residenti non potevano vedere il sole. Il VCM è già di per sé pericoloso, ma, quando brucia, libera come sottoprodotto il fosgene, una sostanza gassosa talmente nociva da essere stata utilizzata come gas tossico durante la Prima Guerra Mondiale. 
Sotto l’azione devastante del fuoco, si liberava anche cloro, un’altra sostanza utilizzata come gas tossico durante la Prima Guerra Mondiale, assieme ad una grande quantità di altri prodotti chimici nocivi, come nafta, dicloroetilene ed acido cloridrico.  
Più di 2.000 tonnellate di dicloroetano PVC fortemente tossico hanno dilavato il terreno, provocando la necessità di proibire per lungo tempo di mangiare radici alimentari coltivate nei dintorni della città. Una pioggia di veleni ha inzaccherato la regione,  e centinaia di tonnellate di petrolio e di prodotti chimici hanno imbevuto il suolo e si sono sversate nel Danubio.  
Dopo che un missile aveva mancato di poco di squarciare un serbatoio di ammoniaca liquida, le maestranze sono state prese dal panico di fronte alle spaventose conseguenze che si avrebbero avute con l’esplosione del serbatoio, e hanno dovuto scaricare l’ammoniaca liquida nel Danubio.» 1

Come se l’utilizzo di potenti esplosivi nel corso di bombardamenti “ordinari”, che non fanno “altro” che fare a pezzi uomini, donne e bambini, non fosse decisamente cosa malvagia, quella che io definisco una “guerra ecocida” non risulta immediatamente evidente nei suoi effetti devastanti, non solamente sulle popolazioni ma anche sulle loro generazioni future, sull’intero ecosistema, effetti che si protrarranno nel tempo, di cui noi abbiamo solo una comprensione delle più vaghe, eccetto che non possono essere altro che disastrosi per i nostri discendenti.
La gamma di armi... “ecologiche” impiegate dalle sedicenti nazioni civilizzate è di per sé devastatrice, ma, come i loro stessi bersagli, esse stesse contengono spesso sostanze tossiche e cancerogene, e quindi gli effetti di queste armi vengono moltiplicati dai prodotti chimici che si riversano nell’ambiente. 
Risulta inconcepibile che i pianificatori delle guerre non si rendano conto delle conseguenze che si hanno nel prendere come bersagli moderni stabilimenti industriali, il cui contenuto, una volta liberato, rende di fatto inabitabile l’ambiente, forse per generazioni. 
Quando, nei paesi occidentali, capitano incidenti nelle fabbriche con produzioni consimili, viene provocato un finimondo dell’inferno, vengono messi in attuazione piani di urgenza, comunità intere vengono evacuate ; vengono determinate zone di non accesso, la bonifica esige l’intervento di squadre che utilizzano gli ultimi ritrovati della tecnica per ridurre al minimo i danni ambientali.  
 
Niente di tutto questo avviene per i disgraziati abitanti della Jugoslavia, dell’Iraq o del Libano, dove prendere come bersaglio industrie elettriche e chimiche e i siti di stoccaggio fa parte integrante di una deliberata politica di terrore, in quanto non è destinata solo alle persone che vivono e lavorano in questi luoghi, ma mette in pericolo anche l’intera popolazione attraverso la distruzione degli impianti di trattamento e di distribuzione dell’acqua e la perdita di energia elettrica per gli ospedali. In effetti, è l’intero tessuto della società moderna a subire la paralisi.      
Altrettanto devastante è il silenzio pressoché totale dei media occidentali, che, costantemente e volutamente, non forniscono informazioni al pubblico sull’argomento degli orribili effetti di queste armi da incubo su letteralmente milioni di persone.  
«Appiccare il fuoco e dimenticarsene» assume un significato del tutto nuovo!  
L'impiego di queste armi su obiettivi industriali costituisce un crimine di guerra di tali dimensioni assolutamente devastatrici che è immaginabile che i cittadini delle nostre nazioni, se fossero veramente resi consapevoli dell’entità e dell’impatto di queste armi di distruzione di massa, reagirebbero con orrore e ripugnanza al fatto che tali devastazioni siano commesse non solamente in loro nome, ma da comunità sociali che pretendono di essere civilizzate. 
Non sorprende assolutamente che i principali mezzi di informazione ci abbiano nascosta la realtà.  

« Il tempo di dimezzamento dell’Uranio Depleto (DU) è di 4,5 miliardi di anni, di conseguenza viene assicurata così la contaminazione perpetua delle zone colpite. Per comprendere esattamente cosa significa questo in termini temporali, considerate che l’età del sistema solare è leggermente più lunga. 
Inoltre, le armi al DU presentano un vantaggio supplementare, quello di essere un mezzo efficace per potersi sbarazzare di scorie nucleari. Prima della guerra della NATO contro la Jugoslavia, gli USA avevano stoccato più di 450.000 tonnellate (un miliardo di libbre anglo-sassoni) di scorie derivate dalla produzione di armi nucleari, ed il Pentagono ha fornito gratuitamente questo materiale ai fabbricanti di armamenti. 
Una sola microparticella di DU che va ad insediarsi nei polmoni equivale ad essere radiografati ai polmoni una volta ogni ora, per tutta la vita.» 2
I media occidentali, utilizzando le false dichiarazioni della NATO secondo cui il DU non è una fonte di radioattività, non procura un aumento delle radiazioni, dichiarazioni che si basano sull’utilizzo dei contatori Geiger che di fatto non misurano le radiazioni α emesse dal DU, hanno contribuito nel respingere le accuse di pericolosità nei confronti del DU. 
Ha suscitato grande scalpore l’utilizzo delle bombe a frammentazione, ma una variante ben più letale è costituita dalle bombe a grafite, impiegate contro le stazioni di trasformatori elettrici, quindi costruite per distruggere i rifornimenti elettrici di una nazione. 
« Si tratta di piccoli recipienti riempiti di minuti rotoli, avvolti con fili di silicio. I filamenti di silicio sono ricoperti di alluminio, per diventare conduttori elettrici: quando questa bomba a frammentazione esplode sopra una centrale di trasformatori, una specie di ragnatela piomba sulla struttura. Si tratta come di una sorta di acqua solida. L’effetto è il medesimo, come se voi gettaste delle enormi quantità d’acqua sopra queste centrali di distribuzione. Si originerebbero corto-circuiti, ecc., e queste strutture verrebbero completamente messe fuori servizio. Ma la maggior parte di questi materiali si riversano a formare una nebbia di minuscole particelle di silicio. Come voi sapete, il vetro è fatto di sostanza silicea. Anche la lana di vetro è di natura silicea. Da vent’anni è stato proibito l’uso della lana di vetro, dato che è altamente cancerogena. Pensiamo agli esseri umani viventi in quei settori dove queste bombe sono state lanciate. In questi posti ha gravato per delle ore quella nube spessa e le persone hanno dovuto inalare le particelle di silicio. » 3

Ma quanto sono ingegnosi gli umani quando si tratta di concepire metodi di sterminio! Che milioni di persone altamente specializzate siano impiegate ad inventare questi mezzi terrificanti di morte, dovrebbe indurci ad una aperta rivolta contro i nostri governi, quando stanno commettendo tali azioni di pura malvagità contro i nostri fratelli uomini, e tutto questo per il conseguimento del profitto privato.
Tale è il grado di alienazione, provocato non solamente dal fatto che gli scienziati e gli ingegneri nei loro laboratori isolati sono totalmente distaccati dagli effetti della loro ingegnosità, ma perché noi tutti conviviamo con una cultura che ha fatto della disinformazione, da generazioni, la sua caratteristica e che ha acquisito l’idea che noi occupiamo qualche nicchia più alta nell’albero dell’evoluzione, tanto è perniciosa la nostra concezione di « civilizzazione ».   
Per quanto tempo ancora potremo continuare a sottrarci alle nostre complicità tacite in questi delitti di massa, in virtù dell’idea che noi abbiamo una sorta di autorizzazione « dall’alto », da parte di un Dio che può parlare di pietà e di compassione, e nel contempo trovare delle giustificazioni per l’uso del terrore come mezzo di propagazione della « civilizzazione », dello stile occidentale?

In ultima analisi, le ragioni vere, occultate agli occhi del pubblico, sono puramente economiche.
La Jugoslavia, l’ultimo bastione della proprietà sociale nell’Europa dell’Est, doveva vedere la sua economia interna ridotta in rovina. 
Quindi, sotto l’apparenza di obiettivi “militari” da distruggere, ogni fabbrica e capannone e magazzino di una qualche importanza, tutte le infrastrutture, elettriche, per l’acqua, di trattamento delle acque da depurare, di comunicazione e trasporti, sono state bombardate, spesso a più riprese, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze. E non ci si sta sbagliando! I piani della NATO mettevano in evidenza che l’economia della Jugoslavia doveva venire svenduta al capitalismo occidentale. 

« Il Patto di Stabilità sponsorizzato dall’Occidente per l’Europa del sud-est ha preteso l’estensione delle privatizzazioni e degli investimenti occidentali. Il Nuovo Forum per la Serbia, finanziato dal Ministero degli Affari Esteri Britannico ha condotto i professionisti e i docenti universitari Serbi regolarmente in Ungheria per delle discussioni con gli “esperti” Britannici  e dell’Europa Centrale... Il Forum ha preconizzato il “reintegro della Jugoslavia nella famiglia Europea”, un eufemismo per designare lo smantellamento dell’economia orientale socialista e la messa in opera di una campagna di privatizzazioni in favore del profitto delle imprese occidentali.» 4

In realtà, la parola « civilizzazione » è di fatto un termine  del codice del capitalismo, dello stile occidentale, che giustifica lo sterminio di massa e il terrorismo contro tutti quei paesi che resistono alle sue pretese.

Note

1. George Monbiot, « Consigning Their Future to Death » (Affidano il loro futuro alla morte), The Guardian (Londra), 22 aprile 1999.
Tom Walker, « Poison Cloud Engulfs Belgrade » (Una nube tossica ha inghiottito Belgrado), The Times (Londra), 19 aprile 1999.
Mark Fineman, « Yugoslav City Battling Toxic Enemies » (La città Jugoslava si batte contro nemici tossici), Los Angeles Times, 6 luglio1999.
2.Scott Peterson, « Depleted Uranium Bullets Leave Trail in Serbia » (Proiettili ad Uranio Depleto lasciano il segno in Serbia),  Nando Medias, 5 ottobre 1999.
« Use of Depleted Uranium (DU) Weapons by NATO Forces in Yugoslavia » (Uso in Jugoslavia di armi ad Uranio Depleto da parte delle forze della NATO), Coghill Research Laboratories (UK), aprile 1999.
3.Intervista di Dushan Vasiljevich per delega, Belgrado, 7 agosto1999.
4.« Britain Trains New Elite for Post-Milosevic Era » (La Gran Bretagna forma la nuova élite per l’era post-Milosevic), The Independent (Londra), 3 maggio 2000.

Tutte le citazioni e i riferimenti sono tratti da “Stranges Liberators -- Militarism, Mayhem and the Pursuit of Profit” (Liberatori stranieri -- Militarismo, disordine caotico e ricerca del profitto) di Gregory Elich. Llumina Press, 2006.

 
URL di questo articolo : http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=1417&lg=fr

Fonte: http://fr.groups.yahoo.com/group/alerte_otan/




(Nella rubrica Kultura del quotidiano belgradese "Politika" è apparsa una intervista con il compagno Catone, raccolta in occasione del Salone del libro di Belgrado; si cita anche il libro di Jean Toschi Marazzani Visconti "Il Corridoio" - https://www.cnj.it/INIZIATIVE/jeantoschi.htm -, presentato al Salone e recentemente apparso anche in lingua serbocroata, oltreché la raccolta di scritti e materiali fotografici "L'altra guerra del Kosovo", cui Catone ha collaborato. A cura di OJ e AM)



Andrea Katone, osnivač „Mosta za Beograd”

Sve laži rata 

Nikada se nije toliko lagalo kao u slučaju jugoslovenskih ratova u toku devedesetih, a posebno kad je reč o NATO agresiji 1999.

( SLIKA: Andrea Katone (Fotodokumentacija „Politike”) )


Među gostima ovogodišnjeg Sajma knjiga u Beogradu bio je i Andrea Katone, profesor iz Barija, jedan od organizatora i promotora Društva za solidarnost i kulturu „Most za Beograd”. Proučavajući rusko društvo, istočnu Evropu i Balkan, ovaj profesor filozofije se 1999. godine posebno posvetio proučavanju rata u Jugoslaviji i pitanju Kosova. Njegovo ime nalazi se na mnogim knjigama koje pokušavaju da isprave nepravde prema Srbima, a koje su objavili italijanski izdavači „La citta del sole” i „Achab”.
Pomenuti izdavači bili su, takođe, gosti na ovogodišnjem sajmu, a njihove knjige bile su izložene na štandu beogradskog Zavoda za udžbenike i nastavna sredstva. Zavod je objavio i prevod dela „Koridor” Džin Toski Maracani Viskonti, na čijoj promociji je govorio i Andrea Katone. On je istakao da je od najveće važnosti upoznati Italiju sa istorijom i kulturom srpskog naroda od srednjeg veka do naših dana, prevoditi i štampati knjige iz srpske istorije i književnosti, kao i otvoriti Srpski kulturni centar u Italiji

Možete li da objasnite za naše čitaoce kako je nastalo Društvo „Most za Beograd” čiji ste direktor, i šta je njegov cilj?

– Naše udruženje nastalo je u Bariju, marta 1999. godine, zahvaljujući grupi intelektualaca, studenata i radnika koji su želeli da se čuje i „drugi glas” protiv, u horu ponavljanih, neistina o srpskom narodu. Izveli smo za vreme, i posle NATO agresije, jednu akciju protiv široko prihvaćenog stava i mišljenja, zajedno sa nekim udruženjima i intelektualcima iz drugih zemalja, na primer sa francuskim novinarom Mišelom Kolonom, autorom izvrsnog dokumentarca o stanju na Kosovu posle okupacije NATO. Taj film smo preveli, prikazivali i distribuirali na video-kasetama po celoj Italiji. Organizovali smo i predavanja na univerzitetima, u školama, radničkim klubovima, parohijama...

Do nas je doprla vest o izložbi „SOS Kosovo – srpski srednjovekovni manastiri pre i posle rata”.

– Da, to je bila izložba o pogromu marta 2004. kada su kosovski Albanci uništavali i spaljivali srpske manastire i crkve, koju smo organizovali u proleće 2005. u saradnji sa beogradskom „Mnemozinom”, i, istovremeno, savetovanje o statusu Kosova. Pre ove, organizovali smo i brojne druge fotografske izložbe poput one „Napravili su pustoš i to nazivaju mirom”, zatim o oružju i bombama zabranjenim međunarodnim konvencijama koje je NATO koristio, o spomenicima kulture na Kosovu...

Pored borbe protiv laži, šta je još bio cilj „Mosta za Beograd”, čije ime budi andrićevske asocijacije?

– Drugi naš cilj bile su akcije solidarnosti kako bismo pomogli izbeglicama koje su se slile u sankcijama iznurenu Srbiju, zatim deci kragujevačkih radnika čiji su roditelji ostali bez posla, deci i mladima sa Kosova i Metohije koji su izgubili jednog ili oba roditelja. Pored toga, „Most za Beograd” je skromnim novčanim prilogom pomogao više od 300 srpskih porodica, u ukupnoj sumi od više od 350.000 evra. Kap u okeanu, ali ne treba zaboraviti da su skupljeni, malo-pomalo, prilozima profesora, studenata, radnika, penzionera. Uspeli smo da realnu situaciju u Srbiji približimo hiljadama Italijana. Neki od njih su i došli u Srbiju da posete porodice koje su pomogli, ali je do danas ostalo nemoguće da oni ugoste decu ili porodice iz Srbije zbog nepremostivih birokratskih teškoća italijanske konzularne službe u Beogradu.

Otkud toliko interesovanje u Italiji za rat u bivšoj Jugoslaviji i da li ga je uslovila posebna politička situacija?

– Početkom 1999. godine, kada je vlada naše zemlje uzela učešće u NATO agresiji na Jugoslaviju, preciznije na Republiku Srbiju, nju je vodila koalicija levog centra, dakle različite partije među kojima i neke koje su u prošlosti, 1991, bile protiv agresije na Irak i čija je biračka baza, bilo njen katolički, bilo levičarski deo, podržavala pacifističke pokrete. Da bi mogla da opravda učešće Italije u agresorskom ratu protiv Jugoslavije koja nikoga nije napala i nije prekršila međunarodno pravo, njegovi zagovornici morali su da izmisle demonizaciju srpskog naroda uporedivši ga sa nacistima. Svi ratovi, od onih u antičkom Rimu do danas, bili su praćeni izgovorima i lažima i uvek predstavljani kao opravdani, ali nikada se nije toliko lagalo i toliko izvrtala istina kao u slučaju jugoslovenskih ratova u toku devedesetih godina, a posebno kad je reč o NATO agresiji 1999.

Da li je bilo teškoća i osporavanja rada vaše organizacije?

– Delatnost koju već osam godina obavljamo dobrovoljna je i bez ikakve novčane naknade, a obično oni koji nose pomoć u Srbiju sami snose troškove svoga putovanja. Rad nije lak i nije uvek dobro primljen. Tako je bilo naročito u godinama agresije na Srbiju, tako je na žalost i danas. I dalje su moćni antisrpski lobistički centri, to pokazuje opšte usmerenje italijanskih medija koji su i dalje malo skloni da oslušnu i srpske razloge. Pomaci su mali, ali nam znače. Na primer, knjigu „Drugi rat za Kosovo” u kojoj ukazujem na nepodnošljive uslove Srba i nealbanaca na Kosmetu, priredila je poslanik u italijanskom parlamentu Luana Zanela, a predgovor joj je napisao gradonačelnik Venecije Masimo Kačari.

Vaše ime se pojavljuje na mnogim italijanskim knjigama o ovim temama, bilo da ste autor, pisac predgovora, priređivač, redaktor...

– „Most za Beograd” je pokrenuo i štampanje knjiga koje bi pružile objektivne informacije o onome što se stvarno dešava na tlu nekadašnje Jugoslavije. Pored „Koridora” Džin Toski Maracani Viskonti, želim da pomenem i knjigu „Kosovo, crna rupa Evrope”, s mojim predgovorom, koja je, takođe, prevedena na srpski i koja je u Italiji doživela nekoliko izdanja. Pomenuo bih i knjige „Od Srednjeg istoka do Balkana, krvava zora američkog veka”, napisanu u saradnji sa italijanskim filozofima i istoričarima, i „Laži o ratu u Jugoslaviji” nemačkog novinara Elsesera s mojim predgovorom za italijansko izdanje. Najzad, tu je i „Drugi rat za Kosovo – srpska, pravoslavna, hrišćanska baština koju treba spasavati” u kojoj je i moj prilog o srpskoj istoriji i koju je i vaš list nedavno prikazao.

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Izložba o Jasenovcu

– Čini mi se da je danas zanemaren veliki udeo jugoslovenskih naroda u borbi protiv fašizma, a pogotovo srpskog koji je platio najveći cenu. Zato smo se angažovali u novom projektu, izložbi fotografija posvećenoj žrtvama Jasenovca, srpskog Aušvica, koju ćemo, uz pomoć srpskog Muzeja žrtava genocida iz Beograda, otvoriti u Bariju 27. januara 2007. godine, povodom spomen-dana žrtvama fašizma. To će biti prilika da se svet podseti da je srpski narod jedini evropski narod koji je bombardovan i na početku i na kraju 20. veka – kaže Andrea Katone.


Gordana Popović
[objavljeno: 07.11.2006.]



(italiano / english)

Kosovo and Montenegrin Separatists / 1: Allied Against Peace

1. Ceku a Podgorica, Belgrado protesta (dal sito antijugoslavo
"Osservatorio Balcani")

2. Kosovo: Bulgaria, Macedonia and Montenegro have betrayed Serbia
(Regnum, Russia)


=== 1 ===

http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/6390/1/51/

Ceku a Podgorica, Belgrado protesta

10.11.2006 Da Podgorica, scrive Jadranka Gilić

Il premier (SIC) kosovaro Agim Ceku va in visita ufficiale nella
capitale montenegrina, ma il governo serbo critica fortemente la
scelta diplomatica di Podgorica. Si inaspriscono i rapporti tra
Serbia e Montenegro


Mentre sono in corso i negoziati per decidere lo status futuro del
Kosovo, il premier kosovaro Agim Ceku è giunto in visita ufficiale in
Montenegro il 3 novembre scorso e si è incontrato con i più alti
esponenti statali montenegrini. Il governo serbo ha criticato
aspramente le autorità di Podgorica per la visita del premier
kosovaro, valutandola come un fatto sorprendente e preoccupante.

Dopo l’incontro del premier kosovaro con le autorità montenegrine
si è tenuta una conferenza stampa a Podgorica, durante la quale Agim
Ceku ha dichiarato che attende una soluzione per lo status del Kosovo
entro la fine dell’anno (B92, 3 novembre).

“Secondo il nostro punto di vista il Kosovo sarà un paese
proiettato verso l’integrazione europea, un paese democratico,
moderno, multietnico e stabile, che vivrà in pace con i vicini e che
contribuirà alla stabilità della regione”, ha dichiarato il
premier kosovaro, sottolineando che questa è l’unica soluzione
sostenibile per la regione. Ceku ha anche detto che i serbi
governeranno i territori che abitano, aggiungendo che “Il Kosovo è
la loro casa, il loro paese ed io sono il loro premier e mi sento
responsabile per tutti.”

Il premier montenegrino, Milo Djukanovic, ha spiegato la posizione
del Montenegro dichiarando che ogni soluzione sulla quale
concorderanno Belgrado, Pristina e la comunità internazionale è
accettabile per il Montenegro, dichiarando inoltre che prima si
risolve lo status del Kosovo meglio è visto che dalla qualità della
soluzione dipendono le future relazioni e la stabilità della regione.

Dall’altra parte il presidente serbo Boris Tadic ha trovato
“inaccettabile e non necessaria” la mossa di Djukanovic di
ricevere il premier kosovaro Ceku nel momento in cui si svolgono le
trattative sullo status futuro. Tadic ha dichiarato: “Agim Ceku non
è stato autorizzato a rappresentare il Kosovo all’estero e a
condurre colloqui bilaterali. Inoltre, penso che non sia necessario
fare pressione per portare a termine i negoziati sullo status del
Kosovo entro la fine dell’anno.” Il presidente serbo ha poi
aggiunto: “Spero che il futuro governo del Montenegro abbia più
comprensione per una questione così complessa e che si comporti in
modo tale da mantenere la stabilità della regione.”

Invece, il premier della Serbia, Vojislav Kostunica, ha ricordato
che “non è mai successo nella storia che il Montenegro si sia messo
contro la Serbia. E da quando esiste, la Serbia non ha mai fatto
niente contro il Montenegro” (B92, 5 novembre). Secondo Kostunica,
la posizione della Podgorica ufficiale secondo la quale il Kosovo è
un vicino del Montenegro, viola direttamente la sovranità e
l’integrità territoriale della Serbia. Il premier serbo ha spiegato
che “questa posizione è stata esposta durante il colloquio con
Ceku, accusato dalla Serbia di aver commesso crimini di guerra contro
la popolazione serba, e non solo in Kosovo”.

Inoltre, il governo serbo ha avvisato il governo montenegrino che ha
l’obbligo di rispettare rigorosamente la sovranità e l’integrità
territoriale della Serbia, in conformità alla Carta dell’ONU e alle
norme del diritto internazionale. In caso contrario, il governo
montenegrino dovrà ritenersi responsabile delle serie conseguenze nei
rapporti fra la Serbia e il Montenegro (B92, 4 novembre).

Anche la presidentessa del Centro di coordinamento per il Kosovo,
Sanda Raskovic Ivic, ha criticato aspramente le autorità di Podgorica
per la visita del premier kosovaro Ceku in Montenegro. Raskovic Ivic
ha valutato la visita di Ceku in Montenegro, come un fatto
sorprendente e preoccupante, nel momento in cui - secondo la Raskovic
Ivic - la comunità internazionale, ed in primis la Russia e la Cina,
sta cambiando la propria posizione sulla soluzione futura per il
Kosovo, a favore della Serbia.

Dal canto suo, il ministro montenegrino degli Esteri, Miodrag
Vlahovic, ha spiegato che la visita del premier kosovaro Ceku in
Montenegro non ha affatto danneggiato gli interessi della Serbia nel
momento in cui sono in corso i negoziati sullo status futuro del
Kosovo. Secondo Vlahovic la comunicazione del Montenegro con i paesi
della regione contribuisce alla stabilità della regione ed è stata
appoggiata dalla comunità internazionale. Vlahovic ha anche spiegato
che la decisione di ricevere Agim Ceku non è stata una decisione
personale del premier montenegrino Milo Djukanovic, ma il risultato
della politica estera del Montenegro.

Le reazioni della Serbia ufficiale alla visita di Ceku nella capitale
montenegrina hanno provocato le contro-reazioni del governo del
Kosovo. La portavoce del governo kosovaro Ulpijana Ljama, ha detto
che non c’è bisogno che la Serbia interferisca nella politica
estera del Kosovo coi paesi confinanti, così come il Kosovo non
interferirà nelle relazioni tra la Serbia e il Montenegro. La
portavoce Ljama ha aggiunto: “La Serbia deve cambiare politica ed
accettare la nuova realtà dei Balcani, come lo hanno fatto gli altri
paesi” (B92, 5 novembre).

Secondo gli analisti internazionali, oggi il Kosovo rappresenta un
“buco nero” dell’Europa. Al posto dell’integrazione, la
situazione attuale della regione stimola il processo opposto: la
segregazione. La Washington ufficiale insiste che la decisione finale
sullo status di Kosovo sia presa entro la fine dell’anno, mentre gli
esponenti dell’Unione europea annunciano che potrebbe esserci un
rinvio della decisione a dopo le elezioni parlamentari in Serbia. Gli
analisti valutano che l’approccio più realista di Bruxelles è
motivato dal giustificato timore che la decisione sullo status finale
del Kosovo, presa prima delle elezioni, destabilizzerebbe seriamente
la Serbia e radicalizzerebbe la sua scena politica.


=== 2 ===

From: Rick Rozoff
Subject: [yugoslaviainfo] Kosovo, Montenegrin Separatists In
Criminal Collusion
Date: November 10, 2006 4:52:57 PM GMT+01:00
http://www.regnum.ru/english/736189.html

Regnum (Russia)
November 11, 2006

Kosovo: Bulgaria, Macedonia and Montenegro have betrayed Serbia

-Some people believe that the Montenegrin authorities
invited Ceku to Montenegro with a view to improve
their relations with the local Albanian minority after
the Sept 2006 arrest of Albanian extremists from the
Movement for the Rights of Albanians in Montenegro. On
Nov 6, Montenegrin Public Prosecutor Vesna Medenica
said that this group, together with the fighters from
the so-called Kosovo Liberation Army, were plotting
terrorist acts in the territory of Montenegro.
-“The visit of Ceku, who is suspected of having
committed military crimes against Serbs, Montenegrins
and other non-Albanians in Kosovo and Metohija, looked
especially provocative as it took place right after
the adoption of the Constitution of Serbia and exactly
at the moment when the world community is trying to
solve the problem of Kosovo and Metohija in line with
the UN Charter and UN SC Resolution 1244.”
-“Montenegro’s independence gained with the decisive
support of Albanians was just the first step towards
the possible secession of Kosovo and Metohija from
Serbia.”

In the last few months, the head of the interim
government of Kosovo Agim Ceku has visited a number of
countries to enlist their support for Kosovo’s
independence.

He visited the US and the UK, Bulgaria and FYR
Macedonia.

Ceku’s visits have not gone unnoticed: the world
community is very much interested in what status
Kosovo will get and in what stance the UN Security
Council and Contact Group members and Balkan states
have on the matter.

Special attention was given to Ceku’s Nov 3 visit to
Montenegro, which quite recently voted to secede from
Serbia.

In Montenegro Ceku met with the prime minister, the
speaker of the parliament, the FM, and all of them
treated him as the head of the government of a state.

Montenegrin Prime Minister Milo Djukanovic said that
the key topic of his talk with Ceku was not the status
of Kosovo but the future of the region and good
neighborly relations between Montenegro and Kosovo.

Ignoring the fact that Kosovo is an integral part of
Serbia, Djukanovic stressed that, despite its status,
Kosovo is Montenegro’s neighbor and so the sides
should be interested in being good neighbors.

Djukanovic and Ceku exchanged their views of how to
eliminate structural restrictions to the
liberalization of the energy and other markets in the
Balkans and how to attract big investors in the
region.

They also stressed the need to open new border
crossings for bringing closer the business interests
of Montenegro and Kosovo and discussed ways to
strengthen border control and to jointly fight
organized crime. Djukanovic said that the Montenegrin
and Kosovan government delegations would meet to
discuss the return of Kosovan refugees in Montenegro.

Concerning the status of Kosovo, Djukanovic said that
Montenegro is interested in the urgent resolution of
this problem – under the agreement between Belgrade
and Pristina and with the consent of the world
community – and is ready to support any decision to be
passed by the world community.

Ceku used his visit to state once again that the
provision of Kosovo with independence is the only
permanent decision. He once more expressed his
conviction that this decision will be made by the end
of this year.

During his visit to Montenegro, Ceku also met with the
leaders of the Albanian parties in Montenegro and with
the heads of the Albanian community of Ulcinj, a
municipality where Albanians constitute over 70% of
the population.

Ceku said that the Albanian community in Montenegro
has always been constructive: it has never posed a
threat to the country’s interests but, on the
contrary, has actively protected them.

Ceku commended the Albanian community for their active
role in the current processes in Montenegro and
expressed hope that “the Montenegrin Government will
respond positively by guaranteeing the exercise of the
rights of Albanians in Montenegro.”

It is not clear what rights Ceku meant, but it is
known well that the Montenegrin Albanians want
autonomy and hope that Kosovo’s independence will help
them in the matter.

Some people believe that the Montenegrin authorities
invited Ceku to Montenegro with a view to improve
their relations with the local Albanian minority after
the Sept 2006 arrest of Albanian extremists from the
Movement for the Rights of Albanians in Montenegro. On
Nov 6, Montenegrin Public Prosecutor Vesna Medenica
said that this group, together with the fighters from
the so-called Kosovo Liberation Army, were plotting
terrorist acts in the territory of Montenegro.

The visit of Ceku has received a very negative
response from the opposition parties of Montenegro,
who said that it was “a scandal that will cause grave
political consequences” and “an attempt to stab in the
back the Serbian leaders and all Serbs in the
Balkans.”

The Socialist People’s Party of Montenegro said that
the invitation of Ceku, “the well-known representative
of the Kosovan extremists,” was an act of open support
for those forces who want to separate Kosovo and
Metohija from Serbia.

“The visit of Ceku, who is suspected of having
committed military crimes against Serbs, Montenegrins
and other non-Albanians in Kosovo and Metohija, looked
especially provocative as it took place right after
the adoption of the Constitution of Serbia and exactly
at the moment when the world community is trying to
solve the problem of Kosovo and Metohija in line with
the UN Charter and UN SC Resolution 1244.”

The Democratic Serbian Party said that “now that
Serbia is taking active diplomatic steps to keep
Kosovo from secession and the problem of the status of
this southern Serbian region is entering the final
stage, the invitation of Ceku to visit Montenegro was
a non-diplomatic act” and can be interpreted as an
interference in the internal affairs of another state.

The Socialist People’s Party of Montenegro said that
“by inviting Ceku, Djukanovic and his regime have
openly taken the side of the Albanian extremists in
Kosovo and Metohija,” while the People’s Party of
Montenegro said that “by so doing they have shown
support for the Ceku separatist regime” and that
“Montenegro’s independence gained with the decisive
support of Albanians was just the first step towards
the possible secession of Kosovo and Metohija from
Serbia.”

The party urged all opposition parties to initiate a
special parliamentary session for considering “the
Montenegrin authorities’ open support for the Albanian
separatists in Kosovo.”

Those in Serbia have strongly criticized the
invitation of Ceku to Montenegro.

Serbian President Boris Tadic said that it was “an
unacceptable and unnecessary gesture” by Djukanovic
now that the sides are negotiating the future status
of Kosovo.

Those in the Serbian Government said that Kosovo is an
inalienable part of Serbia rather than “a neighboring
state for Montenegro” as the Montenegrin officials
said.

Serbian Prime Minister Vojislav Kostunica warned the
Montenegrin Government that they “should respect the
sovereignty and territorial integrity of Serbia in
line with the UN Charter and international law.
Otherwise, they will be responsible for possible
serious consequences in Serbian-Montenegrin
relations.”

The G-17+ party said that the position of the
Montenegrin authorities does not contribute to the
development of good neighborly relations between
Serbia and Montenegro and must be condemned, while the
secretary general of the Serbian Radical Party
Aleksandar Vucic said that it was “the most shameful
act in the history of Montenegro” and “the Montenegrin
authorities just returned the favor done to them
during the referendum [on Montenegro’s independence].”

The Socialist Party of Serbia demanded that the
Serbian authorities show tough reaction to this
“anti-Serbian gesture” of the Montenegrin leadership.
The Blic daily (Belgrade) said that “Djukanovic may go
into history as the person who restored Montenegro’s
independence but he is also the person who spoiled
Montenegro’s relations with Serbia — the first and
most natural ally.”

Djukanovic and Montenegrin Foreign Minister Vlahovic
denied the charges and said that the talks with Ceku
have not spoiled Montenegro’s relations with Serbia,
who remains the country’s key partner, and were not
aimed at influencing the talks for Kosovo’s future
status.

In their turn, the Kosovan authorities have blamed
Serbia for interfering in the policies of its
neighbors. The spokeswoman of the Kosovan Government
Ujlpijana Ljama said that Serbia should accept the new
reality in the Balkans.

However, some forces in Kosovo think otherwise. The
Serbian Vece believes that the decision of the
Montenegrin authorities to officially receive Ceku has
deeply hurt the Serbs and the Montenegrins in Kosovo.
However, this step was not unexpected as Djukanovic is
deeply in debt to the Albanian community for his stay
in power all these years.

After his visit to Montenegro, Ceku continued his
tour: he visited Albania, on Nov 6 he went to
Slovakia, where local officials told him that the
decision on Kosovo’s status requires absolute
consensus and that the Kosovan authorities should
refrain from one-sided steps. And now Ceku is planning
to go to Moscow and is waiting for the Russians’
response to his wish to visit Russia for explaining
the stance of the Kosovan leadership.


SOURCE:

http://groups.yahoo.com/group/yugoslaviainfo , http://
groups.yahoo.com/group/stopnato


Begin forwarded message:

From: truth  @...
Date: November 8, 2006 3:51:21 PM GMT+01:00
Subject: Fwd: WG: Rückblick auf Milosevic-Prozess


-----Ursprüngliche Nachricht-----
Von: Y.&K.Truempy-Arzuaga [mailto:TrumpArzu  @...]
Gesendet: Dienstag, 7. November 2006 22:17
Betreff: Rückblick auf Milosevic-Prozess


Im Attachement ein Bericht von Cathrin Schütz über den Milosevic-Prozess.
Sie war bis zu seinem Tod persönliche Rechtsberaterin von ihm.
Neben einem Rückblick auf den Prozess beschreibt sie das Beziehungsnetz in der westlichen Medienlandschaft, welches eine wahrheitsgemässe Berichterstattung über den objektiv gescheiterten Prozesses verhindern konnte.
Der Artikel entstammt dem Buch "Der Milosevic-Prozess" von G.Civikov, Promedia 2006.

-- 

GEDANKEN ÜBER DAS ERBE DES MILOSEVIC-PROZESSES

von Cathrin Schütz

Slobodan Milosevic ist tot. Gestorben ist er am 11. März 2006 in seiner Zelle im Gefängnis im holländischen Scheveningen. Was bleibt vom Prozess gegen den ehemaligen jugoslawischen Präsidenten, vom Verfahren, das als „Jahrhundertprozess" begann und durch das Ableben Milosevics nicht zu Ende geführt werden kann? Wie wird der Prozess gegen Milosevic, der sich als Angeklagter vor dem Den Haager Kriegsverbrechertribunal für das ehemalige Jugoslawien selbst verteidigte, in die Geschichte eingehen?
Für einen oder zwei Tage füllten die Photos von den Menschenmengen, die Milosevic am 18. März 2006 in Belgrad die letzte Ehre erwiesen, die Seiten der Zeitungen in aller Welt. Bilder der Trauerfeier wurden über die großen Nachrichtenkanäle ausgestrahlt. Vor dem Parlament in Belgrad schwenkten Menschen Tausende Fahnen in Blau-Weiß-Rot. Kommentatoren von CNN, BBC und ihresgleichen berichteten über die „serbischen Hardline-Nationalisten", die sich versammelt hätten. Der rote Stern des sozialistischen Jugoslawien, der auf den meisten Flaggen der Milosevic-Anhänger wehte, schien sie nicht zu stören.
Journalisten, Vertreter bekannter Menschenrechtsorganisationen und Politiker verrieten in Meldungen dieser Tage viel über ihr Bild von Milosevic und davon, wie ihn - dank eben dieser Berichterstattung - die große Mehrheit der Öffentlichkeit außerhalb Serbiens in Erinnerung behalten soll.
Im Zweiten Deutschen Fernsehen etwa verkündeten die „Heute"-Nachrichten den Tod von Milosevic, der „als der maßgebliche Anstifter der Kriege in den 1990er Jahren auf dem Balkan gilt, bei denen Zehntausende Menschen bei so genannten ethnischen Säuberungen ums Leben kamen". Ähnlich klangen die Worte des deutschen Außenministers Frank-Walter Steinmeier. Die Frankfurter Allgemeine Zeitung sah in der „Stimmung" rund um die Trauerfeierlichkeiten für den „Massenmörder" Milosevic „eine abschließende Verhöhnung seiner Opfer". Caroline Feischer vom Berliner Tagesspiegel mochte nicht ausschließen, dass sich der „Tyrann" selbst umgebracht hatte. Vor dem Tribunal sollte „er Rede und Antwort stehen müssen für die Gräueltaten von Sarajevo, Srebrenica, Vukovar, Foca, Keraterm, Gjakova und Hunderten anderer Orte, deren Einwohner den 'ethnischen Säuberungen' für Milosevics 'Groß-Serbien' zum Opfer fielen". Doch nun habe er sich „mit dem eigenen Tod seiner Verurteilung entzogen". „Es würde zu ihm passen", wusste Fetscher, Gift zu nehmen, um seinen Tod dem Tribunal anlasten zu können.
Kurz - Slobodan Milosevic, der „Massenmörder", „Diktator", „Schlächter" und „Tyrann", wurde nach seinem Tod als Hauptverantwortlicher an den Kriegen im zerbrechenden Jugoslawien dargestellt und damit unterschieden sich die Beschreibungen nicht im Geringsten von jenen der Jahre zuvor. Mit großem Bedauern wurde einhellig beklagt, dass Milosevic, der vor Gericht nur politische Tiraden lieferte, durch sein Ableben nun einem Schuldspruch (und nicht etwa einem Urteil!) entgehe.
Gerade jene, die jahrelang seine Anklage gefordert und sich im Juni 2001 angesichts seiner Auslieferung an das Tribunal vor Begeisterung förmlich überschlagen hatten, berichteten und beurteilten nun ganz so, als hätte es den Prozess nie gegeben. In diesem wurden nämlich viele Wahrheiten und noch mehr Lügen ans Licht gebracht.
Schon bald nach Prozessbeginn zeigte sich, dass jene, die Milosevic in Den Haag sehen wollten, damit eine ganz bestimmte Erwartung hegten: einen möglichst aller Verbrechen schuldig befundenen Milosevic. Obwohl sie, wie kritische Beobachter des Prozesses schnell erkennen konnten, im Jugoslawien-Tribunal, das NATO-Sprecher Jamie Shea als „Freundin der NATO" bezeichnete, den richtigen Ort für die von ihnen gewünschte Aburteilung sehen konnten, machte Milosevic ihnen einen gewaltigen Strich durch die Rechnung. Statt sich von der Fülle der Anklagepunkte erschlagen zu lassen oder hinter den Türen einen Kompromiß zu suchen, der ihm, dem bereits damals Kranken, vielleicht einen Ausweg aus der Haft geboten hätte, überraschte Milosevic mit der Entscheidung, sich selbst zu verteidigen und die Anklage Punkt für Punkt auseinander zu nehmen. Er konnte durch Kreuzverhöre viele Aussagen von Zeugen der Anklage entkräften. In seinem Eröffnungsplädoyer und später zu Beginn seiner Verteidigung begegnete Milosevic der Anklage, die ihn als kaltblütigen, höchst berechnenden Drahtzieher und Hauptverantwortlichen für mehr oder weniger alles darstellt, was im ehemaligen Jugoslawien seit Ende der 1980er Jahre geschehen ist, indem er die Ereignisse in ein anderes Licht rückte und sie um die Dimension ergänzte, die die Anklagebehörde gänzlich ausblendete: die zentrale Rolle der westlichen Staaten, allen voran Deutschlands und der USA, die die ethnischen Konflikte schürten, sezessionistische Elemente militärisch unterstützten und auch auf diplomatischer Ebene den Zerfall Jugoslawiens herbeiführten. Milosevic argumentierte dies dezidiert und hartnäckig, zuerst alleine und dann mit den von ihm geladenen Zeugen. Schon bevor die Verteidigung begonnen hatte, waren auf diese Weise die Fundamente der Anklage in sich zusammengefallen.
In den westeuropäischen Medien wurde über den Prozess nur zu Beginn berichtet und dann gelegentlich und einseitig. Z.B. wenn es darum ging, Milosevics Krankheitsausfälle als „Verzögerungstaktik" anzuprangern. Inhaltlich herrschte Schweigen, mit dem Beginn der Verteidigung von Milosevic mehr denn je. Bald schien es, als interessierten sich gerade jene, die am lautesten die Auslieferung Milosevics an das Tribunal gefordert hatten, für den Verlauf des Prozesses am allerwenigsten.
Kaum einem Zeitungsleser dürfte entgangen sein, wie selten über den Prozess gegen den jugoslawischen Ex-Präsidenten berichtet wurde, der einst als Medienspektakel begann, als die Eröffnung auf den großen Nachrichtenkanälen live gesendet wurde, zumindest was die stundenlangen Ausführungen der Ankläger betraf. Als Milosevic in seinem Eröffnungsplädoyer tags darauf auf die Anschuldigungen antwortete, stellten die großen Medienhäuser wie CNN und BBC die Übertragung abrupt und für immer ein. In Anbetracht des dort Gesagten kann dies kaum verwundern. Hätte die Presse vorurteilslos über die Zeugenaussagen berichtet, hätte sie ein scharfes Urteil über ihre eigene Zunft fällen müssen, die im Einklang mit westlichen Politikern Milosevic schon lange vorverurteilt hatte für alles, was auf dem Balkan passierte oder - wie deutlich wurde, auch von ihnen - erfunden wurde. Als der Prozess genügend Zündstoff barg, um Politik und Medien schwer zu schädigen, wurde er ausgeblendet. Nur als das Verfahren just zu Beginn der Verteidigung mit dem Einsatz von Pflichtverteidigern für Milosevic, ungeachtet seines Protests und des Statuts des Tribunals, eine entscheidende Zäsur erfuhr, wurde es noch einmal laut um den Prozess. Unterstützend begleitete die Presse den Schritt, Milosevic endgültig an die Leine zu nehmen - wie es der ehemalige US-Sonderbeauftragte für Kriegsverbrechen, David Scheffer, einer der gefragtesten Experten, lange schon forderte. Als die Zeugen der Verteidigung später in Ablehnung dieses Schrittes scharenweise ihre Aussage verweigerten, sahen die Medien jedoch keinen Anlass, über diesen in der Justizgeschichte einzigartigen Zeugenboykott zu berichten.

Mit dem „Institute for War and Peace Reporting" (IWPR) und der „Coalition for International Justice" (CIJ) stachen jedoch zwei Organisationen mit einer Art exklusiver Prozessberichterstattung hervor. Beide Einrichtungen berichteten mit beständiger Regelmäßigkeit über das Verfahren und ihre Archive stellen wohl die umfangreichsten Quellen der sonst raren Prozess-Informationen dar. Das in London ansässige IWPR gibt selbst an, mit seiner Berichterstattung über das Tribunal seit dessen Entstehung 1993 eine einzigartige Rolle einzunehmen. Die Berichte dieser Organisationen, die während des Verfahrens gegen Milosevic Büros in Den Haag unterhielten, im Fall der CIJ sogar im Foyer des Tribunals, zeichnen sich indes durch Einseitigkeit und Parteilichkeit zugunsten der Anklagebehörde aus. Zwischen dem IWPR und der CIJ ist eine enge Kooperation festzustellen. Neben gelegentlichen Artikeln, die sie direkt für das IWPR verfasste, kam Judith Armatta als Prozessberichterstatterin der CIJ auch in den Meldungen des IWPR häufig zu Wort. Dabei kommentierte sie mehr, als sie berichtete. So befürwortete sie etwa stark die Einsetzung der von Milosevic abgelehnten Pflichtverteidiger, nicht zuletzt, um ihm keine „politische Plattform" zu bieten.
Während sich die CIJ, die mit Milosevics Tod im März 2006 offenbar ihre Existenzberechtigung verlor, noch im selben Monat auflöste, kommentierten ihre Beobachter Judith Armatta und Edgar Chen das vorzeitige Ende des Prozesses in der Chicago Tribüne vom 17. März 2006 und lobten noch einmal in bekannter Weise Erfolge und Fairness des Prozesses.
Wie auf ihrer Homepage erklärt, bestand die Hauptaufgabe der CIJ in der „Unterstützung" des Kriegsverbrecher-Tribunals für das ehemalige Jugoslawien. Ihre ab 1995 erfolgten direkten Hilfeleistungen für das Tribunal wurden von der ehemaligen Präsidentin des Tribunals, Gabrielle Kirk McDonald, besonders gewürdigt. Die Prozessberichterstattung, ein Schwerpunkt der Unterstützung des Tribunals, richtete sich im Einklang mit dem Selbstverständnis der CIJ an politische Entscheidungsträger in Washington und anderen Hauptstädten, an Medien und die Öffentlichkeit. Mit anderen Worten: Armatta und Kollegen verstanden sich als Lobbyisten für das Tribunal.
Neben Vertretern der CIJ zählt Richard Dicker von „Human Rights Watch" (HRW) zu den vielfach vom IWPR zitierten „unabhängigen Stimmen", die sich zum Milosevic-Prozess äußerten. Wer hinter dieser bekannten Organisation steht, dürfte aber weitgehend unbekannt sein. Zu ihren leitenden Persönlichkeiten zählen Lloyd Axworthy, kanadischer Außenminister während des NATO-Angriffs auf Jugoslawien, Patricia M. Wald, ehemals Richterin beim Jugoslawien-Tribunal in Den Haag, Ri-
chard Goldstone, einer der Vorgänger von Carla del Ponte im Amt des Chefanklägers am Jugoslawien-Tribunal, sowie der Multimillionär George Soros, der gleich mehrere Nichtregierungsorganisationen (NGOs) finanziert, die sich in Jugoslawien besonders aktiv hervorgetan haben. Einige seiner NGOs, zu deren Sponsoren das US-Außenministerium direkt zählt, finanzierten ihrerseits wiederum direkt und über andere Organisationen die Arbeit des Den Haager Jugoslawien-Tribunals.
In einem seiner Prozessberichte titelte das IWPR: „Zeuge für Eintreten für die serbische 'Sache' gescholten". Gemeint ist der Historiker Slavenko Terzic, Kosovo-Experte der Verteidigung von Milosevic, den Ankläger Geoffrey Nice beschuldigte, Fakten unter den Tisch fallen zu lassen, um dem Interesse der Serben zu dienen. Der Hintergrund: Terzic hatte eine bestimmte Analyse einer in Brüssel ansässigen NGO nicht in seine Expertise miteinbezogen. Da diese den Ergebnissen der Terzic-Studie widersprach, beschuldigte Nice den Zeugen der Manipulation. Terzic seinerseits kritisierte die Kernaussage des Reports, wonach die Errichtung eines Groß-Albanien sehr geringe Unterstützung durch separatistische Kräfte erfuhr.
Der von Nice zum Angriff auf den Zeugen eingebrachte Bericht „Pan-Albanianism - How Big a Threat to Balkan Stability?" wurde von der „International Crisis Group" (ICG) um George Soros herausgegeben. Die Arbeit, der der Belgrader Wissenschaftler widersprach, stammt also von jener NGO, die den ehemaligen NATO-Oberbefehlshaber für Europa zur Zeit des NATO-Angriffs auf die Bundesrepublik Jugoslawien, General Wesley Clark, sowie Carla del Pontes Vorgängerin Louise Arbour zum Kreis ihres Vorstandes zählt. Zu den Organisationen, die durch die „Coalition for International Justice" (CIJ) finanziell unterstützt werden, zählt - um den Kreis wieder zu schließen - auch das „Institute for War and Peace Reporting" (IWPR), das zu seinen Spendern auch die Außenministerien der USA und zahlreicher europäischer Staaten zählt.
Auch die Berichterstattung der Medien im gesamten ehemaligen Jugoslawien wurde durch diese NGOs unterstützt, „gefördert". Das heißt, dass Trainingsmaßnahmen für Journalisten und Juristen aus dem ehemaligen Jugoslawien, die von der CIJ nach Den Haag eingeladen wurden, um ihnen Prozessbeobachtung und Kontakte zu Mitarbeitern des Tribunals anzubieten, auch von dieser Organisation bezahlt wurden. Eine weitere Finanzierung der Medienberichterstattung lief über die US-Organisation „International Research and Exchanges Board" (IREX). Während IREX darüber hinaus auch zu den Finanzgebern des IWPR zählt, erhält IREX selbst die Mittel wiederum von Soros' „Open Society Institute" und von CNN. Unter den größten Spendengebern von IREX - und damit indirekt auch der Journalisten, die über den Prozess informierten - finden sich außerdem das US-Außenministerium und die NATO.
So kann es nicht verwundern, dass man medialerseits nichts über die Niederlagen der Milosevic-Ankläger lesen konnte.
Untereinander debattieren und spekulieren die Vertreter der genannten Organisationen nun, was passiert wäre, wäre Milosevic nicht vor der Urteilsfindung gestorben. Dass der Anklagepunkt des Völkermordes wohl nicht zu halten gewesen wäre, haben auch jene längst eingestanden, deren Ziel die „Unterstützung des Tribunals" war. Und sie haben sich dafür schon lange eine Erklärung zurechtgelegt: die Definition von Völkermord sei nicht weit genug gefasst.





pa - political affairs.net
marxist thought online

Book Review: Jasenovac and the Holocaust in Yugoslavia

By Norman Markowitz, Department of History, Rutgers University

Jasenovac and the Holocaust in Yugoslavia: Analyses and Survivor Testimonies 
Edited by Barry Lituchy 
New York, Jasenovac Research Institute, 2006. 

The word Holocaust has come to describe the horrors of the planned extermination campaigns launched by Nazi Germany and its allies during World War II. These campaigns, as most people know, resulted in the murder of six million Jewish people of various European nationalities, about one third of the Jewish people of the world at the time. Many millions of others perished in concentration camps, in mass killings used as reprisals for partisan attacks, in policies of forced labor and food deprivation designed by the Nazis and their fellow fascists to work and starve "inferior races" to death. 

But the history of the Holocaust during World War II in what was then "former Yugoslavia" is not at all well known. Had it been better known, liberal minded people might not have responded to the propaganda used to line up support for Croatian and Bosnian separatists during the Yugoslavian civil war of the 1990s, which has created a new "former Yugoslavia" whose map and whose "favored nations" resembles the map drawn by Hitler and Mussolini in 1941. 

The Jasenovac Institute was founded by Barry Lituchy and others to educate people internationally about the Holocaust in Yugoslavia. I am proud to be a member of the Institute’s Board and an active supporter and contributor to its mission. 

The Institute’s name derives from the Jasenovac complex of murder camps run by the Ustasha, a Croatian nationalist organization which the Nazis put into power over Croatia and Bosnia when they dismembered Yugoslavia in 1941. Jasenovac was the third largest extermination camp in Europe after Auschwitz and Treblinka and the only extermination camp not run by Hitler’s SS. In it hundreds of thousands of Serbians, mostly from Croatia and Bosnia, perished (an estimated 600,000-700,000) along with tens of thousands of Jewish and Roma (Gypsy) people. 

Based largely on a conference held at Kingsborough Community College in 1997, Jasenovac exposes the horrors inflicted on the people of Yugoslavia, scholarly debates about the complicity of Croatians, the Vatican, and others in perpetrating those horrors, and their effects on the postwar history of the region and the world. Barry Lituchy’s careful, lucid introduction explains both the complicated historical background, the debates among historians, and the testimonies of survivors that the work presents 

Contributors to this book include many Yugoslav scholars, such as the distinguished Anton Miletic, director of former Yugoslavia’ military archives. Non-Yugoslav participants included Eli Rosenbaum, Director of the Office of Special Investigations of the Justice Department, which sought to deport and extradite fascist war criminals from the U.S., Charles Allen, who pioneered in exposing the fascist criminals living in the "free world" from the 1960s on, and Christopher Simpson, author of the classic work, Blowback: America’s Recruitment of Nazis and its Disastrous Effects on Our Domestic and Foreign Policies. 

The question of records, sources, and numbers of victims is debated by the historians from various perspectives. The book also discusses ability of certain Ustasha war criminals to escape punishment with the assistance of the Vatican and the U.S. government without embellishment. One example was former Secretary General of the UN and Austrian President Kurt Waldheim, a former Wehrmacht officer whom Yugoslav investigators declared a war criminal in 1947, who covered up his past for decades. Among these war criminals was Andrija Artukovic, "Justice Minister" for the Ustasha regime who played a leading role in implementing its racist policies. Artukovic, whom Charles Allen connects with CIA activities in Latin America, actually lived for decades in California, avoiding extradition to Yugoslavia until the mid-1980s. 

Part II of Jasenovac tells the survivors’ stories, which are accounts of horror and courage. Yugoslav partisan forces led by the Yugoslav Communist Party fought German divisions and their Ustasha allies, made an important contribution to the war effort in Europe, and eventually liberated Yugoslavia to a considerable degree. 

Even though Yugoslavia did not join the postwar Soviet alliance system, its attempts to capture and punish fascist war criminals, both Germans and their collaborators, were stymied by NATO bloc intelligence and police agencies who simply "rechristened" these elements anti-Communist "refugees" and "freedom fighters" from the "captive nations" of Europe. 

Jasenovac and the Holocaust in Yugoslavia is enormously valuable both for students of the Holocaust and also general readers who want to understand how history is made and unmade. It is a work that helps us to face and understand modern history’s greatest horrors and hopefully through that understanding to act to prevent either their return or historical denial and amnesia that serves as a precondition for their return. For example, the historical amnesia about the Holocaust in Yugoslavia played a significant role in creating popular acceptance of U.S. and NATO bloc policies that dismembered Yugoslavia. 

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Jasenovac and the Holocaust in Yugoslavia: Analyses and Testimonies

Edited by Barry M. Lituchy, Published by JRI, 2006, 408 pp.

As scholarship and awareness of the Holocaust grew rapidly in the
1990's, information on Jasenovac and the genocides perpetrated
against Serbs, Jews and Romas in Yugoslavia during World War II was
absent from this discussion. This neglect posed some troubling
questions. How could the subject of Jasenovac be absent from public
and scholarly attention at the very moment when discussions of
genocide, war crimes and human rights in the Balkans were on the
front pages of every newspaper, and in the pronouncements of every
Holocaust and human rights institution and governement in the world?
How could any serious public discussion of genocide in the former
Yugoslavia begin without the necessary historical context?

In 1997 Kingsborough Community College in Brooklyn, New York hosted a
conference on Jasenovac and the Holocaust in Yugoslavia. The results
of that conference are presented here for the first time in an
accurate and authorized edition, prepared in cooperation with the
authors.

This book contains 30 chapters including a 40 page introduction.
There are 15 chapters of analyses by historians including Michael
Bernebaum, Christopher Simpson, Antun Miletic, Eli Rosenbaum, Charles
R. Allen Jr. and others, along with 15 chapters of unique Holocaust
testimonies by Jasenovac and other concentration camp survivors.
There are 97 photographs, 30 pages of appendices with never before
translated documents, maps, a twelve page double columned index with
detailed entries, 27 biographical entries on contributors, and
discussion of secondary source literature. The entire book is
annotated and expertly prepared. This book provides one of the most
extensive and accurate presentations of this subject in the English
language ever produced.

To order, send a check or money order for $32 paperback or $37
hardcover (includes shipping and handling) payable to:

Jasenovac Research Institue
PO Box 10-0674
Brooklyn, NY 11210
USA

You may also order on-line at www.jasenovac.org by clicking the
"financial contributions" button and paying through a paypal account.



ACCORPAMENTO DELLE FESTIVITÀ: 2 E 4 NOVEMBRE


Da: www.agitproponline.com

Dopo aver concesso la piazza centrale della palude-Foggia ai
neofascisti il 28 ottobre, la disinibita giunta di centrosinistra
dona ai suoi distratti governati un bell'esempio di praticità e di
risparmio: accorpa due ricorrenze in un solo manifesto e - abile
esperimento sincretico - le commemora in un'unica frase (vogliamo,
per pietas, sorvolare sull'agghiacciante soluzione grafica [si veda
l'immagine al link: https://www.cnj.it/immagini/novembre.gif ] ):

<< In ricordo dei nosti concittadini defunti e dei militari caduti in
guerra e nelle missioni di pace >>.

Il sostanza: il rigoroso sindaco commemora i morti due volte: prima
tutti assieme, come in una sorta di fossa comune immaginaria e
egualitaria. Poi rende omaggio ad una categoria in particolare. Che
anche stavolta non sono gli idraulici caduti in servizio o gli
orologiai morti di crampo alla falange dell'indice. Onora gli italici
militari senza neppure stare a distinguere quelli morti di vento
contrario mentre bombardavano di gas nervino Addis Abeba da quelli
implosi per difendere i pozzi dell'Eni a Nassyria. Sottigliezze da
donnicciole.

CONCORSO A PREMI:

Quali altre festività accorperà d'ora in poi il nostro Gran
Risparmiatore?
Pasqua e il 25 aprile?
San Giuseppe artigiano e la Festa della Repubblica?
E con quale slogan?

www.agitproponline.com

[la foto del manifesto è anche al link: https://www.cnj.it/immagini/
novembre.gif ]


In allegato vi invio un interessante documento sulla questione incombente del Kosovo, che sembra diventata marginale, ma che a mio parere ha tutte le caratteristiche di una bomba innescata in procinto di una spaventevole esplosione. Saluti.
Curzio Bettio

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Le tensioni accelerano in Kosovo la "fine dei giochi"  

di Anes Alic, Sarajevo, ISN Security Watch
(traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova) 

Anes Alic è corrispondente senior di ISN Security Watch ed analista per l’Europa Sud-Est  

10 ottobre 2006 

Con l’indipendenza del Kosovo, imposta dall’ONU probabilmente per la fine dell’anno, gli osservatori temono lo scatenamento della violenza etnica, ma qualcuno afferma che la violenza viene assicurata anche con il  perpetuarsi  dello status quo.

La NATO ha accresciuto la sua presenza nella provincia Serba del Kosovo, sotto amministrazione ONU, a fronte di una rinnovata violenza etnica, nel momento in cui la comunità internazionale prepara la fine dello status del Kosovo come provincia della Serbia. 
Nell’ultima settimana, i sei membri del Gruppo di Contatto - Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, Francia, Italia, e la Germania – che hanno sovrinteso la diplomazia nei Balcani nel passato decennio, hanno autorizzato il mediatore capo ONU Martti Ahtisaari di proporre una soluzione per lo status finale del Kosovo e di acquisire la risoluzione della questione per la fine di quest’anno. 
Il 20 settembre 2006, il Gruppo di Contatto ha autorizzato Ahtisaari ad assumere una decisione, anche in assenza del consenso della Serbia o degli Albanesi Kosovari, e d’altro canto non verrà permesso alcun blocco della messa in attuazione delle decisioni.  
La soluzione finale, che più diffusamente viene prevista, conduce all’indipendenza, per imposizione dell’ONU e sotto la supervisione costante dell’Unione Europea e della NATO.
I governi Occidentali hanno respinto gli appelli della Russia e della Serbia di rallentare il processo, in modo da consentire più tempo per i colloqui fra le due parti interessate. 
Inaspettatamente, almeno per Belgrado, la Russia, l’alleato politico di sempre della Serbia, ha dato il suo appoggio ad ogni dettaglio del documento del Gruppo di Contatto. Le autorità Serbe si aspettavano che la Russia usasse il suo potere di veto. Alcuni osservatori pensano che la Russia non abbia esercitato il suo diritto di veto in parte a causa del fatto che l’indipendenza del Kosovo potrebbe fornire argomenti per l’indipendenza delle repubbliche secessioniste della Georgia appoggiate dalla Russia e per la separazione dalla Moldavia della regione della Transdneistria.
“I Ministri hanno riaffermato il loro impegno che tutti gli sforzi possibili verranno fatti  nel corso del 2006 per acquisire un accordo negoziato,” così recita la risoluzione del Gruppo di Contatto.  
Il Gruppo raccomanda a Ahtisaari di redigere una proposta di accordo sullo status per una sua presa in esame entro quattro, fino a sei, settimane. 
In precedenti dichiarazioni, Ahtisaari aveva affermato che una soluzione negoziata rimaneva la speranza di tutti, e che lo status quo era privo di stabilità e che non si poteva continuare così all’infinito. Inoltre, Ahtisaari ribadiva che, visto che non era stato posto un termine ultimo, la sua intenzione era di portare avanti il processo più rapidamente possibile.  
Comunque, il governo Serbo aveva invitato Ahtisaari a farsi da parte, accusandolo di stare dalla parte dei Kosovari Albanesi rispetto a questa delicata questione. “Per Ahtisaari sarebbe più onesto rassegnare le dimissioni invece di dimostrarsi apertamente, davanti al mondo intero, dalla parte dei separatisti Albanesi.”, questo ha dichiarato a Belgrado in una conferenza stampa del 22 settembre il portavoce del governo Serbo   Srdjan Djuric, ribadendo che la Serbia avrebbe respinto tutte le soluzioni che implicavano una modifica dei suoi confini.  

Il Kosovo è stato sotto amministrazione ONU dal 1999, in seguito alla campagna di bombardamenti NATO che vi ha scacciato le forze Serbe accusate di pulizia etnica. 
Recenti colloqui fra i Serbi, che esigono che il Kosovo rimanga parte della Serbia, e la maggioranza Albanese, che vuole null’altro che l’indipendenza, sono falliti senza produrre passi significativi.
Le nazioni Occidentali tendono a considerare le autorità Serbe come ostruzioniste.  
Quando i colloqui avevano avuto inizio a febbraio 2006, la comunità internazionale aveva detto chiaramente che se le due parti mancavano il raggiungimento di un compromesso, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU avrebbe preso la materia nelle sue mani. 
L’ultima dichiarazione del Gruppo di Contatto non ha ingenerato sorpresa, arrivando immediatamente dopo un recente rapporto del delegato di Ahtisaari, Albert Rohan, che descriveva le possibilità di progressi ulteriori nei negoziati come “sempre più scarse”. 
Sette cicli di colloqui a Vienna patrocinati dall’ONU hanno prodotto deboli risultati, e, dopo mesi di negoziati, le delegazioni della Serbia e dei Kosovari non si sono scostate dalle loro originali posizioni.   
Finora, i negoziati si sono incentrati su questioni minori, come la creazione di più municipalità per la minoranza Serba e lo spostamento di poteri dal governo centrale alle autorità municipali.  
Malgrado la considerazione che la parte Serba sia ostruzionista, la comunità internazionale ha mosso critiche anche alla parte Kosovaro Albanese per non aver fornito sufficienti assicurazioni di maggiori diritti alla minoranza Serba e per non avere favorito la creazione di una società sinceramente multi-etnica.   
La minoranza Serba vive in aree separate sorvegliate dai “peacekeepers”, i protettori di pace, della NATO. Funzionari Serbi stimano che quasi 200.000 Serbi hanno dovuto abbandonare le loro case nel corso degli ultimi sette anni e si sono stabiliti proprio in Serbia.
Le autorità dell’etnia Albanese hanno elogiato la decisione del Gruppo di Contatto di porre termine allo status di provincia del Kosovo per la fine di quest’anno, e si sono impegnate ad acquisire gli standards di una società democratica, assicurando la multi-etnicità e la protezione delle minoranze.  
Pur tuttavia, non ci si può aspettare il risultato di vedere un’armoniosa applicazione di questi propositi! 

Il Presidente della Serbia Boris Tadic, un politico moderato, ha affermato che ogni decisione imposta riguardante il Kosovo potrebbe scatenare un conflitto etnico con conseguenze disastrose. 
Tadic ha confermato che una separazione imposta potrebbe portare al potere in Serbia i partiti ultra-nazionalisti, con le elezioni indette per il prossimo anno. Inoltre, il presidente della Serbia ha insistito nel dire che una soluzione per il Kosovo imposta dall’ONU porterebbe a destabilizzare alcuni paesi dell’area Balcanica, con il risultato che verosimilmente verrebbe ostacolato il loro cammino verso il congiungimento al consesso dei membri dell’Unione Europea.  
A New York, il Ministro degli Esteri dell’Ucraina, Borys Tarasyuk, ha manifestato all’Assemblea Generale dell’ONU che il conferimento dell’indipendenza al Kosovo produrrebbe una reazione a catena dal Mar Nero fino al Caucaso. 
Il Ministro degli Esteri della Serbia, Vuk Draskovic ha dichiarato al quotidiano Kosovaro “Epoka e Re” che l’indipendenza della provincia avrebbe scatenato turbative non solo in Kosovo, ma anche nella vicina  Bosnia - Erzegovina, nel Montenegro e in Macedonia.
Il 25 settembre, Draskovic affermava: “[...]Nei Balcani non si è mai avuta una variazione di confini attraverso un accordo. I confini sono sempre stati cambiati attraverso guerre, ed imporre l’indipendenza del Kosovo naturalmente causerebbe una conflittualità di questa natura.” 
Ma Ahtisaari non è d’accordo!
In una conferenza stampa, seguita all’incontro del Gruppo di Contatto del 20 settembre, così si è pronunciato: “Nel mondo le crisi hanno cause differenti, e allora si rende necessario trovare specifiche soluzioni per ognuna di esse.”

Tuttavia, altri contano di prendere vantaggio dall’indipendenza del Kosovo, che appare essere incombente. 
I leaders Serbi del governo della Repubblica Srpska di Bosnia, nella loro campagna per le elezioni generali in Bosnia organizzate per l’1 ottobre, hanno indicato che, se il Kosovo fosse dichiarato indipendente, questo fornirebbe legittimazione al loro stesso diritto di secessione dalla Bosnia. La comunità internazionale ha categoricamente respinto una simile idea. 
Ritornando al Kosovo, la parte settentrionale della provincia a prevalenza Serba ha minacciato la secessione e di spaccare in due la provincia, se da parte dell’ONU venisse garantita al Kosovo l’indipendenza.   
Per tutto questo, la maggioranza di etnia Albanese è sotto l’intensa pressione Occidentale perché siano fatti progressi nell’assicurare i diritti e la sicurezza dei rimanenti 100.000 Serbi, che vivono isolati e protetti dai “peacekeepers” internazionali, in modo da rimuovere ogni giustificazione di una qualche loro dichiarazione di secessione. 
James Lyon, il direttore del comitato di esperti del Gruppo di Crisi Internazionale (ICG) con sede a Brussels per il  “progetto Serbia”, ha riferito a ISN Security Watch, all’inizio di quest’anno, che l’indipendenza era l’unica soluzione “praticabile” per il Kosovo e che questo non necessariamente avrebbe procurato instabilità nella regione. Queste le sue parole: “Malgrado il forte desiderio di qualcuno degli ambienti di Belgrado di portare avanti l’idea che l’indipendenza del Kosovo avrebbe l’effetto di una reazione a catena in altre aree dei Balcani, non riusciamo a scorgere una tale potenzialità. Comunque, i Balcani hanno subito delle modificazioni negli ultimi cinque anni e le minacce alla sicurezza e alla stabilità della regione non sono avvenute più di tanto. La cosa da sottolineare in primis è che l’effetto domino non è necessariamente un argomento genuino.”   
Lyon riteneva che non vi fosse “ alcun diretto parallelismo fra il Kosovo e le zone della Bosnia non abitate dai Serbi” e che “la Repubblica Srpska si era costituita sul genocidio e la pulizia etnica.” 
Inoltre affermava che la situazione della Macedonia era molto differente da quella del 2001, quando era scoppiato il conflitto fra le forze di sicurezza Macedoni e l’etnia Albanese. “ Il paese sembra aver risolto le sue differenze interne [...].”
Però, le autorità Serbe, ancora barcollanti per il colpo ricevuto dalla perdita del Montenegro, che aveva votato per l’indipendenza nel referendum di maggio e poco dopo aveva rotto la sua unione statuale con la Serbia, hanno assicurato che non permetteranno di vedersi scivolare dalle mani il Kosovo.  
Il governo Serbo, guidato dal Primo Ministro nazionalista Vojislav Kostunica, ha previsto di includere un preambolo nella nuova Costituzione della Serbia che descrive il Kosovo come “parte integrante” della nazione. 
(N.d.tr.: il 30 ottobre 2006 sono stati resi pubblici i dati relativi al referendum confermativo della nuova Carta Costituzionale della Serbia, dove il Kosovo viene definito parte integrante della Serbia: votanti il 54,19% degli aventi diritto, voti di assenso 52,31%. Il premier di Belgrado, Vojislav Kostunica, dai microfoni di una tv russa ha lanciato il monito: “Informo i sostenitori della causa indipendentista del Kosovo che qualsiasi eventuale riconoscimento di Pristina non sarà privo di conseguenze nei rapporti con la Serbia.”)
Addirittura, il leader del partito radicale Serbo,Tomislav Nikolic, ha esortato l’esercito a stare in assoluto allarme per un possibile conflitto armato, quantunque il governo e la comunità internazionale abbiano respinto questo appello lanciato da Nikolic durante una parata militare del fine settimana. 

Sebbene siano in pochi a pensare che in Kosovo possa scoppiare un altro conflitto armato, gli osservatori vedono buone possibilità di aumento della violenza etnica. 
Dal 1999, sono state riportate cronache di incidenti dovuti a violenza etnica settimanalmente, se non quotidianamente; molti di questi implicavano attacchi etnici degli Albanesi contro le enclaves della minoranza Serba.   
Nel marzo 2004, 19 persone Serbe sono state uccise e quasi 4.000 Serbi sono stati scacciati durante tumulti, che hanno visto danneggiate centinaia di abitazioni e chiese e monasteri Ortodossi. 
Di fronte a tutto questo, e con la variazione di status della provincia proprio dietro l’angolo, la forza di peacekeeping della Nato costituita da 16.000 uomini ha aumentato le sue pattuglie nella parte recalcitrante del nord della provincia, dove vive la maggioranza dei Serbi del Kosovo, in seguito ad una serie di incidenti avvenuti nella settimana scorsa.  
Durante l’ultima settimana, vi sono stati quattro attentati terroristici, uno dei quali ha colpito quattro Serbi nella parte occidentale della città di Gnjilane, dove Albanesi e Serbi convivono. 
Altre tre bombe sono state posizionate sotto automobili parcheggiate, una del Ministro dell’Interno del Kosovo, Fatmir Rexhepi. In questi incidenti non ci sono stati feriti. Non è chiaro se questi attentati siano relativi alle tensioni etniche o costituiscano rese dei conti fra organizzazioni rivali politiche o criminali.  
Il Primo Ministro del Kosovo, Agim Ceku, ha dichiarato in un’intervista a “The Associated Press”, che accusava i nazionalisti Serbi di usare una “propaganda primitiva” per scatenare tensioni etniche in modo da far deragliare la soluzione dell’ONU per il Kosovo.    
All’avvicinarsi della soluzione finale per lo status del Kosovo, le autorità internazionali temono che le tensioni fra le comunità Kosovare possano aumentare. 
In ogni caso, ci si aspetta uno scatenarsi della violenza. Se si decide per l’indipendenza, vi è la preoccupazione che alcuni tipi di forze paramilitari Serbe possano intervenire con la scusa di proteggere la minoranza Serba. D’altro canto, se viene rigettata l’indipendenza e si consente allo status quo di persistere, gli Albanesi Kosovari potranno intensificare gli attacchi contro i Serbi.  
Le autorità internazionali, attraverso il nuovo comandante della Nato in Kosovo, il Generale tedesco Roland Kater, hanno sottolineato di essere determinate ad ostacolare ogni minaccia alla sicurezza, affermando che la forza di peacekeeping è del tutto preparata a superare ogni ostacolo alla stabilità.   
Così si è espresso Kater in un documento: “Chiunque pensi che non vi sarà uno sviluppo di pace della situazione duranti i prossimi colloqui per risolvere lo status del Kosovo, io lo informo che non verrà tollerata violenza da qualsiasi parte provenga.”  
Inoltre ha affermato che la situazione della sicurezza in Kosovo e lungo i confini con la Serbia rimane buona.  
Durante la vista in Kosovo alla fine della settimana, il comandante delle Forze dell’Unione Europea (EUFOR), Generale Reiner Scuwirth, ha fornito istruzioni alle truppe di stare pronte a confrontarsi con qualsiasi formazione che tenti di fomentare disordini e insicurezza. 
Ma molti osservatori convengono che la violenza probabilmente si scatenerà, qualsiasi siano le condizioni – che si mantenga lo status quo o che venga dichiarata l’indipendenza. 
James Lyon, il direttore del comitato di esperti del Gruppo di Crisi Internazionale (ICG) si è pronunciato in questo modo: “Lo status corrente del Kosovo è così intrattabile ed inadatto a creare una stabile situazione economica, sociale e politica che bisogna trovare un nuovo status. Di tutte le opzioni ipotizzabili, l’indipendenza è quella maggiormente praticabile.” 

© Copyright , ISN Security Watch, 2006 



 


Perché i laboratori della "guerra umanitaria" sono preoccupati delle nostra controinformazione sul caso del Darfur?

Alcune settimane fa, avevamo scoperto che un importante sito specializzato vicino al complesso militare-industriale italiano e alla NATO (www.paginedidifesa.it) , con un articolo di Franco Londei che riproduciamo nel nostro dossier, si stava preoccupando delle denunce e della documentazione che Contropiano da tempo sta producendo sulla preparazione di una nuova “guerra umanitaria” nel Darfur, regione occidentale del Sudan (con le esatte e medesime caratteristiche, fonti, soggetti, ragionamenti di quella in Kossovo). Avevamo annunciato che stavamo preparando un altro dossier ancora più corposo e significativo sul Darfur e sulla preparazione di una nuova “guerra umanitaria” in questa importante regione africana. 

In un successivo articolo su un altro sito (http://inpolitica.net),  Franco Londei tornava a contestare il nostro impianto di analisi sulla situazione in Darfur dichiarandosi amareggiato di come un sito “pacifista” (Contropiano non è un sito pacifista ma è contro la guerra, la differenza, come ha detto Gino Strada a luglio, è ormai discriminante, NdR) potesse opporsi all’intervento dell’ONU per risolvere una emergenza umanitaria come quella in Darfur. Il ricorso a luoghi comuni e ai ricatti morali (“è facile parlare e dire di no quando si sta comodi nelle proprie case” etc. etc…), cerca di confondere le carte con il buonismo. In discussione infatti non è l’emergenza umanitaria per i profughi del Darfur (dovuta però non solo alla guerra ma anche a fenomeni climatici di cui non si parla mai) ma la manipolazione di questa emergenza umanitaria ai fini di un intervento politico-militare da parte degli Stati Uniti e della NATO in questa area del mondo. Non dovrebbero essere sfuggiti alcuni particolari come la preoccupazione di Washington per il recente vertice tra Cina e paesi africani (a cavallo tra ottobre e novembre) e per la penetrazione della Cina in una regione come quella africana che Stati Uniti e Francia ritengono loro esclusiva riserva di caccia. Il Sudan, in questo scenario, è paradigmatico. Le preoccupazioni umanitarie di Washington e di Parigi le abbiamo già viste all’opera in Jugoslavia, in Iraq, in Afghanistan, in Costa d’Avorio. Si chiamano colonialismo, tant’è che i sostenitori dell’intervento umanitario in Darfur contestano anche la capacità dell’Unione Africana di poter gestire la crisi…in fondo sono…africani, quindi dobbiamo mandare i soldati e gli esperti umanitari delle potenze occidentali a risolvere la crisi.

Non deve sorprendere che l’intervento militare colonial-umanitario si faccia spianare la strada da denunce e documenti di organizzazioni internazionali. Ma queste organizzazioni sono legate a doppio filo con l’establishment statunitense (dall’International Crisis Group di  Gorge Soros ed Emma Bonino a Human Rights Watch). Li abbiamo già visti all’opera con falsità, manipolazioni e denunce in Kosovo (smentite poi dalla realtà come le fosse comuni) per preparare l’opinione pubblica a legittimare i bombardamenti e gli interventi militari sul campo. Ce li siamo studiati da vicino, abbiamo radiografato il loro modus operandi, il tono e la costruzione delle notizie e delle denunce. Quelle sul Darfur sono praticamente la fotocopia di quelle che avevamo già visto e sentito sulla Jugoslavia. Diciamo solo che di costoro non ci fidiamo perché non sono degni di fiducia. Si schierano con i più deboli ma lavorano per i più forti.

E’ bene dunque che le forze democratiche e contro la guerra, sappiano che cosa si sta preparando per il Darfur e non si facciano cogliere impreparate. Noi cerchiamo di fornire documentazione e chiavi di lettura che consentano di non cadere nella trappola di quello che Giulietto Chiesa ha definito giustamente lo “tsunami mediatico” al quale è difficile resistere se non si è ben saldi nelle proprie analisi. A questo scopo, da lunedi 6 novembre sul nostro sito (www.contropiano.org ) mettiamo a disposizione il nostro dossier. Qui di seguito il sommario dei documenti e dei contributi ospitati nel dossier.

La redazione di Contropiano

Darfur.
Come i laboratori della guerra umanitaria
stanno preparando l’intervento militare contro il Sudan
 
Un dossier di Contropiano
 
******** 
Sommario:
 
            Premessa della redazione di Contropiano
 
  1. I laboratori della guerra umanitaria tornano all’opera
 
  1. Cronologia degli avvenimenti nel 2006
 
 
  1. La vera posta in gioco in Sudan e Darfur. Dieci interventi che smascherano l’ambiguità della guerra “umanitaria” e chiariscono gli obiettivi degli Stati Uniti
-          Perché il Sudan rifiuta le truppe dell’ONU (di Sara Flounders)
-          Il ruolo degli Stati Uniti nel Darfur (di Sara Flounders)
-          Dopo l’Iraq, il Sudan? (di Luca Galassi)
-          Fuori dall’Iraq, ora nel Darfur (di Gery Leupp)
-          Sudan. Verso una nuova guerra contro un paese arabo? (di Mohamed Hassan)
-          Le potenze occidentali orchestrano la disintegrazione del Sudan (di Uwe Frieseke)
-          Come la propaganda umanitaria prepara una nuova “guerra umanitaria” (di Claudio Moffa)
-          E’ umanitario l’interventismo umanitario? La cortina di fumo nel Darfur (di Carl G. Estabrook)
-          Gli affari dei trafficanti di armi israeliani (anche in Sudan) (di Luca Airoldi)
-         Non si aiuta il Darfur con le minacce al governo sudanese (di Adrian Hamilton)

 

  1. Stati Uniti e NATO puntano a intervenire militarmente contro il Sudan
-         Per Bush necessario un maggiore impegno della Nato nel Darfur (di M. Brugnara)
-         La Nato scalda i motori per la " guerra umanitaria " in Darfur (agenzia ANSA)
-         Sudan, la Nato pronta a intervenire nel Darfur se l’Onu chiama (agenzia ANSA)
-         Nato - Afghanistan e Darfur. L'Alleanza pensa globale (Quadrante Europa)

  

  1. Come i laboratori della guerra umanitaria e i neocons italiani preparano il terreno all’intervento militare
-         Emma Bonino "Darfur: Il peggio deve venire"  (Emma Bonino)
-         La mancata protezione del Darfur (International Crisis Group)
-         La crisi del Darfur arriva alla Camera (la posizione dei DS)
-         La marcia dell'Iran sul Darfur (Massimo Introvigne)
-         Una tragedia inevitabile? (di Carlo Calia)
 

ITALIA E JUGOSLAVIA, DIVERSE O UGUALI?



http://www.repubblica.it/2006/11/sezioni/cronaca/4-novembre/4-
novembre/4-novembre.html

L'intervento del Capo dello Stato alle celebrazioni del 4 novembre
scatena l'ira della Lega: "L'unità si ottiene lasciando libere le
persone a casa propria"

Napolitano: "L'unità nazionale va preservata da conati secessione"


ROMA - Giorgio Napolitano lancia un monito al mondo politico,
chiedendo di preservare l'unità nazionale da "antistorici conati di
secessione" e scatena la reazione della Lega nord che accusa il capo
dello Stato di ignorare le spinte federaliste. In difesa del capo
dello Stato si schierano immediatamente i partiti della maggioranza,
a cominciare dal premier Prodi che si dichiara "perfettamente
d'accordo" con le cose dette da Napolitano, sperando che arrivi "il
momento in cui non c'è neanche bisogno di dirle".

Ma adesione arriva anche dagli altri partiti del centrodestra, che
inoltre, ad eccezione di Forza Italia, non gradiscono per nulla le
argomentazioni del Carroccio. Con Napolitano si schiera pure Marco
Follini, che un po' sconsolato osserva che l'Italia è uno strano
paese in cui si riesce a polemizzare su cose ovvie.

"Oggi, deve sempre considerarsi un bene prezioso e imperativo supremo
l'unità nazionale, che va preservata, anche in una possibile
articolazione federale, dall'insidia di contrapposizioni fuorvianti e
da antistorici conati di secessione", ha detto il capo dello Stato
nel corso delle celebrazioni per la giornata dell'Unità d'Italia e
della Festa delle Forze armate al Quirinale. Per Napolitano, inoltre,
"solo rafforzando la comune identità e l'effettiva coesione del
paese, l'Italia può mettere a frutto le sue potenzialità".

Immediata la reazione della Lega. Il primo a rispondere è Roberto
Calderoli: "L'unità nazionale non si difende con i proclami o
insultando la secessione, ma la si tutela riconoscendo il
federalismo", ha detto il vice presidente del Senato. Altrettanto
dure le parole degli altri esponenti del Carroccio. "Basta conati di
vecchio centralismo", ha attaccato Roberto Cota, vice presidente del
Carroccio alla Camera; mentre il presidente federale Angelo
Alessandri ha chiesto a Napolitano di "ascoltare la gente" e di
"rispettare il desiderio di autonomia e indipendenza della Padania".

Diversa la reazione degli altri partiti della Casa delle libertà.
Forza Italia difende Napolitano, ma anche il Carroccio. "Sono giuste
la parole del presidente della Repubblica", ha detto Sandro Bondi,
sottolineando però che "oggi nessuno nel panorama politico italiano
coltiva l'idea di secessione, anzi in questi anni la Lega ha avuto il
merito di propugnare la riforma dello Stato".

In favore del capo dello Stato interviene Alleanza Nazionale, che con
Gianfranco Fini critica chi vuole "strumentalizzare" il suo monito.
"Le parole del presidente Napolitano sono chiare e condivisibili da
tutti: se c'è chi le vuole strumentalizzare leggendovi significati
politici che non vi sono questo è affar suo", ha detto il presidente
di An.

Polemica nei confronti dei leghisti, senza però risparmiare il
centrosinistra, anche l'Udc. 'Condividiamo i giusti richiami del
presidente della Repubblica. L'unità e la solidarietà tra le diverse
aree del Paese sono, per noi, elementi irrinunciabili", ha scandito
il segretario del partito Lorenzo Cesa, sottolineando che
"irresponsabile è speculare sui problemi del Mezzogiorno e alimentare
sentimenti di divisione tra nord e sud". Altrettanto esplicito il
portavoce dei centristi Michele Vietti: "Le reazioni stizzite
mostrano solo code di paglia e non servono a mettere in mora coloro
che nel centrosinistra hanno contestato la festa delle forze armate e
gli impegni internazionali dell'Italia", ha detto Vietti, secondo il
quale "il monito del presidente della Repubblica è rivolto a tutti
coloro che, a destra come a sinistra, mettono in discussione i valori
di Patria".

Compatto in difesa del capo dello Stato il centrosinistra.
Luciano Violante (Ds) ha definito "fondamentale il richiamo" di
Napolitano, sottolineando che è nel solco tracciato dai precedenti
presidenti della Repubblica. Franco Monaco (ulivista vicino a Romano
Prodi) ha attaccato la Lega, accusandola di "porsi fuori dall'arco
costituzionale". Anche da Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani,
infine, sono arrivate parole di elogio verso Napolitano.

(4 novembre 2006)