Informazione

PAZZI ED INCAPACI... O FURBI E MALVAGI?


SERVENTI LONGHI (FNSI) SUL TRATTAMENTO CHE I MEDIA HANNO RISERVATO AL CORTEO PRO-PALESTINA DI ROMA:
“SIAMO DI FRONTE ALL’IMPAZZIMENTO DELL’INFORMAZIONE E DELLA COMUNICAZIONE”

Rca news – martedì 21 novembre 2006


“Ho una tragica certezza, che è quella che ormai l’informazione segue un percorso perverso. Di un evento i media enfatizzano una parte marginale, assolutamente non centrale, quella che però rende l’evento particolare, un cazzotto nello stomaco: credo che così non vada bene.”
Questo è ciò che Paolo Serventi Longhi, presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, ha affermato ai microfoni di Radio Città Aperta in una lunga intervista andata in onda questa mattina alle 11.00, incentrata sull’analisi del modo in cui i mezzi di informazione hanno trattato una serie di eventi che si sono svolti nella giornata di sabato, in particolar modo il corteo per la Palestina di Roma.
“Sabato vi erano diverse ipotesi di concentrazione di opinioni in dissonanza con quelle dell’attuale governo e di quello precedente. Vi erano tutta una serie di eventi assolutamente rilevanti rispetto ai quali tutto è scomparso, tutto è stato cancellato: la partecipazione, i temi, lo sforzo di mobilitare la gente. Invece è stata enfatizzata una vicenda, quella del rogo dei fantocci con le divise, che da tre giorni monopolizza gli organi di informazione, radio, TV e quotidiani. E’ stata approvata una Finanziaria e scarse tracce vi erano di questo sui giornali di ieri.
Io credo che siamo tutti impazziti. Siamo di fronte ad un impazzimento dell’informazione e della comunicazione nella società italiana. E’ incredibile come ormai l’informazione in Italia - forse per strumentalizzazione, forse per incapacità di trovare il senso delle cose che accadono - enfatizzi un fatto che è stato chiaramente circoscritto. Quello che preoccupa è che il messaggio mediatico viene immediatamente raccolto, enfatizzato e amplificato dal sistema politico. Non vorrei che l’istituzione e la politica fossero un tutt’uno con questa cassa di risonanza mediatica che non riesce più a vedere al di là del proprio naso.”
Aggiunge il leader del sindacato nazionale dei giornalisti Serventi Longhi ai microfoni dell’emittente romana:
“La libertà di informazione va difesa. Stiamo rinnovando un contratto che limiti la precarietà nel settore giornalistico; d’altra parte però gli interessi politici ed economici delle testate, dei proprietari delle testate e degli amici dei proprietari delle testate operano un tale condizionamento da generare un coro unanime che rende impossibile capire quello che succede”


Ancora sul '56 ungherese

1) INFILTRATI DELLA CIA A BUDAPEST DURANTE LA RIVOLTA

2) Il PCI e il 1956. Dal XX Congresso ai fatti d’Ungheria.
Un’antologia di scritti e documenti a cura di Alexander Höbel


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UNGHERIA: INFILTRATI DELLA CIA A BUDAPEST DURANTE LA RIVOLTA
DECLASSIFICATI DOCUMENTI DELL'INTELLIGENCE USA SUI FATTI DEL '56

Washington, 5 nov. - (Adnkronos) - Nella Budapest dell'invasione sovietica del '56, i servizi segreti americani riuscirono ad infiltrare piccoli gruppi paramilitari e unita' di guerra psicologica. Si trattava di emigrati che erano riusciti ad entrare nel paese del Patto di Varsavia gia' nei primi anni cinquanta, denominati 'Red Sox' o 'Red Cap' o ancora 'Volunteer Freedom Corps'. Anche se ufficialmente l'Agenzia non ne ha mai confermato l'esistenza, da alcuni documenti appena declassificati in occasione del cinquantenario dei fatti d'Ungheria emerge che questi gruppi riuscirono a portare a termine diverse operazioni e fornire preziose informazioni al quartier generale oltreoceano, in piena Guerra Fredda. La penetrazione della Cia al di la' della cortina di ferro colpì particolarmente i sovietici. Tanto da far sentenziare il 28 ottobre 1956 al generale Klement Voroshilov durante la sessione del Presidio:''i servizi segreti americani sono piu' attivi in Ungheria dei compagni Suslov e Mikoyan''. Tuttavia, sempre secondo i file declassificati dalll'intelligence USA sulla rivolta ungherese, l'Agenzia nata nel 1947 dalle ceneri dell'Office Strategic Service (Oss), non potè contare che su un solo ufficiale di collegamento a Budapest: Geza Katona, che ha permesso allo storico Charles Gati, professore della John Hopkins University, di rivelare il suo nome nel libro appena pubblicato dal titolo 'Failed illusions: Moscow, Washington, Budapest and the 1956 Hungarian Revolt'.


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Subject: PCI e 1956
Date: November 15, 2006 12:57:09 PM GMT+01:00

da qualche giorno è uscito, edito dalla casa editrice "La Città del Sole" nella collana "Archivio storico del movimento operaio", un libretto che ho curato dal titolo "Il PCI e il 1956. Scritti e documenti dal XX Congresso del PCUS ai fatti d'Ungheria". Si tratta di una raccolta di testi dell'epoca - prevalentemente di Togliatti, ma non solo - sui principali nodi politici che emersero in quell'anno. Al di là dei giudizi che se ne possono dare e delle diverse posizioni che possono esservi in ambito comunista oggi su quei fatti, mi sembra si tratti di una documentazione interessante, utile da conoscersi o da rileggersi, in quanto può: 1) aiutarci a respingere l'offensiva avversaria sul '56 e non solo, restituendo le motivazioni e la complessità delle posizioni espresse allora; 2) contribuire a rilanciare il dibattito dei comunisti oggi sulle questioni che si posero in quei mesi (storia dell'URSS e degli anni di direzione staliniana, ruolo dell'URSS negli anni della Guerra fredda, decolonizzazione, rapporti tra partiti comunisti, "vie nazionali" ecc.), andando al di là delle banalizzazioni di temi così complessi emerse in ambito politico negli scorsi mesi e anni.
Vi allego pertanto indice e premessa del volume (frutto di un lavoro di mediazione tra le diverse posizioni presenti nell'Archivio storico del mov. op.), sperando che possano essere di qualche interesse. In particolare, se vi fossero compagni o strutture interessati ad acquistare un po' di copie (il costo è di 10 euro, le pagine poco più di 200), possono rivolgersi alla casa editrice (info@...). Se invece ci fosse l'intenzione di presentazioni o dibattiti che prendano spunto dal libro, possiamo sentirci direttamente per e-mail.
Fraterni saluti,

 

Alessandro Höbel


Il PCI e il 1956
Dal XX Congresso ai fatti d’Ungheria.
Un’antologia di scritti e documenti
a cura di Alexander Höbel


Indice

- Premessa
- Introduzione


1.P. Togliatti, Il XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, rapporto alla sessione del CC del PCI del 13-14 marzo 1956 
2.P. Togliatti, Conclusioni al Consiglio nazionale del PCI, 5 aprile 1956 
3.P. Togliatti, Risposte a “Nove domande sullo stalinismo” (Intervista a “Nuovi Argomenti”), maggio-giugno 1956 
4.P. Togliatti, La via italiana al socialismo, rapporto alla sessione del CC del PCI del 24-25 giugno 1956 
5.P. Togliatti, La presenza del nemico, “l’Unità”, 3 luglio 1956
6.Sugli avvenimenti polacchi e ungheresi e sulla dichiarazione della delegazione recatasi in Jugoslavia, comunicato della Direzione del PCI, “l’Unità”, 26 ottobre 1956 
7.Cellula del PCI “Giaime Pintor” della casa editrice Einaudi, Appello ai comunisti, 29 ottobre 1956
8.Lettera dei 101, 29 ottobre 1956 
9.P. Togliatti, Sui fatti d’Ungheria, “l’Unità”, 30 ottobre 1956
10. Verbale della riunione della Direzione del PCI, 30 ottobre 1956 
11. Il giudizio della Direzione del PCI sui fatti di Ungheria e di Polonia, comunicato della Direzione del PCI, “l’Unità”, 3 novembre 1956 
12. P. Togliatti, Ancora sui fatti di Ungheria, discorso tenuto all’VIII Congresso della Federazione bolognese del PCI 18 novembre 1956 
13. P. Togliatti, Per una via italiana al socialismo. Per un governo democratico delle classi lavoratrici, rapporto all’VIII Congresso del PCI, 8 dicembre 1956 
14. P. Togliatti, Iradalmi Ujsàg, “Rinascita”, marzo 1957 


Premessa

1.Il cinquantesimo anniversario del 1956 – anno cruciale per la vicenda del comunismo storico novecentesco, con il XX Congresso del PCUS, lo scioglimento del Cominform, le rivolte di Poznan e Budapest e l’intervento sovietico in Ungheria – ha inevitabilmente riaperto il dibattito su quegli eventi. O meglio, di due tipi di dibattito. Quello ideologico (nel senso marxiano di produttore di falsa coscienza), condotto in primo luogo dai mass-media, egemonizzato dai critici acerrimi e dai demonizzatori del comunismo, i quali si fanno forza anche delle autocritiche di importanti esponenti dell’allora PCI; e quello più propriamente storico-politico, frutto del lavoro di vari ricercatori a livello internazionale, oltre che della passione critica di studiosi militanti e di alcuni dei protagonisti di allora.
Soffermiamoci brevemente sul primo versante, molto forte soprattutto sulla vicenda ungherese. È un tipo di discussione fatta perlopiù di anatemi, giudizi morali e a volte moralistici, che non si cura molto dei fatti in quanto tali né tanto meno del loro contesto, né riporta nulla della nuova documentazione emersa nei più accreditati studi sulla guerra fredda. Parliamo, ad esempio, dei verbali del Presidium del PCUS dei giorni che precedono il secondo intervento sovietica, che dimostrano il peso dell’attacco anglo-francese a Suez nel determinare il mutamento di linea del gruppo dirigente del PCUS, facendolo optare per il ritorno dell’Armata Rossa in Ungheria. (1)
Naturalmente la stampa ricorda solo en passant che negli stessi giorni Israele, Gran Bretagna e Francia attaccavano l’Egitto, che aveva osato nazionalizzare il canale di Suez. Un articolo di “Repubblica” pare ridurre quell’aggressione quasi a un fatto di costume, di cui segnalare aspetti “singolari” come il piano di battaglia disegnato su un pacchetto di sigarette, sottolineando altresì che l’Egitto era per Israele un “avversario tenace e bellicoso”, decisamente pericoloso. (2)  Toni ben diversi, dunque, rispetto a quelli usati per i fatti ungheresi. Cosicché, mentre si sollecitano e si raccolgono le autocritiche degli ex-dirigenti comunisti, è piuttosto improbabile che si chieda a qualcuno dei leader politici occidentali di allora di “autocriticarsi” per Suez. Eppure non pochi uomini politici e intellettuali occidentali appoggiarono l’attacco, compresi molti democratici e progressisti (presidente del Consiglio francese era il socialista Guy Mollet). Il governo italiano, che aveva giudicato la nazionalizzazione del Canale un atto ‘illecito’ e ‘chiaramente ostile nei confronti di tutto il mondo occidentale’, non approvò la guerra, ma il ministro Martino alla Camera espresse comprensione verso Israele, che aveva dovuto reprimere ‘le forze più bellicose e intransigenti dei paesi vicini’, aggiungendo di non aver ‘potuto approvare le ultime decisioni anglo-francesi’ non in base a un giudizio di merito, ma per non ‘menomare l’autorità delle Nazioni Unite’. (3)
E qui veniamo a quella che si potrebbe definire la “asimmetria delle critiche e delle autocritiche”, che rimanda a un’asimmetria complessiva nell’informazione e nell’analisi che i mass-media impongono rispetto alla guerra fredda, e in generale al Novecento e al tremendo scontro di classe su scala mondiale che lo ha caratterizzato: i “buoni” sono collocati da una parte, i violenti e gli antidemocratici dall’altra. Dimenticando che, proprio in nome dell’anticomunismo e della “difesa della democrazia” e della “libertà” (o, come si dice più sinceramente, “del nostro stile di vita”), si sono giustificate decine di golpe e dittature militari promossi o sostenuti dagli USA, e si sono perpetrati una quantità di crimini orrendi, che vanno da guerre spaventose come quella del Vietnam fino alla strategia della tensione che ha insanguinato il nostro paese, passando per il milione di comunisti uccisi in Indonesia dopo il colpo di Stato del 1965: un vero e proprio genocidio. (4) Di quest’ultimo è da poco ricorso l’anniversario: qualcuno se n’è ricordato?
Nessuno chiede conto di tutto ciò ai politici che sostenevano lo schieramento atlantico. E qui c’è l’asimmetria, abilmente costruita e consolidata dai mass-media e da un revisionismo storico che mette sullo stesso piano le foibe e la Shoah. Asimmetria per cui i comunisti si autocriticano da 50 anni, gli ex-comunisti da almeno 15, ma non si cessa di chiedere loro pentimenti e abiure, ma nessuno ha mai chiesto, ad esempio, a un ex dirigente della DC, di autocriticarsi per la guerra del Vietnam, in cui gli USA massacrarono la popolazione per circa dieci anni con bombe e napalm, mentre Moro, che era un cattolico democratico, esprimeva “comprensione” per l’alleato statunitense, nel quadro degli equilibri della guerra fredda, e tutti i partiti filo-occidentali – pur con significativi distinguo – furono sulla stessa linea. Il silenzio su questi eventi rende dubbia – oltre che unilaterale e incompleta – l’abbondanza di commenti, servizi giornalistici, inchieste, sui fatti ungheresi e le relative “responsabilità del PCI”. (5)

2.Di questo tipo di dibattito, che rimanda alla battaglia per l’uso pubblico della storia, non si può non tenere conto, e occorre un rinnovato impegno su questo terreno. C’è, però, anche un secondo tipo di confronto, non pregiudiziale e non strumentale, che tenta di entrare maggiormente nel merito delle questioni. Esso riguarda tutti i nodi del 1956, dal significato storico del XX Congresso alle nuove contraddizioni (economiche, ideologiche ecc.) che esso apre, dalla natura della rivolta ungherese all’intervento militare sovietico. A tale proposito, la questione posta da Rossana Rossanda non può essere elusa:

Non è vano – scrive Rossanda – chiedersi che cosa sarebbe avvenuto ‘se’ nel 1956 il rapporto segreto di Kruscev fosse stato recepito come un goffo ma serio segnale, ‘se’ il PCUS e gli altri partiti lo avessero elaborato invece che sfuggito, ‘se’ pochi mesi dopo avessero inteso la rivolta di Poznan, e poi quella di Budapest, e infine ‘se’ [...] la seconda non fosse stata repressa dall’intervento militare sovietico.

La possibilità, cioè, di andare verso un socialismo che desse più spazio alla partecipazione attiva delle masse e più ascolto ai loro bisogni – pur nella complessità della pianificazione e in una situazione di difficoltà economica oggettiva – non va sottovalutata.  (6) E tuttavia, oltre alla questione della realizzabilità di tale prospettiva nel contesto dato, non si può negare che, soprattutto nel caso ungherese, accanto alle forze riformatrici, fossero “scese in campo” anche forze apertamente anti-sistema: il simbolo della rivolta – la bandiera con lo stemma della Repubblica tagliato – e gli obiettivi del ritiro di ogni presenza militare sovietica sul territorio nazionale e della fuoriuscita dal Patto di Varsavia, paiono confermarlo. E in questo quadro va considerato che, negli equilibri ferrei della guerra fredda, a nessuna forza “anti-sistema” era consentito di accedere al potere, nell’uno come nell’altro campo: non al PCI in Italia, perfino dopo la sua accettazione della NATO; e tanto meno ai rivoltosi ungheresi, che volevano la neutralità del Paese (decretata da Nagy il 1° novembre), il che significava un vero e proprio terremoto negli equilibri tra i due campi. (7) È stato scritto a tale riguardo:

Proviamo ad immaginare cosa sarebbe successo in Italia se il PCI, anziché attenersi alla logica di Jalta avesse trasformato lo sciopero di protesta seguito all’attentato di Togliatti in un movimento insurrezionale e in una rivoluzione socialista. C’è qualcuno, sano di mente, convinto che gli americani avrebbero osservato impassibili un simile evento senza usare i loro cingolati?. (8)

Quanto al PCI, la Rossanda afferma che esso nel 1956 avrebbe potuto “mettersi ragionatamente contro il gruppo dirigente dell’URSS e dare una sponda a quanto di popolare e fin socialista c’era nel dissenso”.  (9) Dal canto suo, Mario Pirani contesta il “ritardo” del PCI nel compiere lo “strappo” dall’Unione Sovietica – e nello specifico la mancata condanna dell’intervento in Ungheria – come cause del mancato accesso delle sinistre al governo del Paese. (10) Ha scritto invece lo storico Martinelli:

‘Ritardo’ [...] è evidentemente un termine non scientifico, assai poco idoneo a dar conto [...] di fenomeni e processi reali: i quali, com’è noto, non sono meramente e unicamente riconducibili a scelte politiche soggettive. ‘Ritardo’ rispetto a che cosa? La storia del PCI non è [...] la storia di scelte da valutare – in rapporto a uno svolgimento finalistico e lineare – giuste o sbagliate, ma un complicato percorso in cui giocano un peso essenziale eventi, realtà, fattori interni e internazionali talvolta imprevedibili, tali da limitare di molto la libertà di scelta [...] dei dirigenti. (11)

Sullo stesso inserto del “Manifesto” in cui è comparso l’articolo della Rossanda, Valentino Parlato ha sostenuto una posizione opposta:

Nel 1956 quella del PCI e di tutti noi che restammo nel PCI fu una scelta obbligata e giusta, anche nel medio periodo. [...] c’era la guerra fredda e [...] il mondo era diviso in due secondo l’accordo di Yalta. [...] dopo il primo intervento i sovietici si ritirarono e [...] il secondo brutale intervento ci fu quando Nagy [...] annunciò l’uscita dell’Ungheria dal patto di Varsavia [...].
Non mi convince neppure la tesi dell’‘occasione perduta’ da parte del PCI. A mio parere il PCI [...] si sarebbe spaccato. [...] Invece, forse proprio per quell’‘occasione perduta’, già le elezioni del 1958 segnarono un consolidamento del PCI. Il quale [...] con il suo VIII Congresso segna la fine dello stato guida e del partito guida e avvia [...] la via italiana al socialismo. (12)

C’è poi un altro punto, che si dimentica sempre. Il movimento comunista è per sua natura internazionalista. Anche al di là della guerra fredda, è del tutto ovvio che il PCI avesse un legame organico col paese in cui era in corso il più importante tentativo di costruire una società socialista, e cercasse di mantenerlo in tutti i modi, sia pure in chiave critica e cercando di avviare in Occidente un processo che sarebbe stato necessariamente diverso. Secondo lo storico D. Blackmer, nel 1956 “l’alternativa di separare il PCI dal movimento internazionale non esisteva come possibilità pratica”; il PCI “non poteva fare un simile passo senza virtualmente autodistruggersi”. (13)
È evidente, dunque, che su queste questioni esistono, a sinistra e tra gli studiosi, posizioni diverse, e che pertanto il dibattito resta aperto. Anche all’interno dell’Archivio storico del movimento operaio – la struttura di cui questa collana editoriale è emanazione – i giudizi sul 1956 e il ruolo del PCI sono diversi, e la pubblicazione di questo volume ha stimolato una discussione non formale né sterile, ma anzi ricca di stimoli e sollecitazioni, che ha migliorato il presente lavoro. Tra l’altro, è parso chiaro che la rivolta ungherese è stata un evento complesso, per cui appaiono fuorvianti sia la definizione di “controrivoluzione”, emersa nei primi giudizi dati dal PCI, sia quella di “rivoluzione”, oggi ampiamente in auge. Si è trattato piuttosto di un fenomeno articolato ed eterogeneo, in cui erano presenti diverse componenti: quella studentesca e intellettuale, di orientamento prevalentemente nazionalista; quella operaia, di impostazione consiliare (e dunque socialista, sindacalista-rivoluzionaria o addirittura comunista di sinistra); e infine quella costituita dai residui dei vecchi ceti dominanti, con l’appoggio della Chiesa, apertamente reazionaria. (14) L’antisovietismo, tuttavia, e/o l’ambizione di liberarsi della tutela dell’URSS, appare l’elemento comune che poi ha determinato l’intervento.
Nel suo emendamento a una bozza di comunicato comune col PCF, Togliatti parla di “movimento popolare” e dell’intervento sovietico come di una “dura necessità”, incontrando l’opposizione dei francesi, che parlano di “controrivoluzione” e intervento come “dovere di classe”. Il comunicato comune non si farà, e anche da questa contrapposizione esce confermata una posizione del PCI più dialettica rispetto a quella di altre forze comuniste, anche rispetto ai “fatti d’Ungheria”.
Negli scritti di Togliatti sull’argomento – accanto a un netto schieramento “di campo” e alla convinzione che la rivolta, se non fermata, avrebbe avuto effetti disastrosi per la revanche delle forze reazionarie e l’indebolimento del “campo socialista” – troviamo elementi di critica forte al gruppo dirigente ungherese; troviamo cioè la consapevolezza che se la situazione era giunta a tale grado di tensione, significava che qualcosa si era rotto nel rapporto tra partito e masse, e che ben prima che si arrivasse a tanto occorreva correggere, rettificare, migliorare. E dunque bene faceva il PCI a porre al centro della “via italiana” il rapporto dialettico democrazia-socialismo, rilanciata proprio nel 1956 assieme al “policentrismo” del movimento comunista internazionale. Tutto ciò costituisce il retroterra comune a tutto il gruppo dirigente. D’altra parte, sui fatti d’Ungheria si apre un dibattito ricco e aspro, con prese di posizione di aperto dissenso come quella di Di Vittorio o di molti intellettuali, di cui pure nel presente volume si dà conto. Certo, tali posizioni rimangono minoritarie e vengono emarginate, ma pure hanno avuto il loro peso politico nella vicenda del PCI e della sinistra nel suo complesso.

3.Nel 1956, peraltro, non c’è solo l’Ungheria. Il XX Congresso provoca nel gruppo dirigente del PCI una riflessione sulla figura di Stalin e sulla storia dell’Unione Sovietica, che è tuttora di grande interesse. In particolare la porta avanti Togliatti, e nei suoi scritti di quel periodo che qui riproponiamo – l’intervista a “Nuovi Argomenti” in primis – si ritrovano elementi di analisi su ciò che non ha funzionato nell’esperienza sovietica, sul come, quando e perché hanno cominciato a prodursi quelli che definisce “fenomeni di burocratizzazione, di violazione della legalità, di stagnazione, e anche, parzialmente, di degenerazione, in differenti punti dell’organismo sociale”, attirandosi la critica di Chruščëv; elementi di analisi che consentono di affrontare il tema nel merito, al di là degli attacchi pregiudiziali o complessivi e delle difese acritiche. Si può certo osservare che tale elaborazione non ha ricevuto poi uno sviluppo sistematico a livello di partito: e questo rimane un limite; e tuttavia in occasione del XXII Congresso del PCUS (1961) e poi col Memoriale di Jalta Togliatti tornerà su questi temi, e più in generale tutta la sua elaborazione degli ultimi anni è centrata sul problema della “rivoluzione in Occidente” e sul nesso fra trasformazioni socialiste, programmazione e sviluppo democratico.
Quanto allo “stalinismo”, Togliatti rifiuta questa categoria. All’VIII Congresso del PCI – dopo aver ricordato lo sforzo immane successivo alla Rivoluzione d’Ottobre per porre le basi della società socialista, e il fatto che questa “ha dimostrato la capacità di scoprire [...] i propri difetti, di criticarli con coraggio e di accingersi a correggerli” – afferma:

Per questo noi non accettiamo l’uso del termine di ‘stalinismo’ e dei suoi derivati, perché porta alla conclusione, che è falsa, di un sistema in sé sbagliato, anziché spingere alla ricerca dei mali inseritisi, per cause determinate, in un quadro di positiva costruzione economica e politica, di giusta attività nel campo dei rapporti internazionali e di conseguenti, decisive vittorie. Errano coloro che ritengono che quei mali fossero inevitabili. Ancora più gravemente coloro che su di essi cercano di fondare una vana critica distruttiva. (15)

 Del tutto diversa la posizione del leader socialista Nenni, che parla di difetti del sistema e non nel sistema, ma anche dei firmatari della lettera dei 101 o di dirigenti del PCI come Giolitti; non a caso alcuni di loro confluiranno nel PSI. Anche per la sinistra italiana nel suo complesso, dunque, il 1956 costituisce un tornante di eccezionale importanza. Riguardo al PCI, il suo VIII Congresso, alla fine dell’anno, ribadisce con Togliatti che “non vi è né Stato guida, né partito guida”, e sancisce la sistemazione e il rilancio della “via italiana al socialismo”, che costituisce comunque un passaggio essenziale della sua storia, già in nuce nella svolta del 1944 e da cui sono derivati molti degli sviluppi successivi.
Con questo volume cerchiamo dunque di documentare come il PCI si è rapportato al “terribile 1956”, e di restituire spunti ed elementi di analisi che possono essere interessanti e util ancora oggi. Tornare da un lato ai fatti di quell’anno, e dall’altro ai documenti, all’elaborazione dei protagonisti di allora, può servire inoltre ad avvicinarsi a una comprensione maggiore di quelle vicende e a una loro visione più storica e meno “ideologica”. È questo l’intento a cui è ispirato il presente lavoro.
Accanto alla documentazione, è inevitabile che emerga un livello di giudizio, parziale e temporaneo. Occorrerà quindi proseguire la ricerca e la discussione, col conforto – è auspicabile – anche di nuovi materiali documentari provenienti da archivi poco esplorati o fino a poco fa non accessibili.

A. H.


Nota ai testi

I testi qui selezionati sono stati tutti ridotti per motivi di spazio. Sono state quindi “tagliati” incisi, excursus, e le ripetizioni inevitabili in scritti e discorsi che si susseguono in un contesto che mantiene elementi di fondo costanti. Naturalmente i “tagli”, segnalati con parentesi quadra e puntini, sono stati operati in modo tale da non inficiare i contenuti essenziali dei testi stessi.


Ringraziamenti

Un grazie a Giuseppe Aragno, Sergio Manes e Sergio Muzzupappa per l’appassionata discussione collettiva che ha accompagnato la preparazione di questo libro, migliorandolo significativamente rispetto alla versione originaria. Ringrazio inoltre il direttore della Fondazione Istituto Gramsci, prof. Silvio Pons, per l’autorizzazione concessa alla pubblicazione dell’appello della cellula “Giaime Pintor”. Grazie infine a Daniele Quatrano per il supporto tecnico.

(1) M. Kramer, The “Malin Notes” on the Crises in Hungary and Poland, 1956, “Cold War International History Project Bullettin”, 1996-97, nn. 8-9.
(2) A. Stabile, Suez, la guerra di Dayan su un pacchetto di sigarette, “la Repubblica”, 9 ottobre 2006.
(3) Cfr. G. Calchi Novati, Mediterraneo e questione araba nella politica estera italiana, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. 2, tomo I, Torino, Einaudi, 1995, pp. 222-227. La redazione de “Il Mondo”, di area radical-democratica, si spaccò. Il “Corriere della Sera”, per bocca dell’editorialista Augusto Guerriero, si rammaricò che l’azione bellica non fosse giunta fino alla ‘liquidazione’ e alla resa di Nasser. Lo stesso Mollet esprimerà un parere analogo (D. Sassoon, Cento anni di socialismo. La sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 260).
(4) Cfr. W. Blum, Con la scusa della libertà, Milano, Marco Troppa Editore, 2002; Id., Il libro nero degli Stati Uniti, Roma, Fazi Editore, 2003. Quanto all’Europa occidentale, si veda D. Ganser, Gli eserciti segreti della NATO. Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, prefazione di G. De Lutiis, Roma, Fazi Editore, 2005.
(5) Allo stesso modo, sono sospette le aspre condanne di tali fatti da parte di chi, oggi, rimane indifferente dinanzi alle aggressioni all’Iraq o al Libano, ai civili uccisi ogni giorno in Afghanistan o in Iraq, alle “esecuzioni mirate” e ai raid contro i palestinesi, ad aberrazioni come Guantanamo o Abu-Ghraib, o magari le giustifica in nome della “lotta al terrorismo”.
(6) R. Rossanda, Un “Se” che è utile porsi, “il manifesto”, 22 ottobre 2006
(7) Paradossalmente, sarà proprio nel blocco sovietico che infine forze anti-sistema come Solidarnosc in Polonia potranno accedere al potere, col benestare dei gruppi dirigenti polacco e sovietico.
(8) S. Ricaldone, Budapest 1956: l’Europa ad un passo dal conflitto nucleare. Pentimenti e ipocrisie di postcomunisti cinquanta anni dopo, in www.resistenze.org.
(9) Rossanda, Un “Se” che è utile porsi, cit.
(10) Si veda ad es. M. Pirani, L’occasione persa dal PCI, “la Repubblica”, 3 ottobre 2006.
(11) R. Martinelli, Introduzione a Quel terribile 1956. I verbali della Direzione comunista tra il XX Congresso del PCUS e l’VIII Congresso del PCI, a cura di M.L. Righi, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. XLVIII.
(12) V. Parlato, Troppo comodo pentirsi, 50 anni dopo, “il manifesto”, 22 ottobre 2006.
(13) D.L.M. Black

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(italiano / francais / english)

"Belgradesi, il cancro bussa anche alle vostre porte"

Ogni tanto l'ANSA segnala notizie relative all'inquinamento in
Serbia. Solo di rado, e generalmente solo nelle ultime righe dei
dispacci ed in forma "scettica", essa ricorda che "ulteriori effetti
negativi sulla salute pubblica sono stati attribuiti (sic) alle
conseguenze dei bombardamenti contro gli impianti cittadini compiuti
dalla Nato nel 1999 durante la guerra per il Kosovo". Qualche
giornalista ANSA, come il pessimo Logroscino, è poi particolarmente
zelante nel "riduzionismo" su quei fatti del 1999, ed anzi fa di
tutto per spostare le responsabilità, ex post e lavorando molto di
fantasia, sul solito "regime Milosevic" quando non addirittura sul
vecchio Stato jugoslavo.
Una più attenta analisi dei fatti dovrebbe però immediatamente
mettere in evidenza che anche le cronache attuali, di nuovi incidenti
e nuovi fenomeni acuti di inquinamento dell'ambiente, sono tra le
conseguenze di medio termine proprio del lungo lavoro di
disgregazione e di demolizione economica, industriale e sociale della
Jugoslavia, e di una "Guerra Umanitaria" i cui responsabili sono
tuttora impuniti.

Sugli effetti di quei bombardamenti - specialmente quelli sul
petrolchimico di Pancevo, di cui si parla anche più sotto -
ricordiamo la documentazione raccolta alla pagina: https://www.cnj.it/
24MARZO99/criminale.htm

(a cura di Orsola e Andrea)


1) Novembre 2006: PANCEVO: INQUINAMENTO, CHIUSURA TEMPORANEA IMPIANTO
PETROLCHIMICO

2) Octobre 2006: Marée noire sur le Danube

3) Luglio 2006: SERBIA: CANCRO, TORNA POLEMICA SU EFFETTI RAID NATO

4) June 2006: Seven years since end of NATO bombing, estimated total
damages to be about 29.6 billion dollars
=== 1 ===

PANCEVO: INQUINAMENTO, CHIUSURA TEMPORANEA IMPIANTO PETROLCHIMICO

BELGRADO -Il ministro dell'ambiente della Serbia, Aleksandar Popovic,
ha annunciato la chiusura temporanea degli impianti petrolchimici
della "Petrohemija", nella città industriale di Pancevo, non lontano
da Belgrado (circa 20 km), teatro questa settimana di una ennesima
fuga di scorie inquinanti. La decisione, accompagnata dall'apertura
di una inchiesta giudiziaria, è stata resa nota dal ministro a
margine di un incontro con una rappresentanza dei circa mille
cittadini di Pancevo che oggi hanno protestato a Belgrado, dinanzi
alla sede del governo serbo, contro l'emergenza ambientale in cui
sono costretti a vivere da molti anni. Una emergenza che si traduce
in un tasso di incidenza di tumori, tra i 100.000 abitanti della
località, fra i più alti dell'intera ex Jugoslavia. La protesta,
guidata dal sindaco Srdjan Mikovic, s'è svolta pacificamente. I
dimostranti, preceduti da una croce su cui era affissa l'iscrizione
'Pancevo', avevano maschere protettive sulla bocca e mostravano
cartelli su cui si poteva leggere: ''Belgradesi, il cancro bussa
anche alle vostre porte''. Poi c'è stato l'incontro con il ministro,
il quale ha ricordato il recente stanziamento di 27 milioni di euro
per l'ammodernamento del petrolchimico, ammettendo tuttavia che
l'impianto - una vecchia struttura paleoindustriale jugoslava tuttora
di proprietà pubblica - resta in larga parte obsoleto. Popovic ha
promesso inoltre rigore nelle indagini avviate sul management della
fabbrica, sospettato di aver violato le norme minime di sicurezza,
mentre gli animatori della protesta hanno chiesto una immediata
riunione straordinaria del governo a Pancevo dedicata alla questione
ecologica.
Sede di diverse vecchie industrie inquinanti jugoslave, Pancevo è
tornata in questi giorni agli 'onori' della cronaca per una nuova
fuoriuscita di benzene e zolfo dal petrolchimico registrata alcuni
notti fa. Un incidente non insolito per la città e che questa volta
ha fatto aumentare il livello di contaminazione dell'aria fino a 12
volte oltre la soglia considerata di sicurezza dalla normativa
vigente. Il rischio di una catastrofe ambientale definitiva a Pancevo
è stato evocato a più riprese negli ultimi anni. Secondo gli esperti
serbi, l'inquinamento nella zona è ormai endemico, mentre ulteriori
effetti negativi sulla salute pubblica sono stati attribuiti alle
conseguenze dei bombardamenti contro gli impianti cittadini compiuti
dalla Nato nel 1999 durante la guerra per il Kosovo.
(ANSA).LR
17/11/2006 18:00

(segnalato da Sergio Coronica)


=== 2 ===

http://balkans.courriers.info/article7099.html

POLITIKA

Marée noire sur le Danube

TRADUIT PAR PERSA ALIGRUDIC
Publié dans la presse : 5 octobre 2006
Mise en ligne : vendredi 6 octobre 2006

Une nappe de pétrole, qui s’étend sur 140 km de long et 150 mètres de
large, descend le long du Danube. En cause : une avarie sur le site
serbe de Prahova. La compagnie Nafta Industrija de Serbie (NIS) doit
prendre des mesures immédiates afin d’empêcher la pollution du fleuve
et de procéder à l’assainissement. Mais la Roumanie est furieuse
contre la Serbie, qui ne l’a pas informée à temps de la pollution.

Par N.K.

Le ministère de l’Agriculture de Serbie a communiqué que l’écoulement
d’une nappe de pétrole dans le Danube était la conséquence d’une
avarie sur le site de NIS à Prahova. L’inspection agricole de la
République a constaté que la panne se situait au niveau « du
séparateur des installations de chargement où une certaine quantité
de pétrole et autres matières huileuses s’est écoulée dans le Danube
». La nappe de pétrole s’étend sur 140 kilomètres de long et 150
mètres de large et elle est déjà parvenue en Roumanie et en Bulgarie.

Les représentants et les experts de la Commission hydrotechnique
serbo-roumaine ont convenu de procéder conjointement à un constat sur
le territoire roumain, depuis la centrale « Djerdap I » jusqu’au
confluent du Timok et du Danube, car deux sortes de polluants ont été
observées : le mazout et le pétrole.

L’inspection des eaux, en commun avec les représentants de l’Institut
de météorologie de la République, continueront de suivre l’état du
courant du fleuve, en procédant à l’échantillonnage et au contrôle de
la qualité de l’eau.

Le directeur des Eaux de Serbie, Nikola Marjanovic a déclaré à B92
que « l’avarie de Prahova a été réparée, il n’y a plus de fuite
depuis lundi ». « Cependant, le problème réside dans le fait que des
dégâts ont été causés dans les installations, ce qui représente de
grosses sommes d’argent à débourser pour les réparations et un danger
écologique » a-t-il souligné.

Etant donné que la nappe de pétrole à tendance à s’étendre, elle est
arrivée mardi matin jusqu’à Vidin, et les autorités bulgares ont
adressé un avertissement à leurs citoyens de ne pas utiliser l’eau du
Danube.

La ministre roumaine de la Protection de l’environnement, Sulfina
Barbu, a adressé une lettre au ministre serbe de l’Agriculture, des
Eaux et des Forêts, Goran Zivkov, par laquelle elle accuse la Serbie
de ne pas avoir informé la Roumanie du problème de pollution du Danube.

Sur un ton corroucé, la Roumanie reproche à la Serbie de ne pas avoir
informé les autorités roumaines de la pollution, ainsi que le
prévoient les conventions internationales signées par ces deux pays,
ce qui aurait permis de prendre les mesures nécessaires en temps voulu.

Comme le communique le ministère roumain pour l’Environnement dans sa
lettre, la Serbie est aussi accusée « de ne pas être intervenue pour
remédier aux conséquences de pollution ». Le ministère souligne
également que « c’est la troisième fois que la partie roumaine n’est
pas informée de la pollution du Danube ».


Vos commentaires :
> Marée noire sur le Danube (par Sandu le 9 octobre 2006)
Environnement : la Roumanie aidera au nettoyage du Danube

Une fuite accidentelle s’est produite lundi dernier au dépôt de
stockage de la compagnie pétrolière Jupoteprol, à Prahovo, une ville
située le long des côtes du Danube, près de la frontière de la Serbie
avec la Roumanie et la Bulgarie.

Des centaines de tonnes de pétrole ont été versées dans le Danube
suite à une fissure apparue à un conduit. La nappe de pétrole est
longue de 300 mètres et large de 50 mètres, ont précisé les autorités
serbes, Bucarest indiquant qu’elle s’était fractionnée en raison du
fort débit du fleuve. Le gouvernement roumain a décidé samedi de
fournir à la Bulgarie voisine du matériel pour l’aider à éliminer la
pollution due à la nappe de pétrole.

Dans le cadre d’un accord de donation signé par le ministre roumain
de l’Environnement et de la gestion des eaux, Sulfina Barbu, la
Roumanie fera don de 6,5 tonnes de matériel absorbant et d’une digue
flottante de 200 mètres d’une valeur totale de 50 000 euros (63 500
dollars américains).

Par ailleurs, la Roumanie reproche à la Serbie de ne pas avoir
informé les autorités roumaines de la pollution, ainsi que le
prévoient les conventions internationales signées par ces deux pays,
ce qui aurait permis de prendre les mesures nécessaires en temps voulu.



=== 3 ===

SERBIA: CANCRO, TORNA POLEMICA SU EFFETTI RAID NATO /ANSA

(di Alessandro Logroscino) (ANSA) - BELGRADO, 13 LUG - Cento nuovi
casi di cancro in piu' ogni anno solo a Pancevo, cittadina
industriale di 120.000 abitanti non lontana da Belgrado. Lo rivela
una delle statistiche piu' recenti, ma non delle piu' allarmistiche,
sul deterioramento della salute dei serbi. Un fenomeno che riaccende
periodicamente le polemiche sulle possibili cause, messe in relazione
almeno in parte da specialisti e media locali con le conseguenze
inquinanti dei bombardamenti Nato del 1999. E magari con l'uranio
impoverito. A riprendere il tema e' oggi il Belgrade Times, neonato
settimanale in lingua inglese pubblicato in Serbia. A sette anni
dalla fine dei raid aerei decisi dall'Alleanza atlantica per
scacciare le forze di repressione dell'allora regime di Slobodan
Milosevic dalla provincia ribelle a maggioranza albanese del Kosovo,
la questione resta d'attualita', scrive il giornale. In particolare a
Pancevo, dove fra aprile e giugno del '99 gli 'ordigni intelligenti'
americani ed europei colpirono a piu' riprese i vecchi impianti
industriali jugoslavi e la grande raffineria della citta': con la
conseguente diffusione di migliaia di tonnellate di agenti chimici
nocivi nell'aria, ricorda la gente del posto, e l'incendio di 80.000
tonnellate di greggio, parzialmente riversatesi poi nel Danubio miste
a scorie di etilene, vinil-cloride, mercurio e altri veleni. Di
sostanze cancerogene diffuse dalle ciminiere bombardate nell'aria e
nell'acqua si continua a parlare anche nella zona di Kraguievac,
roccaforte operaista dell'era titina e tuttora sede di impianti
chimici oltre che della Zastava, storica industria metallurgica
balcanica: pure li' si denuncia un incremento esponenziale dei tumori
e di altre malattie che molti imputano all'inquinamento del fiume
locale, la Lepenica. Un corso d'acqua contaminato da decenni, ma le
cui condizioni - si dice - sono ulteriormente peggiorate per gli
effetti a medio termine dei residui di metalli pesanti, diossine e
altri agenti tossici fuoriusciti dalle fabbriche colpite nel 1999. La
lettura dei dati sanitari resta controversa, cosi' come il presunto
ruolo dei proiettili a uranio impoverito. Alcune commissioni
internazionali hanno provato a fare luce negli ultimi anni, ma senza
riuscire a raggiungere conclusioni unanimi. Mentre gli esperti della
Nato seguitano a negare che le bombe possano essere state il fattore
scatenante di disastri medico-ecologici (e che quindi spetti all'
Occidente far fronte finanziariamente alla bonifica). A loro
giudizio, quei raid erano pienamente giustificati sul piano etico-
legale e i danni provocati furono ''accettabilmente'' contenuti sotto
il profilo del diritto internazionale di guerra. Le colpe
dell'asserita contaminazione, si sostiene a Bruxelles, vanno
addebitate piuttosto allo scarso livello di attenzione all'impatto
ambientale dell'obsoleta struttura industriale ex jugoslava. Una
tesi, nota Belgrade Times, contestata da studiosi e giornalisti serbi
e dalle stesse autorita' sanitarie dei governi post-Milosevic di
Belgrado, ma anche da un rapporto dell' Institute for Energy and
Enviromental Research, un think tank ecologista statunitense secondo
cui le bombe sganciate nel '99 su diversi impianti sensibili
rappresentarono una ''violazione del diritto umanitario
internazionale'' ed esposero la popolazione civile a gravi rischi per
la salute attraverso ''l'inquinamento dell'aria, dell'acqua e del
cibo''. I responsabili della clinica oncologica di Pancevo confermano
da parte loro all'Ansa che dopo il 2000 il numero delle nuove
diagnosi di cancro e' cresciuto in citta' di circa ''100 casi
all'anno'': fino a sfiorare nel 2005 quota 500, con una prevalenza di
tumori ai polmoni e al seno. Un'accelerazione, ammettono i medici,
della quale e' difficile individuare con esattezza le cause ultime,
ma che in qualche misura sembra davvero correlabile con l'azione
militare di sette anni fa. Sulla medesima lunghezza d'onda e' la
giornalista Radmila Vulic, che ha condotto diverse inchieste
sull'argomento per conto del quotidiano locale Pancevac. ''L'aumento
dei casi di cancro e' un fatto'', osserva Vulic, dicendosi convinta
che si tratti ''dell'effetto combinato delle esalazioni prodotte
dalla raffineria, ma pure delle conseguenze dei raid Nato''. ''In
fondo, quei raid - conclude - sono stati l'unico elemento nuovo
recente comune a tutte le aree colpite dal fenomeno: e hanno generato
una contaminazione di fiumi, suolo e falde i cui contraccolpi nel
lungo periodo nessuno sa prevedere''. (ANSA). LR
13/07/2006 15:09


=== 4 ===

http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?
yyyy=2006&mm=06&dd=09&nav_category=91&nav_id=35250

B92/Beta (Serbia and Montenegro) - June 9, 2006

Seven years since end of NATO bombing


BELGRADE - The NATO-led bombing of Yugoslavia came to
an end on this day seven years ago.
The Yugoslav Army and NATO signed the Kumanovski
Agreement which ended the campaign of air attacks.
This was immediately followed by Slobodan Milosevic
proclaiming victory over the allied forces.
The agreement was signed in Macedonia by NATO General
Michael Jackson and deputy chief of the Yugoslav
Military’s Supreme Command, Svetozar Marjanoviæ.
“A peace agreement was signed. The war has ended. The
politics of peace which Yugoslavia leads have
prevailed, as has its president Slobodan Milosevic.”
Marjanoviæ said then.
The Yugoslav Army pulled out of Kosovo after the
signing of a UN resolution and the first international
forces enter the territory of Kosovo from Macedonia on
June 12, 1999.
The troops of KFOR numbered about 37,200, with
soldiers from 36 nations, 30,000 of which were from
NATO member countries.
The attacks lasted eleven weeks and, according to
various estimates, in between 1,200 and 2,500 people
were killed.
Many buildings, businesses, schools, health centres,
media headquarters and cultural monuments were
severely damaged or destroyed. A group of economists
from the G17 Plus party has estimated the total
damages to be about 29.6 billion dollars.

POLIZIA ED ESERCITO CROATI IN PELLEGRINAGGIO A LOURDES


Najvece hodocasce HV-a i policije u Lourdes

Vise od 1300 pripadnika Hrvatske vojske i policije, Ministrastva branitelja, predstavnika udruga proizaslih iz Domovinskog rata i hrvatskogvatrogastva poslo je jucer na 14. hrvatsko vojno-redarstveno hodocasce u francusko svetiste Lourdes. Uoci polaska na hodocasce, kako bi prisustvovali 48. medjunardnom vojnom hodocascu u tom poznatom marijanskom svetistu...

 

Il più grande pellegrinaggio dell'esercito e polizia croata a Lourdes 

 

Più di 1.300 appartenenti all'Esercito croato e alla polizia, al Ministero dei difensori (sic, ndCNJ), rappresentanti delle varie organizzazioni derivate dalla guerra (cosiddetta, ndCNJ) Patriottica e pompieri, sono andati a Lourdes per il 14-esimo pellegrinaggio militare croato e per partecipare al 48-esimo pelegrinaggio militare internazionale in questo rinomato santuario mariano...
Il vicario militare, Juraj Jezerinac, ha condotto la celebrazione di partenza nella chiesa del Sacro Cuore di Zagabria. "Se la religione cristiana (leggi cattolica, ndCNJ), che è senz'altro la  forza morale più grande, fosse estirpata dal mondo, sarebbe difficile immaginare lo sviluppo del mondo ed anche l'esistenza stessa di esso", ha detto, tra l'altro, salutando i soldati ed i poliziotti croati, l'ordinario militare Juraj Jezerinac...

(Fonte: "Metro express - Istra" della scorsa estate; segnalato da Ivan)



(english / italiano)

George Soros non ha ancora finito di fare danni

Il sollievo per la sconfitta elettorale di Bush alle recenti elezioni parlamentari USA è durato poco. Infatti, subito ci è giunta la notizia della ventilata candidatura del criminale di guerra Wesley Clark per i Democratici alle presidenziali 2008. Clark, che diresse la aggressione della NATO contro la RF di Jugoslavia, ha ricevuto 75mila dollari di... sottoscrizione dal magnate George Soros, finanziatore della disinformazione strategica su scala globale e regista della destabilizzazione in tanti paesi invisi al regime statunitense.
Speriamo di poter credere a Soros quando dice che "per il futuro" non intende più occuparsi di politica. Magari però continuerà ad occuparsene ed a fare danni, anche semplicemente canalizzando i suoi investimenti miliardari verso media ed intellettuali al servizio dei pre-potenti.  (a cura di Italo Slavo)

1) October 2006: George Soros Backs Wesley Clark for President
OTTOBRE 2006: 75 MILIONI DI DOLLARI DA SOROS A W. CLARK

2) April 2005: Soros Foundation Given $30 Million by US Government
APRILE 2005: 30 MILIONI DAL GOVERNO USA A GEORGE SOROS

3) February 2003: Georgia, Labor Party against ‘Sorosization’ of Supreme Court
FEBBRAIO 2005: SOROS SI COMPRA LA GEORGIA (QUELLA DEL CAUCASO...)

4) 2003: A profile of George Soros, by Neil Clark 
RETROSPETTIVA SU GEORGE SOROS

ALTRI LINK:

George Soros, Ted Turner Pay for Journalism Prizes (by Cliff Kincaid)

Soros To 'Democratize' Moldova

Tajik Administration Complains about Soros (by Cihan Dushanbe)

Preemptive Anti-Coup Moves: Central Asian Nations Thwart Soros Foundation

Central Asia Speaks: SOROS Falls from Grace in Central Asia

Kyrgyzstan Prepares for Elections: Soros Tells Kyrgyz President To Step Down

NUMEROSI ARTICOLI SU SOROS SONO STATI FATTI CIRCOLARE SU JUGOINFO NEGLI SCORSI ANNI: PROVATE CON UNA RICERCA TESTUALE NEL NOSTRO ARCHIVIO http://groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/messages


=== 1 ===

http://www.newsmax.com/archives/ic/2006/10/16/95749.shtml?s=al&promo_code=2714-1

Monday, Oct. 16, 2006 9:55 a.m. EDT


George Soros Backs Wesley Clark for President


In late September billionaire investor George Soros – who spent more than $25 million in an attempt to defeat President Bush in 2004 – said he was resolved to stay out of politics in the future.

But before declaring that he was leaving the political stage, Soros contributed $75,000 to former four-star general Wesley Clark, who is poised to mount a bid for the White House in 2008.

The donation came to light in a report filed with the Internal Revenue Service on Oct. 15. The gift, given to a political group led by Clark, is the largest known gift from Soros this year to a political organization affiliated with a contender for the presidency, according to the New York Sun.

"In the future, I’d very much like to get disengaged from politics,” Soros said at a Council on Foreign Relations meeting in New York in September.



=== 2 ===


Soros Foundation Given $30 Million by US Government

By Jeff Johnson
CNSNews.com Senior Staff Writer
April 25, 2005

(CNSNews.com) - The Open Society Institute, a private foundation controlled by liberal billionaire and political activist George Soros, received more than $30 million from U.S. government agencies between 1998 and 2003. Last year, Soros donated at least $20 million of his own money to such liberal groups as Moveon.org, in a failed attempt to block the re-election of President George W. Bush.

Tax records the Open Society Institute (OSI) is required to file with the Internal Revenue Service list "FEDERAL GOVERNMENT AGENCIES" as "Contributors" of amounts between $4.6 million and $8.9 million over a six year period:

    * 1998 - $4,611,617

    * 2000 - $4,934,678

    * 2001 - $5,869,809

    * 2002 - $6,138,125

    * 2003 - $8,889,802

The amounts total $30,454,031. Records from 1999 and 2004 were not immediately available.

Cybercast News Service asked OSI to provide a detailed list of its funding from U.S. government agencies, the records from 1999 and 2004 and an explanation of how the money has been spent. The foundation did not reply to multiple requests for the information.

In an online document entitled Building Donor Partnerships [http://www.osi.hu/partnerships/2_4.html], OSI explains how its various subsidiaries, called "national foundations," can get funding and other support from the governments in their home nations:

    * Public financing can be used to co-fund, expand or ensure sustainability of programs initiated by the national foundation.

    * When a government cannot provide funds, it can allocate land, use of facilities, media time or staff to a donor partnership.

    * Governments can waive or reduce taxes and duties for efforts of the Soros foundations.

    * Governments can publicize the programs or requests of the national foundation through official channels, often at no charge.

OSI has apparently applied this strategy in the U.S., as well. The foundation received 1.4 to 4.4 percent of its annual contributions between 1998 and 2003 from American taxpayer funding. Various State Department documents indicate that OSI has been paid to run what the department describes as "democratization programs" in a number of countries.

"The Open Society Institute receives funding from the United States," a State Department press statement [http://www.state.gov/r/pa/prs/ps/2004/31765.htm] declared, "and has spent close to $22 million in Uzbekistan in order to help build a vibrant civil society."

Another report [http://www.state.gov/p/eap/rls/rpt/burma/26017.htm] explained that "The United States also supports organizations, such as ... the Open Society Institute ... working inside and outside the (Burmese) region on a broad range of democracy promotion activities."

A State Department Fact Sheet [http://www.state.gov/p/eur/rls/fs/15560.htm] also described "an HIV/AIDS prevention program carried out jointly with the Open Society Institute and Soros-Kazakhstan Foundation that targets high-risk populations" in Central Asia. The website of the U.S. Agency for International Development also lists numerous projects conducted in cooperation with OSI.

On the "About Us" page of its website, the Soros-controlled foundation explains that it exists "to shape public policy to promote democratic governance, human rights and economic, legal and social reform."

Ken Boehm, chairman of the National Legal and Policy Center (NLPC), told Cybercast News Service that any seemingly positive activities Soros-controlled groups engage in should be kept in perspective.

"Congress should keep in mind that this is the same organization that supports numerous hard-left radical activities in the United States and abroad," Boehm said. "The Open Society Institute gave $20,000 to the defense fund for Lynne Stewart, (who was) accused of working with the terrorists who planned the original World Trade Center attack."

Boehm said the numerous left of center political activities supported by OSI include "drug legalization efforts, pro-abortion policies and numerous other controversial causes." OSI tax records show contributions of:

    * $4.41 million to the American Civil Liberties Union and its state affiliates,

    * $500,000 to the Pro-Choice Education Project to launch a (pro-abortion rights) "public education and media strategy,"
    * $100,000 to the Death Penalty Information Center, an organization that works against capital punishment,

    * $100,000 to Catholics for a Free Choice, a religious group that advocates for abortion rights,

    * $100,000 to the Pennsylvania Coalition to Save Lives Now "to support needle exchange programs,"

    * $80,000 over three years to the Gay Straight Alliance Network, to promote "a traveling photo documentary exhibit by lesbian, gay, transgender, queer and questioning youth,"

    * $45,000 to the Democracy Matters Institute "to bring the campaign finance reform movement to college campuses,"
    * $50,000 to the Coalition for an International Criminal Court "to promote education, awareness and acceptance of the International Criminal Court," and

    * $35,000 to the Abortion Access Project.

Boehm also criticized taxpayer dollars going to the Soros-controlled entity, because of the overt, partisan political activities Soros supports.

"George Soros also has been the 'Daddy Warbucks' of numerous left-wing political campaigns in the past year," Boehm said.

As Cybercast News Service previously reported [http://www.cnsnews.com/ViewPolitics.asp?Page=/Politics/Archive/200402/POL20040224b.html], Soros pledged millions of dollars from his own estimated $7 billion personal fortune to the failed efforts to derail President Bush's re-election bid through various tax-exempt political action committees such as MoveOn.org. Boehm described the expenditures as "the height of hypocrisy.

"Soros has bankrolled the groups that have lobbied for limits on political giving and for disclosure," Boehm said [http://www.cnsnews.com/ViewPolitics.asp?Page=/Politics/Archive/200501/POL20050119a.html]. "But he apparently believes that the law should only apply to other people, and not to himself."

Asked about the seemingly contradictory spending, Soros was unapologetic.

"I am not violating either the letter of the law or the spirit," he said before the 2004 election in an interview with Time magazine. "The letter, because the institutions that I'm supporting were there before I started supporting them, the spirit, because campaign-finance regulation has been designed to deny access to special interests, and by supporting these organizations, I gain no access."

On Jan. 18, 2005, NLPC filed a 41-page complaint against Soros with the Federal Election Commission. Boehm said at the time that Soros' multi-city, anti-Bush media tour was "possibly the largest off-the-books independent expenditure ever run."

"It's especially important that the FEC look at it, because it occurred the month before a very close election in key swing states," Boehm said. "Disclosure is the absolute heart of campaign finance law, and Soros' anti-Bush campaign could have potentially shifted the outcome of the presidential election."

Neither that allegation, nor any other formal complaint has accused Soros' Open Society Institute of using taxpayer funding to pay for anti-Bush political activities. Soros continues to deny any wrongdoing.

Regardless, Boehm believes the combination of Soros' left leaning ideology and partisan political involvement should make the federal government reconsider funding any organization he controls.

"It's hard to believe the State Department couldn't find a more credible organization to carry out these projects. There usually is not a shortage of non-governmental institutions seeking taxpayer money," Boehm concluded. "Selecting a group led by someone with such a strong political agenda, and which funds so many controversial ideological activities, is, well, short sighted."

Multiple calls to the State Department and United States Agency for International Development, which have both funded OSI, were not returned.


=== 3 ===


Daily Georgian Times - February 21, 2005

Labor Party against ‘Sorosization’ of Supreme Court

Georgian Labor Party protests against appointment of
Kote Kublashvili as Chairman of Georgian Supreme Court
and speaks about ‘Soros-ization’ of the Court.
Party activists held a protest rally in front of the
Supreme Court building on Monday showing Party’s
negative attitude towards Kublashvili.
Labor party leader Giorgi Gugava stated that by
appointing Kote Kublashvili as Chairman of Georgian
Supreme Court, Mr. George Soros has actually become
the Court’s Chairman. They say that Kublashvili is a
longstanding Soros affiliate and he was a person
distributing Soros’s money among Georgian authorities.


=== 4 ===

New Statesman (London)

www.newstatesman.co.uk

Monday, June 02, 2003

Profile - George Soros

The  billionaire trader has become eastern Europe's uncrowned king and
the  prophet  of  ''the open society''. But open to what? George Soros
profiled by Neil Clark


George  Soros  is  angry.  In  common  with 90 per cent of the world's
population,  the  Man  Who Broke the Bank of England has had enough of
President  Bush  and  his  foreign  policy. In a recent article in the
Financial Times, Soros condemned the Bush administration's policies on
Iraq  as  "fundamentally  wrong"  -  based  as  they  were on a "false
ideology  that  US  might  gave it the right to impose its will on the
world".

Wow!  Has  one  of  the  world's  richest  men - the archetypal amoral
capitalist  who made billions out of the Far Eastern currency crash of
1997 and who last year was fined $2m for insider trading by a court in
France  - seen the light in his old age? (He is 72.) Should we pop the
champagne corks and toast his conversion?

Not  before  asking  what really motivates him. Soros likes to portray
himself  as  an  outsider,  an independent-minded Hungarian emigre and
philosopher-pundit who stands detached from the US military-industrial
complex. But take a look at the board members of the NGOs he organises
and  finances.  At  Human  Rights  Watch, for example, there is Morton
Abramowitz,  US  assistant  secretary  of  state  for intelligence and
research from 1985-89, and now a fellow at the interventionist Council
on  Foreign  Relations; ex-ambassador Warren Zimmerman (whose spell in
Yugoslavia  coincided  with  the  break-up  of that country); and Paul
Goble,  director  of  communications  at  the  CIA-created  Radio Free
Europe/Radio  Liberty  (which Soros also funds). Soros's International
Crisis  Group  boasts  such  "independent"  luminaries  as  the former
national  security  advisers Zbigniew Brzezinski and Richard Allen, as
well  as  General Wesley Clark, once Nato supreme allied commander for
Europe.  The  group's  vice-chairman is the former congressman Stephen
Solarz,  once  described  as  "the  Israel  lobby's  chief legislative
tactician  on  Capitol  Hill" and a signatory, along with the likes of
Richard  Perle  and Paul Wolfowitz, to a notorious letter to President
Clinton  in  1998  calling for a "comprehensive political and military
strategy for bringing down Saddam and his regime".

Take  a  look also at Soros's business partners. At the Carlyle Group,
where  he  has  invested  more  than  $100m,  they  include the former
secretary  of  state  James  Baker and the erstwhile defence secretary
Frank  Carlucci,  George  Bush  Sr  and, until recently, the estranged
relatives  of  Osama  Bin  Laden.  Carlyle, one of the world's largest
private  equity  funds,  makes  most  of  its money from its work as a
defence contractor.

Soros  may  not, as some have suggested, be a fully paid-up CIA agent.
But  that  his  companies  and  NGOs  are  closely  wrapped  up  in US
expansionism cannot seriously be doubted.

So  why is he so upset with Bush? The answer is simple. Soros is angry
not with Bush's aims - of extending Pax Americana and making the world
safe  for  global  capitalists  like  himself - but with the crass and
blundering  way  Bush  is  going  about  it. By making US ambitions so
clear, the Bush gang has committed the cardinal sin of giving the game
away.  For  years,  Soros  and  his  NGOs  have  gone about their work
extending  the boundaries of the "free world" so skilfully that hardly
anyone noticed. Now a Texan redneck and a gang of overzealous neo-cons
have blown it.

As  a  cultivated  and  educated  man (a degree in philosophy from the
London  School of Economics, honorary degrees from the Universities of
Oxford, Yale, Bologna and Budapest), Soros knows too well that empires
perish  when  they  overstep  the  mark  and  provoke the formation of
counter-alliances.  He  understands  that  the  Clintonian approach of
multilateralism  -  whereby  the  US  cajoles or bribes but never does
anything so crude as to threaten - is the only one that will allow the
empire  to  endure. Bush's policies have led to a divided Europe, Nato
in  disarray,  the genesis of a new Franco-German-Russian alliance and
the first meaningful steps towards Arab unity since Nasser.

Soros knows a better way - armed with a few billion dollars, a handful
of  NGOs  and  a  nod  and  a wink from the US State Department, it is
perfectly  possible  to  topple  foreign  governments that are bad for
business,  seize  a country's assets, and even to get thanked for your
benevolence afterwards. Soros has done it.

The  conventional  view, shared by many on the left, is that socialism
collapsed in eastern Europe because of its systemic weaknesses and the
political elite's failure to build popular support. That may be partly
true,  but  Soros's  role was crucial. From 1979, he distributed $3m a
year  to dissidents including Poland's Solidarity movement, Charter 77
in Czechoslovakia and Andrei Sakharov in the Soviet Union. In 1984, he
founded  his  first  Open  Society  Institute  in  Hungary  and pumped
millions  of  dollars into opposition movements and independent media.
Ostensibly  aimed  at building up a "civil society", these initiatives
were designed to weaken the existing political structures and pave the
way  for  eastern  Europe's  eventual  colonisation by global capital.
Soros   now   claims,  with  characteristic  immodesty,  that  he  was
responsible for the "Americanisation" of eastern Europe.

The  Yugoslavs  remained  stubbornly resistant and repeatedly returned
Slobodan  Milosevic's  unreformed Socialist Party to government. Soros
was  equal  to  the  challenge.  From 1991, his Open Society Institute
channelled  more  than  $100m  to  the  coffers  of the anti-Milosevic
opposition,   funding   political   parties,   publishing  houses  and
"independent" media such as Radio B92, the plucky little student radio
station of western mythology which was in reality bankrolled by one of
the world's richest men on behalf of the world's most powerful nation.
With  Slobo finally toppled in 2000 in a coup d'etat financed, planned
and  executed  in  Washington,  all  that  was  left  was  to cart the
ex-Yugoslav  leader  to the Hague tribunal, co-financed by Soros along
with  those  other  custodians of human rights Time Warner Corporation
and  Disney.  He  faced charges of crimes against humanity, war crimes
and  genocide,  based in the main on the largely anecdotal evidence of
(you've guessed it) Human Rights Watch.

Soros  stresses  his  belief  in  the "open society" propounded by the
philosopher Karl Popper, who taught him at the LSE in the early 1950s.
Soros's  definition  of an "open society" - "an imperfect society that
holds  itself  open  to  improvement"  - sounds reasonable enough; few
lovers of genuine liberty would take issue with its central tenet that
"the  open society is a more sophisticated form of social organisation
than  a  totalitarian one". But Soros's "open societies" don't tend to
be all that open in practice.

Since   the   fall   of  Milosevic,  Serbia,  under  the  auspices  of
Soros-backed  "reformers",  has  become  less,  not  more,  free.  The
recently  lifted  state  of  emergency  saw  more  than  4,000  people
arrested,  many  of  them without charge, political parties threatened
with  bans,  and  critical newspapers closed down. It was condemned by
the  UN Commission on Human Rights and the British Helsinki Group. But
there  was  not a murmur from the Open Society Institute or from Soros
himself.  In  fairness, Soros has been far more critical of his former
protege  Leonid  Kuchma, president of the Ukraine, a country described
by  the  former  intelligence  officer  Mykola Melnychenko as "one big
protection  racket", and now possibly the most repressive police state
in Europe.

But  generally  the sad conclusion is that for all his liberal quoting
of  Popper,  Soros  deems  a  society  "open" not if it respects human
rights  and  basic  freedoms,  but  if  it  is  "open" for him and his
associates  to  make money. And, indeed, Soros has made money in every
country  he has helped to prise "open". In Kosovo, for example, he has
invested  $50m  in  an  attempt  to  gain  control  of the Trepca mine
complex, where there are vast reserves of gold, silver, lead and other
minerals estimated to be worth in the region of $5bn. He thus copied a
pattern  he  has  deployed  to  great effect over the whole of eastern
Europe:  of  advocating  "shock  therapy"  and "economic reform", then
swooping  in  with  his  associates  to  buy  valuable state assets at
knock-down prices.

More  than  a  decade  after the fall of the Berlin Wall, Soros is the
uncrowned  king  of  eastern  Europe. His Central European University,
with  campuses  in Budapest, Warsaw and Prague and exchange programmes
in  the  US, unashamedly propagates the ethos of neoliberal capitalism
and  clones  the  next pro-American generation of political leaders in
the  region.  With  his financial stranglehold over political parties,
business, educational institutions and the arts, criticism of Soros in
mainstream eastern European media is hard to find. Hagiography is not.
The Budapest Sun reported in February how he had been made an honorary
citizen of Budapest by the mayor, Gabor Demszky. "Few people have done
to  Budapest  what  George Soros has," gushed Demszky, saying that the
billionaire  had  contributed to "structural and mental changes in the
capital  city  and Hungary itself". The mayor failed to add that Soros
is  also  a  benefactor  of  Demszky's  own party, the Free Democrats,
which,  governing  with  "reform"  communists, has pursued the classic
Soros agenda of privatisation and economic liberalisation - leading to
a widening gap between rich and poor.

The  Soros  strategy for extending Pax Americana differs from the Bush
model,  particularly  in its subtlety. But it is just as ambitious and
just  as deadly. Left-liberals, admiring his support for some of their
favourite  issues  such  as  gay  rights  and the legalisation of soft
drugs, let him off lightly.

Asked  about  the havoc his currency speculation caused to Far Eastern
economies   in  the  crash  of  1997,  Soros  replied:  "As  a  market
participant,  I don't need to be concerned with the consequences of my
actions."  Strange  words  from  a man who likes to be regarded as the
saviour  of  civil  society  and  who  rails  in print against "market
fundamentalism".




(english / srpskohrvatski ; sul nuovo libro di Gregory Elich "Strange liberators" si veda anche / SEE ALSO:


CUDNI  OSLOBODIOCI

Militarizam, razaranje i profitiranje

Fort Loderdejl, 2006: Veoma je uznemirujuće ono sto Gregori Ilić iznosi u knjizi "Čudni oslobodioci", počev od ratova i sankcija pa sve do pljačke od strane korporacija i do preteće klimatske promene. Ova knjiga je neophodan izvor za  razumevanje današnjeg sveta. Tu je prikazana spoljna politika SAD kako je vide oni koji snose njene posledice.

Sa uvodom Majkla Parenti i pogovorom od Mikija Z.

 


 

Dobro obavešteni Amerikanci znaju o intervencijama sopstvene države u Vijetnamu,na Kubi,u Afganistanu,Iraku i drugde. Znaju za povrede medjunarodnog prava,za nepravde,za laži i za štetu prouzrokovanu ovim akcijama. Ali o slučaju Jugoslavije obično ne znaju šta da misle. Ili, što je još gore, u tom slučaju podržavaju "humanitarnu intervenciju". Ova velika zabluda i iskrivljavanje istorije su ispravljeni u ovoj knjizi. To je jedan medju mnogim razlozima zbog kojih valja pročitati ovu knjigu.

Vilijam Blum, pisac- "Ubiti svaku nadu" i Razbojnička država".


Gregori Ilić je uzoran novinar-istraživač, koji pripada anti-imperijalističkoj levici. On je uporan, temeljan, pronicljiv, precizan i, iznad svega, beskompromisan. O Jugoslaviji, Severnoj Koreji, Zimbabve-u, i Iraku niko nije kopao dublje od njega, ni otkrio više.

Stiven Gauans, politički komentator


Koristeći obilje istoriskih podataka i prodornu analizu, temeljno istraživanje i ispitivanje svedoka, Gregori Ilić tretira "teške slučajeve": Jugoslaviju, Hrvatsku, Zimbabve, severnu Koreju, i izvesna nedodirnuta pitanja o Iraku, upravo teme koje su u najpotunijem stepenu iskrivljeno predstavljene od strane medija, pa čak i od strane političkih komentatora i aktivista koji tvrde da su levičari. Ilić nijednom rečju ne odaje poštu dominantnoj ideologiji. Umesto toga on se drži strašnih činjenica i jarkih, zaslepljujućih istina koje pretstavljaju suštinu američke globalne imperije. On povezuje svoje studije temeljno istraženih pojedinačnih slučajeva sa širim pitanjima američke spoljne politike, sa pitanjima rata i mira,  i sa opštom krizom sa kojom se suočava celo čovečanstvo i ekologija same planete. Time je Ilić učinio vrlo značajnu uslugu ljudima svih političkih orientacija.

Majkl Parenti, pisac- "Borba na kulturnom polju", "Ubistvo Julija Cezara",
"Uništavanje jedne nacije".


Gregori Ilić daje vrlo jasnu i važnu analizu ciljeva privatnih interesa i njihove tajne sprege sa Bušovom administracijom u prikrivanju niza raznih opasnosti, od rata do globalnog zagrevanja. Naučnici, istraživači i široka publika zainteresovana za spoljnu politiku SAD naći će da je ova knjiga vrlo značajna i da rasvetljava savremena zbivanja.

Lenora Ferstel, potpretsednica udruženja  "Žene za uzajamnu bezbednost" i autor- "Suočavanje sa nasledjem Margaret Mid"


Gregori Ilić se posvetio veštom otkrivanju i širenju onih informacija koje obično ostaju neizrečene. On nam pruža dobro ispitane fundamentalne činjenice koje ne treba da očekujemo da ćemo naći u novinama ili na televiziji. Drugim rečima, Ilić nas uči da identifikujemo ona ključna mesta gde se ograničava naša sloboda mišljenja.

Miki Z., pisac- "Sedam glavnih propagandnih trikova" i "50 američkih revolucija o kojima nisu hteli da vam govore".


Godinama se Gregori Ilić ističe kao novinar-istoričar koji spaja književni dar sa talentom za otkrivanje tekućih, dobro čuvanih obaveštajnih tajni. U ovom krajnje zlokobnom vremenu moderne istorije strašno je malo savremenih pisaca koji ne prave nikakve kompromise sa istinom. Ova se knjiga u tom pogledu ističe, i njen pisac pripada izuzetnoj vrsti.

Luis Vulf, izdavač časopisa "Tajne aktivnosti"


O autoru:
Gregori Ilić je član upravnog odbora Istraživačkog Instituta o Jasenovcu i Savetodavnog odbora Komisije za istinu o Koreji. Njegovi su se članci pojavili u novinama i časopisima širom sveta, uključujući SAD, Kanadu, Jugoslaviju, Južnu Koreju, Veliku Britaniju, Francusku, Zimbabve, Rusiju, Dansku i Australiju.

Knjiga je objavljena na engleskom jeziku pod naslovom
STRANGE LIBERATORS
Militarism, Mayhem and the Pursuit of Profit
ISBN:1-59526-570-8
Ime autora se speluje na engleskom: Gregory Elich.
Knjiga ima 424 stranice, staje $25,95, a može se naručiti preko izdavača
Llumina Press
ili preko Amazon-a
ili preko Barnes&Noble


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Dear Friends,

 

I would like to recommend this book to you which examines the policies of colonization in the name of human rights in Yugoslavia and places it in a global context. (...) This book deserves the attention of a wider audience than what it has received thus far. (...)
Review copies are available through the author, Gregory Elich, at gelich@  worldnet.att.net  . It is essential reading for anyone seriously interested in the recent history of the Balkans.

Warm regards,
Barry Lituchy

 

 

Llumina Press

STRANGE LIBERATORS
Militarism, Mayhem, and the Pursuit of Profit

By Gregory Elich
With an introduction by Michael Parenti and an afterword by Mickey Z.

 



From war and sanctions to corporate plunder and the looming threat of climate change, the harrowing accounts in Gregory Elich's Strange Liberators comprise an essential source for understanding today's world. This is U.S. foreign policy as seen by those on the receiving end.


"Gregory Elich is the model investigative journalist of the anti-imperialist left; tenacious, thorough, penetrating, meticulous and above all, uncompromising. On Yugoslavia, North Korea, Zimbabwe, and Iraq, no one digs deeper, and no one uncovers more, than Elich."

Stephen Gowans, political commentator, What's Left


"Using a wealth of historic evidence and revelatory analysis, deep research and eye-witness investigation, Gregory Elich treats what lawyers call the 'hard cases': Yugoslavia, Croatia, Zimbabwe, North Korea, and certain untouched questions about Iraq, issues that have been most thoroughly misrepresented in the corporate media and even by political commentators and activists who claim to be on the left. Elich wastes no time with genuflections to the dominant ideology. Instead he sticks to the awful facts and glaring truths that compose the underlying reality of the U.S. global empire. He ties in his deeply informed case studies to the wider issues of U.S. imperial policy, the broader questions of war and peace, and the general crisis that faces the entire world and the planet's ecology itself. Thereby he performs a most valuable service to persons all across the political spectrum."

Michael Parenti, author of The Culture Struggle, The Assassination of Julius Caesar and To Kill a Nation


"For years, Gregory Elich has made his mark as a journalist-historian who pairs a special literary flair with a talent for uncovering real time, tightly held intelligence secrets. In this profoundly ominous time of modern history, there are precious few contemporary writers who brook no compromise with the truth. This volume stands tall, and the author is a special breed."

Louis Wolf, publisher of Covert Action Quarterly


"Informed Americans know about their government's interventions into Vietnam, Cuba, Afghanistan, Iraq, and elsewhere. They know about the violations of international law, the injustices, the lies, and the harm caused by these actions. But the case of Yugoslavia tends to draw a blank. Even worse, it tends to elicit support for this 'humanitarian' intervention. Correcting this gross misunderstanding and distortion of history is one reason among many for reading this book."

William Blum, author of Killng Hope and Rogue State


"Gregory Elich offers a clear and vital analysis of the goals of private interests and their secret collusion with the Bush administration to cover up a broad range of dangers, from war to global warming. Scholars, researchers and the lay public interested in US foreign policy will find this book both vital and illuminating."

Lenora Foerstel, Vice President of Women for Mutual Security and author of Confronting the Margaret Mead Legacy


"Gregory Elich has dedicated himself to skillfully unearthing and disseminating the information that typically goes unsaid. He provides us with the well-researched fundamentals we cannot and should not expect to get from our newspapers or televisions. Put another way, Elich teaches us to identify the 'gates' that restrict our freedom of thought."

Mickey Z, author of The Seven Deadly Spins and 50 American Revolutions You're Not Supposed to Know


About the Author:

Gregory Elich is on the Board of Directors of the Jasenovac Research Institute and on the Advisory Board of the Korea Truth Commission. His articles have appeared in newspapers and periodicals across the world, including the U.S., Canada, South Korea, Great Britain, France, Zimbabwe, Yugoslavia, Russia, Denmark and Australia.

Publication:   Strange Liberators

Author:  Gregory Elich
Paperback
ISBN:  1-59526-570-8
Pages:  424
Price:  $25.95
Size:    6x9

Available from Llumina Press
Toll Free Orders Line:  1-866-229-9244

 

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Associazione L'altra Lombardia - SU LA TESTA
Sede nazionale Milano
e-mail : laltralombardia@ laltralombardia.it
telefoni : 339 195 66 69 oppure 338 987 58 98
sito internet www.laltralombardia.it

COMUNICATO STAMPA

Milano, 17 novembre 2006

OGGETTO: aggiornamenti significativi sul convegno

"I crimini del fascismo e la Resistenza antifascista",
Crema 21 novembre 2006,

sala della Provincia,
via Matteotti 39, inizio ore 20.45.


Le adesioni continuano a crescere sul piano nazionale, tra le più
significative:

GIOVANNI PESCE, medaglia d'oro della Resistenza, combattente
antifranchista nella guerra di Spagna, candidato alla nomina di
senatore a vita, autore del libro "Senza tregua", dirigente del PRC.

NORINA BRAMBILLA, staffetta partigiana Brigate Garibaldi, esponente
del PRC

BEBO STORTI, capogruppo del PdCI al Consiglio regionale della
Lombardia, attore da sempre impegnato sul tema dell'antifascismo,
interprete di "Mai morti" di Renato Sarti e "Foibe".

Questo è il programma completo:


I CRIMINI DEL FASCISMO E LA RESISTENZA ANTIFASCISTA

21 NOVEMBRE 2006

CREMA - SALA DELLA PROVINICIA - VIA MATTEOTTI 39 - ORE 20.45


Nell'ambito delle iniziative culturali che l'Associazione L'altra
Lombardia - SU LA TESTA ha realizzato nel corso di quest'anno (ciclo
di lezioni di storia dal titolo "Dal Giolittismo alla Resistenza
antifascista"), la nostra associazione organizza il CONVEGNO-
SEMINARIO dal titolo "I CRIMINI DEL FASCISMO E LA RESISTENZA
ANTIFASCISTA".

Nel corso della serata sarà presentato l'ultimo libro di Giorgio
Bocca "Le mie montagne".

GIORGIO BOCCA, partigiano di Giustizia e Libertà, editorialista de La
Repubblica e de L'Espresso, ha garantito e confermato un suo intervento.

La serata prevede inoltre i seguenti contributi:

Introduzione

GIORGIO RIBOLDI

- studioso di movimenti neofascisti e della destra radicale.

Relazione

SERGIO RICALDONE

- partigiano della Brigata Garibaldi
- dirigente Fronte della Gioventù di Eugenio Curiel (dirigente della
Gioventù comunista assassinato dai fascisti repubblichini a Milano il
28 febbraio 1945)
- membro dell'ANPI di Milano
- attuale componente del Comitato Federale di Milano del Partito
della Rifondazione Comunista.

Relazione

ADELMO CERVI

- figlio di Aldo Cervi ucciso dai fascisti insieme ai suoi sei
fratelli il 28 DICEMBRE 1943 a Formigine (Reggio Emilia)

Presentazione Rivista "Informazione Antifascista"

GABRIELE PROGLIO

- ricercatore storico della resistenza nelle Langhe

Hanno aderito, fra gli altri, al convegno e mandato un saluto che
verrà letto durante la serata:

ASSOCIAZIONE PROMEMORIA di Trieste

MIRIAM PELLEGRINI FERRI - partigiana di Giustizia e Libertà

SPARTACO FERRI - partigiano della Brigata Garibaldi centro Italia

SANDI VOLK ricercatore storico di Trieste, presidente
dell'Associazione Promemoria di Trieste

ALESSANDRA KERSEVAN - ricercatrice storica di Udine, membro
dell'Associazione Resistenza Storica

ARCI FUORI di Reggio Emilia

GIOVANNI PESCE, medaglia d'oro della Resistenza, combattente
antifranchista nella guerra di Spagna, candidato alla nomina di
senatore a vita, autore del libro "Senza tregua", dirigente del PRC.

NORINA BRAMBILLA, staffetta partigiana Brigate Garibaldi, esponente
del PRC

BEBO STORTI, capogruppo del PdCI al Consiglio regionale della
Lombardia, attore da sempre impegnato sul tema dell'antifascismo,
interprete di "Mai morti" di Renato Sarti e "Foibe".

L'Istituto Pedagogico della Resistenza di Milano ci manda gli auguri
per la buona riuscita del convegno

Associazione L'altra Lombardia - SU LA TESTA
Sede nazionale Milano
e-mail : laltralombardia@ laltralombardia.it
telefoni : 339 195 66 69 oppure 338 987 58 98
sito internet www.laltralombardia.it

http://www.repubblica.it/2006/11/sezioni/economia/conti-pubblici-29/
spesa-militare/spesa-militare.html

Per Esercito, Marina e Aeronautica sono previsti 12 miliardi e 437
milioni. Lettera a Prodi di sedici senatori

Sorpresa tra la selva dei tagli: le spese militari si impennano

Il governo dell'Unione investe in armamenti più della Cdl

di CARLO BONINI

DICONO i numeri che in una Finanziaria che a tutti toglie, c'è una
voce di spesa che sale. Quella militare. Cinque punti percentuali in
più rispetto all'ultima legge di bilancio licenziata dal governo di
centrodestra. 12 miliardi 437 milioni di euro per Esercito, Marina,
Aeronautica. se è vero che il 72 per cento di questa somma andrà a
coprire i "costi del personale" e dunque la spesa corrente per i
salari e il mantenimento dei 193 mila uomini delle nostre forze
armate (sono esclusi i costi delle missioni all'estero, per le quali
è prevista un'ulteriore voce di spesa di 1 miliardo di euro).

E' altrettanto vero che, spalmati nel prossimo triennio, altri 4
miliardi e rotti di euro andranno a finanziare un "Fondo per il
sostegno dell'industria nazionale ad alto contenuto tecnologico".
Dove per alto contenuto tecnologico, si deve leggere "ricerca
militare" e per "industria nazionale" Finmeccanica, azienda per un
terzo di proprietà dello Stato, con un core business che, concentrato
nel settore degli armamenti, è spinto e alimentato da un mercato
domestico in cui opera in regime di sostanziale monopolio.

Nel suo ufficio di Corso Trieste, a Roma, Gianni Alioti, sindacalista
della Fim-Cisl, consumato osservatore dell'industria militare
italiana ed europea, sorride: "Nel paradosso di un governo di
sinistra che investe in armamenti più di quanto non abbia fatto negli
ultimi due anni il governo di destra, mi sembra di intravedere una
forma di tardo keynesismo militare. Per altro non sostenuto dai
fatti. Dire che aumentare gli investimenti in armamenti significa
sostenere contemporaneamente i livelli di occupazione e la ricerca
tecnologica significa dimenticare la lezione di Federico Caffè, che
definiva questo tipo di scelta "liberismo spurio"".

Un dato. Tra il 2000 e il 2005, Finmeccanica ha raddoppiato il
proprio fatturato (da 6,7 a 11,4 miliardi di euro). Nello stesso
periodo, gli occupati sono passati da 41 mila a 56 mila. "Non esiste
alcun andamento proporzionale o quantomeno convergente tra crescita
dei ricavi e aumento dell'occupazione - osserva Alioti - Esiste, al
contrario, una verità comune all'intero mercato europeo e mondiale.
L'industria della Difesa è tale che, inevitabilmente, lo sviluppo
della tecnologia impone una riduzione della manodopera. Guardiamo
quel che è accaduto a La Spezia, un distretto industriale
storicamente dipendente dall'industria militare. In quindici anni,
gli occupati nell'industria degli armamenti sono passati dal 40 al 19
per cento della forza lavoro totale".

Sedici senatori dell'Unione hanno scritto una lettera a Prodi. Si
legge: "Caro Presidente, l'Italia è al settimo posto nel mondo come
spesa militare con ingiustificati acquisti di armamenti come la
portaerei Cavour (quasi 1 miliardo di euro, sistema d'arma esclusi),
dieci nuove fregate (3,5 miliardi di euro), 121 caccia eurofighter
(oltre 6,5 miliardi di euro). Da soli rappresentano l'1 per cento del
nostro Pil. Ti ricordiamo che nel programma di governo dell'Unione,
ci sono tre riferimenti alla necessità di politiche di disarmo
(pagine 90, 91, 109)". Qui, evidentemente, il "keynesismo militare"
non c'entra. Ma qui, la discussione politica interna al governo
appare questione accantonata.

Giovanni Lorenzo Forcieri, 57 anni, diessino di La Spezia, senatore
nelle ultime quattro legislature, è arrivato sei mesi fa a "Palazzo
Marina" come sottosegretario alla Difesa. Dice: "Con questa
Finanziaria non facciamo altro che riportare la spesa militare al
livello del 2004. Prima cioè che il governo di centrodestra tagliasse
di fatto la spesa militare di 2 miliardi e mezzo di euro. Per altro,
a fronte degli investimenti che abbiamo previsto e che servono né più
e ne meno che a coprire impegni di spesa già assunti negli ultimi
anni e dunque ad onorare dei debiti già contratti, la Difesa cederà
al demanio beni per circa 4 miliardi di euro nei prossimi due anni.
Come si vede, dunque, il saldo tra entrate e uscite è in equilibrio.
Con il vantaggio di smobilizzare risorse necessarie a portare avanti
un programma di ammodernamento delle nostre forze armate. E' evidente
infatti che non stiamo parlando soltanto di numeri. Se vogliamo che
l'Italia possa efficacemente svolgere il ruolo internazionale che si
è conquistata in questi anni, non possiamo rinunciare a investire su
una forza armata efficiente e moderna".

L'argomento di Forcieri riproduce come un calco recenti
considerazioni di Pierfrancesco Guarguaglini, amministratore delegato
di Finmeccanica: "Se un governo, indipendentemente dal proprio
orientamento, vuole portare avanti una politica internazionale di un
certo livello, ha bisogno di una componente della Difesa efficiente.
E nel passato erano stati fatti tagli notevoli".

Se il problema non è "se" o "quanto" investire in spesa militare,
resta allora il "come". La qualità delle commesse e la loro urgenza.
Allo Stato Maggiore della Difesa non ne parlano volentieri. Frugando
nella foresta di sigle e numeri che battezza pezzi di artiglieria,
autoblindo, caccia, navi, se ne comprende il perché. Si scopre, ad
esempio, che, nel maggio 2006, la Direzione Generale per gli
Armamenti Terrestri del ministero ha chiuso con la Oto Melara
(Finmeccanica) un accordo di congruità di 310 milioni di euro per la
fornitura di 49 veicoli blindati su ruota ("Vbc", la sigla tecnica.
"Freccia" quella da combattimento) le cui torrette dovranno essere
allestite per sistemi di lancio di missili anticarro di nuova
generazione. Missili "Spike", di fabbricazione israeliana. L'arnese -
spiegano gli addetti - è un costosissimo gioiello tecnologico. Di
tipo "intelligente", "spara e dimentica".

Centomila dollari il pezzo, cinque volte il costo del suo omologo di
fabbricazione americana, il "Tow". Missile attualmente in dotazione
alle forze Nato e al nostro esercito, che ne ha pieni gli arsenali.
Raccontano a palazzo Baracchini che le pressioni dell'Esercito
sull'ex ministro Martino per ottenere questa "meraviglia" della
tecnica considerata troppo costosa persino dall'esercito americano
siano state robuste. Ma ammettono anche che il giochino costerà una
tombola.

Per ovvie economie di scala (costi di manutenzione e pezzi di
ricambio), i 49 veicoli blindati su ruota "Freccia" erano stati
concepiti dalla "Oto Melara" per essere perfettamente fungibili con i
loro "gemelli" cingolati, i "Dardo". Stessi abitacoli, stessa
strumentazione, stesse torrette. Stessi missili anticarro: i "tow".
Con la scelta del missile "spike", addio risparmi. Fabio Mini, ex
comandante della forza Nato in Kosovo, osserva: "Non riesco a capire
che senso abbia dotare di armi anticarro diverse mezzi cingolati e su
ruota, che dovrebbero integrarsi sul campo di battaglia. Così come
non capisco che senso abbia dotare di una tecnologia più avanzata
anticarro un mezzo su ruota che, a rigore di logica, non dovrebbe
affrontare in campo aperto mezzi corazzati". Alla "Oto Melara"
concordano. Ma alla "Oto Melara" sanno anche quel che accadrà.
Completata la fornitura dei "Freccia", i "Dardo", le cui consegne
sono state appena ultimate, torneranno nei cantieri per modificare le
loro torrette di lancio. I soldi non saranno un problema.

Come i 650 milioni di euro già impegnati a bilancio per consegnare ai
nostri Stati maggiori, di qui ai prossimi anni, 72 obici semoventi
fabbricati in Germania e assemblati da "Oto Melara" (Pzh, la sigla
tecnica) con cui difendere le nostre frontiere. Cosa debba farsene il
nostro esercito di un numero così consistente di pezzi di artiglieria
immaginati per conflitti di posizione, per scenari di difesa o offesa
lungo linee di fronte profonde un centinaio di chilometri (questo il
raggio di azione dell'obice), Dio solo lo sa. Meglio, solo l'Esercito
lo sa. Ma - sebbene sollecitato - lo Stato maggiore non ha ritenuto
di dover fornire risposte.

Risposte che invece, prima o poi, la Difesa e il governo saranno
costretti a dare sulla nostra partecipazione al più faraonico dei
progetti che la storia dell'aeronautica civile e militare abbia mai
conosciuto. Un'avventura dall'acronimo inglese, Jsf, "Joint Strike
Fighter", consorzio a guida statunitense per la costruzione del
cacciabombardiere del futuro (le consegne del nuovo aereo, battezzato
"F35-lightning II", dovrebbero cominciare nel 2012). La
partecipazione italiana al progetto (che ha quali ulteriori partner
Inghilterra, Canada, Danimarca, Norvegia, Olanda, Australia e
Turchia) fu una scelta del governo di centrosinistra (1998, premier
D'Alema). Berlusconi, nei suoi cinque anni a Palazzo Chigi, ne decise
i termini economici, fissando la quota del nostro investimento per la
sola "fase di sviluppo" in 1 miliardo 359 milioni di euro.

Cifra a cui l'Italia dovrà ora sommare altri 11 miliardi di dollari
per l'acquisto dei 131 caccia già ordinati da Aeronautica e Marina.
Anche perché la nostra Difesa non ha scommesso e acquistato soltanto
nel consorzio a guida americana, ma ha investito e comprato anche nel
progetto concorrente europeo, "l'Eurofighter Typhoon" (dove l'Italia
è partner di Gran Bretagna, Germania e Spagna). Ce ne verranno altri
121 caccia. Più o meno 7 miliardi di euro.

Ce n'è abbastanza per chiedersi se a decidere della qualità e
dell'entità della nostra spesa militare siano i ministri e il
parlamento. O non invece gli stati maggiori. O, ancora, se a portare
per mano gli uni e gli altri non sia l'industria degli armamenti. Per
dirla con le parole di un addetto del settore, "se in Italia il vero
ministro della difesa sia Parisi o non l'amministratore delegato di
Finmeccanica Guarguaglini". Un fatto è certo. Negli anni, i capi di
Stato maggiore delle nostre tre forze armate hanno tolto l'uniforme
per entrare senza soluzione di continuità nel top management delle
società di Finmeccanica. Una legge dello Stato lo vieterebbe.
Aggirarla è diventata una prassi. E' successo con il generale Mario
Arpino (da capo di stato maggiore della Difesa alla "Vitrociset"),
con l'ammiraglio Guido Venturoni (da capo di stato maggiore della
Difesa alla "Marconi"), con il generale Giulio Fraticelli (da capo di
stato maggiore dell'Esercito alla "Oto Melara"), con il generale
Sandro Ferracuti (da capo di stato maggiore dell'Aeronautica alla
Ams). Gli impegni di spesa con Finmeccanica che questa e le prossime
finanziarie andranno ad onorare portano anche le loro firme. Da
generali, naturalmente.


(14 novembre 2006)

"Communist Manifesto" Illustrated by Disney (and others)


Inviato da: "Gennaro Scala" 

Lun 13 Nov 2006 6:28 pm

Da non perdere:








(english / italiano)

Revival nazifascista in Ungheria ed Ucraina


0) In Ucraina il presidente Juschenko riabilita i criminali che hanno
collaborato con il nazismo

Altre opinioni "stonate" sul '56 ungherese:
1) What really happened in Hungary - By Stephen Millies, workers.org
2) U. Tommasi: sui fatti d'Ungheria
3) Qualche anno prima: i massacri delle Croci Frecciate


=== 0 ===

www.resistenze.org - osservatorio - europa - politica e società -
09-11-06

Da www.regnum.ru

1 novembre 2006

In Ucraina il presidente Juschenko riabilita i criminali che hanno
collaborato con il nazismo

Una dichiarazione del Rabbino Capo di Russia si fa interprete dello
sdegno di tutte le coscienze democratiche del mondo

Nel mese di ottobre, il presidente della repubblica di Ucraina,
Viktor Juschenko, che due anni fa, ai tempi della “rivoluzione
arancione”, fu apertamente sostenuto da Stati Uniti ed Europa nel suo
tentativo di assumere il potere con la forza, e venne, a tal fine,
descritto dalla stampa occidentale come “paladino” dei valori di
“libertà e democrazia”, ha deciso – questa volta nell’indifferenza
più completa di quegli stessi paesi e di quella stessa stampa – di
assumere una decisione che suona come offesa alla coscienza
democratica e antifascista di tutti i popoli del mondo.

Per decreto, con l’attribuzione del titolo di “veterani della Seconda
guerra mondiale”, egli ha sancito la riabilitazione ufficiale della
OUN e dell’UIA, vale a dire le organizzazioni politiche e militari
dei nazionalisti ucraini che, schieratesi al fianco delle truppe di
occupazione nazista durante il conflitto, si macchiarono di crimini
di efferatezza inaudita, di cui furono vittime le popolazioni civili
di città e villaggi dell’Ucraina e, in particolare, i cittadini di
religione ebraica che, quando non vennero massacrati senza pietà a
decine di migliaia, furono costretti alla deportazione nei campi di
sterminio nazisti, da cui, in gran parte, non fecero ritorno.

La decisione di Juschenko, che veniva provocatoriamente presa in
corrispondenza con l’abbandono del governo da parte dei ministri del
suo partito, “Nostra Ucraina” (abbandono dovuto in particolare al
conflitto manifestatosi in seguito alla decisione del nuovo
esecutivo, presieduto dal suo avversario storico Viktor Janukovic, di
rallentare i tempi dell’adesione alla NATO, “cavallo di battaglia”
dei “rivoluzionari arancione”), ha immediatamente suscitato un’ondata
di sdegno non solo in Ucraina, dove migliaia di antifascisti e di
veterani della “Grande guerra patriottica” si sono riversati nelle
strade di Kiev e di altre città, ma anche in Russia, dove la reazione
è stata altrettanto vigorosa.

Di particolare rilievo è apparsa la presa di posizione del Rabbino
Capo di Russia, Adolf Shayevich, che ha rilasciato una vibrante
dichiarazione, a nome del “Congresso delle Organizzazioni e delle
Associazioni Ebraiche di Russia”, ripresa dall’agenzia “Regnum”, che
proponiamo nei suoi passaggi più significativi.

L’augurio che esprimiamo è che l’appello alle coscienze antifasciste
di Shayevich venga raccolto anche in Italia, mettendo finalmente la
parola fine a un silenzio che ha tutte le caratteristiche della
complicità e che si accompagna ai vergognosi tentativi di
riabilitazione del fascismo, che da noi sembrano trovare sponde anche
“insospettabili” persino ai vertici dello Stato (la campagna sulle
foibe, la copertura mediatica e persino istituzionale alla
martellante campagna “revisionista” promossa da Pansa, per citare
solo alcuni esempi).

Vogliamo anche sperare che, in vista del vertice della NATO di fine
novembre, che si svolgerà in Lettonia (paese dell’Unione Europea dove
viene praticato l’apartheid nei confronti di oltre un terzo di
cittadini di origine russa e dove in memoria delle SS locali vengono
costruiti monumenti e memoriali), e che avrà tra gli argomenti in
discussione anche quello dei futuri rapporti con l’Ucraina, qualche
rappresentante della “sinistra alternativa” nelle istituzioni
parlamentari vorrà ricordare ai rappresentanti del governo di centro-
sinistra (a cominciare da Prodi) che, in quella occasione, invece di
associarsi all’ “assedio” occidentale della Bielorussia
antimperialista, dovranno farsi interpreti dei valori antifascisti
alla base del nostro assetto istituzionale e, per questa ragione,
denunciare con vigore tutti i rigurgiti fascisti che caratterizzano i
comportamenti di molti paesi dell’Europa orientale entrati, o in
procinto di entrare nell’alleanza militare atlantica.

La provocazione fascista di Juschenko non deve passare inosservata!

La redazione di “Resistenze.org”

“Juschenko riabilita i complici del nazismo”

Dichiarazione di Adolf Shayevich

“L’attribuzione ai membri dell’OUN e ai “combattenti” dell’UIA dello
status di veterani della Seconda Guerra Mondiale significa la
riabilitazione de facto del collaborazionismo e delle crudeli
complicità con i nazisti nelle loro atrocità contro centinaia di
migliaia di persone innocenti di differenti nazionalità.

Russi, Ucraini, Georgiani, Armeni, rappresentanti di tutte le
nazionalità sovietiche hanno sacrificato la propria vita allo scopo
di distruggere la feccia nazista e di salvare il mondo dalla “peste
bruna”. Molti hanno combattuto nei campi di battaglia della Grande
Guerra Patriottica e altri hanno sofferto privazioni nelle retrovie
per aiutare coloro che si trovavano sulla linea del fronte. Non è
possibile nemmeno immaginare di poter paragonare le azioni eroiche
dei soldati che hanno salvato intere nazioni dall’annientamento e
dalla schiavitù alle azioni degli accoliti che hanno preso parte a
massacri ed esecuzioni.

I membri dell’OUN-UIA hanno disonorato il loro nome collaborando con
i fascisti: le loro atrocità hanno provocato la morte di centinaia di
migliaia di persone... Decine di migliaia di Ebrei sono tornati dal
fronte e hanno visto le loro città e villaggi distrutti e le loro
famiglie sterminate. Per loro, per i loro figli e nipoti, per tutti
coloro che ricordano i crimini commessi dai fascisti e da quelli che
li hanno aiutati a massacrare decine di migliaia di Ebrei a Babiy
Yar, e nelle regioni di Rovno, Volyn e Lvov nell’Ucraina occidentale,
questo decreto non rappresenta altro che un insulto, una cinica
provocazione verso la memoria degli assassinati negli anni del disastro.

A suo tempo, il membro del consiglio municipale di Rovno Shkuratuk è
arrivato al punto di affermare: “Sono orgoglioso del fatto che, dei
1.500 partecipanti alle esecuzioni a Babiy Yar, 1.200 erano
poliziotti dell’OUN e solo 300 tedeschi”. Non è forse rivoltante per
gli Ucraini e la loro dignità nazionale assistere ad un tale scatto
di “orgoglio”? Il Tribunale internazionale di Norimberga ha
condannato non solo i nazisti, ma anche i loro complici. Il disprezzo
per le orribili lezioni del passato è la strada verso il baratro.”

Traduzione dall’inglese per resistenze.org a cura del CCDP


=== 1 ===

http://www.workers.org/2006/world/hungary-1116/

50 years ago
What really happened in Hungary

By Stephen Millies

Published Nov 9, 2006 7:46 PM

Why did George W. Bush just send New York Gov. George Pataki to
Budapest to praise the 1956 uprising of the “Hungarian freedom
fighters”?

It’s also the 30th anniversary of the heroic Soweto rebellion, in
which hundreds of African youth were killed fighting apartheid. But
Pataki didn’t go to South Africa.

No capitalist politician commemorates the 1919 Hungarian Soviet
Republic, which was the second socialist revolution following the
victory of the Bolsheviks in Russia.

The Hungarian Soviet Republic lasted 133 days. Allen Dulles, at that
time a young U.S. diplomat, played a role in coordinating the
invasion that drowned it in blood. In the 1950s, after he became CIA
director, Dulles overthrew progressive governments in Guatemala and
Iran.

Admiral Miklós Horthy, a leading player in the overthrow of that
early soviet republic, later became Hungary’s fascist dictator and
allied himself to Hitler. Under fascist rule, over 400,000 Hungarian
Jews were murdered.

During World War II, many Hungarian soldiers who had been press-
ganged to fight against the Soviet Union died during the failed Nazi
attempt to seize the city of Stalingrad.

The Soviet Red Army finally liberated Hungary from fascism at
tremendous cost.

Unlike in Yugoslavia and Albania, the main agent of change in Hungary
was the Soviet Army, not revolutionary forces inside the country. The
country had been devastated. Few communists had survived the decades
of death camps and torture.

Nevertheless, workers took over the factories. Two-thirds of the land
had been owned by 40 families while 3 million peasants didn’t have
any. “Hungary remained one of the last strongholds of feudal or semi-
feudal forms of tenure in Europe up until 1945,” wrote scholar
Alexander Eckstein in August 1949. Peasants chased the landlords off
their huge feudal estates, which were divided up.

Schools were opened to the poor. College enrollment rose 400 percent
by 1955. The number of women students increased five times. Workers
and peasants were guaranteed 60 percent of college seats.

Health care was made free. A campaign against tuberculosis—called the
“Hungarian disease”—saved thousands of lives.

Socialist economic planning made these advances possible. Industrial
production increased by 14 percent per year in the early 1950s, but
from a very low base.

Meantime the “cold war” was intensifying. Pentagon brass were
preparing for a nuclear war against the Soviet Union. They launched a
massive invasion of Korea in 1950.

Despite the Hungarian Communists’ attempts to bring about greater
equality, they were under tremendous pressure.

By the mid 1950s, with an infusion of U.S. capital through the
Marshall Plan, Western Europe was becoming prosperous again. But
Eastern Europe—where the fascist offensive had claimed millions of
lives and destroyed most of the infrastructure—remained poor.

Many collective farms had been established in Hungary, but too
hastily, alienating the peasants, who didn’t have enough tractors to
work large spreads because the industrial base was weak.

Mass discontent in Hungary was fanned by the formerly privileged
classes who had been expropriated. Struggles within the Communist
Party made things worse.

In the background was the extremely influential Catholic Church. This
wasn’t the church of El Salvador’s martyred Archbishop Romero.
Hungarian Cardinal Mindszenty was ideologically far to the right; he
wrote that Darwin should have been burned at the stake.

A “secret speech” by Nikita Khrushchev at the 20th Congress of the
Soviet Communist Party in February 1956 denounced Stalin—but from the
right, seeking an accommodation with the imperialists. It gave a
green light to pro-capitalist elements throughout Eastern Europe.

In October Imre Nagy became Hungary’s premier and opened the door to
reaction—in the same way that Mikhail Gorbachev later did in the USSR.

Workers had grievances in Hungary. But their discontent was misused
in a bloody struggle that was welcomed by Wall Street.

Book burnings of Marxist literature were carried out, just as the
Nazis had done. Red stars were removed from buildings. Socialist
symbols were cut out of the Hungarian flag. And Communists were lynched.

Hungarian workers were told they could keep their socialized
factories and other achievements after they “overthrew communism.”

“Workers’ councils” allowed pro-capitalist parties like the
Smallholders to be brought into the government. Fascist Mindszenty
was released from prison. Hungarian “freedom fighters” called for
U.N. intervention, which, as in Korea, really meant U.S. intervention.

The Soviet Union was compelled to send in troops to stop this counter-
revolution.

The reaction was thrown back. The first job of new Communist leader
János Kádár, who himself had been imprisoned under a previous
Communist regime, was winning back the workers. A workers’ militia
was formed.

After 1956 socialist Hungary advanced economically, but Washington
spent trillions of U.S. workers’ taxes to defeat the socialist bloc,
initiating a terribly costly arms race. They were finally victorious
in 1989-91 throughout Eastern Europe and the Soviet Union.

This was a real tragedy for the world working class and nations
fighting neocolonialism. Cuba and People’s Korea suffered terribly,
losing most of their foreign trade.

While the new ruling class now flaunts its wealth, the workers gained
nothing from these counter-revolutions. Hungary’s unemployment rate
skyrocketed from 1.7 percent in 1990 to 11 percent in 1996. Fifty
thousand Hungarians were made homeless by capitalist “freedom.”
Tuberculosis cases increased 18 percent between 1990 and 1999.

Now current Hungarian Prime Minister Ferenc Gyurcsany is under attack
from even more right-wing forces.

All this shows why it was important to defend the Hungarian workers’
state in 1956 and stop the right wing. The counter-revolutionaries
had masqueraded as friends of the workers, just as Hitler had
disguised his reactionary program as “national socialism.” But in
fact they were totally allied with world imperialism and, as partners
of global monopoly capital, were ready to exploit the workers doubly.

Today Bush may boast about the defeat of the socialist bloc in
Europe. But the rising resistance to U.S. imperialism all over the
globe demonstrates more clearly than any words that the tide is once
again turning in favor of the workers and the national liberation
struggles.


=== 2 ===

Data: Gio 26 Ott 2006 6:50 pm
Da: uberto tommasi
Oggetto: Re: sui fatti d'ungheria


Nessuno parla mai della caccia che, in quei giorni, gli insorti
ungheresi diedero, casa per casa, ai comunisti impiccandone migliaia
agli alberi, come facevano vedere le foto di allora, oggi
opportunamente sparite dai mass-media.
Inoltre sarebbe anche opportuno ricordare che le truppe russe erano
in Ungheria solo perchè dodici/tredici anni prima i fascisti
ungheresi, in terra russa, uccidevano, stupravano, rubavano e
bruciavano abitazioni con le persone dentro. Chi conta oggi quei morti?
Neppure è da affidare al dimenticatoio revisionista la storia di una
nazione che gli ebrei se li raccolse da sola per consegnarli ai nazisti.
Tanto clamore per il 50° della rivolta. Intanto nell'alleata Turchia,
dal 1970 ad oggi quasi un milione di persone passavano per le carceri
e sotto tortura. In Grecia i collonelli entravano nell'università
sparando con i cannoni dei carri armati ed i bambini cileni ed
argentini rubati dai torturatori ancor oggi non hanno trovato i
genitori (Quelli sopravvissuti).
Ed i 650.000 morti, la maggior parte civili, scannati in Irak dagli
americani, anche se vengono uccisi in diretta non vengono celebrati,
mentre la colomba mannara Rice fa lezione d'ipocrisia.
Anni fa ci fu anche chi tentò la riabilitazione di Nerone e scrisse
un libro. Tutto è possibile lo dimostra Pansa. Il potere scrive libri
ed occupa i mass-media, tanto come un tempo incideva lapidi e c'è
sempre chi "...maledice chi va e plaude chi resta"
Tanto avevo da dire Uberto Tommasi

Fonte: http://it.groups.yahoo.com/group/resistenza_partigiana/


=== 3 ===

I massacri delle Croci Frecciate

Nonostante la città fosse oramai assediata il governo delle
Croci Frecciate continuò ad emanare ordini contro gli Ebrei. Szalasi
e i suoi ministri avevano abbandonato la capitale rifugiandosi ad
Occidente ma ancora il 23 dicembre il ministro degli interni Vajna
ordinò che tutti gli Ebrei che si erano in qualche modo nascosti si
presentassero, entro ventiquattro ore, al Consiglio Ebraico per
essere assegnati al ghetto. Accesi da una specie di furore
demenziale le Croci Frecciate cominciarono la loro caccia
all'Ebreo "nascosto" mentre i carri armati sovietici puntavano al
cuore della città. In tale confusione venne arrestato come Ebreo
Asta Nielson cugino del re di Svezia. Il 6 dicembre con un altro
decreto venne ordinato che le strade che erano intitolate a
personaggi di ascendenza ebraica mutassero nome. Le bande armate
delle Croci Frecciate percorrevano la città. Circa cinquanta-
sessanta Ebrei a notte venivano massacrati da queste squadre di
assassini. Dopo aver derubato, torturato e violentato le Croci
Frecciate trascinavano le vittime sino alle rive del Danubio e si
divertivano a legarle a gruppi di tre. Sparavano poi alla testa
della persona al centro e scaraventavano il cadavere e le persone
ancora vive nelle acque gelate del fiume. Il peso della persona
uccisa trascinava a fondo quelle ancora vive. Tra le centinaia di
squadre della morte particolarmente efficiente fu quella guidata da
un monaco cattolico, Andras Kun. La sua banda fece irruzione l'11
gennaio 1945 nell'ospedale ebraico di via Maros provocando una
strage orrenda. Il monaco incitava i suoi a sparare nel "santo nome
di Cristo". Non c'era pietà per nessuno: né donne, né bambini, né
vecchi. I casi di assassinii di massa furono innumerevoli. Il 28
gennaio SS e Croci Frecciate attaccarono l'ospedale di piazza
Bethlen occupandolo per ventiquattro ore. Poi, dopo aver
terrorizzato e derubato pazienti e medici, rapirono ventotto
adolescenti che uccisero due giorni dopo. In questo caos mortale
Szalasi era impegnato a scrivere le proprie memorie e a comunicare
in sedute spiritiche con l'anima di John Campbell, un misterioso
defunto scozzese in contatto - come diceva il Capo delle Croci
Frecciate - con lui. In questa sanguinosa atmosfera popolata da
alienati ed assassini gli sforzi disperati di pochi uomini delle
ambasciate neutrali: Wallenberg, Perlasca, Lutz, monsignor Rotta
salvarono dalla morte migliaia di Ebrei.

Fonte: http://it.groups.yahoo.com/group/resistenza_partigiana/

Data: Lun 6 Nov 2006 10:48 am
Da: "fontanof"
Oggetto: In ricordo dei partigiani italiani, sloveni e croati.....


"...Nella notte fra il 24 e 25 novembre del 1944, il battaglione
muggesano "Alma Vivoda" venne a trovarsi al centro di un
rastrellamento tedesco che ha come obiettivo proprio la sua
liquidazione. Le colonne nemiche stringono in un cerchio di fuoco le
compagnie partigiane ed eccetto la terza compagnia il battaglione è
distrutto. Comincia così il calvario dei prigionieri, fra i quali vi
sono Libero Stradi e Mario Sinico, duramente percossi e seviziati
sono costretti a camminare scalzi fino a Capodistria, in testa al
corteo cammina lo studente Nevio Lonza, vicecommissario di
compagnia. Arrivati nella piazza principale di Capodistria i
partigiani sono esposti al ludibrio dei fascisti e dei loro
collaboratori dove subiscono altre sevizie..."

Dopo dieci anni di assenza delle Giunte Comunali precedenti (di
destra) finalmente il Sindaco di Muggia, Nerio Nesladek, ha voluto
ristabilire la tradizione, essere cioè presente, e l'ha fatto con
grande sensibilità e cognizione di causa.
Devo dire che il discorso è stato interrotto molte volte da applausi
sentiti e commossi da parte dei numerosissimi presenti.

fabio

Ps Per chi non conosce queste zone dirò che Kucibreg si trova
nell'Istria croata, ad una decina di Km da Capodistria.


Kucibreg, 5 novembre 2006

Sono onorato, molto onorato, di essere qui oggi, come Sindaco, per
rappresentare tutta la mia città, Muggia, in questo importante
incontro.
Per ben dieci anni, pur essendo stata sempre invitate, le due
precedenti amministrazioni di destra della mia città, con un'unica
eccezione, hanno regolarmente ignorato questa manifestazione.
Così facendo, non solo è stato spezzato un solido legame tra la mia
gente e questi luoghi, ma è stata anche offesa la memoria dei nostri
concittadini caduti.
Sono stati calpestati i sentimenti di chi è sopravvissuto e di tutti
coloro che non hanno dimenticato in tutti questi anni.
Sono stati ignorati, infine, i valori su cui poggia la nostra stessa
Repubblica.
In verità, anche se sono mancati i rappresentanti ufficiali, la
città di Muggia invece è sempre stata presente: con la sua
Associazione dei partigiani, con i suoi partiti democratici ed
antifascisti, con i molti consiglieri comunali e con i tanti,
tantissimi cittadini qui presenti ogni anno.
Oggi commemoriamo un importantissimo fatto d'armi della lotta di
liberazione dalla tirannia nazifascista: qui, 62 anni fa, sono
caduti tanti partigiani croati, sloveni ed italiani.
Essi sono morti semplicemente per darci la libertà di cui oggi noi
tutti godiamo.
La città di Muggia ha versato un pesante contributo di sangue in
questa battaglia cui ha partecipato con il suo battaglione
partigiano, che portava il nome di Alma Vivoda, la prima partigiana
italiana caduta per gli ideali antifascisti, ancora nel 1943.
In questo luogo invece caddero sul campo 7 partigiani muggesani e
ben 22 morirono successivamente nei campi di concentramento nazisti.
Grande, quindi, è il significato di questo monumento attorno al
quale, di anno in anno, ci ritroviamo per commemorare coloro che qui
sono caduti.
Rendiamo così un doveroso omaggio alla loro memoria, ma sopratttutto
ricordiamo, specialmente alle giovani generazioni, il grande valore
della battaglia di Kucibreg: qui hanno combattuto e sono caduti
tanti giovani di lingua, cultura e tradizioni diverse, uniti però da
un comune, grande ideale: quello della libertà, della pace e
dell'amicizia tra i popoli.
Questi combattenti infatti rappresentavano tutte le etnie che, da
secoli, su queste terre, in questa nostra Istria, hanno
pacificamente convissuto.
Pacificamente convissuto anche quando la durissima politica di
snazionalizzazione messa in atto dal fascismo ha cercato di mettere
questi popoli l'un contro l'altro, togliendo ai croati e agli
sloveni ogni diritto alla propria lingua e alla propria cultura.
Ecco, Kucibreg, la battaglia, l'eroismo, il sacrificio: queste sono
state forti ed inequivocabili risposte a quella politica.
Qui tre popoli, hanno avuto l'orgoglio, assieme, di levare la
testa e prendere le armi contro il sopruso e la sopraffazione. Qui
assieme hanno combattuto contro un nemico che, in quei giorni, era
ancora convinto di essere invincibile.
Molto si va parlando in questi tempi di pacificazione, della
necessità che i capi delle tre repubbliche di Croazia, Slovenia ed
Italia si incontrino e assieme rendano omaggio ai luoghi della
memoria.
Ebbene, i popoli di queste terre, per questa pacificazione, forse
non hanno bisogno di aspettare questi incontri, spesso solo formali:
la pacificazione l'hanno compiuta già allora, combattendo assieme
per la libertà, la democrazia e il progresso sociale.
E non solo qui, in questo o in altri luoghi dell'Istria: essi
avevano già cominciato molti anni prima, assieme in terra di Spagna,
per difendere quella Repubblica dall'attacco fascista.
Non mi stancherò di ripetere che è per me un grande onore, io che
faccio parte della generazione che è venuta dopo, rappresentare in
questo luogo la mia città.
Muggia decorata al valor Militare per attività partigiana, Muggia
che vanta due medaglie d'oro per il contributo di lotta dato dai
suoi partigiani e da grandi dirigenti politici del calibro di Natale
Colarich e Luigi Frausin.
Muggia che nella lotta di liberazione ha dato duecento caduti.
Muggia che ha visto morire altri cento suoi figli per causa della
guerra, in casa, sui campi di battaglia, sul mare.
Per colpa di una guerra voluta dai fascisti, non certamente dalla
nostra pacifica e operosa popolazione.
Essere qui oggi è un dovere e questa manifestazione in onore di
coloro che hanno dato la loro vita per la nostra libertà non è (e
non può essere) un puro atto di formale ricordo: deve essere invece
una testimonianza dell'impegno che ci assumiamo di non dimenticare e
di portare avanti quelle idee per le quali tanti giovani sono caduti.
Libertà, pace, amicizia, in antitesi alla dittatura, la guerra, la
superiorità della razza: non dobbiamo stancarci di ripeterlo.
Sappiamo che non c'è futuro senza la memoria.
E sappiamo anche che chi non ha memoria del passato è condannato a
ripeterlo. (...)


(Fonte: resistenza_partigiana @yahoogroups.com )

(francais / italiano)

Ossezia, Transnistria, Montenegro, Kosovo

1) Ossétie, Monténégro: deux standards differents pour les
imperialistes OTAN !

2) Giulietto Chiesa sui "due pesi e due misure" adottati dal
Parlamento Europeo


=== 1 ===

Déclaration du Secrétaire général sur le "référendum" et "l'élection
présidentielle" en Ossétie du Sud/région de Tskhinvali (Géorgie)

http://www.nato.int/docu/pr/2006/p06-142f.htm

Au nom de l'OTAN, je me joins aux autres dirigeants internationaux
pour rejeter le prétendu "référendum" et la prétendue "élection"
conduits en Ossétie du Sud/région de Tskhinvali (Géorgie). Les
actions de ce type ont pour seul but d'exacerber les tensions dans le
Sud-Caucase. La communauté internationale, dont l'OTAN, a réaffirmé
avec force et de façon continue qu'elle soutient l'intégrité
territoriale de la Géorgie. J'appelle toutes les parties à agir de
bonne foi et à conduire des négociations dans le but de parvenir à un
règlement politique. Trouver une solution pacifique est la seule
manière d'instaurer la paix et la stabilité à long terme dans le Sud-
Caucase.


Petit rappel, du 22 mai 2006

Déclaration du Secrétaire général de l'OTAN
au sujet du référendum au Monténégro

Au nom de l'OTAN, je félicite les autorités et la population du
Monténégro pour la tenue, dans des conditions régulières, d'un
référendum libre et équitable. L'OSCE a conclu que le résultat de
cette consultation est le reflet de la volonté de la population,
conformément aux principes directeurs agréés pour le référendum.
Compte tenu de cette évaluation et au vu de la forte participation
électorale, qui donne une véritable légitimité à cette consultation,
l'OTAN reconnaît les résultats du référendum.

L'OTAN invite tous les partis politiques et les citoyens à respecter
le résultat du référendum. Les gouvernements de Belgrade et de
Podgorica doivent maintenant examiner les nombreuses questions
bilatérales auxquelles ils devront trouver une solution. L'Alliance
compte bien maintenir de bonnes relations avec les deux gouvernements.


Source : http://fr.groups.yahoo.com/group/alerte_otan/messages
Liste gérée par des membres du Comité de Surveillance OTAN


=== 2 ===

Giulietto Chiesa su Ossezia e Transnistria

Segnalato da: Mauro Gemma

Approvate risoluzioni su Ossezia e Transnistria - 26-10-06

Strasburgo, 26 ottobre 2006

Il Parlamento europeo ha approvato oggi, a grande maggioranza, due
risoluzioni: una sull' Ossezia del sud (Georgia) l'altra sulla
Transnistria (Moldavia). I due testi approvati dalla Plenaria sono il
frutto della negoziazione tra i diversi Gruppi politici, i quali,
precedentemente, hanno elaborato la propria posizione attraverso un
dibattito tra i propri membri. Qui di seguito il contributo di
Giulietto Chiesa alla discussione su Ossezia e Transnistria svoltasi
all'interno del Partito Socialista Europeo.


Cari amici,

leggo la vostra proposta di risoluzione su Transdnistria e Ossetia e
vi scrivo per manifestarvi il mio diverso parere.

Nel mio intervento alla riunione del gruppo avevo già manifestato
opinioni sostanzialmente differenti rispetto a quelle che in questa
risoluzione sono contenute. Ribadisco qui le mie opinioni.

In primo luogo ritengo che il contenuto e il tono di una tale presa
di posizione siano tali da produrre un risultato opposto a quello che
credo ci stiamo proponendo. Se l'obiettivo è quello di raggiungere
soluzioni pacifiche e negoziate, allora questo tipo di argomentazione
non solo è tale da produrre una reazione di rigetto, ma soprattutto
quello di rendere impossibile una qualunque posizione mediatrice
dell'Europa. Essendo evidente che non può fare da mediatore chi si
schiera da una parte contro l'altra.

In secondo luogo rilevo che l'intera argomentazione, parola per
parola, che viene usata per destituire di ogni fondamento il
referendum della Transdnistria, potrebbe, a stretto rigore dei
termini, essere usata a proposito delle elezioni in Russia, di tutte
le elezioni in Russia che si sono tenute a partire dal gennaio 1992
fino ad oggi. Purtroppo noi, e l'Europa, non abbiamo mai detto queste
cose alla Russia e, anzi, abbiamo sonoramente applaudito tutte le
elezioni dell'era Eltsin e anche le prime dell'era Putin. Ora, alla
luce di questo record, risulta difficile pensare che una nostra così
drastica posizione contro Tiraspol sia giustificabile, se non
adottando la ben nota pratica dei "due pesi e due misure", cioè uno
per i nostri amici e l'altro per i nostri nemici. Io vorrei solo far
rilevare che è proprio questa pratica, da molti anni adottata
dall'Europa, è quella che ci ha largamente screditato di fronte a
ampi, maggioritari settori dell'opinione pubblica russa, cioè non
solo dei dirigenti, ma della gente in generale.

Inoltre, in un caso come nell'altro, in Transdnistria come in
Ossetia, siamo di fronte a popolazioni essenzialmente (in larga
maggioranza sicuramente) di lingua russa e, nel caso della
Transdnistria di etnia russa, che compattamente vogliono ritornare
sotto il governo russo, cioè sotto la protezione russa. Per quanto si
possa affermare che i due referendum siano stati e saranno
manipolati, dovrebbe essere chiaro a tutti noi (se non vogliamo
mettere la testa sotto la sabbia) che proprio quella è la realtà
della volontà popolare. Così come lo sarebbe quella del Nagorno
Karabakh nel chiedere l'annessione formale all'Armenia se si dovesse
giungere a un referendum.

Esiste ancora il principio dell'autodeterminazione dei popoli, che
non è stato abolito e che noi europei ci apprestiamo ad applicare nel
caso del Kosovo. Non si vede perchè dovremmo escluderlo nel caso
dell'Ossetia del Sud e della Transdnistria. Tanto più che, in nessuno
dei due casi, siamo di fronte a una tremenda pulizia etnica quale
quella che le popolazioni albanesi del Kosovo stanno commettendo nei
confronti della minoranza serba.

Ciò vale particolarmente per l'Ossetia del Sud. Ciò che è accaduto in
Georgia, dopo l'indipendenza, durante il regime di Zviad
Gamsakhurdia, lo sterminio cui la popolazione osseta è stata
sottoposta e di cui sono stato testimone diretto, escludono
categoricamente ogni possibilità di un ritorno di quella piccola
popolazione sotto controllo georgiano. Quali che siano le motivazioni
che si vogliono utilizzare, le critiche nei confronti della Russia
(di Eltsin e di Putin), è un fatto inammissibile quello di spingere
gli osseti a ritornare alla situazione precedente. La gente di
Transdinistria, di Ossetia, ha visto e ben compreso, in questi anni,
quale è la sorte delle popolazioni di lingua russa che rimangono
tagliate fuori dalla madrepatria: quale che sia l'azione
propagandistica di Mosca nei loro riguardi, si deve tenere conto che
la gente non è così cieca come talvolta amiamo raccontarci. Sanno
assai bene che l'Europa è più ricca e più democratica, ma i legami
storici e le paure attuali sono molto più forti delle lontane
aspettative. Il fatto che preferiscano installarsi in un sistema
autoritario piuttosto che nella libera Europa, in un lontano futuro,
dovrebbe farci riflettere invece che condurci a lanciare anatemi nei
loro confronti.

Ritengo dunque un errore, anzi un grave errore, procedere su una tale
linea, che non solo non è motivata e motivabile secondo criteri di
giustizia, ma che è insostenibile giuridicamente e che, infine,
recherà pregiudizio ai rapporti tra Russia ed Europa e agl'interessi
europei più in generale.

Ricevete i miei rispettosi saluti,

Giulietto Chiesa