Informazione

(srpskohrvatski / italiano)

L'Occidente baluardo di libertà e diritti?

1) D. Losurdo: Dopo Parigi, l'Occidente come baluardo della libertà di espressione e dei diritti individuali?
2) FLASHBACK: Kaotičan svijet Ezia Maura – direktora novina „Repubblica“. Smjesta dajte oružje toj novini!


Si vedano anche, sulla strage del Charlie Hebdo e reazioni conseguenti :

Quando Israele volò fino a Londra per sparare ad un vignettista… (10 gennaio 2015)

La firma dei killer, noti alla polizia e ai servizi segreti (Manlio Dinucci,  8.1.2015)
http://ilmanifesto.info/la-firma-dei-killer-noti-alla-polizia-e-ai-servizi-segreti/

Da tempo Charlie Hebdo non faceva più ridere, oggi fa piangere (Quartiers libres, 8 Gennaio 2015)

Un colpo alla Francia e all'Europa (Giulietto Chiesa, mercoledì 7 gennaio 2015)
http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=114319&typeb=0&Un-colpo-alla-Francia-e-all-Europa

Charlie Hebdo: la guerra e la guerra santa (di Francesco Santoianni, 7/1/2015)
http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=2839

Il Punto di Giulietto Chiesa: Parigi, trappola sanguinosa (07/01/2015)
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=p9mpDJgmncg


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Dopo Parigi: l'Occidente come baluardo della libertà di espressione e dei diritti individuali?

di Domenico Losurdo (10/1/2015)

Sull’onda dell’attacco terroristico di Parigi, i media occidentali in coro si atteggiano a campioni della libertà di espressione. Che ipocrisia ripugnante! Riporto qui una pagina dal mio libro: «La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra»  [DL].

... Vediamo quale sorte nel corso della guerra contro la Jugoslavia è stata riservata alla libertà di stampa e di espressione. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1999, a conclusione di un’azione preordinata e rivendicata dai più alti comandi, gli aerei statunitensi ed europei distruggevano l’edificio della televisione serba, uccidendo e ferendo gravemente decine di giornalisti e impiegati che vi lavoravano. Non si tratta affatto di un caso isolato: «Nel momento probabilmente più difficile per il fronte dei ribelli, la NATO torna a bombardare pesantemente l’area di Tripoli nel tentativo di frenare la propaganda di Gheddafi»; le bombe colpivano questa volta la televisione libica, messa a tacere mediante la distruzione delle strutture e l’uccisione dei giornalisti (Cremonesi 2011d). Oltre a violare la Convenzione di Ginevra del 1949, che vieta gli attacchi deliberati contro la popolazione civile, tali comportamenti calpestavano la libertà di stampa e la calpestavano sino al punto di condannare a morte i giornalisti televisivi jugoslavi e libici colpevoli di non condividere l’opinione dei vertici della NATO e di ostinarsi a condannare l’aggressione subita dal loro paese. 
È nota la risposta che a tutto ciò amano fornire i vertici politici e militari dell’Occidente nonché i difensori d’ufficio dell’Impero: schierandosi a favore di Milosevic o di Gheddafi (e indirettamente della loro politica «genocida») i giornalisti serbi e libici non si limitavano a esprimere un’opinione ma istigavano a un reato e quindi commettevano un crimine. Avrebbe potuto essere l’occasione per un dibattito sul ruolo della stampa e dei media in generale: qual è il confine che separa la libertà di opinione e di informazione dall’incitamento al crimine? Per fare solo un esempio, non c’è dubbio che le testate giornalistiche, le radio, le televisioni cilene, alla vigilia dell’11 settembre messesi al servizio della CIA e da essa lautamente finanziate, hanno svolto un ruolo golpista e criminale, si sono rese corresponsabili dei crimini perpetrati dal regime imposto da Augusto Pinochet e dai governanti di Washington (Chierici 2013, p. 39). Questo dibattito non ha mai avuto luogo. Se si fosse svolto, prima di essere assassinati, i giornalisti serbi avrebbero potuto obiettare ai loro accusatori: quali responsabili di crimini dovevano essere bollati, nella loro stragrande maggioranza, i giornalisti occidentali; essi giustificavano o celebravano l’azione della NATO (scatenata contro la Jugoslavia senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e quindi contraria al diritto internazionale) e i suoi bombardamenti (spesso all’uranio impoverito), che sistematicamente distruggevano infrastrutture civili e non risparmiavano persone innocenti e donne e bambini. E in modo analogo, con qualche piccola variante, prima di essere assassinati, avrebbero potuto argomentare i giornalisti libici. 
Al dibattito è stato preferito il ricorso alle bombe, in ultima analisi il ricorso al plotone di esecuzione. A decidere sovranamente cos’è un’opinione e cos’è un reato sono l’Occidente e la NATO, coloro che dispongono dell’apparato militare (e multimediale) più potente; i più deboli possono esprimere la loro opinione solo a loro rischio e pericolo. Cosa pensare di una «libertà di espressione» che può essere sovranamente cancellata dai padroni del mondo proprio quando essa sarebbe più necessaria, in occasione di guerre e di aspri conflitti? 
In tema di libertà di espressione e di stampa c’è una circostanza che dà da pensare: fra i giornalisti ai giorni nostri più famosi sono da annoverare Julian Assange, che con WikiLeaks ha portato alla luce fra l’altro alcuni crimini di guerra commessi dai contractors statunitensi in Irak, e Gleen Greenwald, che ha richiamato l’attenzione sulla rete universale di spionaggio messa in piedi dagli USA: il primo, tempestivamente accusato di violenza sessuale e timoroso di essere estradato oltre Atlantico, si è rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra; il secondo, pur non essendo sottoposto ad alcun provvedimento giudiziario, sembra terrorizzato e a Rio de Janeiro «vive cambiando in continuazione tetto, numeri di telefono ed e-mail» (Molinari 2013b). È da aggiungere che la fonte del primo giornalista (Bradley Manning) è in carcere, dove rischia di trascorrere il resto della sua vita, mentre la fonte del secondo (Edward Snowden), pur rifugiato a Mosca, non si sente affatto al sicuro e vive in una sorta di clandestinità. 
I media occidentali in coro esprimono la loro indignazione per il comportamento dell’ISIS. E di nuovo ripugnante risulta loro ipocrisia. Il fondamentalismo islamico non solleva obiezioni quando infuria contro la Libia di Gheddafi e la Siria di Assad, cioè contro i paesi presi di mira dall’Occidente. Sempre dal mio libro «La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra» riprendo un paragrafo: 


Il ritorno delle donne di conforto» e della schiavitù sessuale 

Proprio a tale proposito la barbarie del sussulto neocolonialista attualmente in corso si rivela con particolare evidenza. In Medio Oriente le rivoluzioni anticoloniali hanno comportato un netto avanzamento dell’emancipazione femminile, imposta però a una società civile ancora largamente egemonizzata da costumi patriarcali e maschilisti tanto più pervicaci in quanto santificati da una secolare tradizione religiosa. È su questa cultura e questi ambienti che l’Occidente ha fatto leva per riaffacciarsi prepotentemente su un’area da esso a lungo dominata. I risultati sono devastanti: in Libia «la sezione costituzionale della Corte suprema di Tripoli reintroduce la poligamia in nome della legge musulmana». Non si tratta di una svolta inaspettata. Nel «discorso della vittoria» da lui pronunciato il 28 ottobre 2011, il leader imposto dagli aerei NATO e dai miliziani e dal denaro delle monarchie del Golfo si era affrettato «ad annunciare che nella “nuova Libia” ogni uomo avrebbe avuto il diritto di sposare sino a quattro mogli nel pieno rispetto del Corano». Sì: 

«A suo dire, era questo uno dei tanti provvedimenti mirati a cancellare per sempre il retaggio della dittatura di Gheddafi. Quest’ultimo, specie nella prima fase più socialista e “nasseriana” del suo quarantennio al potere, aveva cercato di concedere alcune migliorie allo status delle donne, introducendole massicciamente nel mondo del lavoro e appunto limitando, per quanto era possibile in una società tribale come quella libica, la poligamia» (Cremonesi 2013a). 

Socialismo, nasserismo? È quello che di più odioso vi può essere agli occhi dell’Occidente neoliberista e neocolonialista; sennonché, la controrivoluzione neocoloniale è al tempo stesso la controrivoluzione antifemminista. 
Tra la massa di profughi, a soffrire in modo tutto particolare sono le donne, spesso destinate a essere vendute quali «spose». Vediamo quello che avviene in Giordania: «Tanti tassisti di Amman ormai si sono industriati. Attendono i ricchi sauditi e dei paesi del Golfo all’aeroporto o di fronte agli hotel a cinque stelle. Basta poco per capire cosa vogliono». Le ragazze e le donne siriane sono ricercate per la loro bellezza. E per di più: 

«Costano poco, bambine di 15 o 16 anni cedute dalle famiglie per cifre che possono restare nei limiti dei 1. 000 o 2. 000 euro. Una quisquilia, noccioline per gli uomini d’affari del Golfo. Sono abituati a spendere ben di più. Una notte in compagnia di prostitute ucraine in un albergo a Dubai può costare anche il doppio» (Cremonesi 2012b). 

E così, i membri dell’aristocrazia corrotta e parassitaria al potere nei paesi del Golfo, da sempre appoggiata dall’Occidente, possono trarre un duplice vantaggio dalla politica di destabilizzazione da loro perseguita in Siria: indeboliscono un regime laico e anzi blasfemo per il fatto di promuovere l’emancipazione delle donne; possono procurarsi a prezzi di svendita donne, ragazze e bambine di bellezza fuori del comune. Va da sé che, nelle aree della Siria conquistate dai «ribelli», le donne sono costrette a subire il ritorno all’Antico regime: esse devono coprire interamente il loro corpo e sono condannate alla segregazione e alla schiavitù domestica. 
Ma la tragedia delle donne medio-orientali non ha ancora toccato il suo culmine. Lo scoppio e l’aggravarsi della crisi in Siria hanno fatto emergere la terribile realtà della «jihad del sesso», che qui conviene descrivere a partire sempre dalle corrispondenze della più autorevole stampa occidentale. Convinte da autorità religiose e da predicatori fondamentalisti, soprattutto in Tunisia «prostitute bambine» e «ragazze di famiglie povere, minorenni e spesso analfabete» raggiungono clandestinamente la Siria per offrirsi ai guerrieri islamisti e allietarli tra una battaglia e l’altra, in modo da garantirsi l’accesso al Paradiso. Il lavoro delle «schiave tunisine» è duro: «Molte di loro hanno avuto rapporti sessuali anche con venti, trenta, cento mujaheddin». Alcune restano incinte, e la tragedia così si aggrava: «Nel Maghreb rurale, nei villaggi del Sud tunisino, una madre senza marito è solo una prostituta», per questa ragione spesso non più riconosciuta e rinnegata dagli stessi genitori. Ma chi sono i responsabili di tutto ciò? Non si tratta solo del fondamentalismo tunisino: a incitare alla «guerra santa del sesso» è anche uno «sceicco» dell’Arabia saudita (il paese che non bada a spese per armare i ribelli). D’altro canto, come i guerrieri, cosi le bambine e la ragazze chiamate a offrir loro conforto sessuale raggiungono la Siria «via Libia o Turchia»; e, «secondo un rapporto dell’ONU», a provvedere alle spese di trasporto sono i «soldi del Qatar» (Battistini 2013). 
Dunque, oltre ai guerrieri islamici veri e propri, che provengono da ogni angolo del mondo e dallo stesso Occidente, a destabilizzare e a tentare di rovesciare il regime siriano, protagonista di un importante processo di emancipazione della donna, sono ragazze e bambine (soprattutto tunisine) che subiscono una totale de-emancipazione. Siamo portati a pensare alle comfort women, alle donne coreane e cinesi nel corso della seconda guerra mondiale costrette a prostituirsi ai militari dell’esercito di occupazione giapponese bisognosi di «conforto». Se le comfort women propriamente dette erano commiserate dal popolo di appartenenza, le protagoniste o meglio le vittime della «guerra santa del sesso» sono disprezzate e persino ripudiate dal loro stesso popolo. Non c’è dubbio che l’Occidente è corresponsabile di questa infamia, promossa da predicatori e autorità dell’Arabia saudita, finanziata dal Qatar, resa possibile dalla complicità di Turchia e Libia. Si tratta di paesi che godono del sostegno politico o per lo meno della benevola tolleranza di Washington e di Bruxelles. La Turchia fa persino parte della NATO, e il suo governo «mantiene aperto il confine della Siria e consente ai combattenti [islamici] di avere un porto franco nel Sud del paese, mentre armi, denaro contante e altri rifornimenti affluiscono sul campo di battaglia» (Arango 2013). Tra questi «rifornimenti» rientrano evidentemente anche le ragazze e le bambine destinate alla prostituzione sacra e bellica. 
Se in questo caso, ad alimentare la «jihad del sesso» sono in teoria delle «volontarie», in altri casi emerge in tutta chiarezza la violenza della schiavizzazione sessuale. Leggiamo ancora sul «Corriere della Sera»: 

«I miliziani delle brigate islamiche in Siria hanno un sistema tutto loro per scegliere le donne curde. In genere avviene ai posti di blocco. Salgono sui bus civili con i mitra puntati, si fanno consegnare la lista dei passeggeri dal conduttore e cercano i nomi non arabi. Individuate le più giovani e carine le obbligano a scendere, le fanno genuflettere e poggiando il palmo della mano sulla loro testa le dichiarano “halal”, che nella tradizione indica la carne macellata secondo la legge coranica, così vengono “islamizzate”, purificate, pronte per congiungersi carnalmente con i cavalieri della guerra santa. Violenza di uno solo o di gruppo: le ragazze sono considerate “spose temporanee”. Possono essere trattenute per poche ore, oppure settimane. Alcune tornano a casa, altre alla fine vengono uccise […] A detta di Ipek Ezidxelo, 30 anni, attivista del Partito di Unione Democratica (Pyd), il più importante movimento armato nelle regioni curde siriane, gli estremisti qaedisti, specie gli afgani, ceceni e libici, farebbero a gara per catturare vive le combattenti curde» (Cremonesi 2013b). 

Ora più che mai siamo portati a pensare alle comfort women, ora più che mai la realtà della schiavitù sessuale è sotto i nostri occhi in tutta la sua ripugnanza! E di nuovo emerge il ruolo poco lusinghiero dell’Occidente, scarsamente interessato a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla tragedia delle donne curde e ancora meno interessato a bloccare l’afflusso in Siria degli stupratori provenienti dalla Libia «liberata» dalla NATO...


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Orig.: Il mondo caotico di Ezio Mauro. Presto, armi a Repubblica (Tommaso Di Francesco, Il Manifesto del 6.9.14)

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KAOTIČAN SVIJET EZIA MAURA – DIREKTORA NOVINA „REPUBBLICA“. SMJESTA DAJTE ORUŽJE TOJ NOVINI!


Posted by Novi Plamen on September 11, 2014 [Prevela Jasna Tkalec]

Kome sve danas Italija isporučuje oružje? Nakon što ga je davala Kurdima i slala ga u Libiju i u Siriju (što je sve nepovratno zavrsilo u rukama džihadista), nakon što smo pročitali udarni članak Ezia Maura, više nema nikakvih sumnji, treba smjesta isporučiti oružje novinama „Repubblica“! Bilo je zaista teško čitati jedan toliko smušen članak urednika, i što je najgore, članak što se naginje nad zaista opasnu prazninu. U jednom momentu posumnjali smo da se radi o nekom virusu ili o pogrešnoj upotrebi „kopiraj-priljepi”  koja je upala u ovo važno razmišljanje iz posljednjeg tužno dugačkog napisa Oriane Fallaci te da se radi o ko zna kojoj po redu pohvali „civiliziranog“ Zapada, kojeg opsjeda barbarski pakao sa svih strana, počevši sa islamom i završivši sa ostatkom cijelog postojećeg svijeta.
piše Tommaso di Francesco
Dakle za Ezia Maura započelo je Treće razdoblje Atlantskog pakta, nakon Prvog razdoblja, u vrijeme Hladnog rata te drugog razdoblja nakon Pada zida, kad je „izgledalo da će se otvoriti dugo stoljeće u kojem više neće biti neprijatelja demokracije, pošto je ova konačno pobijedila u dvadesetom stoljeću“.
Pa ipak, datumi ne odgovaraju: prvi NATO pakt nastaje preventivno godine 1949 (a Varšavski pakt tek 1951), a druga sezona Atlantskog pakta krenula je 1999 (deset godina nakon 1989!) u Washingtonu, u punom „humanitarnom“ ratu sa 78 dana avionskih napada odnosno bombardiranja bivše Jugoslavije.
Ta druga faza Nato-a rođena je u ekspanzivnom ratu: ni govora o bilo kakvoj „odbrani“.
No zar nije bila pobijedila demokracija? Zar nije trebalo napraviti reviziju tog zlosretnog Saveza, umjesto što je zadržana ideologija nužnog postojanja neprijatelja?
A sada ova treća faza, jučer rođena u Wallesu, zaista je neophodna: ma pogledajte samo Islamski Kalifat, sa njegovom scenografijom smrti.
No tko je koristio ove mesare i koljače u svim istinskim ratnim teatrima, od Afganistana do Bosne, ako to nije činio upravo Zapad, kako bi došao do pobjede u ratu protiv realnog socijalizma na umoru i za svoje vlastite geostrategije moći te za atlantsku ideologiju prvenstva u civiliziranosti? Koji odnos postoji sada između islamskog krvavog noža i i izraelskih i američkih kasetnih bombi ?
Nema nikakve sumnje. Sada je već postalo opće prihvaćeno da i demokracija „isključuje“, ona služi samo onima, koji imaju garancije, jer ona „nije više garancija za governance“, budući da su nacionalne države poslane dovraga u svim nadnacionalnim sjedištima. Svijet je „izvan kontrole“ i „nemoguća“ je razmjena između građana i države, između prava i „sigurnosti“. Naravno, vojne sigurnosti. Pa da li smo još, pita se Ezio Mauro, raspoloženi braniti demokraciju, koja je napadnuta?
Iako je iscrpljen i lišen sadržaja, Zapad se, po mišljenju Ezia Maura, mora braniti „pod svaku cijenu“. Pa i Putin – koji predstavlja kaos – mora odgovoriti na islamski izazov (kao da je Mauro smtenuo s uma Belan i to tri dana prije njegove godišnjice).
Dakle hajdemo u nove „humanitarne“ ratove i stvorimo još mnogo baza u Trećoem slavnom razdoblju Tri faze NATO-a, koji se našao uz samu Rusiju. Još jedan novi vojni zid. Stoga, pod svaku cijenu, dajte brže bolje oružje novinama „Repubblica“.
Izvor: „il Manifesto“



(english / srpskohrvatski / italiano)

Prossime iniziative su Ucraina e Donbass

1) Bologna 16/1: UCRAINA. LA SITUAZIONE ATTUALE
2) Rep. di San Marino, 23/1: LA ASTENSIONE DI SAN MARINO E DEI PAESI U.E. SULLA MOZIONE ONU IN MERITO ALLA GLORIFICAZIONE DEL NAZISMO
3) Novorossija, 9 Maggio: LA PROSSIMA CAROVANA DELLA BANDA BASSOTTI

4) FLASHBACK: Dichiarazione delle FARC-EP sulla Resistenza in Donbass


Leggi anche:

Controsemestre. Ai fascisti ucraini non piace che si parli di pace (Redazione Contropiano Nordest, 18 Novembre 2014) 
http://contropiano.org/politica/item/27586-controsemestre-ai-fascisti-ucraini-non-piace-che-si-parli-di-pace


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Bologna, venerdì 16 gennaio 2015
dalle ore 20 c/o Sala Polivalente GRAF
Piazza Spadolini n. 3 – Quartiere San Donato – Bologna

ANPPIA Bologna                                                                                                        

ANPI 
Com. prov. Bologna
Sezione Barca - Bologna
Sezione Lame - Bologna
Sezione Pratello - Bologna
Sezione San Donato – Bologna


UCRAINA: Situazione Attuale

Saluto di Renato Romagnoli - Presidente Anpi Provinciale Bologna
Saluto di Massimo Meliconi - Presidente Anppia Comitato di Bologna

Intervengono

Dr. ANDREA CATONE
co-direttore della rivista “MarxVentuno”, studioso di Storia Contemporanea

Prof. FRANCESCO BENVENUTI
Università di Bologna

Coordina
Dr. ANDREA MARTOCCHIA


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Repubblica di San Marino, 23 gennaio 2015, ore 17,30
Sala Conferenze - Hotel I-DESIGN - Via del Serrone, 124 - Murata 

Fonte: profilo FB di Epifanio Troìna, 5/1/2014

<< 23 gennaio a San Marino - si terrà conferenza sul voto di ASTENSIONE di San Marino e dei paesi dell’UE sulla mozione che condanna i tentativi di glorificazione dell’ideologia del nazismo e la conseguente negazione dei crimini di guerra commessi dalla Germania nazista. La Risoluzione dell'ONU esprime "profonda preoccupazione per la glorificazione in qualsiasi forma del movimento nazista, neo-nazista e degli ex membri dell'organizzazione "Waffen SS", anche attraverso la costruzione di monumenti e memoriali e l'organizzazione di manifestazioni pubbliche". 
Alla luce dei continui rigurgiti fascisti e nazisti ai quali si assiste sempre più spesso in diverse parti del mondo, l'astensione sulla risoluzione dell' ONU, approvata a maggioranza, è un atto grave e inaccettabile e dimostra la subalternità alla volontà usa. Questo è inaccettabile e deplorevole. Tale voto umilia la nostra storia democratica e offende la Resistenza, i suoi protagonisti e i suoi valori.
Si parlerà anche del Donbass e della guerra civile in atto per contrastare la giunta nazifascista di kiev. Interverrà Viktoria Shilova.
SIETE INVITATI ! >>

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Sullo stesso tema si leggano:

I neo-Nazi imperversano in Ucraina, ma il Nazismo non è più il "male assoluto"(per l'Occidente) (di M.G. Bruzzone, su La Stampa del 30/11/2014)
Una settimana fa l’assemblea generale dell’ONU ha approvato una mozione presentata dalla Russia che condanna i tentativi di glorificazione dell’ideologia nazista (...) ad astenersi sono stati i paesi dell’ Unione Europea...
http://www.lastampa.it/2014/11/30/blogs/underblog/i-neonazi-imperversano-in-ucraina-ma-il-nazismo-non-pi-il-male-assolutoper-loccidente-zftkpiBxOsdKkyAKDoZupI/pagina.html?refresh_ce

Sulla neutralità (sic) dello Stato italiano in tema di nazismo
I comunicati dell'ANPI / Sul nazismo la UE si astiene (Italo Slavo)

L'Anti-antifascismo di UE e USA
US, Canada & Ukraine vote against Russia’s anti-Nazism resolution at UN



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PTV News – Speciale – Intervista Banda Bassotti (27/12/2014)
Lo storico gruppo romano, dopo il ritorno dalla Russia, non rinuncia all’idea di una seconda Carovana antifascista verso il Donbass…
http://www.pandoratv.it/?p=2496
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=gguKcFOSTxQ

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Comunicato della Banda Bassotti (28 dic 2014)
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=oeAq3a6uYJI

Con questo Comunicato rispondiamo all'invito ufficiale da noi ricevuto il 20 ottobre 2014 a firma del Primo Ministro della Repubblica Popolare di Lugansk. L’invito ci chiedeva di tornare in Donbass per un concerto antifascista a Lugansk.

COMUNICATO DELLA BANDA BASSOTTI

Dal nostro ritorno a Roma, vediamo che continua in Donbass una falsa tregua fatta di bombardamenti su civili. Come prima muoiono civili, bambini, anziani e partigiani della Novarussjia. Vengono bombardate scuole, autobus. Impedita la vita normale dove i bambini possano tornare a scuola, dove le famiglie possano tornare ad una vita normale. Esattamente come prima della cosiddetta tregua, l'unione europea, sponsorizzata dagli usa, invia carri armati, materiale da guerra al regime di Kiev.
Riteniamo un dovere per tutti noi Antifascisti sostenere la lotta del Popolo della Novarossija.
Siamo molto legati alla Storia dell'URSS e della attuale Russia, per questo abbiamo deciso come data di una nostra visita al Donbass il 9 maggio 2015 che in tutti i Paesi figli dell'Unione Sovietica è la Festa del Giorno della Vittoria.
Con questo Comunicato annunciamo pubblicamente che la Banda Bassotti organizzerà una Carovana Antifascista per prendere parte alla Festa del Giorno della Vittoria.
In Italia festeggeremo il 25 aprile, Giorno della Liberazione e in Novarossjia il 9 maggio rendendo omaggio a tutti quei patrioti che hanno combattuto il Nazifascismo. Porteremo con noi ancora una volta le nostre canzoni, la Falce ed il Martello e la Bandiera Rossa.
Chiediamo agli Antifascisti di contribuire alla costruzione della Carovana Antifascista.

BANDA BASSOTTI - ROMA - PIANETA TERRA - dicembre 2014
NO PASARAN!

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Italian punk band to organize an “antifascist caravan” (Jan 03, 2015 - by ZugNachPankowin)
Italian punk band “Banda Bassotti” is ready for a second Carovana Antifascista…
http://www.southfront.eu/italian-punk-band-to-organize-an-antifascist-caravan/


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IN ENGLISH: FARC-EP STATEMENT ON UKRAINE
True to our anti-imperialist and anti-fascist commitment, the Revolutionary Armed Forces of Colombia-People’s Army, FARC-EP, strongly condemns the vile aggression unleashed by the Kiev regime against the workers and dissident population of Ukraine. The Ukrainian people have been caught in the crossfire by the United States and the European Union…
http://workers.us5.list-manage.com/track/click?u=40da4c2268de414b49fa829df&id=083e529502&e=6386bdc711

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http://www.nuovacolombia.net/Joomla/documenti-analisi/5665-il-fascismo-e-la-nato-non-passeranno-solidarieta-alla-resistenza-antifascista-del-donbass.html
SOLIDARIETA’ ALLA RESISTENZA ANTIFASCISTA DEL DONBASS

Fedeli alla loro vocazione antimperialista e antifascista, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – Esercito del Popolo, FARC-EP, condannano categoricamente la vile aggressione scatenata dal governo di Kiev contro i lavoratori e la popolazione insubordinata dell’Ucraina.
Il popolo ucraino è bersagliato dal fuoco incrociato di Stati Uniti e Unione Europea, i primi in un’escalation guerrafondaia di accerchiamento e provocazione nei confronti della Russia, e la seconda nella sua smania di annettersi l’Ucraina. Entrambi bramano un’ulteriore espansione della NATO verso l’est, certamente con il proposito, assai mal dissimulato, di impadronirsi dei corridoi e dei giacimenti minerari ed energetici.
Nessuno, sano di mente, può dubitare che dietro le cosiddette “rivoluzioni arancioni” prima, ed il golpe dei Maydan poi, ci siano i lupi imperialisti camuffati da pecorelle democratiche e difensori dei diritti umani.
Il suddetto golpe ha portato al potere una cricca oligarchica con settori neonazisti, che ha scatenato un’impressionante e violenta caccia alle streghe non soltanto contro i comunisti, ma anche ai danni degli oppositori e degli abitanti russofoni in generale.
Nonostante l’assalto, la risposta popolare si è ingigantita a partire dalla resistenza antifascista delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, contro le quali il governo dell’oligarca Poroshenko, telediretto da Washington e Bruxelles, ha lanciato un’operazione di accerchiamento e sterminio con ogni tipo di armamento e decine di migliaia tra soldati e mercenari. Operazione che ha ucciso o ferito gravemente migliaia di persone innocenti, e che fustiga la popolazione civile del Donbass che i fascisti vogliono annichilire non solo con bombardamenti, ma anche attraverso la fame e la sete.
Nelle ultime settimane stiamo assistendo alla controffensiva armata delle milizie antifasciste capeggiate dal Fronte Popolare di Liberazione dell’Ucraina, della Novorossja e dei Subcarpazi russi, la cui lotta per la libertà e la giustizia sociale sta propinando duri colpi ai contingenti di Kiev, diversi dei quali finiscono per sbandare.
Manifestiamo la nostra solidarietà internazionalista al popolo ucraino ed ai combattenti antifascisti ed antioligarchici del Donbass, e chiamiamo i popoli del mondo a mobilitarsi per contrastare qualsiasi tentativo dell’imperialismo di imporre ulteriori guerre neocoloniali e regimi antidemocratici.
Oggi come ieri, il fascismo non passerà!

Commissione Internazionale delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – Esercito del Popolo, FARC-EP
15 settembre 2014




(english / srpskohrvatski / deutsch / italiano)

Voci dissenzienti dalla Repubblica Ceca

1) Czech president Zeman calls Yatsenyuk ‘Premier of war’ / Il presidente ceco compara la marcia di Capodanno 2015 a Kiev a quella dei nazisti / Nationalisten-Aufmarsch in Kiew: Zeman sieht Parallele zu Hitler-Deutschland 
2) Ufficiale di Praga Marek Obrtel rifiuta le medaglie Nato / Češki veteran s KiM odbija NATO odlikovanje: « Stidim se Zapada » / ‘Ashamed to have served criminals’: Czech veteran returns NATO medals / Oberstleutnant Obrtel gibt vier Medaillen an “kriminelle Vereinigung” N.A.T.O. zurück


Vedi anche,

sulla marcia nazista-europeista del Capodanno 2015 a Kiev:

Ukraine nationalists march in Kiev to honour Bandera
Erneut Angriff auf russische Journalisten in Kiew

sulla recente polemica del presidente ceco Zeman contro le "Pussy Riot":

Czech President Faces Live Radio Ban for Use of Swearwords: Spokesperson (29.11.2014)
Czech president could face live radio ban after ‘Pussy Riot are c**ts’ remark (1/12/2014)
Tschechien: Rundfunkrat will Präsident Zeman’s Reden zensieren (von PetraPez, 2/12/2014)


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‘Premier of war’: Czech president says Yatsenyuk not seeking peaceful solution for E. Ukraine (RT, January 03, 2015)
Czech President Milos Zeman has slammed Ukrainian Prime Minister Arseny Yatsenyuk, calling him “a prime minister of war” because he is unwilling to peacefully solve the civil conflict in the country...


"Premier di guerra": il presidente della Repubblica Ceca dice Yatsenyuk non cerca una soluzione pacifica per l'Ucraina orientale

Il presidente ceco Milos Zeman ha condannato il primo ministro ucraino Arseny Yatsenyuk. Zeman dice che è "un primo ministro della guerra", perché non è disposto a risolvere pacificamente il conflitto civile, anche se Commissione europea ha raccomandato.
Yatsenyuk vuole risolvere il conflitto ucraino "con l'uso della forza", ha aggiunto il leader ceco.
Secondo Zeman, l'attuale politica di autorità di Kiev ha due "facce".
Il primo è il "volto" del presidente del paese, Petro Poroshenko, che "può essere un uomo di pace."
La seconda "volto" è quello di Yatsenyuk, che ha una posizione intransigente verso le forze di autodifesa in Ucraina orientale.
Zeman ha detto di non 'crede che il colpo di Stato di febbraio, durante la quale l'allora presidente Viktor Yanukovich è stato deposto dal potere, è stata una rivoluzione democratica a tutti.
"Maidan non era una rivoluzione democratica. Credo che l'Ucraina è in uno stato di guerra civile", ha detto Zeman.
Secondo i dati delle Nazioni Unite, almeno 4.317 persone sono state uccise e 9.921 feriti nel conflitto in Ucraina orientale, da aprile, quando le autorità di Kiev hanno lanciato una cosiddetta operazione antiterrorismo nella regione.
(trad. Peter Iiskola)

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Tschechiens Präsident spricht von "Bürgerkrieg" in der Ukraine (03.01.15)
...Während der ukrainische Präsident Petro Poroschenko ein „Mann des Friedens“ sein könnte, sei der Premier Arsenij Jazenjuk „eher ein Mann des Krieges“, der die Krise in dem Land mit Gewalt lösen wolle...
http://www.tt.com/home/9447324-91/tschechiens-pr%C3%A4sident-spricht-von-b%C3%BCrgerkrieg-in-der-ukraine.csp   
  
Tschechiens Präsident Zeman nennt Jazenjuk „Premier des Krieges“ (03.01.15)
...Zeman räumte ein, dass seine Ukraine-Äußerungen seiner eigenen Popularität in Tschechien geschadet haben, führte dies jedoch darauf zurück, dass viele Tschechen über die Ereignisse vom vergangenen Jahr in Kiew sehr schlecht informiert seien...
http://de.sputniknews.com/politik/20150103/300499346.html  

‘Something wrong with Ukraine, EU’: Czech leader condemns ‘Nazi torchlight parade’ (RT, January 04, 2015)
The chilling slogans and a flagrant demonstration of nationalist symbols during the neo-Nazi march in Kiev reminded the Czech President Milos Zeman of Hitler's Germany. He said something was “wrong” both with Ukraine and the EU which didn’t condemn it…

Falsche "Idealisierung" der Ukraine (05.01.15)
...Tschechiens Präsident Milos Zeman hat sich gegen eine »Idealisierung« der Ukraine ausgesprochen. »Viele schlecht informierte Leute idealisieren die Ukraine. Sie glauben, dass sich etwas wie eine Samtene Revolution ereignet habe«...
http://www.neues-deutschland.de/artikel/957331.falsche-idealisierung-der-ukraine.html
 
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Il presidente ceco compara una marcia dei nazionalisti ucraini per Bandera a quella dei nazisti

5/1/2015

Il presidente della Repubblica ceca, Milos Zeman, ha criticato la processione con le torce organizzata il primo gennaio scorso in Ucraina e si è dichiarato preoccupato della totale assenza di posizione dell'Ue al riguardo.
Miloš Zeman, in un'intervista alla radio Frekvence 1, ha chiamato all'attenzione sull'”estetica nazista” della processione dei nazionalisti ucraini che si è tenuta il primo gennaio. La marcia è stata organizzata in onore del leader nazionalista ucraino Stepán Bandera, figura che, secondo il presidente, era il referente di Reinhard Heydrich, capo della Gestapo e Luogotenente della Boemia e della Moravia durante la seconda guerra mondiale.  
Secondo Zeman, la processione con le torce è stata “organizzata assolutamente nella stessa maniera che le marce dei nazisti nella Germania governata da Hitler”. “Qualcosa di molto grave sta avvenendo in Ucraina. Ma è ancora peggiore il fatto che sta il tutto continui senza che l'Ue esprima la minima protesta contro queste azioni”, ha concluso.

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Nationalisten-Aufmarsch in Kiew: Zeman sieht Parallele zu Hitler-Deutschland 

05.01.2015 – Der tschechische Präsident Milos Zeman hat den jüngsten Fackelzug der Rechtsextremen in Kiew mit Aufmärschen während der Diktatur des Nationalsozialismus in Deutschland verglichen. 
„Es stimmt etwas nicht mit der Ukraine: Am 1. Januar wurden dort Aufmärsche zum Andenken an Stepan Bandera organisiert, der nebenbei gesagt wie Reinhard Heydrich (von 1941 bis 1942 stellvertretender Reichsprotektor in Böhmen und Mähren – Red.) aussieht“, sagte Zeman dem Radiosender Frekvence 1.
Der Fackelaufmarsch am 1. Januar 2015 in Kiew sei „genauso wie die Nazi-Aufmärsche zu Zeiten Hitlerdeutschlands organisiert“ worden. „Dann habe ich zu mir selbst gesagt, dass mit dieser Ukraine etwas Schlimmes passiert“, so Zeman. „Etwas Schlimmes passiert aber auch mit der Europäischen Union, von der es keinen Protest gegen diese Aktion gegeben hat.“
Am 1. Januar haben mehrere tausend Anhänger der Swoboda-Partei und des „Rechten Sektors“ in Kiew einen Fackelmarsch zum 106. Geburtstag des umstrittenen Nationalistenchefs Stepan Bandera abgehalten.


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Ufficiale di Praga rifiuta le medaglie Nato

Sta facendo molto discutere in Repubblica ceca una storia che ha come protagonista Marek Obrtel, ex ufficiale medico dell'esercito di Praga, impegnato in passato in missioni di peacekeeping in Bosnia-Erzegovina, Kosovo e Afghanistan. Obrtel che, in una lettera aperta, ha chiesto nei giorni scorsi al ministero della Difesa di Praga di riprendersi le medaglie da lui guadagnate durante le operazioni all'estero compiute nell'ambito di operazioni Nato. Un coinvolgimento di cui oggi Obrtel «si vergogna profondamente», ha scritto l'ex tenente colonnello. Questo perchè l’Alleanza atlantica si sarebbe trasformata in una «organizzazione criminale, guidata dagli Usa e dai suoi perversi interessi», la giustificazione di Obrtel, che ha poi chiarito ai media di Praga che l'impulso a riconsegnare le onorificenze è nato «dai recenti sviluppi politici» e dalla sua opposizione alle «politiche Usa verso la Russia, l'Ue e tutti i Paesi liberi». (m. man.)

03 gennaio 2015

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Na srpskohrvatskom:

Češki veteran s KiM odbija NATO odlikovanje: « Stidim se Zapada » (Ponedeljak 29.12.2014. - Beta)
Bivši češki vojni lekar, veteran iz misija na Kosovu, u BiH i Avganistanu, zatražio je od češkog ministra odbrane da mu oduzme odlikovanja NATO jer se ne slaže s politikom Zapada prema Rusiji i jer se stidi zapadnog vojnog saveza kao « zločinačke organizacije »…

Zakasnela pravda za Srbe (Sreda 31.12.2014.- J. Arsenović)
Bivši češki vojni lekar Marek Obrtel zatražio je od ministra odbrane svoje zemlje da mu oduzme NATO odlikovanja zato što se ne slaže s politikom Zapada prema Rusiji i jer se stidi Alijanse kao « zločinačke organizacije »…

Češki potpukovnik: Vraćam ordenje zločinačkoj NATO alijansi (E. V. N. | 03. januar 2015.)
Bivši češki vojni lekar, potpukovnik Marek Obrtel, koji je služio na Kosovu, u BiH i Avganistanu zatražio je u otvorenom pismu ministru odbrane da mu se ordenje oduzme…

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In english:

‘Ashamed to have served criminals’: Czech veteran returns NATO medals (RT, December 30, 2014)

Army doctor to return medals in protest against NATO (Czech News Agency / Prague Post, December 30, 2014)
Former Czech military doctor and reserve Lieutenant Colonel Marek Obrtel called on Defense Minister Martin Stropnický to strip him of the medals he received for taking part in NATO operations in protest against the U.S. policy on Russia, daily Právo writes today…
http://www.praguepost.com/czech-news/43556-monday-news-briefing-dec-30-2014

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Oberstleutnant gibt vier Medaillen an “kriminelle Vereinigung” N.A.T.O. zurück


Von PETRAPEZ  31. DEZEMBER 2014

Offener Brief an den Verteidigungsminister und die Regierung der Tschechischen Republik – Antrag auf Widerruf der Auszeichnungen in militärischen Operationen der AČR unter der Schirmherrschaft der N.A.T.O.


Es gibt sie noch, Menschen mit Gewissen, die nicht nur voller Groll in der Zimmerecke vor sich hin grummeln, sondern offen ihre Missbilligung mit einem grossen Paukenschlag über einen Militärapparat zum Ausdruck bringen, dem sie ihr Einkommen und Karriere verdankten.

Mit dieser guten Nachricht beenden wir das alte Jahr und starten zuversichtlich in das kommende. Möge dem guten Beispiel von Oberstleutnant Marek Obrtel so viel wie möglich folgen.

Marek Obrtel war tschechischer Militärarzt. Seine Einsatzgebiete waren die Kriege in Kosovo und Bosnien-Herzegovina und anderen Ländern des ehemaligen Jugoslawien sowie in Afghanistan. In Afghanistan war Obrtel Leiter des 11. tschechischen Militärkrankenhauses.

In einem dreiseitigen Brief an die tschechische Regierung und das Verteidigungsministerium, den er als Offenen Brief gleichzeitig an das Parlament weiterleitete um die Öffentlichkeit darüber in Kenntnis zu setzen, zeigte sich der Oberstleutnant tief beschämt darüber, an den internationalen Friedensmissionen der Nordatlantischen Allianz teilgenommen zu haben. Eine der Überschriften des in Abschnitte gegliederten Briefes heisst “Frost kommt aus dem Weissen Haus, das heisst von der N.A.T.O.” 

Marek Obrtel nannte darin die N.A.T.O. eine kriminelle Vereinigung mit grausamen Interessen und erbat den Modus zur Rücknahme seiner ihm verliehenen N.A.T.O.-Medaillen. Die von der U.S.A. geführte Allianz verfolge perverse Interessen und eine imperialistische Politik in künstlichen Konflikten auf der ganzen Welt auf der höchsten Stufe der Verderbtheit und des Machtrausches.

Weiter schrieb Obrtel, dass er seinen Dienst im guten Glauben mit allen ihm zur Verfügung stehenden Kräften ausführte und sein Bestes gegeben hatte, denn einen solchen Einsatz übt man nicht nur halb aus. “Aber immer mehr, besonders in Zusammenhang mit dem Kosovo-Konflikt, begann ich zu erkennen, dass unser Weg nicht richtig ist.”

Der Militärarzt schrieb weiter in dem Brief, dass jedes freie Land, das sich den Machtinteressen der U.S.A. widersetzt und seine Identität, die Ökonomie und Souveränität verteidigt, von der Landkarte getilgt werden müsse.

Der Militärarzt führte aus, dass er die Möglichkeit hatte, mit den Einheimischen zu sprechen. Dadurch wurde er in die Lage versetzt, eine Analyse und Bewertung der Situation aus allen möglichen Blickwinkeln führen zu können. 

“Immer, wenn ich das Gefühl bekam, dass “etwas nicht stimmt”, tröstete ich mich durch die Arbeit als Arzt und das es meine Aufgabe ist, den Kranken, Verletzten und Betroffenen, einschliesslich der lokalen Bevölkerung, wo unsere Truppen sie sahen, zu helfen.”

In den Gesprächen wurde Obrtel die “Absurdität” der Schritte der N.A.T.O. und die jüngsten Entwicklungen, die er als einen neuen Kalten Krieg bezeichnete, bewusst.

Das Verteidigungsministerium der Tschechischen Republik hat auf diesen Brief geantwortet, dass es kein Gesetz gibt, verliehene Medaillen wieder zurückzunehmen, aber er kann sie jederzeit zurückgeben, wenn er sie aufzugeben wünscht.

Der vollständige Brief, der auch auf die Rolle der C.I.A. und die Entwicklung der N.A.T.O. seit ihrer Gründung eingeht, wurde zwei Tage vor Weihnachten, am 22. Dezember 2014, auf der Parlamentwebsite PARLAMENTNI Liszty.cz unter “Marek Obrtel: Hluboce se stydím za zločineckou organizaci, jakou je NATO. Vracím vyznamenání” veröffentlicht.

In der Republik Tschechien wird seit Veröffentlichung des Briefes eine heftige Diskussion geführt. Dabei outen sich die Politiker, die als Kriegstreiber den Kurs der N.A.T.O. vehement verteidigen. Unter dem Artikel Veterán, který vrátil medaile a mluvil o „zločinném” NATO: Do debaty se zapojil generál a exministr obrany. A šlo se až na dřeň vom 30.Dezember 2014 kann die spannende Diskussion der Politiker in unserem Nachbarland verfolgt werden. 

Wir wünschen allen Leserinnnen und Leser ein gutes neues Jahr. Möge es uns mit vereinten Kräften gelingen, den Kriegsmoloch zu stoppen und die Verantwortlichen endlich zur Rechenschaft zu ziehen.





(fonte: mailing-list del Comitato NO NATO - vedi anche:
Sul volume "Se dici guerra" – Kappa Vu, aprile 2014 – vedi anche:
M. Dinucci è anche membro del Comitato Scientifico del Coord. Naz. per la Jugoslavia - onlus



Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 2

Manlio Dinucci


La Nato alla conquista dell’Est
Nel 1999 inizia l’espansione della Nato nel territorio dell’ex Patto di Varsavia e dell’ex Unione Sovietica. L’«Alleanza Atlantica» ingloba  i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004, si estende ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Repubblica iugoslava). Al vertice di Bucarest, nell’aprile 2008, viene deciso l’ingresso di Albania (un tempo membro del Patto di Varsavia) e Croazia (già parte della Repubblica iugoslava). Viene inoltre preparato l’ingresso nell’Alleanza dell’ex repubblica iugoslava di Macedonia e di  Ucraina e Georgia, già parte dell’Urss. Si afferma infine che continuerà la «politica della porta aperta» per permettere ad altri paesi ancora di entrare un giorno nella Nato. 
Gli Stati Uniti riescono così nel loro intento: sovrapporre a un’Europa basata sull’allargamento della Ue un’Europa basata sull’allargamento della Nato. Entrando nella Nato, i paesi dell’Europa orientale, comprese alcune repubbliche dell’ex Urss, vengono a essere più direttamente sotto il controllo degli Stati Uniti che mantengono nell’Alleanza una posizione predominante. Va ricordato che il Comandante supremo alleato in Europa è, per una sorta di diritto ereditario, un generale statunitense nominato dal presidente, e che tutti gli altri comandi chiave sono controllati direttamente dal Pentagono. 
Per di più, i nuovi paesi membri devono riconvertire gli armamenti e le infrastrutture militari secondo gli standard Nato: ciò avvantaggia l’industria bellica statunitense, dato che l’acquisto di armi statunitensi viene posto da Washington quale condizione per l’ammissione alla Nato. In tal modo gli Stati uniti  si assicurano una serie di strumenti militari ed economici, e quindi politici, per tenere questi paesi in posizione gregaria all’interno della Nato alle dirette dipendenze di Washington. Non solo: poiché Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Romania e Bulgaria entrano nella Ue tra il 2004 e il 2007, Washington si assicura notevoli strumenti di pressione all’interno della stessa Unione europea per orientare le sue scelte politiche e strategiche. 

La Nato  in Afghanistan
La costituzione dell’Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) viene autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu con la risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001. Suo compito è quello di assistere l’autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni. Secondo l’art. VII della Carta delle Nazioni unite, l'impiego delle forze armate messe a disposizione da membri dell’Onu per tali missioni deve essere stabilito dal Consiglio di sicurezza coadiuvato dal Comitato di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Anche se tale comitato non esiste, l’Isaf resta fino all’agosto 2003 una missione Onu, la cui direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia, Germania e Olanda. 
Ma improvvisamente, l’11 agosto 2003, la Nato annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu». E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere la leadership, ossia il comando, dell’Isaf. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659 del 15 febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo impegno della Nato nel dirigere l’Isaf».
A guidare la missione, dall’11 agosto 2003, non è più l’Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene infatti inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell’Isaf. Come sottolinea un comunicato del giugno 2006, «la Nato ha assunto il comando e il coordinamento dell’Isaf  nell’agosto 2003: questa è la prima missione al di fuori dell’area euro-atlantica nella storia della Nato». La missione Isaf viene quindi di fatto inserita nella catena di comando del Pentagono. Nella stessa catena di comando sono inseriti i militari italiani assegnati all’Isaf, insieme a elicotteri e aerei, compresi i cacciabombardieri Tornado. 
Il «disegno di ordine e pace» della Nato in Afghanistan ha ben altri scopi di quelli dichiarati: non la liberazione dell’Afghanistan dai taleban, che erano stati addestrati e armati in Pakistan in una operazione concordata con la Cia per conquistare il potere a Kabul, ma l’occupazione dell’Afghanistan, area di primaria importanza strategica per gli Stati Uniti. Lo dimostrano le basi permanenti che installano qui, tra cui quelle aeree di Bagram, Kandahar e Shindand. 
Per capire il perché basta guardare la carta geografica: l’Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest’area (nel Golfo e nel Caspio) si trovano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Si trovano tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza complessiva sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono nel rapporto del 30 settembre 2001, «esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse». Da qui la necessità di «pacificare» l’Afghanistan per disporre senza problemi del suo territorio. Ma, impegnati su troppi fronti, gli Usa non ce la fanno. Ecco quindi il coinvolgimento degli alleati Nato sotto paravento Onu, sempre agli ordini di un generale statunitense.
 
Il sostegno Nato a Israele 
Nell’aprile 2001 Israele firma al quartier generale della Nato a Bruxelles l’«accordo di sicurezza», impegnandosi a proteggere le «informazioni classificate» che riceverà nel quadro della cooperazione militare.
Nel luglio 2001 il Pentagono dà il nullaosta per la fornitura a Israele dei primi 1000 kit Jdam, realizzati dalla Boeing in collaborazione con la joint-venture italo-inglese Alenia Marconi Systems: questo nuovo sistema di guida rende «intelligenti» le bombe aeree «stupide» permettendo agli F-16 israeliani di colpire simultaneamente più obiettivi a oltre 50 km di distanza.
Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con quello israeliano un memorandum d’intesa per la cooperazione nel settore militare e della difesa, che prevede tra l’altro lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica. 
Nel gennaio 2004 un aereo radar Awacs della Nato atterra per la prima volta a Tel Aviv e il personale israeliano viene addestrato all’uso delle sue tecnologie.
Nel dicembre 2004 viene data notizia che la Germania fornirà a Israele altri due sottomarini Dolphin, che si aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) consegnati negli anni ‘90. Israele può così potenziare la sua flotta di sottomarini da attacco nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico. 
Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato compie la prima visita ufficiale a Tel Aviv, dove incontra le massime autorità militari israeliane per «espandere la cooperazione militare». 
Nel marzo 2005 si svolge nel Mar Rosso la prima esercitazione navale congiunta Israele-Nato: il comando del gruppo navale della «Forza di risposta della Nato» è affidato alla marina italiana che vi partecipa con la fregata Bersagliere.
Nel maggio 2005, dopo essere stato ratificato al senato e alla camera, il memorandum d’intesa italo-israeliano diviene legge: viene così istituzionalizzata la cooperazione tra i ministeri della difesa e le forze armate dei due paesi riguardo l’«importazione, esportazione e transito di materiali militari», l’«organizzazione delle forze armate», la «formazione/addestramento». 
Nel maggio 2005 Israele viene ammesso quale membro dell’Assemblea parlamentare della Nato.
Nel giugno 2005 la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Golfo di Taranto.
Nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per la prima volta a una esercitazione Nato «anti-terrorismo», che si svolge in Ucraina. 
Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare una migliore interoperabilità tra la marina israeliana e le forze navali Nato».
Nell’ottobre 2006, Nato e Israele concludono un accordo che stabilisce una più stretta cooperazione israeliana al programma Nato «Dialogo mediterraneo», il cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In tale quadro, «Nato e Israele si accordano sulle modalità del contributo israeliano all’operazione marittima della Nato Active Endeavour» (Nato/Israel Cooperation, 16 ottobre 2006). Israele viene così premiato dalla Nato per l’attacco e l’invasione del Libano. Le forze navali israeliane, che insieme a quelle aeree e terrestri hanno appena martellato il Libano con migliaia di tonnellate di bombe facendo strage di civili, vengono integrate nella operazione Nato che dovrebbe «combattere il terrorismo nel Mediterraneo». Le stesse forze navali che, bombardando la centrale elettrica di Jiyyeh sulle coste libanesi, hanno provocato una enorme marea nera diffusasi nel Mediterraneo (la cui bonifica verrà a costare centinaia di milioni di dollari), collaborano ora con la Nato per «contribuire alla sicurezza della regione».
Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’attacco israeliano a Gaza, la Nato ratifica il «Programma di cooperazione individuale» con Israele. Esso comprende una vasta gamma di campi in cui «Nato e Israele coopereranno pienamente»: controterrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte Nato-Israele; allargamento della cooperazione nella lotta contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione).
 
La Nato «a caccia di pirati» nell’Oceano Indiano   
Nell’ottobre 2008, un gruppo navale della Nato, lo Standing Nato Maritime Group 2 (Snmg2) attraversa il Canale di Suez, entrando nell’Oceano Indiano. Ne fanno parte navi da guerra di Italia, Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Grecia e Turchia. Lo Snmg2 è il successore della Standing Naval Force Mediterranean (Stanavformed), la forza navale permanente del Mediterraneo, costituita nel 1992 dalla Nato in base al «nuovo concetto strategico». Questo gruppo navale (il cui comando è assunto a rotazione dai paesi membri) fa parte di una delle tre componenti dello Allied Joint Force Command Naples, il cui comando è permanentemente attribuito a un ammiraglio statunitense, lo stesso che comanda le Forze navali Usa in Europa. L’area in cui opera lo Snmg2 non ha ormai più confini, in quanto esso costituisce una delle unità della «Forza di risposta della Nato», pronta a essere proiettata «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo».
Scopo ufficiale della missione dello Snmg2 nell’Oceano Indiano è condurre «operazioni anti-pirateria» lungo le coste della Somalia, scortando i mercantili che trasportano gli aiuti alimentari del World Food Program delle Nazioni Unite. In questo «sforzo umanitario», la Nato «continua a coordinare la sua assistenza con l’operazione Enduring Freedom a guida Usa». Sorge quindi il dubbio che, dietro questa missione Nato, vi sia ben altro. In Somalia, la politica statunitense sta subendo un nuovo scacco: le truppe etiopiche, qui inviate nel 2006 dopo il fallimento del tentativo della Cia di rovesciare le Corti islamiche sostenendo una coalizione «anti-terrorismo» dei signori della guerra, sono state costrette a ritirarsi dalla resistenza somala. 
Washington prepara quindi altre operazioni militari per estendere il proprio controllo alla Somalia, provocando altre disastrose conseguenze sociali. Esse sono alla base dello stesso fenomeno della pirateria, nato in seguito alla pesca illegale da parte di flotte straniere e allo scarico di sostanze tossiche nelle acque somale, che hanno rovinato i piccoli pescatori, diversi dei quali sono ricorsi alla pirateria. Nella strategia statunitense e Nato, la Somalia è importante per la sua stessa posizione geografica sulle coste dell’Oceano Indiano.  Per controllare quest’area è stata stazionata a Gibuti, all’imboccatura del Mar Rosso,  una task force statunitense.  L’intervento militare, diretto e indiretto, in questa e altre aree si intensifica ora con la nascita del Comando Africa degli Stati uniti. E’ nella sua «area di responsabilità» che viene inviato il gruppo navale Nato.
Esso ha però anche un’altra missione ufficiale: visitare alcuni paesi del Golfo persico (Kuwait, Bahrain, Qatar ed Emirati arabi uniti), partner Nato nel quadro dell’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Le navi da guerra della Nato vanno così ad aggiungersi alle portaerei e molte altre unità che gli Usa hanno dislocato nel Golfo e nell’Oceano Indiano, in funzione anti-Iran e per condurre, anche con l’aviazione navale, la guerra aerea in Afghanistan.  
 
(2 – continua)


Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 3

Manlio Dinucci


La strategia di demolizione degli Stati 
La strategia Usa/Nato consiste nel demolire gli Stati che sono del tutto o in parte fuori del controllo degli Stati uniti e delle maggiori potenze europee, soprattutto quelli situati nelle aree ricche di petrolio e/o con una importante posizione geostrategica. Si privilegiano, nella lista delle demolizioni,  gli Stati che non hanno una forza militare tale da mettere in pericolo, con una rappresaglia, quella dei demolitori. 

L’operazione inizia infilando dei cunei nelle crepe interne, che ogni Stato ha. Nella Federazione Iugoslava, negli anni ’90, vengono fomentate le tendenze secessioniste, sostenendo e armando i settori etnici e politici  che si oppongono al governo di Belgrado. Tale operazione viene attuata facendo leva su nuovi gruppi dirigenti, spesso formati da politici passati all’opposizione per accaparrarsi dollari e posti di potere. 
Contemporaneamente si conduce una martellante campagna mediatica per presentare la guerra come necessaria per difendere i civili, minacciati di sterminio da un feroce dittatore. 

Si chiede quindi l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, motivando l’intervento con la necessità di destituire il dittatore che fa strage di inermi civili (nel caso della Iugoslavia, Milosevic). Basta il timbro con scritto «si autorizzano tutte le misure necessarie» ma, se non viene dato (come nel caso della Iugoslavia), si procede lo stesso. La macchina da guerra Usa/Nato, già approntata, entra in azione con un massiccio attacco aeronavale e operazioni terrestri all’interno del paese, attorno a cui è stato fatto il vuoto con un ferreo embargo. 
 
La guerra contro la Libia
Dopo essere stata attuata contro la Federazione Iugoslava, tale strategia viene usata contro la Libia nel 2011. 
Vengono finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi. Vengono allo stesso tempo infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani facilmente camuffabili. L’intera operazione viene diretta dagli Stati uniti, prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. 

Il 19 marzo 2011 inizia il bombardamento aeronavale della Libia. In sette mesi, l’aviazione Usa/Nato effettua 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili. A questa guerra partecipa l’Italia con le sue basi e forze militari, stracciando il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due paesi. «Nel ricordo delle lotte di liberazione e del 25 aprile – dichiara il presidente Napolitano il 26 aprile 2011 – non potevamo restare indifferenti alla sanguinaria reazione del colonnello Gheddafi in Libia: di qui l'adesione dell'Italia al piano di interventi della coalizione sotto guida Nato».

Molteplici fattori rendono la Libia importante agli occhi degli Stati uniti e delle potenze europee. Le riserve petrolifere – le maggiori dell’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione – e quelle di gas naturale. Dopo che Washington abolisce nel 2003 le sanzioni in cambio dell’impegno di Gheddafi a non produrre armi di distruzione di massa, le grandi compagnie petrolifere statunitensi ed europee affluiscono in Libia con grandi aspettative, rimanendo però deluse. Il governo libico concede le licenze di sfruttamento alle compagnie straniere che lasciano alla compagnia statale libica (National Oil Corporation of Libya, Noc) la percentuale più alta del petrolio estratto: data la forte competizione, essa arriva a circa il 90%. Per di più la Noc richiede, nei contratti, che le compagnie straniere assumano personale libico anche in ruoli dirigenti. Abbattendo lo Stato libico, gli Stati uniti e le potenze europee mirano a impadronirsi di fatto della sua ricchezza energetica. 

Oltre che all’oro nero, mirano all’oro bianco libico: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana (stimata in 150mila km3), che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità di sviluppo essa offra lo ha dimostrato il governo libico, costruendo una rete di acquedotti lunga 4mila km per trasportare l’acqua, estratta in profondità da 1300 pozzi nel deserto, fino alle città costiere e all’oasi al Khufrah, rendendo fertili terre desertiche. Su queste riserve idriche, in prospettiva più preziose di quelle petrolifere, vogliono mettere le mani – attraverso le privatizzazioni promosse dal Fmi­ – le multinazionali dell’acqua, che controllano quasi la metà del mercato mondiale dell’acqua privatizzata.

Nel mirino Usa/Nato
 ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo Stato libico ha investito all’estero. I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Da quando viene costituita nel 2006, la Lia effettua in cinque anni investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre. Tali fondi vengono «congelati», ossia sequestrati, dagli Stati uniti e dalle maggiori potenze europee. 

L’assalto ai fondi sovrani libici ha un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom  (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.

Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo sviluppo di tali organismi potrebbe permettere ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e potrebbe segnare la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi africani, ex-colonie francesi. Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all’intero progetto
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Importante, per gli Usa e la Nato, la stessa posizione geografica della Libia. all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Va ricordato che re Idris, nel 1953, aveva concesso agli inglesi l’uso di basi aeree, navali e terrestri in Cirenaica e Tripolitania. Un accordo analogo era stato concluso nel 1954 con gli Stati uniti, che avevano ottenuto l’uso della base aerea di Wheelus Field alle porte di Tripoli. Essa era divenuta la principale base aerea statunitense nel Mediterraneo. Abolita la monarchia, la Repubblica araba libica aveva costretto nel 1970 le forze statunitensi e britanniche a evacuare le basi militari e, l'anno seguente, aveva nazionalizzato le proprietà della British Petroleum  e costretto le altre compagnie a versare allo Stato libico quote molto più alte dei profitti.

Con la guerra Usa/Nato del 2011, viene demolito lo Stato libico e assassinato lo stesso Gheddafi, attribuendo l’impresa a una «rivoluzione ispiratrice» che gli Usa si dicono fieri di sostenere, creando «una alleanza senza eguali contro la tirannia e per la libertà». Viene demolito quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo di fronte all’Italia, manteneva «alti livelli di crescita economica» (come documentava nel 2010 la stessa Banca mondiale), con un aumento medio del pil del 7,5% annuo, e registrava «alti indicatori di sviluppo umano» tra cui l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e, per il 46%, a quella di livello universitario. Nonostante le disparità, il tenore di vita della popolazione libica era notevolmente più alto di quello degli altri paesi africani. Lo testimoniava il fatto che trovavano lavoro in Libia oltre due milioni di immigrati, per lo più africani.

In Libia le prime vittime sono proprio gli immigrati dall’Africa subsahariana che, perseguitati, sono costretti a fuggire. Molti, spinti dalla disperazione, tentano la traversata del Mediterraneo verso l’Europa. Quelli che vi perdono la vita sono anch’essi vittime della guerra con cui la Nato ha demolito lo Stato libico.
 
L’inizio della guerra contro la Siria
Nell’ottobre 2012 il Consiglio atlantico denuncia «gli atti aggressivi del regime siriano al confine sudorientale della Nato», pronto a far scattare l’articolo 5 che 
impegna ad assistere con la forza armata il paese membro «attaccato», la Turchia. Ma è già in atto il «non-articolo 5» – introdotto durante la guerra alla Iugolavia e applicato contro l’Afghanistan e la Libia – che autorizza operazioni non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza. Eloquenti sono le immagini degli edifici di Damasco e Aleppo devastati con potentissimi esplosivi: opera non di semplici ribelli, ma di professionisti della guerra infiltrati. Circa 200 specialisti delle forze d’élite britanniche Sas e Sbs – riporta il Daily Star – operano in Siria, insieme a unità statunitensi e francesi. 

La forza d’urto è costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da Washington come terroristi) provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi. Nel gruppo di Abu Omar al-Chechen – riferisce l’inviato del Guardian ad Aleppo – gli ordini vengono dati in arabo, ma devono essere tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e altre lingue. Forniti di passaporti falsi (specialità Cia), i combattenti affluiscono nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, dove la Cia ha aperto centri di formazione militare. Le armi arrivano soprattutto via Arabia Saudita e Qatar che, come in Libia, fornisce anche forze speciali. 

Il comando delle operazioni è a bordo di navi Nato nel porto di Alessandretta. A Istanbul viene aperto un centro di propaganda dove dissidenti siriani, formati dal Dipartimento di stato Usa, confezionano le notizie e i video che vengono diffusi tramite reti satellitari. La guerra Nato contro la Siria è dunque già in atto, con la motivazione ufficiale di aiutare il paese a liberarsi dal regime di Assad. Come in Libia, si è infilato un cuneo nelle fratture interne per far crollare lo Stato, strumentalizzando la tragedia delle popolazioni travolte. 

Una delle ragioni per cui si vuole colpire e occupare la Siria è il fatto che Siria, Iran e Iraq hanno firmato nel luglio 2011 un accordo per un gasdotto che, entro il 2016, dovrebbe collegare il giacimento iraniano di South Pars, il maggiore del mondo, alla Siria e quindi al Mediterraneo. La Siria, dove è stato scoperto un altro grosso giacimento presso Homs, potrebbe divenire in tal modo un hub di corridoi energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e altri percorsi, controllati dalle compagnie statunitensi ed europee. 
 
(3 - continua)