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Il tentato furto delle miniere di Trepca

0) Nostro commento e LINKS
1) Serbia e Kosovo: il nodo delle miniere di Trepča (M.E. Marino, 25 gennaio 2015)
2) Kosovo, tensioni con la Serbia sulla nazionalizzazione delle miniere di Trepča (S. Herceg, 27 gennaio 2015)
3) FLASHBACK (2007): Kosovo's Trepca has reserves worth 13 billion euros 


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Il tentato furto delle miniere di Trepca

(a cura di Italo Slavo) - La privatizzazione della miniera di Trepca, uno dei massimi giacimenti mondiali di zinco e piombo, è ventilata sin dal 1999, anno in cui a seguito della aggressione militare e della occupazione del territorio da parte della NATO alleata con le formazioni terroriste dell'UCK, l'azienda mineraria è stata strappata al suo legittimo proprietario, lo Stato jugoslavo.
All'epoca, assieme a gravi episodi di violenza e pulizia etnica dell'area di Trepca contro tutti i non-albanofoni, l'amministrazione serba dell'azienda fu scacciata e fu decretato un massiccio licenziamento degli operai. Con motivazioni pretestuose rispetto a problematiche di inquinamento ambientale (che avrebbero dovuto piuttosto comportare l'aumento dei posti di lavoro per le operazioni di risanamento), l'allora plenipotenziario ONU – di fatto un governatore coloniale: Bernard Kouchner – bloccò le attività estrattive mettendo le basi per la liquidazione e svendita di Trepca a capitalisti stranieri.
Però la questione era troppo grossa e difficile per poterla liquidare con un mero colpo di mano. In seguito, l'attività estrattiva è parzialmente ripresa, con uno status legale-amministrativo ambiguo, allo scopo di dare lavoro a kosovari serbi e albanesi della zona di Mitrovica.
L'ex ministro serbo Oliver Ivanović, influente rappresentante dei serbo-kosovari (e per questo arrestato mesi fa con accuse inconsistenti e tenuto in galera nel Kosovo "democratico"), aveva fatto appello alle "istituzioni" kosovare nel 2011 contro una eventuale privatizzazione affinché, in ogni caso, l'azienda rimanesse un bene collettivo. Più recentemente, il governo della Serbia ha invece parzialmente cambiato strategia sul problema: proprio per riaffermare la proprietà dello Stato serbo – erede della Jugoslavia su quel territorio, anche in base alla Risoluzione ONU 1244 del 1999 – il governo di Belgrado ventila adesso piuttosto una "sua" privatizzazione, i cui ricavi vadano nelle casse serbe, piuttosto che acconsentire a una illegittima nazionalizzazione da parte kosovara, cioè al vero e proprio furto del patrimonio frutto di decenni di fatiche dei lavoratori e degli investimenti dello Stato jugoslavo. 
Ventilando la privatizzazione la Serbia crede forse di farsi benvolere dalle elites liberiste internazionali, dal FMI e dalla Unione Europea, che pone sempre la svendita di patrimoni e sovranità statali come precondizione per l'adesione; ma in pratica, anche la finta "nazionalizzazione" da parte dello "Stato" del Kosovo prelude alla svendita al grande capitale straniero. In mezzo a questa paradossale diatriba, piena di ipocrisie e falsi ideologici, stanno presi i lavoratori di ogni "etnia", che continuano a pagare sulla loro pelle lo squartamento dello Stato unitario jugoslavo e le brame di arricchimento delle classi dirigenti locali e internazionali...

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FLASHBACK VIDEO: 1967, la visita di Tito in Kosovo
TITO NA KOSOVU ТИТО НА КОСОВУ TITO NË KOSOVË KOSOVA'DA TITO (SFR Jugoslavija - SFR Yugoslavia)
1967.-KOSOVSKA MITROVICA-TREPČA-ZVEČAN-SPOMENIK KOSOVSKIM JUNACIMA -PRIŠTINA-PRIZREN-SPOMENIK BORI I RAMIZU -SINAN PAŠINA DŽAMIJA-CRKVA BOGORODICA LJEVIŠKA-MANASTIR DEČANI-ĐAKOVICA-RUGOVSKA KLISURA-PEĆ-PEĆKA PATRIJARŠIJA

FLASHBACK: Oliver Ivanović: Beograd protiv privatizacije "Trepče" (Tanjug 10. 04. 2011.)
Državni sekretar u Ministarstvu za Kosovo i Metohiju Oliver Ivanović apelovao je danas na predstavnike kosovskih institucija da odustanu od najavljene privatizacije "Trepče"...

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N.B. Le site Courrier des Balkans appelle "renationalisation" l'appropriation / vol des mines par Pristina au détriment de Belgrade:

Kosovo : le bras de fer autour des mines de Trepča tourne à l’avantage de Belgrade [sic!] (B92 / CdB, 20 janvier 2015)
http://balkans.courriers.info/article26436.html

Kosovo : les mineurs de Trepča suspendent leur grève pour un mois (CdB, 22 janvier 2015)

Kosovo : démonstration de force dans la rue pour la renationalisation [sic!] de Trepca (CdB, 25 janvier 2015)

VIDEO: Imponente e dura manifestazione a Pristina per l'albanizzazione delle miniere di Trepca
Sheshi Skenderbeu 27.01.2015

Kosovo : violentes émeutes à Pristina pour la renationalisation [sic!] du combinat de Trepça (CdB, 27 janvier 2015)
http://balkans.courriers.info/article26495.html

Kosovo : les mines de Trepça, « c’est l’histoire, c’est la vie, c’est tout pour nous » (Par Nerimane Kamberi / CdB, 27 janvier 2015)


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http://www.rivistaeuropae.eu/esteri/esterni/serbia-e-kosovo-il-nodo-delle-miniere-di-trepca/

Serbia e Kosovo: il nodo delle miniere di Trepča

Scritto da: Maria Ermelinda Marino 25 gennaio 2015


Il 19 gennaio, il premier kosovaro Isa Mustafa ha annunciato che la questione relativa all’acquisizione totalitaria del complesso minerario di Trepča, di proprietà (in gran parte) dello Stato serbo, è stata espunta dal provvedimento generale sulla riorganizzazione delle imprese pubbliche, adottato il 15 gennaio. Verrà riconsiderata invece a Bruxelles, con la mediazione dell’UE, nel quadro del negoziato Pristina-Belgrado, prossimo incontro fissato per il 9 febbraio. Una scelta più moderata, dopo che nei giorni scorsi il governo serbo aveva alzato la voce contro l’intenzione del Kosovo di acquisire, unilateralmente, il 100% dell’impianto minerario, situato nella “problematica” zona del Kosovo del Nord. Il complesso si trova infatti presso Mitrovica, città divisa in due dal fiume Ibar ed abitata da serbi (a nord) e kosovari di etnia albanese (a sud).

Il complesso ha rivestito nel tempo un’importanza rilevante. L’apice dell’importanza è stato raggiunto negli anni Settanta, nel pieno periodo titino, quando nel complesso, costituito da quaranta miniere d’oro, argento, piombo, zinco e cadmio, lavoravano oltre 20.000 operai. Fino al 1998-1999, prima dello scoppio della guerra, addirittura l’80% dell’economia kosovara dipendeva dall’estrazione mineraria. Ed a sua volta le miniere kosovare costituivano il 70% dell’intera attività minerario-estrattiva dell’intera Jugoslavia. Le vicende belliche e le questioni etniche si sono riverberate in maniera rovinosa anche sull’immenso complesso. La situazione attuale è quella di un patrimonio di fatto non adeguatamente sfruttato. Lo stabilimento di Mitrovica nord, che impiega in maggioranza serbi, è decadente, ma fornisce lavoro a circa mille persone. Quello di Mirtovica sud, che impiega in maggioranza kosovari di etnia albanese, sembra in condizioni migliori.

La notizia dell’intenzione del governo kosovaro di acquisire interamente la proprietà delle miniere di Trepča era stata, senza troppo stupore, accolta male dalle autorità serbe. Infatti prima che il premier kosovaro annunciasse la decisione di accantonare -per il momento – la questione, Marko Djuric, Direttore dell’Ufficio serbo per Kosovo, l’aveva definita una vera e propria “confisca”, dal momento che dal complesso industriale dipendono le sorti economiche di circa 4.000 serbo-kosovari (circa 20.000 se si considera l’indotto), aggiungendo che tale operazione, se dovesse essere realizzata, andrebbe ad inficiare gravemente l’intero processo di normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo. Il 56% circa del capitale sociale del complesso minerario è inoltre di proprietà del “Fondo per lo sviluppo della Repubblica di Serbia”, complesso a cui corrisponde un ammontare di debiti di circa 400 milioni di dollari.

In Serbia non sono mancate altre reazioni. Il complesso di Trepča era stato inizialmente incluso nella lista delle 502 aziende da privatizzare nell’ambito del piano di privatizzazioni avviato dal governo serbo. Pare ci fossero anche manifestazioni di interesse provenienti da Ungheria, Canada, Svizzera e Stati Uniti. Belgrado aveva però deciso, in seguito, di escludere dal piano 19 aziende localizzate in Kosovo, al fine di evitare intoppi con Pristina (e soprattutto con Bruxelles). “Se però le autorità di Pristina non si asterranno dall’acquisire unilateralmente la proprietà di Trepča, l’Agenzia serba avvierà nuovamente le procedure per privatizzare il complesso. La Serbia è tenuta a proteggere le sue proprietà”, ha avvertito il Ministro dell’Economia serbo, Željko Sertić.

La decisione del governo kosovaro di sospendere l’acquisizione potrebbe temporaneamente calmare le acque. Via del compromesso cui non giovano sicuramente le parole – poco diplomatiche – dell’attuale Ministro degli Esteri kosovaro (ed ex premier) Hashim Thaçi, che ha affermato: “su Trepča non si negozia con la Serbia, poiché Trepča è una ricchezza del Kosovo”.

Sempre il 19 gennaio, David McAllister, relatore del Parlamento Europeo, dopo aver presentato la propria relazione sui progressi della Serbia sul percorso di adesione europea, si è augurato che i capitoli negoziali vengano aperti entro giugno, aggiungendo che “la Serbia non dovrebbe considerare la questione della nazionalizzazione di Trepča come una condizione per la normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi, altrimenti verrebbe meno il dialogo, una delle condizioni per il prosieguo del percorso europeo della Serbia”. Questione al momento rimandata, quindi. Il braccio di ferro tra Pristina e Belgrado sulla questione Trepča sembra però ben lungi dall’essere risolto.

Ermelinda Marino, responsabile Balcani, Studentessa Giurisprudenza, Universita' degli Studi Trento



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KOSOVO: Tensioni con la Serbia sulla nazionalizzazione delle miniere di Trepča

Posted 27 gennaio 2015 
di Silvija Herceg


Da BELGRADO - Da alcuni giorni le tensioni tra Serbia e Kosovo sono tornate sulle prime pagine di tutti i media locali. Questa volta, a provocare le tensioni è stata una decisione del governo di Pristina che avrebbe trasformato in azienda pubblica e dunque in proprietà della Repubblica del Kosovo, il mastodontico complesso minerario-industriale di Trepča/Trepça, situato a Mitrovica nel nord del Kosovo. É cosi che un problema di natura economica si è trasformato in una crisi politica che nel corso dello scorso fine settimana ha rischiato di causare l’ennesima rottura tra Belgrado e Priština.

Che cos’è Trepča e cosa rappresenta?

Il complesso minerario industriale di Trepča è stato una delle più grandi società della Jugoslavia socialista che al culmine della propria storia dava lavoro a circa 23.000 dipendenti e produceva circa il 70% delle risorse minerarie utilizzate e distrubuite in Jugoslavia. Trepča all’epoca era un conglomerato di circa 40 miniere e fabbriche distribuite sul territorio di Serbia e Kosovo, il cui cuore pulsante ruotava attrono al complesso minerario situato ad est di Mitrovica, nel nord del Kosovo.

Dal 1999 la situazione di Trepča è diventata ancora più complessa: il mastodontico complesso venne di fatto suddiviso “su base etnica”, tra parte serba ed albanese, tralasciando quindi tutto l’aspetto tecnologico necessario a garantire la produttività del sito. Trepča è quindi stata ufficiosamente suddivisa sull’asse nord – sud, dove la parte meridionale albanese comprende il 70% delle capacità produttive, ma anche quattro miniere tra le quali la più grande e famosa, “Stari Trg”. La parte settentrionale “Trepča Sever” è legalemente una holding serba che assume ufficialmente 1.200 dipendenti, che di fatto sono 4.000. Grazie infatti ad un sistema di rotazione mensile, in base al quale i dipendenti si sostituiscono ogni 30 giorni, si garantisce la sopravvivenza di larga parte della popolazione serba del nord del Kosovo. Trepča risulta dunque una risorsa fondamentale per ambo le parti.

Trepča oggi

Quindi, seppur ufficialmemte considerata un’unica entità, in Trepča convivono di fatto due componenti tecnologico-economiche. Per questo motivo le compenenti di Trepča si trovano cosi a dover rispettare le leggi della repubblica di Serbia così come la normativa kosovara e quella della missione UNMIK che ha prima posto sotto amministrazione speciale parte del complesso e poi e’ rimasta parte della sua gestione.

problemi politici, legislativi ed economici legati al complesso sono tuttavia sintomo di interesse multilaterale per lo stesso. Le miniere infatti hanno ancora un potenziale enorme che rimane ancora da sfruttare: circa 3 milioni di tonnellate di piombo, 2 milioni di tonnellate di zinco e circa 5000 tonnellate di argento. In base ad alcune stime Trepča è inoltre il quinto bacino al mondo per la lignite.

La mossa del governo di Priština

La situazione già caotica è stata ulteriormente complicata quando in una seduta straordinaria del governo del Kosovo, è stata approvata una proposta di modifica della Legge sulle aziende pubbliche, che avrebbe consentito alla Repubblica del Kosovo di ottenere il pieno controllo sul complesso di Trepča, trasformandolo in azienda pubblica e di fatto nazionalizzandola in base al principio di territorialità. “Trepča è su territorio kosovaro e di conseguenza proprietà di tutti i cittadini che vi vivono, siano essi serbi, albanesi o altri” Con questa dichiarazione si è espresso il premier del Kosovo, Isa Mustafa, annunciando che lunedì 19 gennaio il Parlamento avrebbe votato l’approvazione della proposta.

La risposta di Belgrado

La decisione ha suscitato l’immediata reazione del governo di Belgrado che ha dichiarato che qualora la proposta di legge fosse stata approvata, la Serbia non avrebbe in nessun modo riconosciuto l’acquisizione unilaterale di Trepča. La motivazione è che il proprietario di maggioranza del complesso è il Fondo per lo sviluppo della repubblica di Serbia che ne detiene il 56%. Il premier Aleksandar Vučić ha inoltre aggiunto che tale decisione del governo kosovaro avrebbe minato alla base i negoziati a seguito degli Accordi di Bruxelles, ed ha invitato anche la comunità internazionale ad intervenire per trovare una soluzione consona e corretta per tutte le parti coinvolte. “Non toccate ciò che è nostro, è una rapina. Con questo atto unilaterale minate Bruxelles-2 con il quale dovremmo discutere il tema della proprietà e gestione degli immobili in Kosovo e Metohija. Gli atti unilaterali vanificano gli accordi di Bruxelles e riporteranno l’instabilità nella regione” - queste le parole di Marko Đurić, direttore dell’Ufficio della Serbia per Kosovo e Metohija.

Trepča appariva anche nella lista delle 502 aziende offerte in privatizzazione dalla Serbia. Per Trepča, l’Agenzia serba di competenza ha infatti ricevuto quattro lettere d’interesse da parte di società estere ma ne aveva posticipato la procedura di privatizzazione, per dare priorità allo svolgimento dei negoziati nel contesto degli accordi di Bruxelles. Tale decisione si riferiva a tutte le 18 società serbe operanti su territorio kosovaro ed offerte ai privati. La buona fede della componente serba ha subito traballato ed il ministro dell’economia serbo Željko Sertić ha subito dichiarato che “qualora le autorità non modifichino la loro posizione su Trepča, avvieremo immediatamente la privatizzazione della società perchè la Serbia ha l’obbligo di tutelare la propria proprietà”.

La giornata di lunedì si è tuttavia conclusa con un dietrofront del governo kosovaro che ha ceduto alle pressioni degli ambasciatori internazionali presenti in Kosovo e del governo serbo. Il premier Mustafa ha infatti chiesto al parlamento kosovaro di approvare la modifica alla legge, ma di escluderne Trepča, La motivazione presentata  è che la proposta di legge presentata al parlamento non includeva anche la questione relativa ai 1.4 miliardi di euro di debiti che pesano sul complesso, aggiungendo che gli stessi non fossero noti al governo. A conclusione della giornata l’unica vera certezza è che le negoziazioni sulla gestione della proprietà previste dagli accordi di Bruxelles (cosìddetti Bruxelles-2) verranno aperte prima del previsto.

Il futuro di Trepča

Il destino di Trepča rimane dunque incerto. La crisi è rientrata ma ha lasciato dietro di se due importanti segnali. In primis, gli accordi di Bruxelles per la prima volta vengono visti come un quadro desiderabile entro il quale risolvere le questioni tra Belgrado e Pristina. Secondo, sono emersi segnali di instabilità nel governo kosovaro, mentre l’opposizione ha invitato i lavoratori della parte kosovara di Trepča allo sciopero. Stabilito poi che il fallimento di Trepča non sarebbe favorevole né all’una né all’altra parte, il destino dei numerosissimi dipendenti del colosso industriale sarà salvo solo se le parti politiche coinvolte sapranno riportare la discussione sul piano economico piuttosto che politico. Un po’ a ricordare Germania e Francia, la CECA e il 1951.



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Koha Ditore (Kosovo) / Economic Initiative for Kosova (Austria)
December 20, 2007

Kosovo's Trepca has reserves worth 13 billion euros

Prishtina - Kosovo's mining complex Trepca has at least €3 billion mineral reserves more than what the estimates of the Ministry of Energy and Mining (MEM) show, reported the Kosovar daily Koha Ditore.
These data were made public by experts of the Independent Commission for Mines and Minerals (ICMM), who referred to a feasibility study for Trepca. “The study demonstrates that Trepca has reserves worth €13 billion. But we believe they are even higher,” the member of ICMM Board, Ibush Jonuzi, was quoted as saying.
The feasibility study on Trepca has been conducted by local and international experts in June 2006. It has never been fully published because it contains data on Trepca’s internal financial matters. The paper reports
that the data on Trepca’s mineral reserves, presented by MEM, some time ago, were lower, namely €10 billion.
The paper also reports on the airborne geophysical survey conducted recently by ICMM.
The survey showed that Kosovo has an unexpected potential of metals and minerals. Especially gold, nickel and chrome deposits under Kosovo’s surface seem to be larger than known so far.





STRASBURGO E' RUSSEN-FREI !


Ucraina: Consiglio d’Europa sospende il diritto di voto ai parlamentari russi


29/01/2015 – Nuove sanzioni da parte dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’ Europa contro la Russia. 
Con una risoluzione è stato sospeso ai parlamentari russi il diritto di voto fino ad aprile e la possibilità di partecipare agli organi direttivi. Una presa di posizione contro Mosca a seguito dell’annessione della Crimea e per la crisi ucraina. 
“Abbiamo informato i nostri colleghi – ha reagito Alexey Pushkov, capo parlamentare della delegazione russa – che considerato che non avremo diritto di voto e non potremo partecipare agli organismi dirigenti dell’Assemblea parlamentare – come l’Ufficio di presidenza e il comitato permanente – la delegazione russa ha deciso di non essere presente in Parlamento e lascia questa sessione “.
Il Consiglio d’ Europa è pronto a ridiscutere la posizione di Mosca il prossimo aprile. Ma la Russia dovrà rispettare alcune richieste tra cui il ritiro delle loro truppe dal territorio ucraino e la liberazione di tutti i prigionieri trattenuti illegalmente.


Solidarietà ai dirigenti comunisti russi aggrediti a Strasburgo da nazisti ucraini

Dichiarazione del Presidium del Partito Comunista della Federazione Russa
da kprf.ru | Traduzione dal russo di Mauro Gemma – 29 Gennaio 2015 

Il 26 gennaio, i deputati del Partito Comunista della Federazione Russa (tra cui Ghennadij Zyuganov) che partecipavano, a Strasburgo, alla seduta dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa (APCE), sono stati vigliaccamente aggrediti da alcuni esponenti del Partito Radicale ucraino, che rappresentano questa formazione fascista alla Rada Suprema di Kiev. Sull'episodio di criminalità politica avvenuto in una prestigiosa sede europea, il Presidium del PCFR ha diffuso la seguente dichiarazione:

All'ingresso del Palazzo del Consiglio di Europa a Strasburgo, dove si è svolta la seduta dell'APCE, è avvenuta un'aggressione contro membri della delegazione russa, tra cui il presidente e il vicepresidente del PCFR, G.A. Zyuganov e I.I. Melnikov. Come è stato accertato, gli aggressori sono stati i deputati della Rada Suprema ucraina D. Linko e A. Vitko del partito Radicale. Si ha l'impressione che il Majdan si sia trasferito nel cuore dell'Europa.
La delegazione russa si augura che l'APCE dia una corretta valutazione di quanto è accaduto. Qualsiasi incoraggiamento a tali azioni favorirebbe il rafforzamento dei movimenti ultra-nazionalisti e neofascisti in Europa, il che è categoricamente inaccettabile, soprattutto nell'anno del 70° anniversario della vittoria comune sul fascismo.
Che altro ancora è necessario all'Europa illuminata per capire chi ora si trovi al potere a Kiev? Dove sono finiti i tanto propagandati valori europei? E' venuto il tempo di smetterla di adottare i due pesi e le due misure.
Il nostro partito si è sempre pronunciato per una soluzione pacifica e democratica delle controversie, per relazioni di buon vicinato con tutti i popoli, compreso il popolo dell'Ucraina. Eravamo e rimaniamo popoli fratelli e faremo tutto ciò che è nelle nostre forze per trovare una giusta soluzione ai problemi che sono sorti.
Esprimiamo solidarietà ai nostri compagni, che hanno dato una risposta adeguata ai provocatori.
Il Presidium del PCFR
Mosca, 27 febbraio 2015


Vedi anche:

13 gennaio, 13:21 STRASBURGO - Le indagini per identificare i membri delle forze dell'ordine e i civili che hanno picchiato e torturato i manifestanti durante le proteste di piazza Maidan, sono a un punto morto. Lo rivela, in un rapporto preliminare, il Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d'Europa. Basandosi sulle informazioni raccolte in Ucraina tra il 9 e 16 settembre 2014, il Comitato afferma che le indagini sono in una fase di "stallo", ma anche che "sembrerebbe che sinora si sia impedito ai procuratori di condurre delle indagini efficaci".
Il Cpt elenca le ragioni che spiegano la lentezza delle inchieste e l'impossibilità, almeno sinora, d'identificare i responsabili dei pestaggi dei manifestanti nella quasi totalità dei casi. Inoltre gli inquirenti stanno avendo grande difficoltà a ottenere informazioni sul dispiegamento dei vari reparti coinvolti nei fatti. Alcuni dei documenti inerenti queste operazioni, denuncia il Cpt, sono stati classificati 'segreti'.





(fonte: mailing-list del Comitato NO NATO - vedi anche:
Sul volume "Se dici guerra" – Kappa Vu, aprile 2014 – vedi anche:
M. Dinucci è anche membro del Comitato Scientifico del Coord. Naz. per la Jugoslavia - onlus


Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 4

Manlio Dinucci


Le armi nucleari Usa/Nato in Europa
Gli Stati uniti, mentre sono impegnati a Ginevra a denuclearizzare l’Iran, nuclearizzano l’Europa potenziando le armi mantenute in Germania, Italia, Belgio, Olanda e Turchia. Sono circa 200 bombe B-61, che si aggiungono alle oltre 500 testate nucleari francesi e britanniche pronte al lancio. Secondo una stima al ribasso, in Italia ve ne sono 70-90, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre. Ma ce ne potrebbero essere di più, anche in altri siti. Tantomeno si conosce quante armi nucleari sono a bordo delle unità della Sesta flotta e altre navi da guerra che approdano nei nostri porti. Quello che ufficialmente si sa è che ora le B-61 vengono trasformate da bombe a caduta libera in bombe «intelligenti» che, grazie a un sistema di guida satellitare e laser, potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo. Le nuove bombe nucleari B61-12 a guida di precisione, il cui costo è previsto in 8-12 miliardi di dollari per 400-500 bombe, avranno una potenza media di 50 kiloton (circa quattro volte la bomba di Hiroshima). 
Altri aspetti, emersi da una audizione della sottocommissione del Congresso sulle forze strategiche, gettano una luce ancora più inquietante sull’intera faccenda. Washington ribadisce che «la Nato resterà una alleanza nucleare» e che, «anche se la Nato si accordasse con la Russia per una riduzione delle armi nucleari in Europa, avremmo sempre l’esigenza di completare il programma della B61-12». La nuova arma sostituirà le cinque varianti dell’attuale B61, compresa la bomba penetrante anti-bunker B61-11 da 400 kiloton, e la maxi-bomba B83 da 1200 kiloton. In altre parole, avrà la stessa capacità distruttiva di queste bombe più potenti.
Allo stesso tempo la B61-12 «sarà integrata col caccia F-35 Joint Strike Fighter», fatto doppiamente importante perché «l’F-35 è destinato a divenire l’unico caccia a duplice capacità nucleare e convenzionale delle forze aeree degli Stati uniti e di molti paesi alleati». Quella che arriverà tra non molto in Italia e in altri paesi europei, non è dunque una semplice versione ammodernata della B-61, ma un’arma polivalente che svolgerà la funzione di più bombe, comprese quelle progettate per «decapitare» il paese nemico, distruggendo i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee in un first strike nucleare. Poiché le bombe anti-bunker non sono oggi schierate in Europa, l’introduzione della B61-12, che svolge anche la loro funzione, potenzia la capacità offensiva delle forze nucleari Usa/Nato in Europa. 
I piloti italiani – che vengono addestrati all’uso delle B-61 con i caccia Tornado, come è stato fatto nell’esercitazione «Steadfast Noon» svoltasi ad Aviano e Ghedi, saranno tra non molto addestrati all’attacco nucleare con gli F-35 armati con le B61-12. In tal modo l’Italia viola il Trattato di non-proliferazione che la impegna a «non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi direttamente o indirettamente». E gli Stati uniti lo violano perché si sono impegnati a «
non trasferire a chicchessia armi nucleari né il controllo su tali armi». 

Il nuovo confronto militare Ovest-Est
Mosca si oppone allo «scudo antimissile», che permetterebbe agli Usa di lanciare un first strike nucleare sapendo di poter neutralizzare la ritorsione. È contraria all’ulteriore espansione della Nato ad est e al piano Usa/Nato di demolire la Siria e l’Iran nel quadro di una strategia che mira alla regione Asia/Pacifico. Tutto questo viene visto a Mosca come un tentativo di acquisire un netto vantaggio strategico sulla Russia (oltre che sulla Cina). Sono solo «vecchi stereotipi della guerra fredda», come sostiene il presidente Obama?  Non si direbbe, visto il programma annunciato dalla Nato nel 2013. Esso prevede «più ambiziose e frequenti esercitazioni militari» a ridosso della Russia. Tra queste la «Brilliant Arrow», effettuata in Norvegia con cacciabombardieri Nato (anche italiani) a duplice capacità convenzionale e nucleare; la «Steadfast Jazz», con lo spiegamento di cacciabombardieri Nato in Polonia, Lituania e Lettonia, al confine russo; la «Brilliant Mariner», effettuata da navi da guerra Nato nel Mare del Nord e nel Mar Baltico. 
Gli Usa e gli alleati Nato accrescono nel corso degli anni la pressione militare sulla Russia la quale, ovviamente, non si limita a quella che Obama definisce «retorica anti-americana». Dopo che gli Usa decidono di installare uno «scudo» missilistico anche sull’isola di Guam nel Pacifico occidentale, il Comando delle forze strategiche russe annuncia che sta costruendo un nuovo missile da 100 tonnellate «in grado di superare qualsiasi sistema di difesa missilistica». Ed è già in navigazione il primo sottomarino nucleare della nuova classe Borey, lungo 170 m, capace di scendere a 450 m di profondità, armato di 16 missili Bulava con raggio di 9mila km e 10 testate nucleari multiple indipendenti, in grado di manovrare per evitare i missili intercettori. 
Su questo e altro i media europei, in particolare quelli italiani campioni di disinformazione, praticamente tacciono. Così, prima che esploda la crisi ucraina, la stragrande maggioranza ha l’impressione che la guerra minacci solo regioni «turbolente», come il Medio Oriente e il Nordafrica, senza accorgersi che la «pacifica» Europa sta divenendo di nuovo, sulla scia della strategia Usa, la prima linea di un confronto militare non meno pericoloso di quello della guerra fredda. 
 
Il colpo di stato in Ucraina
L’operazione condotta dalla Nato in Ucraina inizia quando nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica. L’Ucraina – il cui territorio di oltre 600mila km2 fa da cuscinetto tra Nato e Russia ed è attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra nella Nato, come hanno fatto altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra però a far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della «Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei Balcani. 
Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione Nato-Ucraina» e il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione» (orchestrata e finanziata agli Usa e dalle potenze europee), il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato a Bruxelles. Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un accordo che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le forze Nato in Afghanistan. Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma, nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione alla Nato non è nell’agenda del suo governo. 
Nel frattempo però la Nato tesse una rete di legami all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano per anni a corsi del Nato Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi riguardanti l’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato. Nello stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti Nato. Notevolmente sviluppata anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida Nato. 
Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati stereotipi della guerra fredda», la Nato istituisce a Kiev un Centro di informazione che organizza incontri e seminari e anche visite di «rappresentanti della società civile» al quartier generale di Bruxelles. E poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la Nato costruisce una rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di quella che appare. 
Sotto regia Usa/Nato, attraverso la Cia e altri servizi segreti vengono per anni reclutati, finanziati, addestrati e armati militanti neonazisti. Una documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti ucraini di Uno-Unso addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori Nato, che insegnano loro tecniche di combattimento urbano ed uso di esplosivi per sabotaggi e attentati. Lo stesso fece la Nato durante la guerra fredda per formare la struttura paramilitare segreta di tipo «stay-behind», col nome in codice «Gladio». Attiva anche in Italia dove, a Camp Darby e in altre basi, vennero addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad attentati e a un eventuale colpo di stato. 
È questa struttura paramilitare che entra in azione a piazza Maidan, trasformandola in campo di battaglia: mentre gruppi armati danno l’assalto ai palazzi di governo, «ignoti»  cecchini sparano con gli stessi fucili di precisione sia sui dimostranti che sui poliziotti (quasi tutti colpiti alla testa). Il 20 febbraio 2014 il segretario generale della Nato si rivolge, con tono di comando, alle forze armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze negative per le nostre relazioni». Abbandonato dai vertici delle forze armate e da gran parte dell’apparato governativo, il presidente Viktor Yanukovych è costretto alla fuga. La direzione delle forze armate viene assunta da Andriy Parubiy, cofondatore del partito socialnazionalista ridenominato Svoboda, divenuto segretario del Comitato di difesa nazionale, e, in veste di ministro della difesa, da Igor Tenjukh, legato a Svoboda. 
La Nato si sente ormai sicura di poter compiere un altro passo nella sua espansione ad Est, inglobando l’Ucraina. Lo conferma la riunione dei ministri Nato della difesa, che si svolge il 26-27 febbraio 2014 al quartier generale di Bruxelles. Primo punto all’ordine del giorno l’Ucraina, con la quale –  sottolineano i ministri nella loro dichiarazione – la Nato ha una «distintiva partnership» nel cui quadro continua ad «assisterla per la realizzazione delle riforme». Prioritaria «la cooperazione militare» (grimaldello con cui la Nato è penetrata in Ucraina). I ministri «lodano le forze armate ucraine per non essere intervenute nella crisi politica» (lasciando così mano libera ai gruppi armati) e ribadiscono che per «la sicurezza euro-atlantica» è fondamentale una «Ucraina stabile» (ossia stabilmente sotto la Nato).
 
(4 – continua)


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Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 5

Manlio Dinucci


Il ruolo dell’Italia nella Nato
«Amore per il popolo italiano»: lo dichiara il presidente Obama nel febbraio 2013, ricevendo alla Casa Bianca il presidente Napolitano. Perché tanto amore? Il popolo italiano «accoglie e ospita le nostre truppe sul proprio suolo». Accoglienza molto apprezzata dal Pentagono, che possiede in Italia (secondo i dati ufficiali 2014) 1428 edifici, con una superficie di oltre un milione di metri quadri, cui se ne aggiungono oltre 800 in affitto o concessione. Sono distribuiti in oltre 30 siti principali (basi e altre strutture militari) e una ventina minori. Nel giro di un anno, i militari Usa di stanza in Italia sono aumentati di oltre 1500, superando i 10mila. Compresi i dipendenti civili, il personale del Pentagono in Italia ammonta a circa 14mila unità. 

Alle strutture militari Usa si aggiungono quelle Nato, sempre sotto comando Usa: come il Comando interforze, col suo nuovo quartier generale di Lago Patria (Napoli). «Ospitando» alcune delle più importanti strutture militari, l’Italia svolge un ruolo cardine nella strategia Usa/Nato che, dopo la guerra alla Libia, non solo mira alla Siria e all’Iran ma va oltre, spostando il suo centro focale verso la regione Asia/Pacifico per fronteggiare la Cina in ascesa.

Il Comando della forza congiunta alleata a Napoli (Jfc Naples) è tenuto ufficialmente in «standby», ossia pronto in qualsiasi momento a entrare in guerra. Il nuovo quartier generale a Lago Patria, costruito per uno staff di oltre 2mila militari ed espandibile per «la futura crescita della Nato», è in piena attività. Avamposto delle operaziont militari del Jfc Naples  è la Turchia, dove la Nato ha oltre venti basi aeree, navali e di spionaggio elettronico. A queste è stato aggiunto (come già detto) uno dei più importanti comandi Nato: il Landcom, responsabile di tutte le forze terrestri dei 28 paesi membri, attivato a Izmir (Smirne). Lo spostamento del comando delle forze terrestri dall’Europa alla Turchia – a ridosso del Medio Oriente (in particolare Siria e Iran) e del Caspio – indica che, nei piani Usa/Nato, si prevede l’impiego anche di forze terrestri, soprattutto europee, in quest’area di primaria importanza strategica. 

Il Jfc Naples (come già detto) è agli ordini di un ammiraglio statunitense, che è allo stesso tempo comandante della Forza congiunta alleata a Napoli, delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali del Comando Africa. Un gioco strategico delle tre carte, che permette al Pentagono di mantenere sempre il comando. E l’Europa? Essa è importante per gli Usa geograficamente, chiarisce il Comandante supremo alleato: le basi in Europa non sono residui «bastioni della guerra fredda», ma «basi operative avanzate» che permettono agli Usa di sostenere sia il Comando Africa che il Comando centrale nella cui area rientra il Medio Oriente. Sono quindi essenziali per «la sicurezza del 21° secolo», garantita da una «potente e capace alleanza» diretta dagli Usa, che possiede «24mila aerei da combattimento, 800 navi militari oceaniche, 50 aerei radar Awacs». 
 
Quanto ci costa la Nato
L’Italia sta assumendo nella Nato crescenti impegni che portano a un inevitabile aumento della spesa militare, diretta e indiretta. 
La Nato non conosce crisi. Si sta costruendo un nuovo quartier generale a Bruxelles, il cui costo, previsto in 460 milioni di euro, è quasi triplicato salendo a 1,3 miliardi. Lo stesso è stato fatto in Italia, dove si sono spesi 200 milioni di euro per costruire a Lago Patria una nuova sede per il Jfc Naples. Tali spese sono solo la punta dell’iceberg di un colossale esborso di denaro pubblico, pagato dai cittadini dei paesi dell’Alleanza. 

Vi è anzitutto la spesa iscritta nei bilanci della difesa dei 28 stati membri che, secondo i dati Nato del febbraio 2014, supera complessivamente i 1000 miliardi di dollari annui (circa 750 miliardi di euro), per oltre il 70% spesi dagli Stati uniti. La spesa militare Nato, equivalente a circa il 60% di quella mondiale, è aumentata in termini reali (al netto dell’inflazione) di oltre il 40% dal 2000 ad oggi. Sotto pressione degli Stati uniti, il cui budget della difesa (735 miliardi di dollari) è pari al 4,5% del prodotto interno lordo, gli alleati si sono impegnati nel 2006 a destinare al bilancio della difesa come minimo il 2% del loro pil. Finora, oltre agli Usa, lo hanno fatto solo Gran Bretagna, Grecia ed Estonia. 

L’impegno dell’Italia a portare la spesa militare al 2% del pil è stato sottoscritto nel 2006 dal governo Prodi. 
Secondo i dati Nato, essa ammonta oggi in media a 52 milioni di euro al giorno. Tale cifra, si precisa nel budget, non comprende però diverse altre voci. In realtà, calcola il Sipri, la spesa militare italiana (all’undicesimo posto su scala mondiale) ammonta in media a 72 milioni al giorno. Adottando il principio del 2%, questi salirebbero a circa 100 milioni al giorno. 

Agli oltre 
1000 miliardi di dollari annui iscritti nei 28 bilanci della difesa, si aggiungono i «contributi» che gli alleati versano per il «funzionamento della Nato e lo sviluppo delle sue attività». Si tratta per la maggior parte di «contributi indiretti», tipo le spese per «le operazioni e missioni a guida Nato». Quindi i molti milioni di euro spesi per far partecipare le forze armate italiane alle guerre Nato nei Balcani, in Afghanistan e in Libia costituiscono un «contributo indiretto» al budget dell’Alleanza. 

Vi sono poi i «contributi diretti», distribuiti in tre distinti bilanci. Quello «civile», che con fondi forniti dai ministeri degli esteri copre le spese per lo staff dei quartieri generali (4000 funzionari solo a Bruxelles). Quello «militare», composto da oltre 50 budget separati, che copre i costi operativi e di mantenimento della struttura militare internazionale. Quello di «investimento per la sicurezza», che serve a finanziare la costruzione dei quartieri generali, i sistemi satellitari di comunicazione e intelligence, la creazione di piste e approdi e la fornitura di carburante per le forze impegnate in operazioni belliche. Circa il 22% dei «contributi diretti» viene fornito dagli Stati uniti, il 14% dalla Germania, l’11% da Gran Bretagna e Francia. L’Italia vi contribuisce per circa l’8,7%: quota non trascurabile, nell’ordine di centinaia di milioni di euro annui.

Vi sono diverse altre voci nascoste nelle pieghe dei bilanci. Ad esempio l’Italia ha partecipato alla spesa per il nuovo quartier generale di Lago Patria sia con la quota parte del costo di costruzione, sia con il «fondo per le aree sottoutilizzate» e con uno erogato dalla Provincia, per un ammontare di circa 25 milioni di euro (mentre mancano i soldi per ricostruire L’Aquila). 
Top secret resta l’attuale contributo italiano al mantenimento delle basi Usa in Italia, quantificato l’ultima volta nel 2002 nell’ordine del 41% per l’ammontare di 366 milioni di dollari annui. Sicuramente oggi tale cifra è di gran lunga superiore. Si continua così a gettare in un pozzo senza fondo enormi quantità di denaro pubblico, che sarebbero essenziali per interventi a favore dell’occupazione, dei servizi sociali, delle zone terremotate. 
 
Il riposizionamento militare Usa in Europa
«Gli Stati uniti ridimensionano le forze militari in Europa e sotto la scure dei risparmi cade anche la base di Camp Darby», titola un giornale toscano, precisando che «mezzo Camp Darby tornerà all’Italia». Un vero e proprio bluff: l’area che verrà restituita dal Pentagono nell’arco di 5 anni è in reatlà quantificata in 5-6 ettari su un totale di oltre 800. 

In realtà, quella annunciata dal Pentagono non è una riduzione ma un riposizionamento delle forze militari Usa, così da «massimizzare le nostre capacità militari in Europa e rafforzare le nostre importanti partnership europee, sostenendo nel miglior modo i nostri alleati Nato e partner nella regione». Risparmiando allo stesso tempo, secondo i calcoli di Washington, circa 500 milioni di dollari annui. 

In tale quadro si inserisce Camp Darby, la base logistica dello U.S. Army che rifornisce le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana, mediorientale e oltre, l’unico sito dell’esercito Usa in cui il materiale preposizionato (carrarmati, ecc.) è collocato insieme alle munizioni. Nei suoi 125 bunker e in altri depositi vi è l’intero equipaggiamento di due battaglioni corazzati e due di fanteria meccanizzata, che può essere rapidamente inviato in zona di operazione attraverso il porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa. Da qui sono partire le bombe usate nelle due guerre contro l’Iraq e in quelle contro la Iugoslavia e la Libia.

Il collegamento di Camp Darby col porto di Livorno è stato potenziato dai lavori effettuati dagli enti locali (a guida Pd) sul Canale dei navicelli, allo scopo dichiarato di dare impulso ai cantieri che fabbricano yacht (in realtà in crisi e in attesa di qualche compratore straniero). Il vero scopo emerge da uno studio della Provincia di Livorno: «
Il Canale dei navicelli riveste una notevole importanza strategica militare, per il fatto di attraversare la base militare di Camp Darby, costituendo una componente determinante per i traffici della base». Per di più nel limitrofo interporto di Guasticce, sullo Scolmatore dove sono in corso lavori per accrescerne la navigabilità, si può creare un indotto per lo stoccaggio di materiali logistici di Camp Darby. In tal modo si può liberare, nella base, spazio da destinare agli armamenti. Per di più, la limitata area che il comando Usa dovrebbe «restituire all’Italia» nei prossimi anni andrà al Ministero della difesa, che la potrà destinare a funzioni di supporto di Camp Darby e alla proiezione di forze: l’aeroporto militare di Pisa è stato trasformato in Hub aereo nazionale da cui transitano gli uomini e i materiali destinati ai vari teatri bellici, e sempre a Pisa si è appena costituito il Comando delle forze speciali dell’esercito.

Il «ridimensionamento» di Camp Darby è comunque compensato dal potenziamento della base Usa di Aviano. Qui, annuncia il Pentagono, sarà trasferito dalla base aerea di Spangladem (Germania) il 606th Air Control Squadron, addetto (con un personale di 200 militari) al comando, controllo e  rifornimento di grandi operazioni di guerra aerea. Il suo spostamento ad Aviano conferma il ruolo «privilegiato» dell’Italia quale base della proiezione di forze Usa/Nato nell’area mediterranea, mediorientale e africana. Ruolo destinato a crescere poiché, annuncia il Pentagono, «la U.S. Air Force dislocherà permanentemente suoi caccia F-35 in Europa», a cominciare dalla base britannica di Lakenheath, e quindi anche in Italia.

Il riposizionamento di forze e basi, sottolinea il Pentagono, non indebolisce ma rafforza la presenza militare Usa in Europa. Esso permette di «potenziare la presenza a rotazione di forze Usa in Europa per esercitazioni e altre attività Nato; migliorare le infrastrutture per una accresciuta presenza militare Usa e alleata nell’Europa orientale; permettere agli Usa di accrescere la capacità dei nuovi alleati, come Ucraina, Georgia e Moldavia». In tal modo, partendo dall’Europa, gli Usa e gli alleati Nato saranno in grado di «rispondere rapidamente alle crisi su scala planetaria». Ossia di scatenare guerre ovunque nel mondo siano ostacolati i loro interessi.
 
(5 – fine)





Inizio messaggio inoltrato:

Da: Iniziativa PARTIGIANI! <partigiani7maggio @tiscali.it>
Data: 27 gennaio 2015 00:18:18 CET
Oggetto: Ricordo di Dragutin -Drago- V. Ivanović / Voce Jugoslava del 27/1/2015 -Giornata della Memoria-
A: partigiani7maggio @tiscali.it


VOCE JUGOSLAVA / JUGOSLAVENSKI GLAS
"Od Vardara do Triglava - Dal fiume Vardar al monte Triglav"

Svakog drugog utorka, od 13,00 do 13,30 sati, na Radio Città Aperta, i valu FM 88.9 za regiju "Lazio", emisija "Jugoslavenski glas".
Emisija je u direktnom prijenosu. Može se pratiti i preko Interneta: http://radiocittaperta.it/
Emisija je dvojezična, po potrebi i vremenu na raspolaganju. Podržite taj slobodni i nezavisni glas, kupujući knjige koje imamo na raspolaganju, itd. .
Pišite nam na: jugocoord@..., potražite na www.cnj.it

Ogni due martedì dalle ore 13,00 alle 13,30 su Radio Città Aperta, FM 88.9 per Roma ed il Lazio, va in onda la trasmissione radiofonica "Voce Jugoslava".
Essa si può seguire, come del resto anche le altre trasmissioni della Radio, anche via internet: http://radiocittaperta.it/
La trasmissione è bilingue (a seconda del tempo disponibile e della necessità), e in diretta. Sostenete questa voce libera e indipendente acquistando i libri a nostra disposizione e con il vostro 5 x mille. Scriveteci: jugocoord@..., leggeteci su www.cnj.it


Program Dana Pamćenja ** 27. I. 2015 ** Programma per la Giornata della Memoria
 
Umro je Dragutin -Drago- V. Ivanović
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E' morto Dragutin -Drago- V. Ivanović

 
Il 2015 si è aperto per noi con la triste mancanza di DRAGUTIN "DRAGO" V. IVANOVIC, il nostro carissimo compagno e amico jugoslavo, con il quale abbiamo strettamente collaborato negli ultimi cinque anni. Drago si è spento venerdì 12 dicembre 2014 a Lubiana alla presenza dei tre amati figli.

Drago è stato antifascista dal primo all'ultimo respiro. Nato a Doljani - sobborgo di Titograd/Podgorica - nel 1923, ha trascorso l'infanzia nella Metohija. Nel corso della II Guerra Mondiale la sua famiglia ha duramente patito l'occupazione italiana e le violenze dei collaborazionisti: il padre e un fratello sono stati uccisi, lui stesso - da giovanissimo liceale militante della SKOJ, la gioventù comunista - è stato arrestato dagli occupatori italiani e deportato successivamente in diversi campi di concentramento in Montenegro, Albania e Italia, fino a Colfiorito (Foligno) da dove con un altro migliaio di antifascisti montenegrini è evaso alla fine di settembre del 1943. Fino alla estate successiva ha partecipato alla Resistenza nelle Marche e in Abruzzo, poi si è unito alle formazioni dell'EPLJ che si andavano organizzando in Puglia, addestrandosi nel campo di addestramento di Gravina, e potendo così infine rientrare a combattere per la liberazione del proprio paese. Assunto l'incarico di commissario politico della IV Divisione di Artiglieria da montagna motorizzata, ha combattuto lungo la dorsale dalmata verso nord, fino a partecipare alla liberazione di Trieste (1/5/1945). 
Nel dopoguerra, proseguita la carriera militare, è stato promosso fino al grado di colonnello. 

Dopo il pensionamento (1973) Drago si è dedicato a ricerche storiche accurate sugli eventi di cui lui stesso era stato protagonista, scrivendo numerosi libri. Il suo contributo è stato fondamentale per le ricerche che sono sfociate nella pubblicazione del nostro lavoro "I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana". 
Ancora lo scorso 29 gennaio 2014 a Udine, nonostante la malattia, Drago aveva voluto intervenire all'importante convegno organizzato dalla casa editrice KappaVu "con un bellissimo e sentito contributo", come ricorda Alessandra Kersevan. Ne proponiamo la registrazione integrale (25 minuti circa di ascolto) non solo perché riteniamo che questo sia il modo migliore per rendergli omaggio, ma anche perché ci sembra particolarmente significativo riportare la testimonianza diretta di un internato jugoslavo nei campi di concentramento italiani, proprio in occasione della Giornata della Memoria (27 Gennaio).

La registrazione dell'intervento di Drago a quel convegno rimarrà a disposizione sulle nostre pagine internet, e un più dettagliato articolo biografico sarà redatto e messo in diffusione prossimamente. Vi terremo aggiornati.

(a cura della redazione di Voce Jugoslava e degli autori de I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana – www.partigianijugoslavi.it )


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I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA Storie e memorie di una vicenda ignorata Roma, Odradek, 2011 pp.348 - euro 23,00 Per informazioni sul libro si vedano: Il sito internet: http://www.partigianijugoslavi.it La scheda del libro sul sito di Odradek: http://www.odradek.it/Schedelibri/partigianijugoslavi.html La pagina Facebook: http://www.facebook.com/partigianijugoslavi.it Ordina il libro: http://www.odradek.it/html/ordinazione.html === * ===