Informazione
Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 2
Manlio Dinucci
La Nato alla conquista dell’Est
Nel 1999 inizia l’espansione della Nato nel territorio dell’ex Patto di Varsavia e dell’ex Unione Sovietica. L’«Alleanza Atlantica» ingloba i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004, si estende ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Repubblica iugoslava). Al vertice di Bucarest, nell’aprile 2008, viene deciso l’ingresso di Albania (un tempo membro del Patto di Varsavia) e Croazia (già parte della Repubblica iugoslava). Viene inoltre preparato l’ingresso nell’Alleanza dell’ex repubblica iugoslava di Macedonia e di Ucraina e Georgia, già parte dell’Urss. Si afferma infine che continuerà la «politica della porta aperta» per permettere ad altri paesi ancora di entrare un giorno nella Nato.
Gli Stati Uniti riescono così nel loro intento: sovrapporre a un’Europa basata sull’allargamento della Ue un’Europa basata sull’allargamento della Nato. Entrando nella Nato, i paesi dell’Europa orientale, comprese alcune repubbliche dell’ex Urss, vengono a essere più direttamente sotto il controllo degli Stati Uniti che mantengono nell’Alleanza una posizione predominante. Va ricordato che il Comandante supremo alleato in Europa è, per una sorta di diritto ereditario, un generale statunitense nominato dal presidente, e che tutti gli altri comandi chiave sono controllati direttamente dal Pentagono.
Per di più, i nuovi paesi membri devono riconvertire gli armamenti e le infrastrutture militari secondo gli standard Nato: ciò avvantaggia l’industria bellica statunitense, dato che l’acquisto di armi statunitensi viene posto da Washington quale condizione per l’ammissione alla Nato. In tal modo gli Stati uniti si assicurano una serie di strumenti militari ed economici, e quindi politici, per tenere questi paesi in posizione gregaria all’interno della Nato alle dirette dipendenze di Washington. Non solo: poiché Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Romania e Bulgaria entrano nella Ue tra il 2004 e il 2007, Washington si assicura notevoli strumenti di pressione all’interno della stessa Unione europea per orientare le sue scelte politiche e strategiche.
La Nato in Afghanistan
La costituzione dell’Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) viene autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu con la risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001. Suo compito è quello di assistere l’autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni. Secondo l’art. VII della Carta delle Nazioni unite, l'impiego delle forze armate messe a disposizione da membri dell’Onu per tali missioni deve essere stabilito dal Consiglio di sicurezza coadiuvato dal Comitato di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Anche se tale comitato non esiste, l’Isaf resta fino all’agosto 2003 una missione Onu, la cui direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia, Germania e Olanda.
Ma improvvisamente, l’11 agosto 2003, la Nato annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu». E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere la leadership, ossia il comando, dell’Isaf. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659 del 15 febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo impegno della Nato nel dirigere l’Isaf».
A guidare la missione, dall’11 agosto 2003, non è più l’Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene infatti inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell’Isaf. Come sottolinea un comunicato del giugno 2006, «la Nato ha assunto il comando e il coordinamento dell’Isaf nell’agosto 2003: questa è la prima missione al di fuori dell’area euro-atlantica nella storia della Nato». La missione Isaf viene quindi di fatto inserita nella catena di comando del Pentagono. Nella stessa catena di comando sono inseriti i militari italiani assegnati all’Isaf, insieme a elicotteri e aerei, compresi i cacciabombardieri Tornado.
Il «disegno di ordine e pace» della Nato in Afghanistan ha ben altri scopi di quelli dichiarati: non la liberazione dell’Afghanistan dai taleban, che erano stati addestrati e armati in Pakistan in una operazione concordata con la Cia per conquistare il potere a Kabul, ma l’occupazione dell’Afghanistan, area di primaria importanza strategica per gli Stati Uniti. Lo dimostrano le basi permanenti che installano qui, tra cui quelle aeree di Bagram, Kandahar e Shindand.
Per capire il perché basta guardare la carta geografica: l’Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest’area (nel Golfo e nel Caspio) si trovano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Si trovano tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza complessiva sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono nel rapporto del 30 settembre 2001, «esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse». Da qui la necessità di «pacificare» l’Afghanistan per disporre senza problemi del suo territorio. Ma, impegnati su troppi fronti, gli Usa non ce la fanno. Ecco quindi il coinvolgimento degli alleati Nato sotto paravento Onu, sempre agli ordini di un generale statunitense.
Il sostegno Nato a Israele
Nell’aprile 2001 Israele firma al quartier generale della Nato a Bruxelles l’«accordo di sicurezza», impegnandosi a proteggere le «informazioni classificate» che riceverà nel quadro della cooperazione militare.
Nel luglio 2001 il Pentagono dà il nullaosta per la fornitura a Israele dei primi 1000 kit Jdam, realizzati dalla Boeing in collaborazione con la joint-venture italo-inglese Alenia Marconi Systems: questo nuovo sistema di guida rende «intelligenti» le bombe aeree «stupide» permettendo agli F-16 israeliani di colpire simultaneamente più obiettivi a oltre 50 km di distanza.
Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con quello israeliano un memorandum d’intesa per la cooperazione nel settore militare e della difesa, che prevede tra l’altro lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica.
Nel gennaio 2004 un aereo radar Awacs della Nato atterra per la prima volta a Tel Aviv e il personale israeliano viene addestrato all’uso delle sue tecnologie.
Nel dicembre 2004 viene data notizia che la Germania fornirà a Israele altri due sottomarini Dolphin, che si aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) consegnati negli anni ‘90. Israele può così potenziare la sua flotta di sottomarini da attacco nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico.
Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato compie la prima visita ufficiale a Tel Aviv, dove incontra le massime autorità militari israeliane per «espandere la cooperazione militare».
Nel marzo 2005 si svolge nel Mar Rosso la prima esercitazione navale congiunta Israele-Nato: il comando del gruppo navale della «Forza di risposta della Nato» è affidato alla marina italiana che vi partecipa con la fregata Bersagliere.
Nel maggio 2005, dopo essere stato ratificato al senato e alla camera, il memorandum d’intesa italo-israeliano diviene legge: viene così istituzionalizzata la cooperazione tra i ministeri della difesa e le forze armate dei due paesi riguardo l’«importazione, esportazione e transito di materiali militari», l’«organizzazione delle forze armate», la «formazione/addestramento».
Nel maggio 2005 Israele viene ammesso quale membro dell’Assemblea parlamentare della Nato.
Nel giugno 2005 la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Golfo di Taranto.
Nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per la prima volta a una esercitazione Nato «anti-terrorismo», che si svolge in Ucraina.
Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare una migliore interoperabilità tra la marina israeliana e le forze navali Nato».
Nell’ottobre 2006, Nato e Israele concludono un accordo che stabilisce una più stretta cooperazione israeliana al programma Nato «Dialogo mediterraneo», il cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In tale quadro, «Nato e Israele si accordano sulle modalità del contributo israeliano all’operazione marittima della Nato Active Endeavour» (Nato/Israel Cooperation, 16 ottobre 2006). Israele viene così premiato dalla Nato per l’attacco e l’invasione del Libano. Le forze navali israeliane, che insieme a quelle aeree e terrestri hanno appena martellato il Libano con migliaia di tonnellate di bombe facendo strage di civili, vengono integrate nella operazione Nato che dovrebbe «combattere il terrorismo nel Mediterraneo». Le stesse forze navali che, bombardando la centrale elettrica di Jiyyeh sulle coste libanesi, hanno provocato una enorme marea nera diffusasi nel Mediterraneo (la cui bonifica verrà a costare centinaia di milioni di dollari), collaborano ora con la Nato per «contribuire alla sicurezza della regione».
Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’attacco israeliano a Gaza, la Nato ratifica il «Programma di cooperazione individuale» con Israele. Esso comprende una vasta gamma di campi in cui «Nato e Israele coopereranno pienamente»: controterrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte Nato-Israele; allargamento della cooperazione nella lotta contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione).
La Nato «a caccia di pirati» nell’Oceano Indiano
Nell’ottobre 2008, un gruppo navale della Nato, lo Standing Nato Maritime Group 2 (Snmg2) attraversa il Canale di Suez, entrando nell’Oceano Indiano. Ne fanno parte navi da guerra di Italia, Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Grecia e Turchia. Lo Snmg2 è il successore della Standing Naval Force Mediterranean (Stanavformed), la forza navale permanente del Mediterraneo, costituita nel 1992 dalla Nato in base al «nuovo concetto strategico». Questo gruppo navale (il cui comando è assunto a rotazione dai paesi membri) fa parte di una delle tre componenti dello Allied Joint Force Command Naples, il cui comando è permanentemente attribuito a un ammiraglio statunitense, lo stesso che comanda le Forze navali Usa in Europa. L’area in cui opera lo Snmg2 non ha ormai più confini, in quanto esso costituisce una delle unità della «Forza di risposta della Nato», pronta a essere proiettata «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo».
Scopo ufficiale della missione dello Snmg2 nell’Oceano Indiano è condurre «operazioni anti-pirateria» lungo le coste della Somalia, scortando i mercantili che trasportano gli aiuti alimentari del World Food Program delle Nazioni Unite. In questo «sforzo umanitario», la Nato «continua a coordinare la sua assistenza con l’operazione Enduring Freedom a guida Usa». Sorge quindi il dubbio che, dietro questa missione Nato, vi sia ben altro. In Somalia, la politica statunitense sta subendo un nuovo scacco: le truppe etiopiche, qui inviate nel 2006 dopo il fallimento del tentativo della Cia di rovesciare le Corti islamiche sostenendo una coalizione «anti-terrorismo» dei signori della guerra, sono state costrette a ritirarsi dalla resistenza somala.
Washington prepara quindi altre operazioni militari per estendere il proprio controllo alla Somalia, provocando altre disastrose conseguenze sociali. Esse sono alla base dello stesso fenomeno della pirateria, nato in seguito alla pesca illegale da parte di flotte straniere e allo scarico di sostanze tossiche nelle acque somale, che hanno rovinato i piccoli pescatori, diversi dei quali sono ricorsi alla pirateria. Nella strategia statunitense e Nato, la Somalia è importante per la sua stessa posizione geografica sulle coste dell’Oceano Indiano. Per controllare quest’area è stata stazionata a Gibuti, all’imboccatura del Mar Rosso, una task force statunitense. L’intervento militare, diretto e indiretto, in questa e altre aree si intensifica ora con la nascita del Comando Africa degli Stati uniti. E’ nella sua «area di responsabilità» che viene inviato il gruppo navale Nato.
Esso ha però anche un’altra missione ufficiale: visitare alcuni paesi del Golfo persico (Kuwait, Bahrain, Qatar ed Emirati arabi uniti), partner Nato nel quadro dell’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Le navi da guerra della Nato vanno così ad aggiungersi alle portaerei e molte altre unità che gli Usa hanno dislocato nel Golfo e nell’Oceano Indiano, in funzione anti-Iran e per condurre, anche con l’aviazione navale, la guerra aerea in Afghanistan.
(2 – continua)
Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 3
Manlio Dinucci
La strategia di demolizione degli Stati
La strategia Usa/Nato consiste nel demolire gli Stati che sono del tutto o in parte fuori del controllo degli Stati uniti e delle maggiori potenze europee, soprattutto quelli situati nelle aree ricche di petrolio e/o con una importante posizione geostrategica. Si privilegiano, nella lista delle demolizioni, gli Stati che non hanno una forza militare tale da mettere in pericolo, con una rappresaglia, quella dei demolitori.
L’operazione inizia infilando dei cunei nelle crepe interne, che ogni Stato ha. Nella Federazione Iugoslava, negli anni ’90, vengono fomentate le tendenze secessioniste, sostenendo e armando i settori etnici e politici che si oppongono al governo di Belgrado. Tale operazione viene attuata facendo leva su nuovi gruppi dirigenti, spesso formati da politici passati all’opposizione per accaparrarsi dollari e posti di potere.
Contemporaneamente si conduce una martellante campagna mediatica per presentare la guerra come necessaria per difendere i civili, minacciati di sterminio da un feroce dittatore.
Si chiede quindi l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, motivando l’intervento con la necessità di destituire il dittatore che fa strage di inermi civili (nel caso della Iugoslavia, Milosevic). Basta il timbro con scritto «si autorizzano tutte le misure necessarie» ma, se non viene dato (come nel caso della Iugoslavia), si procede lo stesso. La macchina da guerra Usa/Nato, già approntata, entra in azione con un massiccio attacco aeronavale e operazioni terrestri all’interno del paese, attorno a cui è stato fatto il vuoto con un ferreo embargo.
La guerra contro la Libia
Dopo essere stata attuata contro la Federazione Iugoslava, tale strategia viene usata contro la Libia nel 2011.
Vengono finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi. Vengono allo stesso tempo infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani facilmente camuffabili. L’intera operazione viene diretta dagli Stati uniti, prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa.
Il 19 marzo 2011 inizia il bombardamento aeronavale della Libia. In sette mesi, l’aviazione Usa/Nato effettua 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili. A questa guerra partecipa l’Italia con le sue basi e forze militari, stracciando il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due paesi. «Nel ricordo delle lotte di liberazione e del 25 aprile – dichiara il presidente Napolitano il 26 aprile 2011 – non potevamo restare indifferenti alla sanguinaria reazione del colonnello Gheddafi in Libia: di qui l'adesione dell'Italia al piano di interventi della coalizione sotto guida Nato».
Molteplici fattori rendono la Libia importante agli occhi degli Stati uniti e delle potenze europee. Le riserve petrolifere – le maggiori dell’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione – e quelle di gas naturale. Dopo che Washington abolisce nel 2003 le sanzioni in cambio dell’impegno di Gheddafi a non produrre armi di distruzione di massa, le grandi compagnie petrolifere statunitensi ed europee affluiscono in Libia con grandi aspettative, rimanendo però deluse. Il governo libico concede le licenze di sfruttamento alle compagnie straniere che lasciano alla compagnia statale libica (National Oil Corporation of Libya, Noc) la percentuale più alta del petrolio estratto: data la forte competizione, essa arriva a circa il 90%. Per di più la Noc richiede, nei contratti, che le compagnie straniere assumano personale libico anche in ruoli dirigenti. Abbattendo lo Stato libico, gli Stati uniti e le potenze europee mirano a impadronirsi di fatto della sua ricchezza energetica.
Oltre che all’oro nero, mirano all’oro bianco libico: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana (stimata in 150mila km3), che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità di sviluppo essa offra lo ha dimostrato il governo libico, costruendo una rete di acquedotti lunga 4mila km per trasportare l’acqua, estratta in profondità da 1300 pozzi nel deserto, fino alle città costiere e all’oasi al Khufrah, rendendo fertili terre desertiche. Su queste riserve idriche, in prospettiva più preziose di quelle petrolifere, vogliono mettere le mani – attraverso le privatizzazioni promosse dal Fmi – le multinazionali dell’acqua, che controllano quasi la metà del mercato mondiale dell’acqua privatizzata.
Nel mirino Usa/Nato ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo Stato libico ha investito all’estero. I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Da quando viene costituita nel 2006, la Lia effettua in cinque anni investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre. Tali fondi vengono «congelati», ossia sequestrati, dagli Stati uniti e dalle maggiori potenze europee.
L’assalto ai fondi sovrani libici ha un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.
Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo sviluppo di tali organismi potrebbe permettere ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e potrebbe segnare la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi africani, ex-colonie francesi. Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all’intero progetto.
Importante, per gli Usa e la Nato, la stessa posizione geografica della Libia. all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Va ricordato che re Idris, nel 1953, aveva concesso agli inglesi l’uso di basi aeree, navali e terrestri in Cirenaica e Tripolitania. Un accordo analogo era stato concluso nel 1954 con gli Stati uniti, che avevano ottenuto l’uso della base aerea di Wheelus Field alle porte di Tripoli. Essa era divenuta la principale base aerea statunitense nel Mediterraneo. Abolita la monarchia, la Repubblica araba libica aveva costretto nel 1970 le forze statunitensi e britanniche a evacuare le basi militari e, l'anno seguente, aveva nazionalizzato le proprietà della British Petroleum e costretto le altre compagnie a versare allo Stato libico quote molto più alte dei profitti.
Con la guerra Usa/Nato del 2011, viene demolito lo Stato libico e assassinato lo stesso Gheddafi, attribuendo l’impresa a una «rivoluzione ispiratrice» che gli Usa si dicono fieri di sostenere, creando «una alleanza senza eguali contro la tirannia e per la libertà». Viene demolito quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo di fronte all’Italia, manteneva «alti livelli di crescita economica» (come documentava nel 2010 la stessa Banca mondiale), con un aumento medio del pil del 7,5% annuo, e registrava «alti indicatori di sviluppo umano» tra cui l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e, per il 46%, a quella di livello universitario. Nonostante le disparità, il tenore di vita della popolazione libica era notevolmente più alto di quello degli altri paesi africani. Lo testimoniava il fatto che trovavano lavoro in Libia oltre due milioni di immigrati, per lo più africani.
In Libia le prime vittime sono proprio gli immigrati dall’Africa subsahariana che, perseguitati, sono costretti a fuggire. Molti, spinti dalla disperazione, tentano la traversata del Mediterraneo verso l’Europa. Quelli che vi perdono la vita sono anch’essi vittime della guerra con cui la Nato ha demolito lo Stato libico.
L’inizio della guerra contro la Siria
Nell’ottobre 2012 il Consiglio atlantico denuncia «gli atti aggressivi del regime siriano al confine sudorientale della Nato», pronto a far scattare l’articolo 5 che impegna ad assistere con la forza armata il paese membro «attaccato», la Turchia. Ma è già in atto il «non-articolo 5» – introdotto durante la guerra alla Iugolavia e applicato contro l’Afghanistan e la Libia – che autorizza operazioni non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza. Eloquenti sono le immagini degli edifici di Damasco e Aleppo devastati con potentissimi esplosivi: opera non di semplici ribelli, ma di professionisti della guerra infiltrati. Circa 200 specialisti delle forze d’élite britanniche Sas e Sbs – riporta il Daily Star – operano in Siria, insieme a unità statunitensi e francesi.
La forza d’urto è costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da Washington come terroristi) provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi. Nel gruppo di Abu Omar al-Chechen – riferisce l’inviato del Guardian ad Aleppo – gli ordini vengono dati in arabo, ma devono essere tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e altre lingue. Forniti di passaporti falsi (specialità Cia), i combattenti affluiscono nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, dove la Cia ha aperto centri di formazione militare. Le armi arrivano soprattutto via Arabia Saudita e Qatar che, come in Libia, fornisce anche forze speciali.
Il comando delle operazioni è a bordo di navi Nato nel porto di Alessandretta. A Istanbul viene aperto un centro di propaganda dove dissidenti siriani, formati dal Dipartimento di stato Usa, confezionano le notizie e i video che vengono diffusi tramite reti satellitari. La guerra Nato contro la Siria è dunque già in atto, con la motivazione ufficiale di aiutare il paese a liberarsi dal regime di Assad. Come in Libia, si è infilato un cuneo nelle fratture interne per far crollare lo Stato, strumentalizzando la tragedia delle popolazioni travolte.
Una delle ragioni per cui si vuole colpire e occupare la Siria è il fatto che Siria, Iran e Iraq hanno firmato nel luglio 2011 un accordo per un gasdotto che, entro il 2016, dovrebbe collegare il giacimento iraniano di South Pars, il maggiore del mondo, alla Siria e quindi al Mediterraneo. La Siria, dove è stato scoperto un altro grosso giacimento presso Homs, potrebbe divenire in tal modo un hub di corridoi energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e altri percorsi, controllati dalle compagnie statunitensi ed europee.
(3 - continua)
http://comunicati.russia.it/jazenjuk-ha-detto-che-l-unione-sovietica-invase-la-germania-e-l-ucraina.html
Orig.: http://lifenews.ru/news/148125
http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=2839
07/01/2015 – La riflessione di Giulietto Chiesa sull’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, quali conseguenze potrebbe generare e a chi potrebbero essere utili...
http://www.pandoratv.it/?p=2575
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=p9mpDJgmncg
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8153
Fantomas colpisce ancora. L'apprendista-imperialista stregone ci regala uno spauracchio dopo l'altro: da Bin Laden all'ISIS, e si prepara Al-Fadhli… (ott 2014)
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8126
I CROCIATI E GLI ASSASSINI
I nuovi jihadisti vengono dal Kosovo / L'imam Bilal Bosnic: giusto rapire le ragazze italiane / La spirale balcanica minaccia jihadista per l'Italia / Quando l'imam combatteva in Bosnia / Il vero pericolo terrorista arriva dai Balcani…
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8102
HANDZAR AND SKANDERBEG RELOADED
In Sangiaccato sfilano una trentina di giovani con le uniformi ed il "fez" dei reparti musulmani delle "SS" / I ‘nazi-islamisti’, eredità sporca dei Balcani / Arrestato il capo religioso della Grande Moschea di Pristina. Reclutava per l'ISIS / FLASHBACKS 2005--2010…
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8115
http://www.eastjournal.net/balcani-i-jihadisti-i-figli-delle-fondazioni-di-beneficienza/47524
Guerra santa, terrorismo di stato e crimine organizzato in Bosnia (di Riccardo M. Ghia per Bright Magazine, 2011)
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/7204
LA "TRASVERSALE VERDE": UN PO' DI STORIA
A cura del Coordinamento Romano per la Jugoslavia, 1998
http://digilander.iol.it/lajugoslaviavivra/CRJ/GEOPO/storia_zetra.html
Sono state perquisite le case dei due fondamentalisti di Belluno partiti per la Siria e finiti a combattere nelle file dell'Is: l'imbianchino bosniaco Ismar Mesinovic (morto a gennaio nei pressi di Aleppo) e Munifer Karameleski, il 26enne macedone residente a Chies D'Alpago e amico di Mesinovic (entrambi frequentatori del centro islamico Assalam di Ponte nelle Alpi). Di Karameleski si sono perse le tracce. Secondo alcuni blog stranieri sarebbe morto anche lui durante uno scontro con le milizie di Bashar al-Assad, a marzo. Ma della notizia non si è mai avuta la conferma ufficiale, dunque gli investigatori italiani ritengono che possa essere ancora vivo e non escludono un suo ritorno in Italia da reduce.
Ma non ci sono solo loro, nell'indagine avviata a gennaio dal pm Valter Ignazitto e che li vede accusati a vario titolo in base all'articolo 270 bis e quater del codice penale per associazione con fini di terrorismo anche internazionale e arruolamento. Tra i perquisiti figurano P.P., un giovane bosniaco che vive a Longarone, e altri due soggetti di religione islamica che di recente si sono radicalizzati: O.A. e V.A., entrambi residenti nel piccolo comune friulano di Azzano Decimo e assidui frequentatori del Centro di preghiera di Pordenone, dove nel 2013 potrebbero aver conosciuto Bilal Bosnic, l'imam errante salafita che si muoveva tra la Bosnia, l'Austria e il Nord Italia [ http://www.repubblica.it/esteri/2014/08/28/news/bilal_bosnic_ci_sono_italiani_nell_is_conquisteremo_il_vaticano-94559220/ ], arrestato nel settembre scorso e tuttora detenuto a Sarajevo.
Anche Karameleski e Mesinovic, almeno in un'occasione, sono andati a pregare a Pordenone nello stesso centro culturale, prima di mollare tutto e partire per la Jihad. Mesinovic si è portato dietro anche il figlioletto di tre anni, che secondo alcune fonti straniere sarebbe stato affidato a una famiglia bosniaca in Siria, mentre la moglie cubana di Ismar è rimasta in Italia.
In particolare V.A. è ritenuto dagli inquirenti soggetto particolarmente interessante: operaio, sulla trentina, sposato con una donna slava. Ad Azzano Decimo non passa inosservato: look da predicatore islamico e parole da convinto sostenitore dell'Is. Nelle cinque abitazioni perquisite sono stati sequestrati 5 pc e varie chiavette usb e altro materiale hardware. Nei prossimi giorni saranno analizzati dai tecnici forensi della procura. Era attraverso i portatili e attraverso software quali Skype e Viber che i cinque comunicavano tra loro e con soggetti all'estero. Anche se al momento non sono state individuate conversazioni particolarmente "pericolose" o indicative di un imminente "passaggio all'azione".
Quello che gli inquirenti stanno cercando di capire è la rete di contatti che ha consentito ai due di Belluno di arrivare in Siria, passando via terra dalla Turchia. E quale sia stato il ruolo dell'imam salafita Bosnic nel percorso di radicalizzazione dei quattro uomini.
http://ricerca.gelocal.it/corrierealpi/archivio/corrierealpi/2014/10/31/NZ_02_22.html
Era il 1992 quando l’Europa abbandonò la Bosnia al suo destino, schiacciata nella guerra fra il nazionalismo serbo e quello croato. Quell’indifferenza consentì all’Islam – anche quello integralista – di rientrare (non accadeva dai tempi degli Ottomani) nel cuore dell’Europa sulla scia di organizzazioni umanitarie islamiche, predicatori e reparti di paramilitari arabi e asiatici inviati in soccorso dei “fratelli musulmani” di Bosnia. Oggi le polizie europee danno la caccia ai presunti reclutatori bosniaci che – selezionandoli in Europa – inviano combattenti in Siria a supporto della Jihad dello Stato islamico (Is), alcuni dei quali attivi anche in Italia.
I reclutatori in Italia
Il più sospettato fra quelli passati per l’Italia, è sicuramente l’imam radicale Bilal Hussein Bosnic, 42 anni, conosciuto dai suoi come Cheb Bilal: “Ogni musulmano deve sostenere la Jihad insegnando, lottando o finanziando.
Noi musulmani crediamo che un giorno il mondo intero sarà uno Stato islamico e anche il Vaticano sarà musulmano”. Parole sue. Nel settembre scorso è stato catturato dalla Sipa, la polizia speciale del ministero per la Sicurezza di Sarajevo, che lo ha accusato di finanziare il terrorismo di matrice islamica e reclutare combattenti da inviare in Siria; per riaverlo in Italia e interrogarlo, cosa che il pm Walter Ignazitto dovrà fare, serve adesso l’apertura di una rogatoria internazionale
Un altro indagato, insieme a Veapi, sarebbe Arslan Osmanoski, sospettato di aver favorito la predicazione di Bosnic al centro islamico di Pordenone.
Tuttavia l’imam di Pordenone, Ahmed Erraji, che tira fuori dal cassetto le foto con Bilal Bosnic scattate nel maggio-giugno 2013, è certo dell’estraneità ai fatti di
Veapi e Osmanoski e ribadisce la sua condanna contro gli integralisti islamici: «Non abbiamo nulla da nascondere e vogliamo vivere in pace», afferma. Proprio in questi giorni i Ros di Padova hanno effettuato nuove perquisizioni a Longarone, a Chies d’Alpago e ad Azzano Decimo, sia a casa di Munifer Karamaleski (operaio macedone che ha lasciato Palughetto e che attualmente dovrebbe combattere in Siria) e di un italiano bellunese convertitosi all’Islam, Pierangelo Abdessalam Pierobon,
sequestrando computer, telefonini e documenti. Nei telefonini sequestrati, i Ros avrebbero trovato alcuni “selfie” fatti in compagnia dello stesso imam radicale Bilal Bosnic. Bilal Bosnic è considerato uno dei capi del movimento dei wahabiti bosniaci (diffusosi in Bosnia-Erzegovina con la brigata El Mudžahid, nel 1992 e poi nel 1994: paramilitari ben addestrati, di origine araba o asiatica). Bosnic, che avrebbe iniziato a combattere nella guerra dei Balcani non ancora ventenne contro i serbi, ha dichiarato che ci sarebbero anche cittadini italiani (una cinquantina) tra i combattenti dello Stato islamico (Is).
In Italia ha tenuto vari incontri “di preghiera”, come nelle città di Bergamo, Pordenone e Cremona. In un video del 2012 intitolato Con chi stai insieme?, lo si può vedere al centro culturale “Restelica” di Monteroni di Siena, insieme ad un altro predicatore radicale islamico, Idriz Bilibani, quest’ultimo già arrestato dalla polizia kosovara nel 2010, probabilmente su richiesta americana. In Bosnia, dalla metà degli anni ’90, si sono consolidate roccaforti di stampo salafita-jihadista. Da tali insediamenti si sono sviluppate le reti su cui viaggiano i messaggi degli imam radicali: un pericolo non soltanto per l’area balcanica ma anche per il resto d’Europa e per l’Italia.
Nell’agosto scorso, l’imam Bosnic aveva anche giustificato il rapimento delle due cooperanti italiane, Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, definendo la loro azione come “interferenza” e aveva descritto come spia James Foley, il giornalista americano ucciso dall’Is, giustificando il suo assassinio come atto di guerra.
Gli operai italiani del Jihad
In Italia, secondo gli inquirenti, potrebbe essere stato proprio l’incitamento di Bosnic alla “guerra santa” ad aver convinto sia l’imbianchino bosniaco Ismar Mesinovic (partito dall’Italia per la Siria fra il novembre e il dicembre 2013), sia l’operaio macedone Munifer Karamaleski , frequentatore dei centri islamici di Trento e di Pordenone.
Mesinovic, nato a Doboj (Bosnia) il 22 agosto 1977, si recava a pregare al centro Assalam-Pace di Ponte nelle Alpi: è morto in Siria, a 37 anni, nei primi giorni del gennaio scorso (sembra tra il 4 e il 6 gennaio) in circostanze non chiarite. Ancora non si capisce se sia davvero caduto in combattimento; sua moglie (una cittadina cubana convertitasi all’Islam) ha dichiarato di aver saputo che il marito era stato gravemente ferito ad Aleppo, dove infuriava la battaglia fra jihadisti e le truppe del presidente siriano Assad.
La morte di Mesinovic è stata comunque provata da fotografie pubblicate in internet, sia dall’estremo saluto che i suoi confratelli hanno postato su profilo Facebook Scienza del Corano il 13 gennaio scorso. Il messaggio recita: “Io Anass Abu Jaffar (adesso indicato come indagato dalla procura di Venezia,ndr) e il Fratello Usama e il Fratello Piero con il mio carissimo fratello che è morto Rahimahu Allah che Allah gli doni il firdaws (il livello più alto del paradiso islamico, ndr). Così, sorridente voglio ricordare questo fratello morto in Siria… Morto perché il suo sogno era quello di riportare giustizia in quella terra. Morto per quelle migliaia e migliaia di donne e bambini uccisi ingiustamente.
Allah ne sa di più. Che Allah abbia misericordia della tua anima e che ti accolga nel firdaws tra i martiri). Nella foto allegata al messaggio, c’è quindi il volto di Ismar Mesinovic, imbianchino benvoluto nel bellunese, che da Longarone si era trasferito insieme alla compagna e al figlioletto in una casa di Ponte nelle Alpi.
Il 25 aprile scorso, ancora sulla Scienza del Corano, profilo prevalentemente gestito dallo stesso Annas Abu Jaffar (attualmente non più in Italia: dovrebbe essersi trasferito a Casablanca, in Marocco) è stata pubblicata anche una foto di un combattente islamico con la bandiera nera dell’Is: il commento a fianco punta sul concetto di “nazione vittoriosa”.
Parlando ancora di siti web di matrice islamico-integralista gestiti in Italia, va notato che – in concomitanza con l’arresto di Bosnic da parte della polizia di Sarajevo – a Bergamo chiudeva il sito internet “Islamsko Dzemat Bergamo” (Studio Islam) e la corrispettiva pagina Facebook, che aveva pubblicato diversi video che ritraevano lo stesso predicatore bosniaco. Sempre nello stesso periodo della partenza di Mesinovic, anche il macedone di 26 anni, Munifer Karameleski , operaio in un’industria ottica, perfettamente inserito in Italia, ha lasciato genitori e fratelli in quel di Palughetto, piccola frazione di Chies d’Alpago: destinazione Siria. Lui, almeno, sarebbe ancora vivo. Il padre, intanto, l’ha ripudiato come figlio.
Le indagini in corso. Le reazioni dei vicini, dei datori di lavoro e delle famiglie
In queste ore gli investigatori continuano a lavorare nelle province di Belluno, Treviso e Pordenone. Il loro scopo è quello di ricostruire i contatti di Mesinovic e Karameleski e le fasi del loro reclutamento, per individuare la rete di “passatori” che li hanno fatti viaggiare dal Veneto fino ai campi di battaglia siriani.
I vicini dei due, i loro datori di lavoro sono sbigottiti. Ancora non credono che quei due “bravi ragazzi”, quei due lavoratori con donne e figli possano aver fatto una fine del genere: il primo morto, forse in battaglia contro i regolari di Assad e l’altro disperso da qualche parte in Siria. C’è poi la reazione dei familiari, che non si capacitano.
Da Ponte nelle Alpi e Palughetto alla Bosnia, alla Macedonia, nessun genitore, magari formatosi culturalmente sotto il socialismo di Tito o emigrato dai Balcani in Italia per migliorare la condizione economica della propria famiglia, può accettare un figlio morto in Siria sotto la bandiera nera dell’Is.
Ma i reclutatori non si fermano: sfruttano l’ignoranza, l’impossibilità di una vita decente: sono circa 150 i cittadini bosniaci impegnati nelle guerre “di religione”, partiti dai dintorni di Sarajevo, Srebrenica, Bihac, Vogosce, Vitez. Si tratta, in gran parte, di giovani che non hanno avuto l’opportunità di studiare, che provengono da paesini montani isolati, che hanno avuto come unico riferimento “importante” un uomo che sembra loro più colto, migliore e che promette il riscatto dalla miseria, dalla loro e da quella di tutto il mondo che crede nel vero Dio e che li fa sembrare improvvisamente vincenti e in tanti: il predicatore radicale, l’uomo che li spinge al Jihad. Fino alla morte.
Casa, fabbrica, jihad: così il Califfo s’infiltra nel “modello Veneto” (di Francesca Paci, 23/11/2014)
http://www.lastampa.it/2014/11/23/esteri/casa-fabbrica-jihad-cos-il-califfo-sinfiltra-nel-modello-veneto-1E1L9pHHNE3Jnuxlu6WWRO/pagina.html
Ismail Mesinovic è un bimbo di tre anni. Nel dicembre scorso è scomparso dalla cittadina in provincia di Belluno dove viveva, rapito dal padre che l’ha portato con sé in Siria per arruolarsi tra le fila degli jihadisti. Pablo Trincia ha seguito il loro percorso, dall’Italia alla Siria: ecco un’anticipazione del reportage in onda stasera...
La Herrera abita a Ponte nelle Alpi: l’ultima telefonata del bimbo il 20 dicembre 2013, quando gli parlò in Bosnia dov'era col padre a trovare i parenti. Poi Mesinovic era andato in Siria per combattere col macedone Karamaleschi, partito dall’Alpago. E là il piccolo Ismail potrebbe essere ancora. Lo ha riconosciuto in una foto la mamma. Il bimbo ha lo sguardo perso nel vuoto.
È in sella a una moto di fronte a un combattente dell’Isis in tuta mimetica. Quell’uomo è Salid Kolish, combattente con cui era partito Mesinovic. La Herrera è arrivata in Turchia a 500 metri dal confine con la Siria. Sono milioni i messaggi sui social Facebook e Twitter inviati dopo la trasmissione al richiamo "Riportiamo a casa Ismail".
Lunedì la Herrera, assistita dall’avv. Piazza di Treviso, tornerà in Procura. «Diedi il consenso a mio marito di portarsi Ismail. Non è stato rapito, ma ora deve tornare dalla sua mamma».
By AMEL EMRIC | Associated Press – Mon, Jan 5, 2015
It was no random attack: Beganovic has suffered seven assaults blamed on Muslim extremists in the past year — with three just last month.
The apparent reason for the jihadi wrath? Beganovic uses his pulpit to tell the faithful in predominantly Muslim Bosnia they have no business fighting in Syria or Iraq. And he vows to keep preaching the message no matter how many times extremists try to silence him.
"That is not our war," the imam told The Associated Press in his small northwestern town. "Our jihad in Bosnia is the fight against unemployment. The care for our parents who have small pensions. The care for the socially jeopardized."
Some 150 Bosnians have joined Islamic militants in Syria or Iraq, officials estimate, with many fighting for the Islamic State group. All are apparently members of a small community that follows an ultra-conservative interpretation of Islam. Last month, a court in Bosnia charged a man believed to be the spiritual leader of the group with recruiting Bosnians to fight with Islamic militants in Syria and organizing a terrorist group.
Beganovic, who preaches every week to a full mosque, tells his followers that groups like IS are spreading a "perverted version of Islam."
"When did (the Prophet) Muhammad ever behead anyone?" he said. "When did he take a knife and slaughter an innocent journalist?"
Of Islam's 99 names for God — including The Mighty and The Avenger — the ones Beganovic likes most are The Exceedingly Merciful and The Exceedingly Gracious.
"That is what we teach our children here," he said.
Dragan Lukac, the director of federal police, blamed fighters returning from Syria's front lines for the attacks against Beganovic, which include severe beatings and knife slashes to the face, shoulders and hands. Investigators are still hunting for the attacker in last week's knife assault.
"Every person who comes back from that front line is a danger," said Lukac. "These people are able to perform attacks on citizens, on property, on state institutions."
Militant Islam was all but unknown to Bosnia's mostly secular Muslim population until the 1990s Balkans wars when Arab mercenaries turned up to help the outgunned Bosnian Muslims fend off Serb attacks. These fighters, many of whom settled in Bosnia, embraced a radical version of Islam that Bosnia's official Islamic community opposes.
The community's leader, Husein Kavazovic, has repeatedly warned Bosnians not to fall for extremist rhetoric aimed at pulling them into the fight in Syria.
"Our job is to keep repeating, to keep warning that this is evil and cannot be justified," he said.
That's exactly what Beganovic has been doing — at the risk of his life.
"These are dangerous people," he said. "Their place is in a mental institution."
Selvedina Beganovića, imama u Trnovi, opština Velika Kladuša, napala je nepoznata osoba na ulazu u džamiju, drugi put u pet dana, javlja Srna...
Imam u Trnovi u opštini Velika Kladuša Selvedin Beganović ponovo je napadnut, treći put u posljednjih 25 dana, piše Srna. Napad se dogodio sinoć, prije ulaska u džamiju, javio je Dnevni avaz.
Prema istom izvoru, nepoznati napadač udario je Beganovića s leđa tvrdim predmetom u glavu, a nakon što je imam pao na zemlju pokušao ga je ubosti nožem u grudi i vrat. Napadač je pobjegao, a povrijeđeni imam je pozvao policiju.
Beganović je zadobio ubod nožem u srce koji, nasreću, nije bio dubok, te ranu na vratu.
Povrijeđeni imam je kolima hitne pomoći Doma zdravlja u Velikoj Kladuši transportovan do Kantonalne bolnice Dr. Irfan Ljubijankić u Bihaću, gdje pregledan na Odjeljenju hirurgije, ali je nakon toga na vlastiti zahtjev pušten kući.
Avaz navodi da je Beganović veoma uznemiren i u teškom psihičkom stanju, tim prije, jer je vidio napadača koji je bio bez maske na licu.
Imam Beganović poznat je javnosti po prošlogodišnjem otvorenom pismu Bilalu Bosniću, neformalnom vođi vehabijskog pokreta u BiH, u kojem je kritikovao praksu vrbovanja i slanja omladine iz BiH na sirijsko i iračko ratište.
Beganović je bio napadnut 8. i 13. decembra. On je nakon prvog napada u više izjava medijima rekao da nikoga ne optužuje i "ne upire prstom".
Kladuška policija i dalje intenzivno radi na sva tri slučaja napada na trnovskog imama.
Iako je nekoliko puta bio meta napada svojih neistomišljenika, imam Selvedin Beganović iz džemata Trnovi, kod Velike Kladuše ne osjeća strah za sebe. Ipak brine za svoju porodicu.
Beganović je prvi put napadnut 8. decembra kada je povrijeđen u napadu nožem. Nakon toga je napadnut još dva puta. Za Anadolu Agency je kazao kako su napadi uslijedili nakon što je počeo govoriti o hanefijskom mezhebu, kada je počeo potencirati stavove institucija Islamske zajednice BiH.
"To nije počelo prije mjesec dana nego prije 13 godina. Naime, kada sam došao u ovaj džemat znao sam na namaz ići u gradsku džamiju (Velika Kladuša) jer je ova u Trnovima znala biti prazna. Dobro, narod se nije bio sasvim vratio na svoja ognjišta. Ne hvalim se, ali sam jedan od prvih imama koji je ujedinio džemat. Vama je poznato da su ovdje bile dvije struje, na strani 'autonomije' i na strani Petog korpusa. Na Bajram 1997. godine došli su i jedni i drugi i tada smo svi otišli na Stari grad zajedno na kafu. Već tada to nije mnogima odgovaralo. Ali konkretno napadi na mene su počeli onog momenta kada sam ja počeo govoriti o hanefijskom mezhebu, koji mi praktikujemo i slijedimo, kada sam počeo potencirati stavove institucije IZ, naše priznate i poznate uleme. Napadi, prijetnje i podmetanja datiraju otad", rekao je Beganović.
On je kazao kako su mu nakon napada ostali ožiljci na licu, rana na vratu i tri ubodne rane na prsima. Smatra da su prvi i naredna dva napada izvele dvije različite osobe.
"Od ova tri napada, osoba koja me je prvi put napala je drukčija osoba, koja, po meni, nije znala šta radi, napad je izgledao nesposobno, nisam siguran šta je bio naumio sa mnom. Ali iz zadnja dva napada koji su bili daleko ozbiljniji, mislim da bi se moglo raditi o istoj osobi. Jer napad je napravljen smišljeno, hladnokrvno, razrađeno do u detalje", rekao je Beganović.
Imam iz Trnova je rekao da je za zadnji napad mislio "da je to to".
"Nakon trećeg uboda on je otišao misleći da je završio sa mnom, nakon toga sam se uspio okrenuti na lijevu stranu. Imam iskustvo i u ratu, znam šta treba činiti prilikom ranjavanja, pokušao sam da dišem, hvala Bogu pluća nisu bila probijena pa sam nazvao sina telefonom i on je došao mi u pomoć", rekao je Beganović.
Hrabri krajiški imam je dodao da se ne boji za sebe, ali da ga je strah za porodicu koja je također ugrožena.
"Ne želim da to zvuči kao samohvala, ali Allah je taj koji je odredio moj edžel (kraj perioda jednog bića op.a.) i ja sam čvrsto uvjeren da ću živjeti do meni određenog roka. Niko drugi ne može pomjerati edžel do Allaha, ali istina, postoji u meni ogroman strah kada je u pitanju sigurnost moje porodice. Moja porodica je doista ugrožena i strah me je zbog toga", rekao je Beganović.
Na pitanje kome smeta, Beganović je rekao da ne smeta samo on, već svako ko progovori istinu.
"Smeta i naš uvaženi reis Kavazović (reis ul-ulema IZ BiH Husein ef. Kavazović), jer on je, naprimjer, javno izjavio da su i šije muslimani pa su ga automatski određeni ljudi proglasili nevjernikom. Smeta i njegova izjava da on ne priznaje selefijski pokret. I svi drugi koji slijede našu ulemu, nešeg poglavara, smetaju kao i ja koji sam javno govorio o stavovima koji su zvanični. Ja sam niko, samo jedan mahalski hodža, i ja možda te stavove govorim samo malo glasnije nego što bi trebalo. Ja vas podsjećam, da je reis u Stocu iznio svoj stav da naša omladina ne treba da ide na strana ratišta, da se tamo dešavaju čudne stvari koje se sada i pokazuju očitim. Tamo ima oko četrdeset frakcija koji ratuju međusobno u Siriji. A naš džihad jeste da učimo, radimo, otvaramo radna mjesta i slično", bio je jasan Beganović.
On je kazao da postoji grupa ljudi koja napada instituciju IZ, pokušavaju da ocrne hodže govoreći da samo "gule narod, uzimaju pare", da na reda za Boga...
"To su podbacivanja upravo te grupe ljudi, koja je neškolovana, zbog toga i frustrirana, pa napada kompletnu instituciju IZ, a na sebe nabace arapsku nošnju, zavuku se negdje u šumu i okupe one koji ne razmišljaju svojom glavom i drže im predavanje. Suština islama kod njih je izvrnuta, a suština je odgajanje sebe, a ne odgajanje onih od čijih jezika i ruku su spašeni drugi muslimani. A Allah je u Kur'anu kazao da onaj koji ubije jednog čovjeka, ne kaže muslimana, nego jednog čovjeka, da kao da je pobio čitav svijet. Zatim kaže, da Allah hoće, on bi načinio sve ljude jedne vjere, ali nas je učinio različitima i to je njegova mudrost, koju mi svi moramo poštivati. Zatim, kod nas u BiH je potpisan mirovni sporazum, ulum emr, naši zapovjednici su ga potpisali, i mi ga moramo poštivati jer i poslanik je poštivao sporazum o nenapadanju. U Kur'anu stoji naredba da, kada nama dođe neko druge vjere, i zatraži zaštitu od muslimana, da smo mi dužni zaštitu da mu pružimo. A šta mi radimo danas?", pitao je Beganović.
Imam koji je tri puta bio meta napada ne upire prstom ni u koga, pohvalno govori o radu policije, iako nisu pronašli napadača. Takvi stavovi izazivaju čuđenje sugrađana, koji misle da nešto čuva za sebe.
"Narod će uvijek nagađati i pričati. Ja sam suzdržan samo zbog Kur'anskog ajeta koji kaže 'smutnja je gora od ubistva'. Ako uprem prstom i kažem - to su mi učinile vehabije, ta grupa ili populacija, a na kraju se ispostave da nisu oni, napravio sam smutnju. Samo zbog toga šutim. Kada me je čovjek prije deset godina, s leđa, dva puta udario šakom, ja sam ga prijavio i otvoreno prozvao, a upravo je ta populacija ljudi u pitanju. Sada, doista, u prva dva slučaja nisam vidio, pa nisam ni mogao ništa reći. Treći napad osobu sam vidio, jer je mislio da je završio sa mnom posao i ta osoba podsjeća svojim likom na tu grupu ljudi. Ali neću ništa govoriti dok policija po osnovu fotorobota ne dođe do počinioca. Drugih motiva nema. Ja nisam privrednik da imam dugove pa me ljudi ganjaju...", rekao je Beganović.
On je kazao da je isključivi motiv taj koji je napisan javno na internetu, a to znaju, kako tvrdi Beganović, i sljedbenici Hsueina Bosnića, protiv kojeg je Tužilaštvo Bosne i Hercegovine podiglo optužnicu.
"Ja sam za Bosnića mogao reći da je on kafanski pjevač, kao što i jeste bio prije rata, ali ja nikad i ničim njega nisam vrijeđao. U svoja dva pisma sam govorio fino. Prvo, da nije uredu da neko šalje našu djecu na tuđa ratišta. I ako iko treba da ide u taj rat, onda bi bilo logičnije da idu Bilal Bosnić i Selvedin Beganović, jer mi imamo ratno iskustvo. A ta djeca koja idu na ratišta nemaju ratno iskustvo osim preko videoigrica. I drugo je što sam jedini progovorio o tome da se u Bosanskoj Bojni (Velika Kladuša na granici s Hrvatskom) kupuje zemlja i gradi centar koji će nam napraviti kao državi više problema nego i Bočinja i Maoča. Problem je što će se tu okupljati nepoznata lica, što će to biti njihov centar", rekao je Beganović.
Na pitanje hoće li mijenjati radno mjesto zbog svega što mu se dogodilo, Beganović je rekao da ima podršku džemata, i ne samo Velike Kladuše, nego i Cazina, kompletne Krajine, pa čak i dijaspore.
"Ove godine navršava se 115 godina ovog džemata, od Ibrahima ef. Topića, prvog imama koji je službovao ovdje 21 godinu i ja spadam među one koji su ostvarili dugi staž ovdje. Za svojih 18 godina koliko sam tu, samo je pet ljudi koji neće da kontaktiraju sa mnom, jer sam im jednog dana donio Buharijnu zbirku hadisa i hanefijski fikh, dokazao im da nisu upravu, na što su se oni uvrijedili. Svi ostali sa mnom lijepo progovore. Moj ostanak ovdje ne zavisi od samog mene, nego od Rijaesta, vjersko-prosvjetne službe i Nusreta ef. Abdibegovića. Ja lično se pomjerati neću, bez naredbe koju moram poštovati", rekao je Beganović.
Alla pagina:
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8153
è contenuto l'intervento di George Soros che sarebbe apparso sulla The New York Review del 20 novembre e intitolato Wake Up, Europe.
Volevo segnalarvi non solo che l'articolo è stato ripreso sulla prima di Repubblica del 25 ottobre col titolo SALVIAMO L’UCRAINA DEI RAGAZZI ma, soprattutto, che la traduzione è stata "personalizzata" per il pubblico europeo tagliandone via un pezzo.
L'ho evidenziato in questo pezzo che ha anche la traduzione dell'ironico commento di Tyler Durden:
http://www.iskrae.eu/?p=23916
GEORGE SOROS DELIRA DALLA PRIMA PAGINA DI REPUBBLICA. TOTALMENTE ASSENTE IL PUDORE, MA NON LA LOGICA
un cordiale saluto
Raffaele Simonetti
(Milano)
http://www.iskrae.eu/?p=23916
di Raffaele Simonetti
Svegliati, Europa
Con un richiamo di spalla in prima pagina, Repubblica di sabato 25 ottobre ha ospitato un delirante articolo di George Soros intitolato: “SALVIAMO L’UCRAINA DEI RAGAZZI.”
Chi frequenta questo sito come anche chi ha capito da altre fonti, e oramai ce ne sono parecchie e insospettabili, che la propaganda dei mezzi d’informazione sull’Ucraina quando non falsa nasconde molte cose, non avrà difficoltà a constatarlo cliccando sul riferimento e leggendo il pdf.
Immagini di militari con la svastica sull’elmetto si sono viste anche sui telegiornali della Rai.
Già il fatto che il secondo quotidiano nazionale, tendente ad apparire liberal e democratico, dia spazio allo speculatore che ha condotto (con successo) l’attacco alla lira e alla sterlina nel settembre del 1992 per intervenire sulla questione dell’Ucraina e consigliare, non si capisce a che titolo, l’Europa su cosa fare (la guerra) è scioccante, e dà l’idea della subalternità quanto meno di Repubblica, dato che non pare che altre testate ne abbiano riferito.
Sulla stampa estera l’intervento di Soros non è passato inosservato, ma ne hanno riferito il giorno stesso dei giornalisti e non ripreso pedissequamente: sul Guardian George Soros: Russia poses existential threat to Europe, su Le Monde Ukraine : «L’Europe est indirectement en guerre»; LA TRIBUNE, il secondo quotidiano economico francese, anziché parlare dell’intervento ha preferito intervistarlo: Le plan de George Soros pour sauver l’Europe.
Ma in realtà, solo scavando un po’, si trova che la faccenda è anche più sporca.
L’articolo, come detto in calce, è una traduzione e agevolmente si risale all’articolo apparso sul New York Times del 23 ottobre: Wake Up, Europe, cioè: “Svegliati, Europa”, che è il titolo del suo ultimo libro che uscirà sulla New York Review of Books e che recentemente ha presentato a Bruxelles.
Come si vede il titolo è completamente differente, ma anche il contenuto differisce alquanto dall’originale: in particolare su un “dettaglio” di non poco conto che Repubblica ha pudicamente omesso mentre questa breve ANSA, ripresa dal sito di Borsa Italiana, ha evidenziato già dal titolo.
Ucraina: George Soros esorta Ue e Fmi a prestare 20 mld $ a Kiev
(Il Sole 24 Ore Radiocor) – Milano, 23 ott – Il miliardario americano George Soros ha esortato l’Ue e il Fmi a prestare 20 miliardi di dollari all’Ucraina, ritenendola una risposta alla sfida della Russia “ai principi e valori sui quali e’ fondata l’Unione europea”. Le azioni di Mosca in Ucraina, con l’annessione della penisola di Crimea e il sostegno militare ai ribelli separatisti nell’Est del paese, rappresentano “una sfida all’esistenza stessa dell’Europa” ha affermato Soros nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles. “Il problema e’ che ne’ i leader europei, ne’ la popolazione comprendono pienamente le implicazione di questa sfida” secondo il miliardario che ha chiesto massicci aiuti per Kiev. Dei negoziati sono in corso fra l’Ucraina e la Russia che ha tagliato le forniture di gas in giugno a fronte dei mancati pagamenti.
Tmm
(RADIOCOR) 23-10-14 18:07:31 (0640)ENE 3 NNNN
L’intervento di Soros, decodificato
Il giorno stesso dell’uscita sul New York Times ha provveduto a decodificarlo e ironizzare, sul sito Zero Hedge, Tyler Durden in: George Soros Slams Putin, Warns Of “Existential Threat” From Russia, Demands $20 Billion From IMF In “Russia War Effort”.
Come spiegato nella Wikipedia in inglese relativa al sito Zero Hedge, Tyler Durden è un nome collettivo usato da un gruppo di redattori, preso dall’omonimo personaggio della novella e del film Fight Club.
Articoli a firma Tyler Durden sono stati spesso ripresi dall’autorevole sito Global Research, da cui il sito resistenze.org nel marzo scorso ha tradotto l’articolo: Il prezzo della “liberazione” dell’Ucraina è stato il trasferimento del suo oro alla Fed?.
Di seguito la traduzione dell’articolo.
GEORGE SOROS ATTACCA PUTIN, AMMONISCE SULLA “MINACCIA ESISTENZIALE” DA PARTE DELLA RUSSIA, CHIEDE 20 MILIARDI DI DOLLARI AL FMI PER LO “SFORZO BELLICO IN RUSSIA”
di Tyler Durden
Se perfino George Soros inizia a preoccuparsi e a scrivere editoriali, allora veramente Putin sta vincendo.
Di seguito i punti principali di quello che il fondatore di Open Society ha da dire sulla minaccia “esistenziale” russa nell’editoriale appena pubblicato:
L’Europa si trova ad affrontare la minaccia che la Russia pone alla sua stessa esistenza. Né i leader né i cittadini europei sono pienamente consapevoli di questo stato di cose e non sanno come affrontarlo. Attribuisco questo principalmente al fatto che l’Unione Europea in generale e l’eurozona in particolare hanno smarrito la strada dopo la crisi finanziaria del 2008.
E scaldandosi:
[L'Europa] non riesce a riconoscere che l’attacco russo all’Ucraina è un attacco indiretto all’Unione Europea ed ai suoi principi di governance. Dovrebbe essere palesemente fuori luogo che un Paese, o un’associazione di Paesi, in guerra, pratichi una politica di austerità finanziaria come continua a fare l’Unione Europea.E scaldandosi ancora di più:
Tutte le risorse disponibili dovrebbero essere utilizzate per lo sforzo bellico, pur con la conseguenza di una rapida crescita dei deficit di bilancio.
E infine bollente:
[Il FMI] deve fornire un’immediata iniezione di liquidità di almeno 20 miliardi di dollari, con la promessa di aumentarli se richiesto. I partner dell’Ucraina devono fornire ulteriori finanziamenti condizionati all’attuazione del programma sostenuto dal FMI, a proprio rischio, in linea con le pratiche abituali.
Ecco il punto: l’”esistenziale” minaccia bellica russa è, per Soros, nient’altro che una scusa per mettere fine al tentativo di austerità (ma non fate vedere a Soros i recenti livelli da record di indebitamento dell’Europa), e tornare ai suoi livelli di spesa sfrenati.
Paradossalmente, questo è esattamente quello che abbiamo detto sarebbe accaduto, solo che i neo-con globali speravano che la guerra civile ucraina sarebbe diventata una guerra totale tra Russia e Ucraina, scatenando quindi la “spesa per la prosperità” dei Soros del mondo ["spend your way to prosperity" è un'espressione usata dal presidente Herbert Hoover nel 1936 e da Ronal Reagan nel 1976 per dire che il governo non può raggiungere la prosperità creando debito pubblico, ndt]. Per ora questo piano è fallito ed è per questo che è entrato in scena l’ISIS.
Ma non fa mai male provarci, eh George. E una cosa che non è detta è che quelli che ci guadagnerebbero di più da quest’ultima frenesia di spesa sarebbero ovviamente, avete indovinato, i miliardari come George Soros.
23 ottobre 2014
---
Assente il pudore, ma non la logica
Che Soros e il suo Open Society Institute siano dietro le “rivoluzioni colorate” (Colour revolution) è ben noto e quasi rivendicato ed esibito; è stato associato almeno a proposito di Otpor in Jugoslavia, la Rivoluzione delle Rose in Georgia, quella arancione in Ucraina, quella dei tulipani in Kirghizistan e quella dei cedri in Libano.
La sua vocazione bellicosa quindi non deve sorprendere, ma piuttosto il fatto che la manifesti dalle colonne di Repubblica.
Quali potenti forze esterne possono aver agito sul capo-redattore, sul direttore Ezio Mauro e probabilmente anche più in alto per indurre alla pubblicazione di un articolo guerrafondaio che inneggia ai fascisti e ai nazisti di Kiev di cui perfino la Rai ha mostrato indossare elmetti con la svastica o altri simboli nazisti?
Probabilmente nessuna, dal momento che queste forze sono chiaramente e fortemente presenti nel Dna dell’azienda !
È un dato di fatto che Carlo De Benedetti è nel Consiglio d’Amministrazione della Banca Rothschild francese e sono ampiamente noti gli storici legami tra i Rothschild e Soros: ne diceva l’informatissimo sito MoviSol in questo articolo del febbraio 1997 Come i Rothschild controllano il Quantum Fund e lo ribadiva in quest’altro del 20 gennaio 2009: PD: “D” come Democratico o “D” come De Benedetti?, che ha addirittura un capitolo intitolato: Il Partito Democratico deve respingere l’influenza di Soros e De Benedetti , dopo aver in precedenza affermato, tra l’altro, che:
Essa, con particolare riferimento al legame che lega la casata bancaria dei Rothschild allo speculatore George Soros, si muove in Italia con il proprio primario rappresentante, l’ing. Carlo De Benedetti, per completare quel disegno di finanziarizzazione dell’intera economia italiana avviato in Italia nel 1992.
Quanto alla posizione dei Rothschild rispetto alle guerre dovrebbe togliere ogni dubbio questa dichiarazione di Amschel Mayer Rothschild riportata nell’illuminante articolo di Mauro Meggiolaro, su il Fatto Quotidiano del 19 novembre 2010: I baroni Rothschild tra carbone e eco-chic.
“La nostra politica è quella di fomentare le guerre (…) dirette in modo tale che entrambi gli schieramenti sprofondino sempre più nel loro debito e, quindi, sempre di più sotto il nostro potere“, aveva dichiarato il capostipite della famiglia Amschel Mayer Rothschild nel 1773. Oggi sembra che le cose per gli eredi non funzionino in modo molto diverso.
La libertà è una bella cosa e così pure la libertà di stampa. Usare la libertà di stampa per promuovere la guerra e/o interessi economici di un’élite non lo è affatto.
Perché quindi non avvalersi della libertà di non acquistare Repubblica ?