Informazione


MATEMATICA


Un israeliano scambiato per 1.027 palestinesi. Due israeliani scambiati per 81 egiziani. Ovvero: un palestinese vale 0,00097 israeliani. In termini di peso, un palestinese vale 77 grammi di un israeliano di 80 kg. Un egiziano invece valedi più: ben 0,0246 israeliani (un israeliano è scambiato per 40,5 egiziani), ovvero pesa 1,975 kg di un israeliano di 80 kg. 
Ma in quest'algebra umana, si possono effettuare altre operazioni: applicando la proprietà transitiva, si scopre che 41 egiziani valgono (per Israele) 1.027 palestinesi. Ovvero: 1 egiziano equivale a 25,045 palestinesi. In termini di peso, un palestinese vale 3,19 kg di un egiziano di 80 kg.
Non è la prima volta nella storia che si usano tavole di conversione. Per esempio, se togliere una vita rende negativa l'unità e la fa precedere da un segno meno (-), allora per la Germania nazista, durante la guerra, - 1 tedesco equivaleva a - 10 cittadini occupati (cioè ogni tedesco ucciso doveva esere risarcito da 10 morti nemiche): così il 24 marzo 1944 alle Fosse ardeatine 335 romani furono uccisi per «bilanciare» la morte di 33 soldati tedeschi il giorno prima.
Anche nell'attuale caso del Medio Oriente, si può supporre che il fattore di conversione stabilito per scambiare i prigionieri valga anche col segno meno. Approssimativamente è già vero: cioè già oggi è dell'ordine delle migliaia di morti palestinesi il fattore di conversione per la morte di unità israeliane.
Bisognerebbe proporre di estendere l'uso del fattore di conversione ad altri conflitti e in base ai risultati ottenuti ridisegnare la carta del mondo, un po' come fanno da tempo i cartografi dell'École des Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi, che dilatano o contraggono le superfici degli stati e dei continenti in proporzione al loro Pil, o alla loro parte nel commercio internazionale: con questi criteri l'Italia diventa grande come un terzo d'Africa e l'Africa si riduce a un mignolino.
Si potrebbe applicare l'algebra umana alla guerra in Iraq e vedere a quanti morti iracheni equivalgono i 4.796 soldati americani uccisi o, se si considera quella guerra come cieca (e per altro ingiustificata) vendetta per l'11 settembre 2011, aggiungervi anche le 2970 vittime di quegli attentati. Si scoprirebbe che anche qui il fattore di conversione è dell'ordine di grandezza del centinaio, cioè di un centinaio di iracheni uccisi per ogni americano morto.
Non sempre quest'algebra umana è cosciente e precisa. Più spesso è inconscia e all'ingrosso. Così, una catastrofe in Africa non è nemmeno presa in considerazione se non viene declinata in milioni di vite (africane): ben lo sanno le ong che devono raccogliere fondi per i sinistrati e che a questo scopo gonfiano ormai da anni le dimensioni dei disastri nel Terzo mondo, che altrimenti cadrebbero nell'indifferenza generale: segnalo l'interessante articolo di David Rieff sull'ultimo numero di Foreign Policy, dal titolo espressivo: «Milioni muoiono.. o forse no. Come pompare i disastri è diventato un grande business globale». Come si vede, l'algebra umana è una disciplina in pieno, e promettente, sviluppo.

Marco d'Eramo (il manifesto, 19 ottobre 2011)

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20 ottobre 1941-2011

1) FIABA CRUENTA (D. Maksimovic)
2) Occupazione nazista, stragi e collaborazionismo in Serbia (P. Diroma)
3) KRAGUJEVAC 1941, STERMINIO NAZISTA IN SERBIA (A. Pitamitz)


=== 1 ===

Desanka Maksimovic: FIABA CRUENTA


  Avvenne in un paese di contadini
  nella Balcania montuosa:
  una compagnia di alunni
  in un giorno solo morì
  di morte gloriosa.

  Avevano tutti la stessa età,
  scorrevano uguali per tutti
  i giorni di scuola, andavano alle cerimonie in compagnia,
  li vaccinavano tutti
  contro la stessa malattia.
  Morirono tutti in una giornata sola.

  Avvenne in un paese di contadini
  nella Balcania montuosa:
  una compagnia di alunni
  in un solo giorno morì
  di morte gloriosa.

  Cinquantacinque minuti
  prima che la morte se li portasse via
  sedevano sui banchi di scuola
  i ragazzi della piccola compagnia,
  e con lo stesso compito assillante;
  andando a piedi, quanto
  impiega un viandante
  e così via.

  Erano pieni delle stesse cifre
  i loro pensieri,
  e nei quaderni, dentro la cartella,

  giacevano assurdi innumerevoli
  i cinque e gli zeri

  Stringevano in saccoccia con ardore
  una manciata di comuni sogni,
  di comuni segreti
  patriottici e d'amore.
  E ognuno, lieto della propria aurora,
  credeva di poter correre molto
  tanto ancora
  sotto l'azzurro tetto rotondo
  fino a risolvere
  tutti i compiti di questo mondo.

  Avvenne in un paese di contadini
  nella Balcania montuosa:
  una compagnia di alunni
  in un giorno solo morì
  di morte gloriosa.

  File intere di ragazzi
  Si presero per mano
  e, dall'ultima ora di scuola,
  si avviarono alla fucilazione
  calmi, col cuore forte,
  come se nulla fosse la morte.
  File intere di compagni
  salirono nella stessa ora
  verso l'eterna dimora.


=== 2 ===

https://www.cnj.it/documentazione/Serbia1941/Serbia1941.html#diroma

Occupazione nazista, stragi e collaborazionismo in Serbia


I rapporti tra la «sottorazza slava» e i nazisti nelle zone di occupazione tedesche


Estratto da: P. Diroma, La Jugoslavia dal 1941 al 2000: tra esodi, scontri etnici e movimenti di popolazione, tesi di laurea Università degli studi di Firenze, AA. 2006-2007 - fonte

 

La razza inferiore.


L’idea nazista dell’inferiorità razziale della gente balcanica, e in particolare dell’assoluta mancanza di valore della vita umana dei popoli slavi, si realizzò praticamente nei territori della Slovenia, del Banato e della Serbia con uno dei più duri regimi di occupazione e di repressione del secondo conflitto mondiale. Se nei confronti degli sloveni i tedeschi vollero imporre nuovamente con le armi la supremazia politica, economica e militare che già detenevano in Slovenia all’epoca del Regno degli Asburgo, molto più radicali si dimostrarono i metodi nazisti in Serbia.

Ritenendo il popolo serbo responsabile della guerra e della sconfitta tedesca nel primo conflitto mondiale, dell’affronto delle manifestazioni di piazza antitedesche del marzo 1941, dello slittamento del ben più importante piano Barbarossa, Hitler decise di far pagare a caro prezzo il secolare carattere ribelle dei serbi[1]. Spinte da un odio viscerale contro i popoli balcanici, le autorità militari germaniche nel corso delle vaste operazioni condotte contro il movimento di liberazione jugoslavo, si abbandonarono ad efferati crimini contro i civili residenti nelle zone di guerra. Nell’ambito del programma di epurazione e di rappresaglie i tedeschi saccheggiarono, violentarono, sterminarono e deportarono le popolazioni di interi villaggi[2].


 

[1] F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., p. 210; M. WALDENBERG, Le questioni nazionali nell’Europa centro-orientale cit., pp. 61-5; G. SCOTTI, Kragujevac: la città fucilata, Milano, Ferro edizioni 1967, pp. 3-12; P. MORAČA, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 517-8.

[2] Ibidem, pp. 536-8. 


Il Banato «tedesco».

 

Nel Banato (regione della Vojvodina che non era stata concessa nel 1941 all’Ungheria per ottenere i servigi dei rivali rumeni) ad occuparsi della persecuzione dei serbi, degli ebrei e degli zingari fu soprattutto la minoranza tedesca locale (Volksdeutsche). Presenti in quell’area dai tempi di Maria Teresa d’Austria, quando fu decisa la colonizzazione delle terre strappate ai Turchi dal comandante principe Eugenio di Savoia, i «tedeschi etnici» convivevano con gli slavi e con i magiari e avevano dal 1920 le loro organizzazioni nazionali (Schwabisch-Deutscher Kulturbund). Quest’ultime subirono nel corso degli anni Trenta la progressiva nazificazione e in esse si fece largo l’idea di annettere il Banato al Reich[1].

Con l’invasione del Regno di Jugoslavia, le formazioni paramilitari locali (le «squadre tedesche») sgominarono l’esercito regio e spartirono i poteri amministrativo e di polizia con la Wehrmacht. La regione rimase sotto il diretto controllo delle truppe di occupazione fino al 14 giugno 1941, quando fu stipulato un accordo tra i rappresentanti dei Volksdeutsche e i membri del governo fantoccio serbo che prevedeva l’incorporamento del Banato nell’amministrazione militare e civile della Serbia. Speciali diritti e un autonoma giurisdizione spettavano alla minoranza tedesca[2].Parallelamente alle misure amministrative di esproprio delle proprietà jugoslave, all’istituzione di tribunali militari, si moltiplicavano le violenze, le condanne a morte e le esecuzioni di militari jugoslavi, serbi, ebrei e zingari. L’uccisione di un soldato tedesco e il ferimento di un altro nell’aprile del 1941 nella città di Pančevo, causò la fucilazione di cento civili. Sempre nella stessa città, numerosi civili furono fucilati e impiccati come ammonimento per la popolazione.

Dall’aprile 1941 all’ottobre 1944 nel Banato si ebbero un numero totale di vittime pari a 7513 (di cui 2211 uccise in loco, 1294 morte nei campi di concentramento in cui furono deportate, 1498 uccise nei campi di lavoro forzato)[3]. Dal marzo 1942 ben 21100 tedeschi etnici del Banato furono reclutati, volontariamente o per coscrizione, nei reparti delle SS. Essi costituirono la famigerata divisione Principe Eugenio che dalla base operativa di Pančevo dilagò in tutto il territorio jugoslavo, abbandonandosi ad efferati crimini contro la popolazione inerme (anche contro centinaia di croati di numerosi villaggi attorno a Spalato) e dando una spietata caccia ai «ribelli» comunisti e ai četniči di Mihajlović[4].

 

La Serbia: tra resistenza e collaborazionismo.

 

L’estrema brutalità nazista nei confronti della Serbia fu evidente sin dalle prime ore dell’invasione del Regno di Jugoslavia il 6 aprile 1941. Gli impressionanti bombardamenti della Luftwaffe sulla città aperta di Belgrado provocarono la morte di 17 mila civili. I militari del regio esercito jugoslavo, composto per il 90% da serbi, furono subito internati nei campi per prigionieri di guerra in Germania[5]. Immediatamente posta sotto la diretta amministrazione militare tedesca, la Serbia fu ridotta territorialmente ai confini precedenti la prima guerra balcanica, divenendo terra di conquista del Reich. Come prospettato alla conferenza di Vienna del 16 aprile 1941, la Serbia e la sua capitale rappresentavano nel Nuovo Ordine europeo un avamposto imbattibile, come lo era stato nei secoli precedenti nelle guerre tra l’impero asburgico e i turchi, per la difesa dell’Europa centrale e di Vienna[6]. Perciò concesso il Kosovo all’Albania (tranne la sua punta settentrionale) e parte della Serbia sudorientale alla Bulgaria, l’amministrazione tedesca, dipendente dal 9 giugno dai comandi militari per il settore sud est nella persona del feldmaresciallo List, fin da subito occupò le ricche miniere del territorio serbo e kosovaro, strategicamente importanti per l’industria bellica tedesca, garantendo la sicurezza e la funzionalità delle vie di comunicazioni lungo il Danubio nonché il più ampio collegamento tra Belgrado e Salonicco, fondamentale per i rifornimenti sul fronte africano[7].

Il quartier generale amministrativo del comandante militare per la Serbia, facente funzioni di governo e guidato dall’alto funzionario nazista H. Turner, da subito introdusse la legislazione antiebraica del Reich e obbligò donne e uomini al servizio del lavoro. Esso in pratica affiancava e controllava le autorità civili serbe collaborazioniste che dal maggio 1941, con la formazione del cosiddetto Consiglio dei commissari presieduto da M. Acimović, erano sì state restaurate ma erano totalmente subordinate agli occupanti. I tedeschi avevano trovato fedeli servitori in ex funzionari del Regno dei Karadjeordjević espressamente filotedeschi e filofascisti nonché in politici dei vecchi partiti borghesi decisamente anticomunisti. Convinti della vittoria delle forze dell’Asse e della definitiva morte della Jugoslavia, questi ultimi decisero di lavorare politicamente in favore dello Stato e del popolo serbo ma in realtà finirono per rendersi complici di gravissimi crimini contro i loro stessi connazionali[8]. Ben presto cominciarono ad affluire in Serbia i profughi e i deportati dalle regioni della smembrata Jugoslavia.

L’inizio della lotta armata popolare convinse i tedeschi della necessità di allargare il consenso politico attorno alle autorità collaborazioniste. Furono intavolate trattative per la formazione di un esecutivo serbo che si conclusero con la nascita il 29 agosto 1941 del cosiddetto «governo di salvezza nazionale», guidato dall’ex ministro della difesa jugoslavo, generale M. Nedić (già destituito nel 1940 per essersi espresso in favore di una più stretta collaborazione con le forze nazifasciste)[9]. Il governo fantoccio fu da subito spalleggiato dalle milizie del partito fascista serbo (ZBOR) di D. Ljotić, già designato dai tedeschi quale capo del governo quisling, di cui però aveva declinato la guida in favore di Nedić. I cosiddetti ljotičevci, al fianco dei reparti di polizia e della Gestapo serba, collaborarono attivamente con le forze d’occupazione germaniche alla repressione e al massacro di comunisti ed ebrei così come alle azioni di rappresaglia contro la popolazione[10]. Il maggiore obiettivo del governo collaborazionista fu sempre quello di annientare tutte le forze della resistenza e di arrestare coloro che si connotavano per le loro idee progressiste e antifasciste[11].

Fin da subito la Serbia dimostrò nei confronti delle forze d’occupazione naziste il suo carattere indomabile: già nel mese di maggio le forze nazionaliste filomonarchiche del generale D. Mihajlović ripararono sulle pendici della Ravna Gora nella Serbia sud-orientale, da dove iniziarono azioni di sabotaggio contro le truppe tedesche. Dalla valle del fiume Toplica nella Serbia meridionale i ben più noti četniči di K. Pečanac, incaricato dal governo monarchico di condurre azioni di guerriglia contro le forze nazionaliste bulgare e albanesi, ingrossavano le loro fila con profughi serbi provenienti dalla Macedonia e dal Kosovo. Contemporaneamente si organizzava e si preparava ad entrare in azione il PCJ gravemente minacciato dalle pesanti retate delle forze di polizia tedesche e collaborazioniste nel mese di giugno.

Nel giorno dell’invasione nazista dell’Unione Sovietica numerosi attentati e sabotaggi furono realizzati a Belgrado dalle organizzazioni giovanili comuniste[12]. Il 7 luglio nel villaggio di Bela Crkva sotto la guida di Z. Jovanović scoppiava la prima grande rivolta della più vasta insurrezione popolare condotta dai partigiani comunisti e dai četniči di Mihajlović: tra luglio e settembre le forze della resistenza riuscirono a liberare gran parte delle località minori e dei villaggi, infliggendo gravi perdite alle truppe tedesche costrette dall’impeto della rivolta a riparare nelle maggiori città. La risposta tedesca fu tremenda e piena di odio razziale: nei bilanci inviati agli alti comandi militari si rendeva conto dell’uccisione di migliaia di comunisti ma in realtà ad essere colpita indiscriminatamente fu l’inerme popolazione civile. Nelle direttive del capo di stato maggiore W. Keitel e del generale plenipotenziario per la Serbia F. Böhme, furono fissate precise quantità di ostaggi da fucilare come rappresaglia: per ogni soldato tedesco o Volksdeutsche ucciso o ferito bisognava uccidere rispettivamente cento e cinquanta ostaggi. I comunisti arrestati dovevano essere impiccati ed esposti pubblicamente come ammonimento per la popolazione. Le località ribelli dovevano essere date alle fiamme; tutta la popolazione maschile avviata nei campi di prigionia e di internamento mentre quella femminile destinata ai campi di lavoro[13]. L’applicazione di tali misure fu rigorosa. Già in aprile l’uccisione di un ufficiale della Wehrmacht aveva portato all’incendio del villaggio di Dobrić. La distruzione di una motocicletta costò la vita di 122 ebrei e comunisti il 29 luglio. Nel periodo tra il 24 settembre e il 9 ottobre 1941 i tedeschi fucilarono nella Mačva 1127 civili, internarono nei campi di concentramento oltre 21 mila persone, saccheggiarono e incendiarono numerosi villaggi. Identica sorte subì la popolazione maschile delle città di Šabac (circa 3 mila morti) e di Belgrado (4750 fucilati al 30 ottobre).

Ma le rappresaglie più spietate le truppe tedesche le commisero nell’ottobre del 1941 nella regione “rossa” della Šumadija: in pochissimi giorni le città e i villaggi di Kraljevo (almeno 2 mila morti), Krupanj, Gornj Milanovac, Mečkovac, Maršić, Lapovo, Grošnica furono saccheggiate e incendiate mentre la popolazione maschile arrestata arbitrariamente per le vie e nelle case fu fucilata. Come ritorsione per gli attacchi partigiani tra Čačak, Valjevo e Gornj Milanovac, che avevano causato la morte di dieci soldati tedeschi e il ferimento di altri 26, il generale Böhme decise una grande azione di rappresaglia: vittima designata fu la città di Kragujevac, già distintasi nei mesi estivi per spettacolari azioni di guerriglia. Tra il 20 e il 21 ottobre 1941 almeno 5 mila persone (ma nelle testimonianze a carico dei responsabili durante il processo di Norimberga si è parlato di 7300 vittime) furono fucilate dalle truppe tedesche, dai collaborazionisti ljotičevci e dai Volksdeutsche. Come descrive lo Scotti nella sua appassionata cronaca della strage, i soldati tedeschi comandati dal maggiore plenipotenziario Köenig e i reparti volontari di M. Petrović, rastrellarono palmo a palmo la città industriale in una grande razzia di uomini (10 mila arrestati). Non furono risparmiati nemmeno 300 studenti delle ultime classi del Ginnasio mentre i fascisti serbi scambiavano con le truppe tedesche propri simpatizzanti arrestati con bambini rom in un macabro baratto di uomini destinati alla morte. Condotti alla periferia della città innocenti, comunisti, ebrei, zingari, studenti, professori, detenuti, sacerdoti, operai, funzionari, ammalati e alcune donne furono fucilati dai plotoni di esecuzione tedeschi. Tra le stesse autorità germaniche si sollevarono dubbi sul reale potere deterrente della strage (esse lavorarono per nascondere la verità dichiarando «l’uccisione matematica di 2300 ribelli»), che al contrario rinfocolò l’odio della popolazione civile che andò ad ingrossare le fila della resistenza[14].

In quel periodo i partigiani comunisti erano riusciti persino a proclamare il primo territorio libero d’Europa, la cosiddetta Repubblica partigiana di Užice, che sopravvisse fino alla fine di novembre, quando fu abbattuta sotto i colpi della prima controffensiva delle forze dell’Asse, che per tutta la sua durata nell’autunno del 1941 causò la morte di oltre 35 mila civili e un numero superiore di internati[15]. Dal mese di giugno le autorità militari tedesche avevano intrapreso la deportazione e l’internamento in massa della popolazione «ribelle» in numerosi campi di concentramento sul territorio serbo come quelli di Niš, Smederevska Palanka, Šabac, Čačak, Stari Trg, Kruševac, Zasavica, Pančevo, Sajmište, Banjica, nonché nei campi di sterminio in Germania. Centinaia di migliaia di serbi, ebrei, zingari (bambini compresi) furono massacrati al loro interno. Il genocidio ebraico era cominciato nel Banato nel settembre del 1941 (Jabuka) ed era proseguito con l’internamento degli ebrei di Belgrado e del resto della Serbia. Il 29 agosto 1942 i tedeschi affermavano con soddisfazione che «la questione ebraica in Serbia è stata completamente risolta» (non erano stati risparmiati nemmeno 800 ammalati che nel marzo 1942 furono eliminati con i gas)[16]. Più di 15 mila ebrei della Serbia, del Banato e del Sangiaccato furono soppressi.

La comparsa della resistenza comunista e il mancato accordo con i distaccamenti di Mihajlović avevano spinto i četniči di Pečanac a cercare un accordo con le autorità tedesche e serbe. I cosiddetti «četniči legali» con i loro metodi brutali divennero allora strumento nelle mani del regime d’occupazione per stroncare i comunisti; essi stabilirono contatti con l’esercito italiano di stanza in Albania per azioni antipartigiane nel Sangiaccato[17]. Intanto partigiani di Tito e  monarchici di Mihajlović cercavano vanamente di giungere ad accordi di cooperazione ma le differenti strategie di guerriglia, la distanza ideologica, gli opposti obiettivi di guerra, la pretesa di mostrarsi agli occhi degli Alleati come unici rappresentanti della resistenza si dimostrarono elementi di contrasto troppo forti[18].

In seguito all’offensiva nazista dell’autunno 1941, alcune migliaia di četniči di Mihajlović cercarono e trovarono riparo presso il governo di Nedić, con il quale raggiunsero accordi di cooperazione che consentirono loro di guadagnare il controllo delle campagne. Dal novembre 1941 cominciarono a verificarsi in Serbia scontri armati tra i comunisti e le forze nazionaliste serbe che avrebbero caratterizzato sempre più i successivi anni di guerra: una guerra civile che faceva il gioco degli occupanti[19]. Nel frattempo i «četniči legali» furono sempre più implicati nelle delazioni, negli omicidi e negli arresti di comunisti, ebrei e di tutti coloro che si opponevano alle autorità militari germaniche; il loro programma politico era tutto proteso verso la costruzione della «Grande Serbia»[20]. Così sul finire del 1941, mentre il grosso delle forze partigiane erano costrette a rifugiarsi nella Bosnia sud-orientale per non far più ritorno sul territorio serbo (almeno fino all’avanzata dell’Armata Rossa nell’autunno del 1944), la Serbia era stata sostanzialmente normalizzata. L’apporto della popolazione serba alla guerra di liberazione negli anni a seguire fu decisamente scarso rispetto a quel mitico 1941[21].

Nel marzo del 1943 i tedeschi decisero di sbarazzarsi degli inaffidabili ed inefficienti «četniči legali»; lo stesso Pečanac internato dalle autorità serbe concluse la sua avventura nel giugno del 1944 quando fu fucilato dai četniči di Mihajlović. Quest’ultimi dopo aver stretto un disperato accordo con Nedić, oramai braccati dall’avanzata dell’Armata Rossa e dell’Esercito di liberazione jugoslavo, negli ultimi mesi di guerra intavolarono trattative con gli accaniti nemici dei serbi, gli ustaša croati, per aprirsi un varco che dalla Bosnia nord-orientale permettesse loro di riparare nella Venezia Giulia (nel mese di maggio 1945 essi sono fatti prigionieri a Gorizia) e verso il confine austro-sloveno. Qui nel maggio del 1945, inseguiti dalle truppe di Tito, subirono assieme a migliaia di ustaša,domobranci sloveni e croati, anticomunisti, la vendetta e la radicale epurazione degli oppositori del nuovo regime comunista. Il loro capo, Mihajlović, era stato già catturato a marzo presso Višegrad e riportato a Belgrado dove nel corso del 1945 fu processato e condannato a morte[22].

  

[1] S. SRETENOVIĆ, S. PRAUSER, The “expulsion” of the German speaking minority from Yugoslavia cit., p. 50.

[2] F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., pp. 224-26.

[3] http://en.wikipedia.org/wiki/Crimes_of_the_occupiers_in_Vojvodina,_1941-1944.

[4] C. K. SAVICH, Genocide in Vojvodina and Greater Hungary, 1941-44, in www.serbianna.com/columns/savich/058; S. SRETENOVIĆ, S. PRAUSER, The “expulsion” of the German speaking minority from Yugoslavia cit., pp. 53-4.

[5] G. SCOTTI, “Bono taliano” cit., pp. 21-3; F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., p. 199.

[6] F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., p. 211.

[7] N. MALCOLM, Storia del Kosovo cit., pp. 326-8.

[8] F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., pp. 210-15.

[9] R.W. SETON-WATSON, R.G.D. LAFFLAN, La Jugoslavia tra le due guerre cit., p. 226.

[10] G. SCOTTI, Kragujevac cit., pp. 74-5, 93-4.

[11] http://en.wikipedia.org/wiki/Nedić’s_Serbia.

[12] S. CLISSOLD, L’occupazione e la resistenza cit., pp. 236-241; G. SCOTTI, Kragujevac cit., pp. 16-7;  www.vojska.net/eng/worldwar2/serbia/chetniks/pecanac.

[13] P. MORAČA, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 531-8; G. SCOTTI, Kragujevac cit., pp. 18-32.

[14] G. SCOTTI, Kragujevac cit., pp. 92-212; P. MORAČA, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 531-35, 550-2.

[15] G. SCOTTI, “Bono taliano” cit., pp. 41-2, 57-8; Id.Kragujevac cit., p. 38. 

[16] J. ROMANO, Jews of Jugoslavia 1941- 1945 cit. 

[17] www.vojska.net/eng/world-war-2/serbia/chetniks/pecanac; N. MALCOLM, Storia del Kosovo cit., p. 335.

[18] S. CLISSOLD, L’occupazione e la resistenza cit., pp. 241-3.

[19] N. MALCOLM, Storia del Kosovo cit., pp. 335-6.

[20] Ibidem, p. 335; www.vojska.net/eng/world-war-2/serbia/chetniks/pecanac; P. MORAČA, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 547-8.

[21] J. PIRJEVEC, Le guerre jugoslave cit., p. 19.

[22] S. CLISSOLD, L’occupazione e la resistenza cit., pp. 257-60; http://en.wikipedia.org/wiki/Bleiburg_massacre.



=== 3 ===

https://www.cnj.it/CULTURA/krvavabajka.htm#pitamiz

Il seguente articolo e' tratto da "Storia Illustrata" del gennaio 1979

STERMINIO NAZISTA IN SERBIA

In un solo giorno 7300 morti nella città martire. È l'autunno del 1941. Pochi mesi dopo la dissoluzione del regno di Jugoslavia, la penisola balcanica è insorta contro l'occupante nazifascista. Alla rivolta partigiana i tedeschi rispondono facendo strage della popolazione civile.

   di ANTONIO PITAMITZ


Il 20 ottobre 1941, sei mesi dopo l'invasione tedesca della Jugoslavia, nei due Ginnasi di Kragujevac (leggi Kragujevaz), la città serba posta nel centro della regione della Šumadija, le lezioni iniziano alle 8.30, come di consueto. Sono in programma quel giorno la sintassi della lingua serbocroata, matematica, la poesia di Goethe, la fisica. In una classe, un professore croato, un profugo fuggito dal regime fascista instaurato in Croazia da Ante Pavelic, sottolinea il valore della libertà. Poco lontano, un altro spiega l'opera di un poeta serbo del romanticismo risorgimentale. La mente rivolta alle secolari lotte sostenute dai serbi per la loro indipendenza e a quella presente che cresce irresistibilmente, anch'egli parla di libertà. La voce calma e profonda che illustra i versi del poeta: "La libertà è un nettare che inebria / Io la bevvi perché avevo sete", ne nasconde a fatica la tensione, che aleggia anche nell'aula, che grava su tutti, sulla cittadina, sui suoi abitanti, e che l'eco strozzata di fucilerie lontane da alcuni giorni alimenta.

Dal 13 ottobre 1941 Kragujevac e la sua regione sono teatro di una vasta azione di rappresaglia, che i tedeschi stanno conducendo con spietata decisione contemporaneamente anche nel resto della Serbia. La ferocia di cui essi in quei giorni danno prova ha una ragione specifica contingente. La rapida vittoria dell'Asse ha dissolto uno Stato, il regno dei Karadjordjevic, ma non ha prostrato i popoli della Jugoslavia. L'illusione tedesca di una comoda permanenza in quella terra è stata presto delusa. Sin dai primi giorni dell'occupazione, i tedeschi hanno avuto filo da torcere. La guerra, che anche in Šumadija i resistenti fanno, è senza quartiere. Sabotaggi sensazionali e diversioni in grande stile si registrano sin dal mese di maggio. Linee telefoniche e telegrafiche vengono tagliate, ponti e strade ferrate saltano. Il movimento di resistenza cresce così rapidamente, ben presto è così ampio che i tedeschi e le truppe collaborazioniste del quisling serbo Milan Nedic abbandonano il presidio dei villaggi. Gli invasori si sentono troppo esposti, isolati, preferiscono arroccarsi in città. La lotta contro i patrioti la organizzano dai centri urbani, e la conducono secondo il metro nazista che misura in tutti gli slavi una razza inferiore, da sterminare. La traduzione pratica di questo principio è all'altezza della fama che si guadagnano. A Belgrado, una moto incendiata della Wehrmacht vale la vita di 122 serbi. Solo nella capitale, in sette mesi fucilano 4700 ostaggi.

Incredibilmente, gli hitleriani ritengono di poter coprire con la propaganda questo pugno di ferro che calano sul paese. Le argomentazioni che diffondono sono quelle care alla "dottrina" nazifascista dell'Ordine Nuovo Europeo. Ai contadini serbi dicono di averli salvati dagli ebrei e dai capitalisti, e promettono anche di salvarli dal bolscevismo semita, che sta per essere sicuramente sconfitto sul fronte orientale.

L'itinerario di questa vittoria, a Kragujevac può essere seguito sulla grande carta geografica che campeggia nel centro della città. Una croce uncinata segna la progressione delle forze dell'Asse in direzione di Mosca. Però, come altrove, nemmeno a Kragujevac terrore, repressione, lusinghe, denaro fatto circolare per corrompere, valgono a indebolire il sostegno alla lotta partigiana, a ridurne il seguito. A dare contorni netti alla situazione, le risposte alla propaganda tedesca non mancano. La carta geografica dell'Asse viene bruciata in pieno giorno. Il fuoco divora anche una delle fabbriche militari della città. Un treno di quaranta vagoni viene distrutto sulla linea Kragujevac-Kraljevo, provocando la morte di cinquanta tedeschi. Da vincitori e occupanti, i tedeschi si trovano nella condizione di assediati.

È Kragujevac, città da sempre ribelle, che prende il suo nome da kraguj, dal rapace grifone che popolava i sui boschi, che alimenta la Resistenza della zona. È questa città di antiche tradizioni nazionali e socialiste che guida la lotta della Šumadija, il cuore della Serbia. Gli operai comunisti che costituiscono il nerbo delle formazioni partigiane vengono dal suo arsenale militare. Dalle sue case dai cento nascondigli, che hanno già ingannato turchi e austroungarici, escono le armi, le munizioni, il materiale sanitario, i libri che donne, bambini e ragazzi portano quotidianamente ai combattenti del bosco. 
   
Per contenere la sua iniziativa, per fronteggiare questa lotta di bande, che è lotta di popolo e che sconvolge gli schemi bellici dei signori nazisti della guerra, già alla fine dell'agosto 1941 Kragujevac conta la guarnigione tedesca più forte di tutta la Serbia centrale. Ma i due battaglioni e i mezzi corazzati di cui i tedeschi dispongono non sono sufficienti ad arrestare lo slancio delle tre compagnie partigiane che operano fuori della città. Né tantomeno la Gestapo è in grado di bloccare i gruppi clandestini che si annidano dentro. La loro azione anzi si fa sempre più audace, punta sul risultato militare, ma ricerca anche l'effetto psicologico. Per i partigiani, importante è non soltanto colpire il nemico, ma aiutare anche i serbi oppressi a sperare, a vivere. Una notte d'agosto, cento metri di ferrovia vengono fatti saltare in città, proprio sotto il naso dei tedeschi.

È una sfida, che ha sapore di beffa. In questa situazione, la rabbia e il desiderio di vendetta dei tedeschi crescono quotidianamente. Quando nel settembre 1941, la ribellione guadagna tutta la Serbia, e conseguentemente mette radici ancora più profonde in Šumadija, il generale Boehme, comandante delle forze tedesche nel Paese, considera che la misura è colma. Il prestigio dei suoi soldati deve essere risollevato, una dura lezione deve essere somministrata ai serbi. Una spietata repressione, da condurre senza esitazione, è decisa. A rendere più chiara la direttiva che passa ai subalterni, e che precisa la "filosofia" del comando tedesco, Boehme ricorda che "una vita umana non vale nulla", e che perciò per intimidire bisogna ricorrere a una "crudeltà senza eguali". A metà settembre i tedeschi passano all'azione. La macchina si mette in moto.

Per un mese la Serbia centrale è trasformata in un campo di sterminio. 
A decine villaggi grandi e piccoli sono bruciati, spesso, come a Novo Mesto o a Debrc, con dentro gli abitanti. I serbi muoiono a migliaia, uccisi, massacrati. A Šabac, il 26 settembre, sono 3000 gli uomini dai 14 ai 70 anni che rimangono vittime della razzia tedesca. Cinquecento muoiono durante una marcia fatta fare al passo di corsa per 46 chilometri. Gli altri sono fucilati. Una sorte analoga hanno, il 10 ottobre, a Valjevo, 2200 ostaggi: finiscono al muro. "Pagano" 10 tedeschi uccisi e 24 feriti. Cinque giorni dopo, il 15, è "sentenziata" la punizione di Kraljevo, un'altra città che resiste. I plotoni di esecuzione lavorano per cinque giorni, le vittime sono 5000. Sembra impossibile immaginare una strage ancora più grande. Eppure, l'allucinante escalation non ha toccato la sua punta di massimo orrore. 
Lo farà a Kragujevac, e nel suo circondario. La "spedizione punitiva" comincia il 13 ottobre. Quel giorno, nel quartiere operaio di Kragujevac, i tedeschi prendono 30 uomini. Per 3 giorni se li trascinano dietro nella puntata che fanno contro il paese vicino, Gornji Milanovac. Affamati, percossi, costretti a rimuovere tronchi d'albero e a tirare fuori dal fango carri armati, adoperati come scudo contro i partigiani, sono testimoni della sorte del piccolo paese di pastori. Vivono un'agonia che ha fine solo con il grande massacro, nel quale scompaiono anche i 132 ostaggi di Gornji Milanovac. In quanto al paese, anche questo viene bruciato. I tedeschi saldano così un vecchio conto che avevano in sospeso. Anche per questa impresa però devono pagare uno scotto. Trentasei uomini vengono messi fuori combattimento dai partigiani, che attaccano senza sosta.

Di fronte a questo "smacco" la logica tedesca della ritorsione non tarda a scattare. Sarà Kragujevac a pagare, con la vita di 100 cittadini ogni tedesco morto, e con quella di 50 ogni tedesco ferito. Duemilatrecento persone sono condannate a morte.

La rappresaglia punta per primo sui "nemici storici" del Reich: comunisti e ebrei. Gli ebrei maschi, e un certo numero di comunisti, 66 persone in tutto, vengono arrestati sulla base delle liste che i collaborazionisti forniscono. Ma questo non basta. Il giorno successivo, il 19 ottobre, una massiccia operazione ha luogo nell'immediata periferia della città. Tre paesi, posti nel giro di tre chilometri, sono travolti della furia tedesca. Grošnica, Meckovac, Maršic bruciano, 423 uomini muoiono. A Meckovac, donne e bambini sono costretti ad assistere all'esecuzione. Lo stesso macabro rituale è imposto a Grošnica, dove si distinguono i Volontari Anticomunisti di Dimitrjie Ljotic. Il paese quel giorno celebra la festa del patrono. I fascisti serbi strappano il pope dall'altare con il vangelo ancora in mano, i fedeli vanno a morire stringendo i pani benedetti della comunione ortodossa. Vengono falciati tutti lì vicino, con le mitragliatrici. Così, intorno a Kragujevac si è fatto un cerchio di morte. La prova generale è compiuta. Ora si passa al "grande massacro".

L'azione inizia la mattina del 20 ottobre. Alle prime luci dell'alba, gli accessi a Kragujevac vengono bloccati. Mitragliatrici sono postate nei punti nevralgici. Nessuno può più uscire dalla città, nessuno può più entrarvi. Chi, ignorando il dispositivo, si avvicina, viene ucciso. È quanto accade a uno zingaro, che arriva dalla campagna, a un vecchio che in città muove verso il mercato. Agli ordini del maggiore Koenig, tedeschi e collaborazionisti aprono la caccia all'uomo. Nessuno sfugge, nessuno è "dimenticato". Il gruppo di operai che lavora tranquillamente a un torrente, i tre popi di una chiesa, che sperano di trovare la salvezza dietro le icone. I razziatori entrano a stanare ovunque. Gli impiegati sono portati fuori dal municipio; giudici, scrivani, pubblico, dal tribunale. Dalle abitazioni vengono tratti anche gli ammalati. Un barbiere è prelevato dal negozio insieme al suo cliente, che con altri disgraziati marcia verso il suo destino, una guancia insaponata, l'altra no.

Alle dieci i tedeschi irrompono anche nei due ginnasi. L'apparizione di quelle uniformi verdi armate di fucili e parabellum, infrange la normalità forzata che da tre giorni nelle due scuole vige. Il barone Bischofhausen, il comandante tedesco della piazza, il 17 ha minacciato presidi, professori e genitori di severe sanzioni se i ragazzi non frequentavano la scuola. Lo ha fatto ripetere anche per le vie della città, a suon di tamburo, dal banditore pubblico. Li vuole tutti in aula, sempre. L'ufficiale tedesco, che da civile è insegnante, combatte l'assenteismo degli studenti non certo perché mosso da passione pedagogica. Chiedendo che proprio per quel giorno 20 tutti siano presenti, egli fa apparire di voler esercitare un controllo; che però si trasforma in una trappola. In realtà, egli non dimentica che i ginnasiali di Kragujevac hanno manifestato sin dai primi giorni la più violenta opposizione all'occupante. Un giovane è finito impiccato dopo uno scontro con la polizia. Il barone sa pure che anche in quelle aule la Resistenza attinge, per alimentare i suoi "gruppi d'azione", i suoi propagandisti e sabotatori.

L'ispezione annunciata per quel giorno è arrivata. I registri chiesti dal barone sono pronti. Arrivando quella mattina a scuola, i ragazzi hanno cancellato i loro nomi dall'elenco. Precauzione inutile. Non c'è appello. I tedeschi entrano direttamente nelle aule, e rastrellano. Hinaus, fuori tutti quelli dai 16 anni in su. Anche il ragazzo invalido che si trascina con la stampella, per il quale invano una professoressa intercede. Anche la classe che il professore di tedesco tenta di salvare. Ai soldati che si affacciano, il professore dice, per rabbonirli, che stanno facendo lezione di tedesco. Mente. E mente una seconda volta quando gli chiedono quanti anni hanno i suoi ragazzi. Quindici dice. I tedeschi, convinti, fanno per andarsene. Ma in quel momento un alunno si alza dall'ultimo banco. È lo spilungone della classe. I tedeschi, dalla soglia si girano, capiscono, e sbattono fuori tutti.

I ginnasiali raggiungono le file dei razziati, i professori in testa. Con loro, ci sono anche Mile Novakovic, insegnante di chimica, celibe, e Djordje Stefanov, di letteratura croata, anche lui rifugiato in Serbia con la moglie e le due figlie per sfuggire ai fascisti della Croazia. Quel giorno i due professori non hanno lezione. Ma quando hanno visto che in città i tedeschi rastrellavano, certi che la scuola non sarebbe stata risparmiata, sono venuti lo stesso, per essere insieme ai loro ragazzi. Li vogliono seguire fino in fondo. Andranno insieme a loro alla fucilazione. Del corpo insegnante, solo le donne non sono razziate. Dalle finestre della scuola vedono sfilare i professori e gli alunni, e "cento berretti levarsi in segno di saluto". I ragazzi credono ancora che torneranno.

Pochi sono i fortunati che riescono a filtrare tra le maglie di quella immensa rete gettata sulla città. Chi vi riesce, va a unirsi ai partigiani. Avrà sicuramente qualcuno da vendicare. Gli altri, a migliaia, ingrossano le colonne che tutto il giorno scorrono per Kragujevac dirette ai luoghi di raccolta. I razziati sono quasi 10.000, su meno di 30.000 abitanti che conta la città. I tedeschi non hanno tralasciato nemmeno il carcere. Ultimi ad arrivare, quei detenuti sono, con comunisti ed ebrei, i primi ad essere fucilati.

Dai luoghi dove sono concentrati in attesa di conoscere la loro sorte, la sera di quel 20 ottobre i prigionieri sentono le prime scariche di fucileria. È l'avvio della grande carneficina. Contando sulla sorpresa, e sulla iniziale "distrazione" dei fucilatori, alcuni dei condannati riescono a salvarsi. Qualcuno fugge appena messo in riga. Altri, come Zivotjin Jovanovic, alla scarica si getta a terra anche se non è colpito, poi balza e corre. Viene ricatturato a un posto di blocco. Tenta di nuovo la fuga, e il suo guardiano gli spara a bruciapelo. Gli sfiora l'inguine. Poi dopo avergli dato il colpo di grazia nella spalla invece che in testa, lo lascia a terra credendolo morto. L'uomo striscia tutta la notte a palmo a palmo finché arriva alla casa di un amico. È soccorso, si crede in salvo. Arrivano i fascisti serbi, che lo riprendono. Dopo averlo picchiato decidono che, essendo ormai in fin di vita, tanto vale lasciarlo morire. Ma l'uomo non muore.

Altri ancora devono la vita alla fortuna, alla professione, al sangue freddo che riescono ad avere anche in un tale frangente. A mano a mano che inquadrano i gruppi per condurli alla fucilazione, i tedeschi fanno la selezione. Alcuni criteri non sono molto chiari. Risparmiano, per esempio, gli elettricisti, gli idraulici, i panettieri. Altri lo sono di più. Ai loro collaboratori fascisti concedono di tirare fuori i loro amici e parenti. In questo mercato i fascisti serbi sono generosi. Arrivano a offrire dei ragazzi di 10/12 anni in cambio dei loro protetti. Viene risparmiato anche chi è cittadino di un paese alleato dell'Asse. O che lo faccia credere. Escono romeni, ungheresi. Un dalmata si dichiara italiano. Forse lo è davvero, forse è solo un croato acculturato italiano, bilingue. Ma riesce a salvarsi, e a salvare il ragazzo che gli è accanto, affermando alla guardia, con la sua "autorità" di "alleato", che non ha ancora 16 anni. Un serbo, invece, mostra un certificato bulgaro qualunque, rilasciato dalle truppe di Sofia che occupano il suo Paese di origine, e viene messo da parte.

Non fa nulla invece per salvarsi Jovan Kalafatic, professore, insegnante di religione, che invece potrebbe. Tutti sanno che è un fascista convinto. A scuola sospettano anche che sia un delatore, che alcuni professori progressisti siano finiti in galera per opera sua. Basterebbe che dica chi è. Kalafatic invece tace. Tace anche quando passano i fascisti serbi per la "loro" selezione. Forse, nelle lunghe ore della tragedia passate con il suo popolo, deve aver capito la vera natura dell'Ordine Nuovo nel quale crede. Va, volontariamente, alla fucilazione con gli altri. Vanno volontari anche due vecchi genitori che non vogliono abbandonare i figli. Alla fucilazione vanno, divisi in due gruppi, anche i 300 studenti ginnasiali e i loro professori. Alla testa di un gruppo vi è il preside del ginnasio. L'altro gruppo marcia verso la morte in fila indiana, le mani sulle spalle, come dovessero danzare il kolo, la danza nazionale serba. Poi, cantano. Intonano "Hej Slaveni!", l'inno antico e comune a tutti gli slavi. Cadono cantando.

Il massacro dura a lungo. Su un fronte di morte lungo oltre dieci chilometri, fuori della città le armi crepitano fino alle 14 del giorno 21 ottobre. Settemilatrecento uomini di Kragujevac dai 16 ai 60 anni cadono divisi in 33 gruppi. Dovevano essere 2300. I tedeschi hanno più che triplicato il "coefficiente dichiarato" di rappresaglia. I graziati sono circa 3000. Molti di questi sopravvissuti rientreranno a piangere un morto. Kragujevac onora la memoria dei suoi fucilati il sabato successivo al massacro. Il rito ortodosso per il quale il sabato è il giorno dei morti, vuole anche che per ogni morto sia accesa una candela gialla e per ogni candela, cui si accompagna un pane che è da benedire con il vino santo, il pope reciti la parola dei defunti. I sacerdoti rimasti a Kragujevac sono solo due. Altri sette sono stati fucilati. Ma il rito deve essere compiuto. Mentre le donne piantano le candele, presentano i pani, gridano il nome del defunto, i due preti cantano l'antica preghiera della liturgia veteroslava. Dandosi il cambio pregano per ventiquattro ore, dalle sette alle sette.

Inutilmente i nazisti tentano poi di nascondere la verità sulla strage, alterando registri, imbrogliando le cifre, esumando e cremando cadaveri. Kragujevac ha fatto il "suo" appello. È la prova che Zivotjin Jovanovic, l'uomo sopravvissuto tre volte, porta ai giudici di Norimberga: "...Quell'ottobre del 1941 a Kragujevac furono esposte più di settemila bandiere nere... nella chiesa vennero presentati e benedet

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(for technical reasons, the post resulted as truncated to several readers: therefore we copy the second part below again, apologizing to all those who received it in full already / per ragioni tecniche il messaggio è arrivato incompleto a molti nostri lettori: perciò riportiamo nuovamente di seguito la seconda parte, scusandoci con chi l'ha già ricevuta correttamente)


(english / francais / italiano)

(2/2) La NATO devasta Sirte per instaurare il suo regime coloniale razzista

0) LINKS
1) LA NATO DEVASTA LA CITTA' DI SIRTE:
- Links
- Libyan patriots resist NATO-led forces in Sirte
- Syrte, ville martyre de l'OTAN
- Libia, scontri a Tripoli e Sirte resiste
2) Incendi, terrore, caccia all' uomo. La città dei neri non esiste più
A Tawargha, in Libia, pulizia etnica. Un insorto: «Uccidere i nemici negri che stavano con il Raìs è giusto» (L. Cremonesi, CdS)
3) Guerre benedette (M. Dinucci)
4) Italia: aggressore della Libia (D. A. Bertozzi)
5) Timisoara bis : le faux charnier d’Abu Salim / Timisoara 2: Faking the mass grave at Abu Salim
6) Jalil, "meglio il colonialismo di Gheddafi":
- La riabilitazione del colonialismo come "nuova via democratica"
- COM'ERA BELLO IL COLONIALISMO
- Intervista a Del Boca
- Amnesty denuncia gli abusi degli insorti
- Libia. Truppe speciali italiane combattono insieme al Cnt

(...)

=== 4 ===


Italia: aggressore della Libia


di Diego Angelo Bertozzi

L'operazione neocoloniale in Libia ha visto, e vede tutt'ora, l'Italia impegnata in prima persona. Un impegno, iniziato in sordina tra le divisioni interne al governo - dove si imposta alla fine la fazione accesamente atlantista dei ministri della difesa La Russa e degli esteri Frattini - che si rivelato poi indispensabile. Senza la "portaerei" Italia, infatti, nessun serio intervento in Libia sarebbe stato possibile al di là del furore interventista di Parigi, Londra e Washington.

Nel panorama della stampa italiana soprattutto nei suoi quotidiani di punta - alla mascheratura ideologica umanitaria della spedizione punitiva - condivisa da tutto lo schieramento parlamentare e da alcuni ambienti della sinistra radicale - a sostegno dei sedicenti combattenti per la libertà si è unita una coltre di fumo sul reale impegno militare dell'aeronautica e della marina nostrane, preferendo presentare la nostra partecipazione come sostanzialmente logistica. Insomma, ci siamo ma le nostre mani non si sono macchiate di sangue.

Nulla di sorprendente, ovviamente: non si tratta di una guerra di aggressione, ma del semplice sostegno alle aspirazione democratiche delle masse di Bengasi, uniche vittime della violenza cieca di Gheddafi, il famelico dittatore di turno. Nulla di nuovo, ripetiamo: siamo in piena riproposizione dei topoi della tradizione coloniale europea, prima, statunitense poi, per i quali le superiori civiltà democratiche non commettono mai violenza. Un dogma secondo il quale la violenza, stupri di massa e fosse comuni artatamente dati in pasto al pubblico sono sempre prerogativa dei barbari di turno che osano resistere. La veridicità delle informazioni un dettaglio secondario.

Torna in mente quanto scritto da Marx nel lontano 1857 a proposito della accanita e per forza di cose violente resistenza del popolo cinese durante la seconda Guerra dell'oppio, subito battezzata come barbara dai civili aggressori occidentali: A questa gigantesca rivolta contro lo straniero ha portato la brigantesca politica del governo di Londra, che le ha imposto il suggello di una Guerra di sterminio. [...] I trafficanti di civiltà che sparano palle infuocate contro città indifese, e aggiungono lo stupro all'assassinio, chiamino pure barbari, atroci, codardi, questi metodi; ma che importa ai cinesi se sono gli unici efficaci. [...] Se i rapimenti, le sorprese, i massacri notturni vanno qualificati di codardia, i trafficanti di civiltà non dimentichino che, come essi stessi hanno dimostrato, i cinesi non sarebbero mai in grado di resistere, coi mezzi normali della loro condotta di Guerra, ai mezzi di distruzione europea1.

Chiusa la breve parentesi soffermiamoci ai dati riportati dal Sole24 Ore (4 ottobre 2011, pag. 15). Veniamo a sapere che l'80% dei raid sulla Libia sono partiti dalla basi italiane messe a disposizione della Nato (Amendola, Aviano, Decimomannu, Sigonella, Trapani, Gioia del Colle e Pantelleria) e che gli aerei italiani hanno svolto un ruolo fondamentale con un numero di missioni che la scorsa settimana - a Libia liberata come ci raccontano - aveva superato quota 2000 (con oltre 7mila ore di volo) a cui aggiungere le quasi 400 compiute dagli elicotteri imbarcati dalla Marina. Negli ultimi giorni l'impegno italiano si è concentrato sulle cosiddette roccaforti lealiste - anche se da più parti si segnala che la resistenza libica è in grado di fare incursioni anche a Tripoli o nel centro petrolifero di Ras Lanuf2- come a Sirte e Bani Walid3.

Continuiamo: i velivoli italiani hanno individuato 1.500 obiettivi, attaccandone oltre 500 con circa 850 bombe a guida laser e satellitare. Di queste circa 160 sono state lanciate in 170 missioni dagli Harrier della Marina, le altre da Amx e Tornado dell'aeronautica che hanno impiegato oltre due dozzine di missili da crociera Storm Shadow. Arriviamo, infine ad una parte dei costi sostenuti in piena emergenza economica con conseguente richiesta di sacrifici (non per tutti): Tenuto conto di un costo medio di 40 mila euro per ogni bomba guidata e un milione per ogni Storm Shadow, nel conflitto gli italiani hanno impiegato finora ordigni per un valore circa di 60 milioni.

Tanto impegno per salvaguardare gli interessi nazionali, quindi? Tutt'altro se ascoltiamo l'allarme lanciato in questi giorni da Alfredo Cesari (presidente della camera di commercio Italafrica centrale): Dei passati rapporti imprenditoriali e industriali con la Libia resteranno gran parte di quelli con l'Eni e di qualche altra big. Ma centinaia di altri contratti saranno carta straccia”4. Alla faccia delle dichiarazioni del falco atlantico Frattini, gli imprenditori italiani si sono visti lasciati soli fin dalla prima ora, hanno perso investimenti e insediamenti realizzati in Libia, escono da questa guerra altamente danneggiati e, oggi, appaiono indisposti a ricominciare in condizione di oggettivo svantaggio rispetto ad omologhe imprese francesi, inglesi o turche a cui, invece, i rispettivi governi hanno saputo sapientemente e certosinamente spianare la strada”. A questo aggiungiamo la minaccia del CNT di rivedere nell'interesse della nuova Libia”5 i contratti firmati da Gheddafi.

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La NATO devasta Sirte per instaurare il suo regime coloniale razzista

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A Tawargha, in Libia, pulizia etnica. Un insorto: «Uccidere i nemici negri che stavano con il Raìs è giusto» (L. Cremonesi, CdS)
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6) Jalil, "meglio il colonialismo di Gheddafi":
- La riabilitazione del colonialismo come "nuova via democratica"
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THE HUMANITARIAN WAR / LA GUERRE HUMANITAIRE

Documentary film exposing how "human rights" NGOs brought about UN-backed NATO war on Libya with NO PROOF of alleged crimes
by Julien Teil

http://www.laguerrehumanitaire.fr/english

L'interview qui prouve définitivement qu'il n'y avait aucune preuve des soi disant crimes de Kadhafi
par Julien Teil

http://www.laguerrehumanitaire.fr

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Libya SOS News

http://libyasos.blogspot.com/p/news.html

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LIBIA il sangue e il petrolio - video di sintesi della conferenza

Sintesi dell'iniziativa "LIBIA il sangue e il petrolio. A cent'anni dall'aggressione italiana in Africa una nuova guerra imperialista", tenutasi il lunedì 19 settembre, alla Casa delle Culture - Roma: i contributi di Paola Pellegrini, Maurizio Musolino, Giampaolo Calchi Novati, Manlio Dinucci, Marinella Correggia e Domenico Losurdo.
Registrazione integrale degli interventi su www.marx21.it

http://www.youtube.com/watch?v=r1Ad8PamDsI

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Articoli / articles by Mahdi Darius Nazemroaya

La Libia e la grande menzogna 

http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/120-la-libia-e-la-grande-menzogna.html
 
Israel and Libya: Preparing Africa for the “Clash of Civilizations”
Introduction by Cynthia McKinney

http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=27029

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I neri dell'Africa contro l'ingerenza colonialista in Libia

Il Parlamento dell'Unione Africana: “I libici devono decidere il loro futuro”
Nota di Marx21.it

http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/151-il-parlamento-dellunione-africana-i-libici-devono-decidere-il-loro-futuro.html

Importantes manifestations en faveur de la Grande Jamahariya arabe libyenne et de son guide Mouammar Kadhafi ont eu lieu au Mali, vendredi 14 octobre 2011.
(Africa Support for Gaddafi & The Green Libya / Manifestazioni in Mali in solidarietà alla Libia di Gheddafi)

http://www.voltairenet.org/Mali-manifestations-de-masse-pro
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=fPgYWfbPOfM

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Libia en imágenes: “Sobreviviré a mis verdugos” (+ Video)

(Libia in immagini: “Sopravvivrò ai miei carnefici”
L’Unione dei Giornalisti di Cuba (UPEC) ha inaugurato questo venerdì la mostra “Sopravvivrò ai miei carnefici”, trenta foto scattate dal giornalista cubano Rolando Segura durante la sua missione come corrispondente di TeleSur in Libia...
http://www.resistenze.org/sito/te/po/lb/polbbl10-009711.htm )

http://www.cubadebate.cu/fotorreportajes/2011/10/09/libia-en-imagenes-sobrevivire-a-mis-verdugos/

Filmato realizzato da Rolando Segura, corrispondente di Telesur in Libia, presentato nella sede dell'Unione dei Giornalisti di Cuba il 7 ottobre 2011
 
http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/128-libia-documentario-di-rolando-segura.html

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Intervista di TVarrai a Ibrahim Moussa, portavoce ufficiale del governo libico (1/10/2011)

http://www.resistenze.org/sito/te/po/lb/polbbl04-009689.htm
 
VIDEO: http://www.youtube.com/watch?v=5Fb0ziJMs-s
 
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Non finanziate la prosecuzione della guerra in Libia

di Vincenzo Brandi - Intervento per l'assemblea del 1° ottobre "Dobbiamo Fermarli"  all'Ambra Jovinelli

http://www.disarmiamoli.org/index.php?option=com_content&task=view&id=862&Itemid=27

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Contre la banalisation et la normalisation de l’ingérence

Controverse sur la Libye : Pierre Lévy contre Ignacio Ramonet (23 septembre 2011)

http://www.medelu.org/Contre-la-banalisation-et-la#nb5


=== 1 ===

LA NATO DEVASTA LA CITTA' DI SIRTE

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LINKS:

The slaughter in Sirte
Patrick O’Connor, WSWS, 3 October 2011

http://www.wsws.org/articles/2011/oct2011/pers-o03.shtml

NATO assault on Sirte inflicts more Libyan civilian casualties
Patrick O’Connor, WSWS, 4 October 2011

http://www.wsws.org/articles/2011/oct2011/liby-o04.shtml

Sirte destroyed by NTC-NATO offensive in Libya
Chris Marsden, WSWS, 18 October 2011

http://www.wsws.org/articles/2011/oct2011/liby-o18.shtml

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http://www.workers.org/2011/world/libya_1020/

Libyan patriots resist NATO-led forces in Sirte


By Abayomi Azikiwe 
Editor, Pan-African News Wire 
Published Oct 17, 2011 8:38 PM


U.S. Secretary of Defense Leon Panetta, formerly director of the CIA, said at a news conference at NATO headquarters on Oct. 6 that the nearly nine-month-old war against the North African state of Libya would continue until all vestiges of resistance on the part of the people were eliminated.

This means that the intensive bombing of civilian areas and the national infrastructure will not let up. More innocent people will die by the thousands in this oil-producing country.

The following day Panetta visited the U.S. Naval Air Station at Sigonella, Italy, which has served as a major launching point for more than 20,000 sorties and 9,000-plus air strikes carried out so far in the war. He stood in front of the Global Hawk, a sophisticated fighter aircraft that provides important surveillance and intelligence information from its flights over Libya.

This aircraft can fly 24-hour, high-altitude missions that capture and transmit photographs of what is taking place on the ground. Panetta boasted that the war on Libya will provide lessons for future military operations.

Resistance continues in Sirte

Meanwhile, the forces of the National Transitional Council, supported by the U.S. and NATO, have for a month been attempting to take both Bani Walid and Sirte, two strongholds of the loyalist forces still committed to defending the country against the imperialist onslaught. Since March 17 NATO has bombed the nation nonstop. Despite numerous attempts to seize both cities, the NTC forces have been repelled, suffering hundreds of casualties.

According to an Oct. 10 Associated Press report, “The inability to take Sirte, the most important remaining stronghold of Gadhafi supporters, more than six weeks after the capital fell, has stalled efforts by Libya’s new leaders to set a timeline for elections and move forward with a transition to democracy.”

The NTC and NATO have no mandate to wage war or rule Libya. This is reflected in the fierce fighting by the Libyan people against these foreign financed and armed elements, which are handing over the country’s oil, natural gas and waterways to their imperialist masters.

British Defense Secretary Liam Fox, who is consumed by charges of corruption in the scandal-ridden government of Conservative Prime Minister David Cameron, announced that even if the NATO-led forces took Sirte, the Western “military actions would continue as long as remnants of the regime pose a risk to the people of Libya.” (AP, Oct. 10)

The NTC launched a new offensive against Sirte on Oct. 7. Although the city has been under siege for weeks and NATO has extensively bombed targets inside and around the coastal town, including a major hospital, the putative leader of the NTC, Mustafa Abdul-Jalil, admitted on Oct. 10, “Our fighters today are still dealing with snipers positioned on the high buildings and we sustained heavy casualties.”

The imperialists view the capture of Sirte as key to their strategic objective of subduing Libya. Some 250 miles southeast of Tripoli, Sirte is considered essential in solidifying neocolonial control over Libya’s 6 million people because it lies at the center of the coastal plain containing most of the population.

Gadhafi calls for intensifying resistance

In an Oct. 6 audio message, broadcast over Syria’s Al-Rai television, Libyan leader Moammar Gadhafi called for the escalation of both military and political opposition to the NTC and its NATO backers. He called for “new million-man marches in all cities and villages and oases” and described conditions in Libya as “unbearable” and the so-called NTC revolution as “a charade gaining its legitimacy through air strikes.”

Civilians who have fled Sirte since the siege and bombing say, “We didn’t know where the strikes were coming from. Everyone is being hit all day and all night.” (Reuters, Oct. 10)

The NATO-led attacks have created a humanitarian crisis. One family pointed out, “There is no electricity and no water. There is nothing. There is not one neighborhood that hasn’t been hit.” Nevertheless, the resistance to this military onslaught remains formidable.

Even the British press agency Reuters noted on Oct. 10 that “NTC forces have repeatedly claimed to be on the point of victory in Sirte, only to suffer sudden reversals at the hands of a tenacious enemy fighting for its life, surrounded on three sides and with its back to the sea. In just one field ­hospital to the east of the city, doctors said they had received 17 dead and 87 wounded in the fighting on Oct. 9. There were dozens more casualties elsewhere.”

NATO war seeks imperialist domination

NATO has refused to investigate the thousands of civilian deaths emanating from the atrocities committed by the NTC and the U.S. and European air strikes. In addition, an estimated $15 billion in property damage has been carried out against Libya thus far.

The imperialist countries have frozen $128 billion in Libyan assets accumulated during the period of Gadhafi’s leadership. The country reportedly owes no money to the International Monetary Fund or the World Bank. This distinguishes Libya from other African and developing states, which have been strangled by debt payments to the global financial institutions based in the West.

A delegation of World Bank and IMF officials is scheduled to visit the country amid infighting among the NTC leaders, who have consistently failed to create a provisional government. A recent plot to assassinate the military leader of the NTC shows the incapacity of this group to control the country without the continuing support and coordination of NATO.

Anti-war forces inside the NATO countries must step up their opposition to the war against Libya and expose through leaflets, broadcasts, mass demonstrations and petitions that this effort on the part of the imperialists is no different than what is taking place in Afghanistan, Iraq, Yemen and Palestine. The U.S. and the other NATO countries, faced with a worsening economic crisis at home, are escalating their aggression against the oppressed nations.

Demonstrations and occupations by youth and workers inside the U.S. and Europe are growing, but greater efforts are needed to link the plight of the working class and the oppressed, both inside the imperialist states as well as in the most underdeveloped regions of the planet. It is only through this unity that the economic crisis can be effectively challenged by those who are the most severely impacted by the current stage in capitalist globalization.



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http://www.voltairenet.org/Syrte-ville-martyre-de-l-OTAN

Syrte, ville martyre de l'OTAN

15 octobre 2011

Les autorités religieuses de Syrte (Libye) ont promulgué une fatwa autorisant les habitants survivants à manger les chiens et les chats.

Il y a près d’un mois 3 000 soldats et 80 000 civils ont été pris au piège : la ville est assiégée par les forces du Conseil national de transition encadrées par des officiers de la Coalition internationale et bombardée par l’OTAN.

Syrte n’est plus approvisionnée en nourriture. L’électricité et l’eau sont coupés. Les hôpitaux ne fonctionnent plus. La ville n’est plus que ruines.

Seuls 10 000 à 20 000 personnes auraient réussi à fuir la mort lors des interruptions des bombardements.

L’OTAN affirme intervenir en Libye pour protéger la population civile et vouloir continuer son action jusqu’à la reddition ou la mort de Mouammar Kadhafi. Pourtant, le siège et le bombardement par l’OTAN constituent des crimes de guerres au regard des normes internationales compte tenu du fait que la population civile en est la principale victime.

Ce drame est ignoré par les médias et les responsables politiques de la zone OTAN —y compris par les leaders français en campagne électorale présidentielle—. Un silence qui fait d’eux des complices.


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http://www.disarmiamoli.org/index.php?option=com_content&task=view&id=877&Itemid=146


Libia, scontri a Tripoli e Sirte resiste

 
Non sembra che il conflitto in Libia sia terminato. Né che il nuovo regime del Cnt, imposto con la forza della copertura aerea della Nato e la benedizione di Al Qaeda, sia così “popolare” e rappresentativo della volontà dei “civili”.

Ieri si è tornati a sentire sparatorie nelle strade di Tripoli, mentre la guerra a Sirte per il Cnt segna il passo. In mano ai “ribelli” dalla fine di agosto, ieri alcune decine di fedelissimi di Muammar Gheddafi sono riapparsi, armi alla mano. Negli scontri sono rimasti feriti otto uomini del Cnt, che erano corsi in forze con i pick-up armati nel quartiere di Abu Salim. E' salito a tre morti ed una trentina di feriti, secondo il Cnt, il bilancio dei combattimenti di ieri a Tripoli, nel quartiere di Abu Salim, tra fedelissimi di Gheddafi e forze del nuovo governo.
Il Cnt appare dunque ancora lontano dal controllo del paese, impantanato com'è a Sirte e costretto a guardarsi le spalle nella stessa Tripoli. A Sirte, città natale di Gheddafi, le forze del Cnt, costrette ieri ancora una volta a una “ritirata tattica” (la sesta o la settima, si sta perdendo il conto) sotto il fuoco dei fedelissimi del Colonnello, hanno ritentato l'assalto alle ultime ma fin qui insuperabili sacche di resistenza, localizzate nei quartieri «N.2» e «Dollar», dove dopo un mese e mezzo si combatte una guerra logorante casa per casa.
La guerra che il Cnt pensava fosse ormai in dirittura d'arrivo si sta complicando con il passare dei giorni a Sirte, dove si combatte una battaglia che avrà probabilmente un esito scontato, ma che ritarda la proclamazione della «vittoria totale», il momento in cui il vessillo nero-verde-rosso della "rivoluzione" sarà issato ovunque in una Libia senza Gheddafi.
Ma il Cnt si sta costruendo anche una solida fama da contafrottole.
«Hanno commesso un grave errore i dirigenti del Cnt che in questi giorni hanno diffuso notizie false sulla cattura dei figli di Muammar Gheddafi». È quanto ha affermato il numero due del Fronte di Salvezza libico, Mohammed Ali Abdullah, intervistato dalla tv satellitare 'al-Arabiya' per commentare le notizie contrastanti giunte da Sirte circa la cattura di Muttasim Gheddafi, poi smentite. «Credo che queste notizie false vengano fuori per l'inesperienza dei responsabili della comunicazione del Cnt e per la veemenza dei combattimenti - ha aggiunto - Non si rendono conto però che così perde di credibilità». Abdullah, che fa parte di una formazione tra le prime ad aver partecipato alla rivolta del 17 febbraio di Bengasi, ha ricordato come «già lo scorso mese una situazione analoga l'abbiamo vissuta con l'annuncio della cattura di Seif al-Islam Gheddafi a Bani Walid, smentita dopo un giorno. Ieri è accaduto lo stesso con Muttasim e poche settimane fa lo stesso con il portavoce di Gheddafi, Moussa Ibrahim».

da Contropiano 16/10/2011


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http://archiviostorico.corriere.it/2011/ottobre/16/Incendi_terrore_caccia_all_uomo_co_9_111016029.shtml

IL REPORTAGE. LA POPOLAZIONE D' ORIGINE AFRICANA È ACCUSATA DI AVER COMBATTUTO PER GHEDDAFI. E DEI 40 MILA ABITANTI SOLO POCHISSIMI SONO RIMASTI


Incendi, terrore, caccia all' uomo. La città dei neri non esiste più


A Tawargha, in Libia, teatro della vendetta dei ribelli sui «mercenari». Pulizia etnica Nonostante le promesse del nuovo governo, qui ci sono stati abusi e deportazioni di massa Un insorto «Uccidere i nemici negri che stavano con il Raìs è giusto. Se fossi in loro scapperei subito verso Sud. Qui non hanno più nulla da fare, se non morire»


TAWARGHA - Le palazzine bruciano piano. Un lavoro metodico, svolto senza fretta. Quelle che non si incendiano subito restano dimenticate per qualche giorno: porte e finestre sfondate, tracce di fumo sui muri, stracci di vestiti e schegge di mobili sparsi attorno. Poi gli attivisti della rivoluzione tornano ad appiccare il fuoco aiutandosi con la benzina ed il risultato è assicurato. Nei viottoli sporchi sono abbandonati alla loro sorte cani, galline, conigli, muli, pecore, mucche. Ogni tanto giunge una vettura dalla carrozzeria dipinta con i simboli del fronte anti-Gheddafi e si porta via gli animali. Gli orti sono secchi, è dai primi di agosto che nessuno si occupa di irrigarli. A parte il crepitare sommesso degli incendi, il silenzio regna sovrano. Una calma immobile, minacciosa, inquietante, spaventosa. Un benzinaio sulla provinciale poco lontano ci ha detto che non sarebbe difficile trovare la terra smossa delle fosse comuni. Ma è pericoloso, le pattuglie della guerriglia non amano curiosi da queste parti. Sono le immagini della pulizia etnica di Tawargha, piccola cittadina una trentina di chilometri a sud-est di Misurata. Ricordano i villaggi vuoti della ex-Jugoslavia negli anni Novanta. L' episodio che con maggior forza due giorni fa ci ha trasmesso la gravità immanente dei crimini consumati in questa zona è stato l' incontro con quattro ragazzi della «Qatiba Namr», una delle brigate di Misurata nota per le doti di coraggio e resistenza dimostrati al tempo dell' assedio delle milizie scelte di Gheddafi contro la «città martire della rivoluzione» in primavera. «Qui vivevano solo neri. Negri stranieri. Nemici dalla pelle scura che stavano con Gheddafi. Ucciderli è giusto. Se fossi in loro scapperei subito verso sud, in Africa. Qui non hanno più nulla da fare, se non morire», affermano sprezzanti. Viaggiano su di una Toyota dalla carrozzeria coperta di fango. Sono tutti armati di Kalashnikov. Portano scarpe da tennis, magliette scure e blu jeans. Dicono di avere diciannove anni, ma potrebbero essere anche più giovani. Brufoli e sguardo di sfida, con il dito sul grilletto si sentono padroni del mondo. «Siamo venuti ad assicurarci che nessun cane nero cerchi di tornare. Devono sapere che non hanno futuro in Libia», sbotta quello che sta al volante. Sostiene di chiamarsi Mustafa Akil, però non vuole essere fotografato, così neppure gli altri. A Tawargha ci siamo arrivati quasi per caso. Tornando da Sirte verso Tripoli, giunti poco prima delle periferie orientali di Misurata, è stato impossibile non vedere le colonne di fumo degli incendi. Sono almeno una ventina. Si nota in particolare una palazzina a cinque piani divorata dalle fiamme rosse che si allungano dai balconi. Nel parcheggio sottostante sono fermi almeno cinque pick up delle forze della rivoluzione. Ci avviciniamo. Ma i miliziani ordinano di restare lontani. «C' erano circa 40.000 negri. Sono partiti tutti. Tawargha non esiste più. Ora c' è solo Misurata», si limita a ripetere uno di loro, barba fluente e occhiali neri. Sui cartelli stradali il nome della città è stato cancellato con vernice bianca, al suo posto è scritto quello di «Nuova Tommina», un villaggio delle vicinanze che era stato attaccato dai lealisti in aprile. La storia non è nuova. Le cronache della resa delle truppe fedeli al Colonnello a Tawargha contro le colonne dei ribelli di Misurata sostenuti dai bombardamenti Nato era arrivata il 13 agosto. E quasi subito Amnesty International e altre organizzazioni per la difesa dei diritti umani avevano denunciato massacri, abusi di ogni tipo e soprattutto deportazioni di massa. Unica scusa addotta dai ribelli era stata che proprio gli abitanti di Tawargha erano stati tra i più crudeli «mercenari africani» nelle file nemiche. Ma poi le cronache della caduta di Tripoli e gli sviluppi seguenti avevano preso il sopravvento. Il 18 settembre un inviato del Wall Street Journal citava il presidente del Consiglio Nazionale Transitorio, Mustafa Abdel Jalil, che dava il suo placet alla totale distruzione della cittadina. «Il fato di Tawargha è nelle mani della gente di Misurata», sosteneva Jalil, giustificando così appieno i crimini di guerra. La novità verificata sul campo è però che la pulizia etnica continua. Nonostante le rassicurazioni contro ogni politica razzista e in difesa delle minoranze nere in Libia fornite a più riprese alla comunità internazionale dai dirigenti della rivoluzione, a Tawargha si sta portando a termine del tutto indisturbati ciò che era iniziato ad agosto. I muri delle case devastate sono imbrattati di slogan freschi contro i «murtazaka», come qui chiamano i «mercenari» pagati dalla dittatura di Gheddafi. Sono firmati in certi casi dalle «brigate per la punizione degli schiavi neri» e trasudano il razzismo più virulento. In verità, molti degli abitanti nella regione di Tawargha sono discendenti delle vittime delle razzie a caccia di schiavi organizzate in larga scala dai mercanti arabi della costa per secoli sino alla metà dell' Ottocento nel cuore dell' Africa sub-sahariana. Libici a tutti gli effetti, figli di libici, sono ora tra le vittime più deboli del caos e delle incertezze in cui è scivolato il Paese. Nessuno conosce ancora le cifre dei loro morti e feriti. Le nuove autorità di Tripoli non rendono noti i numeri dei prigionieri. E quando la fanno sono spesso contradditori e impossibili da verificare. Di tanto in tanto si viene a conoscenza di ex abitanti di Tawargha arrestati nei campi profughi e nei quartieri poveri attorno a Tripoli. Le voci di violenze carnali contro le donne sono ricorrenti. Molti giovani sarebbero ora tra i combattenti irriducibili negli assedi di Sirte e a Bani Walid. Altri sarebbero riusciti ad unirsi ai Tuareg nel deserto verso Sabha. Sono motivati dalla consapevolezza che la «caccia al negro» non si ferma. Due giorni fa, durante gli scontri a Tripoli tra milizie della rivoluzione e sostenitori di Gheddafi, i primi ad essere arrestati erano i passanti di pelle nera. Lorenzo Cremonesi RIPRODUZIONE RISERVATA **** I «neri» La minoranza Presente da sempre in Libia, la popolazione nera è cresciuta nell' era Gheddafi con le migrazioni di migliaia di persone in cerca di lavoro dai vicini Stati subsahariani I mercenari Usati dal colonnello come soldati lealisti, sono oggi vittime delle ritorsioni dei ribelli


Cremonesi Lorenzo

Pagina 19
(16 ottobre 2011) - Corriere della Sera


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http://www.disarmiamoli.org/index.php?option=com_content&task=view&id=863&Itemid=27

L’arte della guerra

Guerre benedette

Manlio Dinucci (il manifesto, 4 ottobre 2011)

Mons. Vincenzo Pelvi, arcivescovo ordinario militare e direttore della rivista dell’Ordinariato «Bonus Miles Christi» (il Buon Soldato di Cristo), prova «amarezza e disagio» di fronte a «chi invoca lo scioglimento degli eserciti, l’obiezione contro le spese militari». Questi miscredenti non capiscono che «il mondo militare contribuisce a edificare una cultura di responsabilità globale, che ha la radice nella legge naturale e trova il suo ultimo fondamento nell’unità del genere umano». Dall’Afghanistan alla Libia, «l’Italia, con i suoi soldati, continua a fare la sua parte per promuovere stabilità, disarmo, sviluppo e sostenere ovunque la causa dei diritti umani». Il militare svolge così «un servizio a vantaggio di tutto l’uomo e di ogni uomo, diventando protagonista di un grande movimento di carità nel proprio paese come in altre nazioni» (Avvenire, 2 giugno 2011). Mons. Pelvi prosegue così la tradizione storica delle gerarchie ecclesiastiche di benedire gli eserciti e le guerre. Un secolo fa, nel 1911, nella chiesa pisana di S. Stefano dei Cavalieri, addobbata di bandiere strappate ai turchi nel Cinquecento, il cardinale Maffi esortava i fanti italiani, in partenza per la guerra di Libia, a «incrociare le baionette con le scimitarre» per portare nella chiesa «altre bandiere sorelle» e in tal modo «redimere l’Italia, la terra nostra, di novelle glorie». E il 2 ottobre 1935, mentre Mussolini annunciava la guerra di Etiopia, Mons. Cazzani, vescovo di Cremona, dichiarava nella sua pastorale: «Veri cristiani, preghiamo per quel povero popolo di Etiopia, perché si persuada di aprire le sue porte al progresso dell’umanità, e di concedere le terre, ch’egli non sa e non può rendere fruttifere, alle braccia esuberanti di un altro popolo più numeroso e più avanzato». Il 28 ottobre, celebrando nel Duomo di Milano il 13° anniversario della marcia su Roma, il cardinale Schuster esortava: «Cooperiamo con Dio, in questa missione nazionale e cattolica di bene, nel momento in cui, sui campi di Etiopia, il vessillo d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza le catene agli schiavi. Invochiamo la benedizione e protezione del Signore sul nostro incomparabile Condottiero». L’8 novembre, Mons. Valeri, arcivescovo di Brindisi e Ostumi, spiegava nella sua pastorale: «L’Italia non domandava che un po’ di spazio per i suoi figli, aumentati meravigliosamente da formare una grande Nazione di oltre 45 milioni di abitanti, e lo domandava a un popolo cinque volte meno numeroso del nostro e che detiene, non si sa perché e con quale diritto, un’estensione di territorio quattro volte più grande dell’Italia senza che sappia sfruttare i tesori di cui lo ha arricchito la Provvidenza a vantaggio dell’uomo. Per molti anni si pazientò, sopportando aggressioni e soprusi, e quando, non potendone più, ricorremmo al diritto delle armi, fummo giudicati aggressori». Nel solco di questa tradizione, don Vincenzo Caiazzo – che ha la sua parrocchia sulla portaerei Garibaldi, dove celebra la messa nell’hangar dei caccia che bombardano la Libia – assicura che «l’Italia sta proteggendo i diritti umani e dei popoli, per questo siamo in mezzo al mare» (Oggi, 29 giugno 2011). «I valori militari – spiega –vanno a braccetto con i valori cristiani». Povero Cristo.
 

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http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/91-italia-aggressore-della-libia.html

Italia: aggressore della Libia


di Diego Angelo Bertozzi

L'operazione neocoloniale in Libia ha visto, e vede tutt'ora, l'Italia impegnata in prima persona. Un impegno, iniziato in sordina tra le divisioni interne al governo - dove si imposta alla fine la fazione accesamente atlantista dei ministri della difesa La Russa e degli esteri Frattini - che si rivelato poi indispensabile. Senza la "portaerei" Italia, infatti, nessun serio intervento in Libia sarebbe stato possibile al di là del furore interventista di Parigi, Londra e Washington.

Nel panorama della stampa italiana soprattutto nei suoi quotidiani di punta - alla mascheratura ideologica umanitaria della spedizione punitiva - condivisa da tutto lo schieramento parlamentare e da alcuni ambienti della sinistra radicale - a sostegno dei sedicenti combattenti per la libertà si è unita una coltre di fumo sul reale impegno militare dell'aeronautica e della marina nostrane, preferendo presentare la nostra partecipazione come sostanzialmente logistica. Insomma, ci siamo ma le nostre mani non si sono macchiate di sangue.

Nulla di sorprendente, ovviamente: non si tratta di una guerra di aggressione, ma del semplice sostegno alle aspirazione democratiche delle masse di Bengasi, uniche vittime della violenza cieca di Gheddafi, il famelico dittatore di turno. Nulla di nuovo, ripetiamo: siamo in piena riproposizione dei topoi della tradizione coloniale europea, prima, statunitense poi, per i quali le superiori civiltà democratiche non commettono mai violenza. Un dogma secondo il quale la violenza, stupri di massa e fosse comuni artatamente dati in pasto al pubblico sono sempre prerogativa dei barbari di turno che osano resistere. La veridicità delle informazioni un dettaglio secondario.