Informazione
Ma in quest'algebra umana, si possono effettuare altre operazioni: applicando la proprietà transitiva, si scopre che 41 egiziani valgono (per Israele) 1.027 palestinesi. Ovvero: 1 egiziano equivale a 25,045 palestinesi. In termini di peso, un palestinese vale 3,19 kg di un egiziano di 80 kg.
Non è la prima volta nella storia che si usano tavole di conversione. Per esempio, se togliere una vita rende negativa l'unità e la fa precedere da un segno meno (-), allora per la Germania nazista, durante la guerra, - 1 tedesco equivaleva a - 10 cittadini occupati (cioè ogni tedesco ucciso doveva esere risarcito da 10 morti nemiche): così il 24 marzo 1944 alle Fosse ardeatine 335 romani furono uccisi per «bilanciare» la morte di 33 soldati tedeschi il giorno prima.
Anche nell'attuale caso del Medio Oriente, si può supporre che il fattore di conversione stabilito per scambiare i prigionieri valga anche col segno meno. Approssimativamente è già vero: cioè già oggi è dell'ordine delle migliaia di morti palestinesi il fattore di conversione per la morte di unità israeliane.
Bisognerebbe proporre di estendere l'uso del fattore di conversione ad altri conflitti e in base ai risultati ottenuti ridisegnare la carta del mondo, un po' come fanno da tempo i cartografi dell'École des Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi, che dilatano o contraggono le superfici degli stati e dei continenti in proporzione al loro Pil, o alla loro parte nel commercio internazionale: con questi criteri l'Italia diventa grande come un terzo d'Africa e l'Africa si riduce a un mignolino.
Si potrebbe applicare l'algebra umana alla guerra in Iraq e vedere a quanti morti iracheni equivalgono i 4.796 soldati americani uccisi o, se si considera quella guerra come cieca (e per altro ingiustificata) vendetta per l'11 settembre 2011, aggiungervi anche le 2970 vittime di quegli attentati. Si scoprirebbe che anche qui il fattore di conversione è dell'ordine di grandezza del centinaio, cioè di un centinaio di iracheni uccisi per ogni americano morto.
Non sempre quest'algebra umana è cosciente e precisa. Più spesso è inconscia e all'ingrosso. Così, una catastrofe in Africa non è nemmeno presa in considerazione se non viene declinata in milioni di vite (africane): ben lo sanno le ong che devono raccogliere fondi per i sinistrati e che a questo scopo gonfiano ormai da anni le dimensioni dei disastri nel Terzo mondo, che altrimenti cadrebbero nell'indifferenza generale: segnalo l'interessante articolo di David Rieff sull'ultimo numero di Foreign Policy, dal titolo espressivo: «Milioni muoiono.. o forse no. Come pompare i disastri è diventato un grande business globale». Come si vede, l'algebra umana è una disciplina in pieno, e promettente, sviluppo.
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Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un giorno solo morì
di morte gloriosa.
Avevano tutti la stessa età,
scorrevano uguali per tutti
i giorni di scuola, andavano alle cerimonie in compagnia,
li vaccinavano tutti
contro la stessa malattia.
Morirono tutti in una giornata sola.
Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un solo giorno morì
di morte gloriosa.
Cinquantacinque minuti
prima che la morte se li portasse via
sedevano sui banchi di scuola
i ragazzi della piccola compagnia,
e con lo stesso compito assillante;
andando a piedi, quanto
impiega un viandante
e così via.
Erano pieni delle stesse cifre
i loro pensieri,
e nei quaderni, dentro la cartella,
giacevano assurdi innumerevoli
i cinque e gli zeri
Stringevano in saccoccia con ardore
una manciata di comuni sogni,
di comuni segreti
patriottici e d'amore.
E ognuno, lieto della propria aurora,
credeva di poter correre molto
tanto ancora
sotto l'azzurro tetto rotondo
fino a risolvere
tutti i compiti di questo mondo.
Avvenne in un paese di contadini
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un giorno solo morì
di morte gloriosa.
File intere di ragazzi
Si presero per mano
e, dall'ultima ora di scuola,
si avviarono alla fucilazione
calmi, col cuore forte,
come se nulla fosse la morte.
File intere di compagni
salirono nella stessa ora
verso l'eterna dimora.
|
In un solo giorno 7300 morti nella città martire. È l'autunno del 1941. Pochi mesi dopo la dissoluzione del regno di Jugoslavia, la penisola balcanica è insorta contro l'occupante nazifascista. Alla rivolta partigiana i tedeschi rispondono facendo strage della popolazione civile.
di ANTONIO PITAMITZ
Il 20 ottobre 1941, sei mesi dopo l'invasione tedesca della Jugoslavia, nei due Ginnasi di Kragujevac (leggi Kragujevaz), la città serba posta nel centro della regione della Šumadija, le lezioni iniziano alle 8.30, come di consueto. Sono in programma quel giorno la sintassi della lingua serbocroata, matematica, la poesia di Goethe, la fisica. In una classe, un professore croato, un profugo fuggito dal regime fascista instaurato in Croazia da Ante Pavelic, sottolinea il valore della libertà. Poco lontano, un altro spiega l'opera di un poeta serbo del romanticismo risorgimentale. La mente rivolta alle secolari lotte sostenute dai serbi per la loro indipendenza e a quella presente che cresce irresistibilmente, anch'egli parla di libertà. La voce calma e profonda che illustra i versi del poeta: "La libertà è un nettare che inebria / Io la bevvi perché avevo sete", ne nasconde a fatica la tensione, che aleggia anche nell'aula, che grava su tutti, sulla cittadina, sui suoi abitanti, e che l'eco strozzata di fucilerie lontane da alcuni giorni alimenta.
Dal 13 ottobre 1941 Kragujevac e la sua regione sono teatro di una vasta azione di rappresaglia, che i tedeschi stanno conducendo con spietata decisione contemporaneamente anche nel resto della Serbia. La ferocia di cui essi in quei giorni danno prova ha una ragione specifica contingente. La rapida vittoria dell'Asse ha dissolto uno Stato, il regno dei Karadjordjevic, ma non ha prostrato i popoli della Jugoslavia. L'illusione tedesca di una comoda permanenza in quella terra è stata presto delusa. Sin dai primi giorni dell'occupazione, i tedeschi hanno avuto filo da torcere. La guerra, che anche in Šumadija i resistenti fanno, è senza quartiere. Sabotaggi sensazionali e diversioni in grande stile si registrano sin dal mese di maggio. Linee telefoniche e telegrafiche vengono tagliate, ponti e strade ferrate saltano. Il movimento di resistenza cresce così rapidamente, ben presto è così ampio che i tedeschi e le truppe collaborazioniste del quisling serbo Milan Nedic abbandonano il presidio dei villaggi. Gli invasori si sentono troppo esposti, isolati, preferiscono arroccarsi in città. La lotta contro i patrioti la organizzano dai centri urbani, e la conducono secondo il metro nazista che misura in tutti gli slavi una razza inferiore, da sterminare. La traduzione pratica di questo principio è all'altezza della fama che si guadagnano. A Belgrado, una moto incendiata della Wehrmacht vale la vita di 122 serbi. Solo nella capitale, in sette mesi fucilano 4700 ostaggi.
Incredibilmente, gli hitleriani ritengono di poter coprire con la propaganda questo pugno di ferro che calano sul paese. Le argomentazioni che diffondono sono quelle care alla "dottrina" nazifascista dell'Ordine Nuovo Europeo. Ai contadini serbi dicono di averli salvati dagli ebrei e dai capitalisti, e promettono anche di salvarli dal bolscevismo semita, che sta per essere sicuramente sconfitto sul fronte orientale.
L'itinerario di questa vittoria, a Kragujevac può essere seguito sulla grande carta geografica che campeggia nel centro della città. Una croce uncinata segna la progressione delle forze dell'Asse in direzione di Mosca. Però, come altrove, nemmeno a Kragujevac terrore, repressione, lusinghe, denaro fatto circolare per corrompere, valgono a indebolire il sostegno alla lotta partigiana, a ridurne il seguito. A dare contorni netti alla situazione, le risposte alla propaganda tedesca non mancano. La carta geografica dell'Asse viene bruciata in pieno giorno. Il fuoco divora anche una delle fabbriche militari della città. Un treno di quaranta vagoni viene distrutto sulla linea Kragujevac-Kraljevo, provocando la morte di cinquanta tedeschi. Da vincitori e occupanti, i tedeschi si trovano nella condizione di assediati.
È Kragujevac, città da sempre ribelle, che prende il suo nome da kraguj, dal rapace grifone che popolava i sui boschi, che alimenta la Resistenza della zona. È questa città di antiche tradizioni nazionali e socialiste che guida la lotta della Šumadija, il cuore della Serbia. Gli operai comunisti che costituiscono il nerbo delle formazioni partigiane vengono dal suo arsenale militare. Dalle sue case dai cento nascondigli, che hanno già ingannato turchi e austroungarici, escono le armi, le munizioni, il materiale sanitario, i libri che donne, bambini e ragazzi portano quotidianamente ai combattenti del bosco.
Per contenere la sua iniziativa, per fronteggiare questa lotta di bande, che è lotta di popolo e che sconvolge gli schemi bellici dei signori nazisti della guerra, già alla fine dell'agosto 1941 Kragujevac conta la guarnigione tedesca più forte di tutta la Serbia centrale. Ma i due battaglioni e i mezzi corazzati di cui i tedeschi dispongono non sono sufficienti ad arrestare lo slancio delle tre compagnie partigiane che operano fuori della città. Né tantomeno la Gestapo è in grado di bloccare i gruppi clandestini che si annidano dentro. La loro azione anzi si fa sempre più audace, punta sul risultato militare, ma ricerca anche l'effetto psicologico. Per i partigiani, importante è non soltanto colpire il nemico, ma aiutare anche i serbi oppressi a sperare, a vivere. Una notte d'agosto, cento metri di ferrovia vengono fatti saltare in città, proprio sotto il naso dei tedeschi.
È una sfida, che ha sapore di beffa. In questa situazione, la rabbia e il desiderio di vendetta dei tedeschi crescono quotidianamente. Quando nel settembre 1941, la ribellione guadagna tutta la Serbia, e conseguentemente mette radici ancora più profonde in Šumadija, il generale Boehme, comandante delle forze tedesche nel Paese, considera che la misura è colma. Il prestigio dei suoi soldati deve essere risollevato, una dura lezione deve essere somministrata ai serbi. Una spietata repressione, da condurre senza esitazione, è decisa. A rendere più chiara la direttiva che passa ai subalterni, e che precisa la "filosofia" del comando tedesco, Boehme ricorda che "una vita umana non vale nulla", e che perciò per intimidire bisogna ricorrere a una "crudeltà senza eguali". A metà settembre i tedeschi passano all'azione. La macchina si mette in moto.
Per un mese la Serbia centrale è trasformata in un campo di sterminio.
A decine villaggi grandi e piccoli sono bruciati, spesso, come a Novo Mesto o a Debrc, con dentro gli abitanti. I serbi muoiono a migliaia, uccisi, massacrati. A Šabac, il 26 settembre, sono 3000 gli uomini dai 14 ai 70 anni che rimangono vittime della razzia tedesca. Cinquecento muoiono durante una marcia fatta fare al passo di corsa per 46 chilometri. Gli altri sono fucilati. Una sorte analoga hanno, il 10 ottobre, a Valjevo, 2200 ostaggi: finiscono al muro. "Pagano" 10 tedeschi uccisi e 24 feriti. Cinque giorni dopo, il 15, è "sentenziata" la punizione di Kraljevo, un'altra città che resiste. I plotoni di esecuzione lavorano per cinque giorni, le vittime sono 5000. Sembra impossibile immaginare una strage ancora più grande. Eppure, l'allucinante escalation non ha toccato la sua punta di massimo orrore.
Lo farà a Kragujevac, e nel suo circondario. La "spedizione punitiva" comincia il 13 ottobre. Quel giorno, nel quartiere operaio di Kragujevac, i tedeschi prendono 30 uomini. Per 3 giorni se li trascinano dietro nella puntata che fanno contro il paese vicino, Gornji Milanovac. Affamati, percossi, costretti a rimuovere tronchi d'albero e a tirare fuori dal fango carri armati, adoperati come scudo contro i partigiani, sono testimoni della sorte del piccolo paese di pastori. Vivono un'agonia che ha fine solo con il grande massacro, nel quale scompaiono anche i 132 ostaggi di Gornji Milanovac. In quanto al paese, anche questo viene bruciato. I tedeschi saldano così un vecchio conto che avevano in sospeso. Anche per questa impresa però devono pagare uno scotto. Trentasei uomini vengono messi fuori combattimento dai partigiani, che attaccano senza sosta.
Di fronte a questo "smacco" la logica tedesca della ritorsione non tarda a scattare. Sarà Kragujevac a pagare, con la vita di 100 cittadini ogni tedesco morto, e con quella di 50 ogni tedesco ferito. Duemilatrecento persone sono condannate a morte.
La rappresaglia punta per primo sui "nemici storici" del Reich: comunisti e ebrei. Gli ebrei maschi, e un certo numero di comunisti, 66 persone in tutto, vengono arrestati sulla base delle liste che i collaborazionisti forniscono. Ma questo non basta. Il giorno successivo, il 19 ottobre, una massiccia operazione ha luogo nell'immediata periferia della città. Tre paesi, posti nel giro di tre chilometri, sono travolti della furia tedesca. Grošnica, Meckovac, Maršic bruciano, 423 uomini muoiono. A Meckovac, donne e bambini sono costretti ad assistere all'esecuzione. Lo stesso macabro rituale è imposto a Grošnica, dove si distinguono i Volontari Anticomunisti di Dimitrjie Ljotic. Il paese quel giorno celebra la festa del patrono. I fascisti serbi strappano il pope dall'altare con il vangelo ancora in mano, i fedeli vanno a morire stringendo i pani benedetti della comunione ortodossa. Vengono falciati tutti lì vicino, con le mitragliatrici. Così, intorno a Kragujevac si è fatto un cerchio di morte. La prova generale è compiuta. Ora si passa al "grande massacro".
L'azione inizia la mattina del 20 ottobre. Alle prime luci dell'alba, gli accessi a Kragujevac vengono bloccati. Mitragliatrici sono postate nei punti nevralgici. Nessuno può più uscire dalla città, nessuno può più entrarvi. Chi, ignorando il dispositivo, si avvicina, viene ucciso. È quanto accade a uno zingaro, che arriva dalla campagna, a un vecchio che in città muove verso il mercato. Agli ordini del maggiore Koenig, tedeschi e collaborazionisti aprono la caccia all'uomo. Nessuno sfugge, nessuno è "dimenticato". Il gruppo di operai che lavora tranquillamente a un torrente, i tre popi di una chiesa, che sperano di trovare la salvezza dietro le icone. I razziatori entrano a stanare ovunque. Gli impiegati sono portati fuori dal municipio; giudici, scrivani, pubblico, dal tribunale. Dalle abitazioni vengono tratti anche gli ammalati. Un barbiere è prelevato dal negozio insieme al suo cliente, che con altri disgraziati marcia verso il suo destino, una guancia insaponata, l'altra no.
Alle dieci i tedeschi irrompono anche nei due ginnasi. L'apparizione di quelle uniformi verdi armate di fucili e parabellum, infrange la normalità forzata che da tre giorni nelle due scuole vige. Il barone Bischofhausen, il comandante tedesco della piazza, il 17 ha minacciato presidi, professori e genitori di severe sanzioni se i ragazzi non frequentavano la scuola. Lo ha fatto ripetere anche per le vie della città, a suon di tamburo, dal banditore pubblico. Li vuole tutti in aula, sempre. L'ufficiale tedesco, che da civile è insegnante, combatte l'assenteismo degli studenti non certo perché mosso da passione pedagogica. Chiedendo che proprio per quel giorno 20 tutti siano presenti, egli fa apparire di voler esercitare un controllo; che però si trasforma in una trappola. In realtà, egli non dimentica che i ginnasiali di Kragujevac hanno manifestato sin dai primi giorni la più violenta opposizione all'occupante. Un giovane è finito impiccato dopo uno scontro con la polizia. Il barone sa pure che anche in quelle aule la Resistenza attinge, per alimentare i suoi "gruppi d'azione", i suoi propagandisti e sabotatori.
L'ispezione annunciata per quel giorno è arrivata. I registri chiesti dal barone sono pronti. Arrivando quella mattina a scuola, i ragazzi hanno cancellato i loro nomi dall'elenco. Precauzione inutile. Non c'è appello. I tedeschi entrano direttamente nelle aule, e rastrellano. Hinaus, fuori tutti quelli dai 16 anni in su. Anche il ragazzo invalido che si trascina con la stampella, per il quale invano una professoressa intercede. Anche la classe che il professore di tedesco tenta di salvare. Ai soldati che si affacciano, il professore dice, per rabbonirli, che stanno facendo lezione di tedesco. Mente. E mente una seconda volta quando gli chiedono quanti anni hanno i suoi ragazzi. Quindici dice. I tedeschi, convinti, fanno per andarsene. Ma in quel momento un alunno si alza dall'ultimo banco. È lo spilungone della classe. I tedeschi, dalla soglia si girano, capiscono, e sbattono fuori tutti.
I ginnasiali raggiungono le file dei razziati, i professori in testa. Con loro, ci sono anche Mile Novakovic, insegnante di chimica, celibe, e Djordje Stefanov, di letteratura croata, anche lui rifugiato in Serbia con la moglie e le due figlie per sfuggire ai fascisti della Croazia. Quel giorno i due professori non hanno lezione. Ma quando hanno visto che in città i tedeschi rastrellavano, certi che la scuola non sarebbe stata risparmiata, sono venuti lo stesso, per essere insieme ai loro ragazzi. Li vogliono seguire fino in fondo. Andranno insieme a loro alla fucilazione. Del corpo insegnante, solo le donne non sono razziate. Dalle finestre della scuola vedono sfilare i professori e gli alunni, e "cento berretti levarsi in segno di saluto". I ragazzi credono ancora che torneranno.
Pochi sono i fortunati che riescono a filtrare tra le maglie di quella immensa rete gettata sulla città. Chi vi riesce, va a unirsi ai partigiani. Avrà sicuramente qualcuno da vendicare. Gli altri, a migliaia, ingrossano le colonne che tutto il giorno scorrono per Kragujevac dirette ai luoghi di raccolta. I razziati sono quasi 10.000, su meno di 30.000 abitanti che conta la città. I tedeschi non hanno tralasciato nemmeno il carcere. Ultimi ad arrivare, quei detenuti sono, con comunisti ed ebrei, i primi ad essere fucilati.
Dai luoghi dove sono concentrati in attesa di conoscere la loro sorte, la sera di quel 20 ottobre i prigionieri sentono le prime scariche di fucileria. È l'avvio della grande carneficina. Contando sulla sorpresa, e sulla iniziale "distrazione" dei fucilatori, alcuni dei condannati riescono a salvarsi. Qualcuno fugge appena messo in riga. Altri, come Zivotjin Jovanovic, alla scarica si getta a terra anche se non è colpito, poi balza e corre. Viene ricatturato a un posto di blocco. Tenta di nuovo la fuga, e il suo guardiano gli spara a bruciapelo. Gli sfiora l'inguine. Poi dopo avergli dato il colpo di grazia nella spalla invece che in testa, lo lascia a terra credendolo morto. L'uomo striscia tutta la notte a palmo a palmo finché arriva alla casa di un amico. È soccorso, si crede in salvo. Arrivano i fascisti serbi, che lo riprendono. Dopo averlo picchiato decidono che, essendo ormai in fin di vita, tanto vale lasciarlo morire. Ma l'uomo non muore.
Altri ancora devono la vita alla fortuna, alla professione, al sangue freddo che riescono ad avere anche in un tale frangente. A mano a mano che inquadrano i gruppi per condurli alla fucilazione, i tedeschi fanno la selezione. Alcuni criteri non sono molto chiari. Risparmiano, per esempio, gli elettricisti, gli idraulici, i panettieri. Altri lo sono di più. Ai loro collaboratori fascisti concedono di tirare fuori i loro amici e parenti. In questo mercato i fascisti serbi sono generosi. Arrivano a offrire dei ragazzi di 10/12 anni in cambio dei loro protetti. Viene risparmiato anche chi è cittadino di un paese alleato dell'Asse. O che lo faccia credere. Escono romeni, ungheresi. Un dalmata si dichiara italiano. Forse lo è davvero, forse è solo un croato acculturato italiano, bilingue. Ma riesce a salvarsi, e a salvare il ragazzo che gli è accanto, affermando alla guardia, con la sua "autorità" di "alleato", che non ha ancora 16 anni. Un serbo, invece, mostra un certificato bulgaro qualunque, rilasciato dalle truppe di Sofia che occupano il suo Paese di origine, e viene messo da parte.
Non fa nulla invece per salvarsi Jovan Kalafatic, professore, insegnante di religione, che invece potrebbe. Tutti sanno che è un fascista convinto. A scuola sospettano anche che sia un delatore, che alcuni professori progressisti siano finiti in galera per opera sua. Basterebbe che dica chi è. Kalafatic invece tace. Tace anche quando passano i fascisti serbi per la "loro" selezione. Forse, nelle lunghe ore della tragedia passate con il suo popolo, deve aver capito la vera natura dell'Ordine Nuovo nel quale crede. Va, volontariamente, alla fucilazione con gli altri. Vanno volontari anche due vecchi genitori che non vogliono abbandonare i figli. Alla fucilazione vanno, divisi in due gruppi, anche i 300 studenti ginnasiali e i loro professori. Alla testa di un gruppo vi è il preside del ginnasio. L'altro gruppo marcia verso la morte in fila indiana, le mani sulle spalle, come dovessero danzare il kolo, la danza nazionale serba. Poi, cantano. Intonano "Hej Slaveni!", l'inno antico e comune a tutti gli slavi. Cadono cantando.
Il massacro dura a lungo. Su un fronte di morte lungo oltre dieci chilometri, fuori della città le armi crepitano fino alle 14 del giorno 21 ottobre. Settemilatrecento uomini di Kragujevac dai 16 ai 60 anni cadono divisi in 33 gruppi. Dovevano essere 2300. I tedeschi hanno più che triplicato il "coefficiente dichiarato" di rappresaglia. I graziati sono circa 3000. Molti di questi sopravvissuti rientreranno a piangere un morto. Kragujevac onora la memoria dei suoi fucilati il sabato successivo al massacro. Il rito ortodosso per il quale il sabato è il giorno dei morti, vuole anche che per ogni morto sia accesa una candela gialla e per ogni candela, cui si accompagna un pane che è da benedire con il vino santo, il pope reciti la parola dei defunti. I sacerdoti rimasti a Kragujevac sono solo due. Altri sette sono stati fucilati. Ma il rito deve essere compiuto. Mentre le donne piantano le candele, presentano i pani, gridano il nome del defunto, i due preti cantano l'antica preghiera della liturgia veteroslava. Dandosi il cambio pregano per ventiquattro ore, dalle sette alle sette.
Inutilmente i nazisti tentano poi di nascondere la verità sulla strage, alterando registri, imbrogliando le cifre, esumando e cremando cadaveri. Kragujevac ha fatto il "suo" appello. È la prova che Zivotjin Jovanovic, l'uomo sopravvissuto tre volte, porta ai giudici di Norimberga: "...Quell'ottobre del 1941 a Kragujevac furono esposte più di settemila bandiere nere... nella chiesa vennero presentati e benedet
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Italia: aggressore della Libia
Registrazione integrale degli interventi su www.marx21.it
Nota di Marx21.it
http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/151-il-parlamento-dellunione-africana-i-libici-devono-decidere-il-loro-futuro.html
http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/128-libia-documentario-di-rolando-segura.html
VIDEO: http://www.youtube.com/watch?v=5Fb0ziJMs-s
Contre la banalisation et la normalisation de l’ingérence
Controverse sur la Libye : Pierre Lévy contre Ignacio Ramonet (23 septembre 2011)
http://www.medelu.org/Contre-la-banalisation-et-la#nb5
Chris Marsden, WSWS, 18 October 2011
Libyan patriots resist NATO-led forces in Sirte
U.S. Secretary of Defense Leon Panetta, formerly director of the CIA, said at a news conference at NATO headquarters on Oct. 6 that the nearly nine-month-old war against the North African state of Libya would continue until all vestiges of resistance on the part of the people were eliminated.
This means that the intensive bombing of civilian areas and the national infrastructure will not let up. More innocent people will die by the thousands in this oil-producing country.
The following day Panetta visited the U.S. Naval Air Station at Sigonella, Italy, which has served as a major launching point for more than 20,000 sorties and 9,000-plus air strikes carried out so far in the war. He stood in front of the Global Hawk, a sophisticated fighter aircraft that provides important surveillance and intelligence information from its flights over Libya.
This aircraft can fly 24-hour, high-altitude missions that capture and transmit photographs of what is taking place on the ground. Panetta boasted that the war on Libya will provide lessons for future military operations.
Resistance continues in Sirte
Meanwhile, the forces of the National Transitional Council, supported by the U.S. and NATO, have for a month been attempting to take both Bani Walid and Sirte, two strongholds of the loyalist forces still committed to defending the country against the imperialist onslaught. Since March 17 NATO has bombed the nation nonstop. Despite numerous attempts to seize both cities, the NTC forces have been repelled, suffering hundreds of casualties.
According to an Oct. 10 Associated Press report, “The inability to take Sirte, the most important remaining stronghold of Gadhafi supporters, more than six weeks after the capital fell, has stalled efforts by Libya’s new leaders to set a timeline for elections and move forward with a transition to democracy.”
The NTC and NATO have no mandate to wage war or rule Libya. This is reflected in the fierce fighting by the Libyan people against these foreign financed and armed elements, which are handing over the country’s oil, natural gas and waterways to their imperialist masters.
British Defense Secretary Liam Fox, who is consumed by charges of corruption in the scandal-ridden government of Conservative Prime Minister David Cameron, announced that even if the NATO-led forces took Sirte, the Western “military actions would continue as long as remnants of the regime pose a risk to the people of Libya.” (AP, Oct. 10)
The NTC launched a new offensive against Sirte on Oct. 7. Although the city has been under siege for weeks and NATO has extensively bombed targets inside and around the coastal town, including a major hospital, the putative leader of the NTC, Mustafa Abdul-Jalil, admitted on Oct. 10, “Our fighters today are still dealing with snipers positioned on the high buildings and we sustained heavy casualties.”
The imperialists view the capture of Sirte as key to their strategic objective of subduing Libya. Some 250 miles southeast of Tripoli, Sirte is considered essential in solidifying neocolonial control over Libya’s 6 million people because it lies at the center of the coastal plain containing most of the population.
Gadhafi calls for intensifying resistance
In an Oct. 6 audio message, broadcast over Syria’s Al-Rai television, Libyan leader Moammar Gadhafi called for the escalation of both military and political opposition to the NTC and its NATO backers. He called for “new million-man marches in all cities and villages and oases” and described conditions in Libya as “unbearable” and the so-called NTC revolution as “a charade gaining its legitimacy through air strikes.”
Civilians who have fled Sirte since the siege and bombing say, “We didn’t know where the strikes were coming from. Everyone is being hit all day and all night.” (Reuters, Oct. 10)
The NATO-led attacks have created a humanitarian crisis. One family pointed out, “There is no electricity and no water. There is nothing. There is not one neighborhood that hasn’t been hit.” Nevertheless, the resistance to this military onslaught remains formidable.
Even the British press agency Reuters noted on Oct. 10 that “NTC forces have repeatedly claimed to be on the point of victory in Sirte, only to suffer sudden reversals at the hands of a tenacious enemy fighting for its life, surrounded on three sides and with its back to the sea. In just one field hospital to the east of the city, doctors said they had received 17 dead and 87 wounded in the fighting on Oct. 9. There were dozens more casualties elsewhere.”
NATO war seeks imperialist domination
NATO has refused to investigate the thousands of civilian deaths emanating from the atrocities committed by the NTC and the U.S. and European air strikes. In addition, an estimated $15 billion in property damage has been carried out against Libya thus far.
The imperialist countries have frozen $128 billion in Libyan assets accumulated during the period of Gadhafi’s leadership. The country reportedly owes no money to the International Monetary Fund or the World Bank. This distinguishes Libya from other African and developing states, which have been strangled by debt payments to the global financial institutions based in the West.
A delegation of World Bank and IMF officials is scheduled to visit the country amid infighting among the NTC leaders, who have consistently failed to create a provisional government. A recent plot to assassinate the military leader of the NTC shows the incapacity of this group to control the country without the continuing support and coordination of NATO.
Anti-war forces inside the NATO countries must step up their opposition to the war against Libya and expose through leaflets, broadcasts, mass demonstrations and petitions that this effort on the part of the imperialists is no different than what is taking place in Afghanistan, Iraq, Yemen and Palestine. The U.S. and the other NATO countries, faced with a worsening economic crisis at home, are escalating their aggression against the oppressed nations.
Demonstrations and occupations by youth and workers inside the U.S. and Europe are growing, but greater efforts are needed to link the plight of the working class and the oppressed, both inside the imperialist states as well as in the most underdeveloped regions of the planet. It is only through this unity that the economic crisis can be effectively challenged by those who are the most severely impacted by the current stage in capitalist globalization.
Workers World, 55 W. 17 St., NY, NY 10011
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Syrte, ville martyre de l'OTAN
15 octobre 2011
Les autorités religieuses de Syrte (Libye) ont promulgué une fatwa autorisant les habitants survivants à manger les chiens et les chats.
Il y a près d’un mois 3 000 soldats et 80 000 civils ont été pris au piège : la ville est assiégée par les forces du Conseil national de transition encadrées par des officiers de la Coalition internationale et bombardée par l’OTAN.
Syrte n’est plus approvisionnée en nourriture. L’électricité et l’eau sont coupés. Les hôpitaux ne fonctionnent plus. La ville n’est plus que ruines.
Seuls 10 000 à 20 000 personnes auraient réussi à fuir la mort lors des interruptions des bombardements.
L’OTAN affirme intervenir en Libye pour protéger la population civile et vouloir continuer son action jusqu’à la reddition ou la mort de Mouammar Kadhafi. Pourtant, le siège et le bombardement par l’OTAN constituent des crimes de guerres au regard des normes internationales compte tenu du fait que la population civile en est la principale victime.
Ce drame est ignoré par les médias et les responsables politiques de la zone OTAN —y compris par les leaders français en campagne électorale présidentielle—. Un silence qui fait d’eux des complices.
Libia, scontri a Tripoli e Sirte resiste
Non sembra che il conflitto in Libia sia terminato. Né che il nuovo regime del Cnt, imposto con la forza della copertura aerea della Nato e la benedizione di Al Qaeda, sia così “popolare” e rappresentativo della volontà dei “civili”.
Ieri si è tornati a sentire sparatorie nelle strade di Tripoli, mentre la guerra a Sirte per il Cnt segna il passo. In mano ai “ribelli” dalla fine di agosto, ieri alcune decine di fedelissimi di Muammar Gheddafi sono riapparsi, armi alla mano. Negli scontri sono rimasti feriti otto uomini del Cnt, che erano corsi in forze con i pick-up armati nel quartiere di Abu Salim. E' salito a tre morti ed una trentina di feriti, secondo il Cnt, il bilancio dei combattimenti di ieri a Tripoli, nel quartiere di Abu Salim, tra fedelissimi di Gheddafi e forze del nuovo governo.
Il Cnt appare dunque ancora lontano dal controllo del paese, impantanato com'è a Sirte e costretto a guardarsi le spalle nella stessa Tripoli. A Sirte, città natale di Gheddafi, le forze del Cnt, costrette ieri ancora una volta a una “ritirata tattica” (la sesta o la settima, si sta perdendo il conto) sotto il fuoco dei fedelissimi del Colonnello, hanno ritentato l'assalto alle ultime ma fin qui insuperabili sacche di resistenza, localizzate nei quartieri «N.2» e «Dollar», dove dopo un mese e mezzo si combatte una guerra logorante casa per casa.
La guerra che il Cnt pensava fosse ormai in dirittura d'arrivo si sta complicando con il passare dei giorni a Sirte, dove si combatte una battaglia che avrà probabilmente un esito scontato, ma che ritarda la proclamazione della «vittoria totale», il momento in cui il vessillo nero-verde-rosso della "rivoluzione" sarà issato ovunque in una Libia senza Gheddafi.
Ma il Cnt si sta costruendo anche una solida fama da contafrottole.
«Hanno commesso un grave errore i dirigenti del Cnt che in questi giorni hanno diffuso notizie false sulla cattura dei figli di Muammar Gheddafi». È quanto ha affermato il numero due del Fronte di Salvezza libico, Mohammed Ali Abdullah, intervistato dalla tv satellitare 'al-Arabiya' per commentare le notizie contrastanti giunte da Sirte circa la cattura di Muttasim Gheddafi, poi smentite. «Credo che queste notizie false vengano fuori per l'inesperienza dei responsabili della comunicazione del Cnt e per la veemenza dei combattimenti - ha aggiunto - Non si rendono conto però che così perde di credibilità». Abdullah, che fa parte di una formazione tra le prime ad aver partecipato alla rivolta del 17 febbraio di Bengasi, ha ricordato come «già lo scorso mese una situazione analoga l'abbiamo vissuta con l'annuncio della cattura di Seif al-Islam Gheddafi a Bani Walid, smentita dopo un giorno. Ieri è accaduto lo stesso con Muttasim e poche settimane fa lo stesso con il portavoce di Gheddafi, Moussa Ibrahim».
da Contropiano 16/10/2011
IL REPORTAGE. LA POPOLAZIONE D' ORIGINE AFRICANA È ACCUSATA DI AVER COMBATTUTO PER GHEDDAFI. E DEI 40 MILA ABITANTI SOLO POCHISSIMI SONO RIMASTI
Incendi, terrore, caccia all' uomo. La città dei neri non esiste più
A Tawargha, in Libia, teatro della vendetta dei ribelli sui «mercenari». Pulizia etnica Nonostante le promesse del nuovo governo, qui ci sono stati abusi e deportazioni di massa Un insorto «Uccidere i nemici negri che stavano con il Raìs è giusto. Se fossi in loro scapperei subito verso Sud. Qui non hanno più nulla da fare, se non morire»
TAWARGHA - Le palazzine bruciano piano. Un lavoro metodico, svolto senza fretta. Quelle che non si incendiano subito restano dimenticate per qualche giorno: porte e finestre sfondate, tracce di fumo sui muri, stracci di vestiti e schegge di mobili sparsi attorno. Poi gli attivisti della rivoluzione tornano ad appiccare il fuoco aiutandosi con la benzina ed il risultato è assicurato. Nei viottoli sporchi sono abbandonati alla loro sorte cani, galline, conigli, muli, pecore, mucche. Ogni tanto giunge una vettura dalla carrozzeria dipinta con i simboli del fronte anti-Gheddafi e si porta via gli animali. Gli orti sono secchi, è dai primi di agosto che nessuno si occupa di irrigarli. A parte il crepitare sommesso degli incendi, il silenzio regna sovrano. Una calma immobile, minacciosa, inquietante, spaventosa. Un benzinaio sulla provinciale poco lontano ci ha detto che non sarebbe difficile trovare la terra smossa delle fosse comuni. Ma è pericoloso, le pattuglie della guerriglia non amano curiosi da queste parti. Sono le immagini della pulizia etnica di Tawargha, piccola cittadina una trentina di chilometri a sud-est di Misurata. Ricordano i villaggi vuoti della ex-Jugoslavia negli anni Novanta. L' episodio che con maggior forza due giorni fa ci ha trasmesso la gravità immanente dei crimini consumati in questa zona è stato l' incontro con quattro ragazzi della «Qatiba Namr», una delle brigate di Misurata nota per le doti di coraggio e resistenza dimostrati al tempo dell' assedio delle milizie scelte di Gheddafi contro la «città martire della rivoluzione» in primavera. «Qui vivevano solo neri. Negri stranieri. Nemici dalla pelle scura che stavano con Gheddafi. Ucciderli è giusto. Se fossi in loro scapperei subito verso sud, in Africa. Qui non hanno più nulla da fare, se non morire», affermano sprezzanti. Viaggiano su di una Toyota dalla carrozzeria coperta di fango. Sono tutti armati di Kalashnikov. Portano scarpe da tennis, magliette scure e blu jeans. Dicono di avere diciannove anni, ma potrebbero essere anche più giovani. Brufoli e sguardo di sfida, con il dito sul grilletto si sentono padroni del mondo. «Siamo venuti ad assicurarci che nessun cane nero cerchi di tornare. Devono sapere che non hanno futuro in Libia», sbotta quello che sta al volante. Sostiene di chiamarsi Mustafa Akil, però non vuole essere fotografato, così neppure gli altri. A Tawargha ci siamo arrivati quasi per caso. Tornando da Sirte verso Tripoli, giunti poco prima delle periferie orientali di Misurata, è stato impossibile non vedere le colonne di fumo degli incendi. Sono almeno una ventina. Si nota in particolare una palazzina a cinque piani divorata dalle fiamme rosse che si allungano dai balconi. Nel parcheggio sottostante sono fermi almeno cinque pick up delle forze della rivoluzione. Ci avviciniamo. Ma i miliziani ordinano di restare lontani. «C' erano circa 40.000 negri. Sono partiti tutti. Tawargha non esiste più. Ora c' è solo Misurata», si limita a ripetere uno di loro, barba fluente e occhiali neri. Sui cartelli stradali il nome della città è stato cancellato con vernice bianca, al suo posto è scritto quello di «Nuova Tommina», un villaggio delle vicinanze che era stato attaccato dai lealisti in aprile. La storia non è nuova. Le cronache della resa delle truppe fedeli al Colonnello a Tawargha contro le colonne dei ribelli di Misurata sostenuti dai bombardamenti Nato era arrivata il 13 agosto. E quasi subito Amnesty International e altre organizzazioni per la difesa dei diritti umani avevano denunciato massacri, abusi di ogni tipo e soprattutto deportazioni di massa. Unica scusa addotta dai ribelli era stata che proprio gli abitanti di Tawargha erano stati tra i più crudeli «mercenari africani» nelle file nemiche. Ma poi le cronache della caduta di Tripoli e gli sviluppi seguenti avevano preso il sopravvento. Il 18 settembre un inviato del Wall Street Journal citava il presidente del Consiglio Nazionale Transitorio, Mustafa Abdel Jalil, che dava il suo placet alla totale distruzione della cittadina. «Il fato di Tawargha è nelle mani della gente di Misurata», sosteneva Jalil, giustificando così appieno i crimini di guerra. La novità verificata sul campo è però che la pulizia etnica continua. Nonostante le rassicurazioni contro ogni politica razzista e in difesa delle minoranze nere in Libia fornite a più riprese alla comunità internazionale dai dirigenti della rivoluzione, a Tawargha si sta portando a termine del tutto indisturbati ciò che era iniziato ad agosto. I muri delle case devastate sono imbrattati di slogan freschi contro i «murtazaka», come qui chiamano i «mercenari» pagati dalla dittatura di Gheddafi. Sono firmati in certi casi dalle «brigate per la punizione degli schiavi neri» e trasudano il razzismo più virulento. In verità, molti degli abitanti nella regione di Tawargha sono discendenti delle vittime delle razzie a caccia di schiavi organizzate in larga scala dai mercanti arabi della costa per secoli sino alla metà dell' Ottocento nel cuore dell' Africa sub-sahariana. Libici a tutti gli effetti, figli di libici, sono ora tra le vittime più deboli del caos e delle incertezze in cui è scivolato il Paese. Nessuno conosce ancora le cifre dei loro morti e feriti. Le nuove autorità di Tripoli non rendono noti i numeri dei prigionieri. E quando la fanno sono spesso contradditori e impossibili da verificare. Di tanto in tanto si viene a conoscenza di ex abitanti di Tawargha arrestati nei campi profughi e nei quartieri poveri attorno a Tripoli. Le voci di violenze carnali contro le donne sono ricorrenti. Molti giovani sarebbero ora tra i combattenti irriducibili negli assedi di Sirte e a Bani Walid. Altri sarebbero riusciti ad unirsi ai Tuareg nel deserto verso Sabha. Sono motivati dalla consapevolezza che la «caccia al negro» non si ferma. Due giorni fa, durante gli scontri a Tripoli tra milizie della rivoluzione e sostenitori di Gheddafi, i primi ad essere arrestati erano i passanti di pelle nera. Lorenzo Cremonesi RIPRODUZIONE RISERVATA **** I «neri» La minoranza Presente da sempre in Libia, la popolazione nera è cresciuta nell' era Gheddafi con le migrazioni di migliaia di persone in cerca di lavoro dai vicini Stati subsahariani I mercenari Usati dal colonnello come soldati lealisti, sono oggi vittime delle ritorsioni dei ribelli
Cremonesi Lorenzo
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(16 ottobre 2011) - Corriere della Sera
Guerre benedette
Manlio Dinucci (il manifesto, 4 ottobre 2011)
Mons. Vincenzo Pelvi, arcivescovo ordinario militare e direttore della rivista dell’Ordinariato «Bonus Miles Christi» (il Buon Soldato di Cristo), prova «amarezza e disagio» di fronte a «chi invoca lo scioglimento degli eserciti, l’obiezione contro le spese militari». Questi miscredenti non capiscono che «il mondo militare contribuisce a edificare una cultura di responsabilità globale, che ha la radice nella legge naturale e trova il suo ultimo fondamento nell’unità del genere umano». Dall’Afghanistan alla Libia, «l’Italia, con i suoi soldati, continua a fare la sua parte per promuovere stabilità, disarmo, sviluppo e sostenere ovunque la causa dei diritti umani». Il militare svolge così «un servizio a vantaggio di tutto l’uomo e di ogni uomo, diventando protagonista di un grande movimento di carità nel proprio paese come in altre nazioni» (Avvenire, 2 giugno 2011). Mons. Pelvi prosegue così la tradizione storica delle gerarchie ecclesiastiche di benedire gli eserciti e le guerre. Un secolo fa, nel 1911, nella chiesa pisana di S. Stefano dei Cavalieri, addobbata di bandiere strappate ai turchi nel Cinquecento, il cardinale Maffi esortava i fanti italiani, in partenza per la guerra di Libia, a «incrociare le baionette con le scimitarre» per portare nella chiesa «altre bandiere sorelle» e in tal modo «redimere l’Italia, la terra nostra, di novelle glorie». E il 2 ottobre 1935, mentre Mussolini annunciava la guerra di Etiopia, Mons. Cazzani, vescovo di Cremona, dichiarava nella sua pastorale: «Veri cristiani, preghiamo per quel povero popolo di Etiopia, perché si persuada di aprire le sue porte al progresso dell’umanità, e di concedere le terre, ch’egli non sa e non può rendere fruttifere, alle braccia esuberanti di un altro popolo più numeroso e più avanzato». Il 28 ottobre, celebrando nel Duomo di Milano il 13° anniversario della marcia su Roma, il cardinale Schuster esortava: «Cooperiamo con Dio, in questa missione nazionale e cattolica di bene, nel momento in cui, sui campi di Etiopia, il vessillo d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza le catene agli schiavi. Invochiamo la benedizione e protezione del Signore sul nostro incomparabile Condottiero». L’8 novembre, Mons. Valeri, arcivescovo di Brindisi e Ostumi, spiegava nella sua pastorale: «L’Italia non domandava che un po’ di spazio per i suoi figli, aumentati meravigliosamente da formare una grande Nazione di oltre 45 milioni di abitanti, e lo domandava a un popolo cinque volte meno numeroso del nostro e che detiene, non si sa perché e con quale diritto, un’estensione di territorio quattro volte più grande dell’Italia senza che sappia sfruttare i tesori di cui lo ha arricchito la Provvidenza a vantaggio dell’uomo. Per molti anni si pazientò, sopportando aggressioni e soprusi, e quando, non potendone più, ricorremmo al diritto delle armi, fummo giudicati aggressori». Nel solco di questa tradizione, don Vincenzo Caiazzo – che ha la sua parrocchia sulla portaerei Garibaldi, dove celebra la messa nell’hangar dei caccia che bombardano la Libia – assicura che «l’Italia sta proteggendo i diritti umani e dei popoli, per questo siamo in mezzo al mare» (Oggi, 29 giugno 2011). «I valori militari – spiega –vanno a braccetto con i valori cristiani». Povero Cristo.