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Да ли је Србији место у НАТО-у? (други део)

СРБИЈА КАО ГРЧКА?


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March 26th 2010 Celebration:  
10 YEARS OF BELGRADE FORUM FOR A WORLD OF EQUALS

На прагу деценије од агресије НАТО


IL SIGNORE DELLA GUERRA

<< La pace è facilissima da ottenere: basta arrendersi. >>

Edward Luttwak alla trasmissione AnnoZero, Rai2, 15 aprile 2010


----Messaggio originale----
Da: nuovaalabarda  @...
Data: 30/04/2010 16.22

Vi comunico che è stato inserito  l'articolo sul nuovo libro di Raoul Pupo (Trieste '45, edito da Laterza) all'indirizzo 
 
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-la_storia_secondo_raoul_pupo..php
 
buona lettura!
Claudia Cernigoi
---

La Storia Secondo Raoul Pupo.

IN MARGINE ALLA PRESENTAZIONE DI “TRIESTE ‘45” DI RAOUL PUPO, 21 APRILE 2010.

Lo storico Raoul Pupo ha recentemente pubblicato un nuovo libro “Trieste ‘45” (Laterza 2010), nel quale fa una ricostruzione degli eventi storici che interessarono Trieste e la Venezia Giulia alla fine del secondo conflitto mondiale. Questo libro è stato presentato a Trieste il 21 aprile scorso, nella prestigiosa sede dell’Aula magna della Scuola per interpreti, già sede dell’hotel Balkan che era stato dato alle fiamme dallo squadrismo fascista nel 1920. Relatori gli storici Roberto Spazzali e Marta Verginella.
Non vogliamo entrare nel merito di tutto il libro ma fare solo un paio di osservazioni.
Osserviamo innanzitutto che il testo di Pupo non è tanto un’analisi di fatti storici quanto una serie di interpretazioni politiche degli avvenimenti. Di conseguenza quanto scritto dallo studioso è in partenza influenzato dalle posizioni politiche dello stesso: essendo egli anticomunista ed antijugoslavo le sue analisi non possono prescindere dal suo modo di rapportarsi. Così la sua affermazione che la realizzazione della Jugoslavia di Tito è giunta “dopo una guerra civile ad altissima intensità” ed una “rivoluzione di tipo bolscevico” (pag. 330), che non trova giustificazione storica, può essere compresa solo considerando la posizione politica di Pupo. Ricordiamo che la lotta di liberazione della Jugoslavia era stata motivata dall’occupazione italo-germanica di quel paese; nell’ambito di questa lotta di liberazione la componente più forte, che ebbe poi anche l’appoggio degli Alleati, era quella che faceva capo a Tito. Pur consapevoli che non è con i se che si fa la storia, possiamo ipotizzare che senza l’occupazione nazifascista difficilmente la componente comunista avrebbe iniziato una lotta armata e provocato una guerra civile per prendere il potere.
Per quanto concerne la questione degli arresti operati dalle autorità jugoslave alla fine della guerra (in questo testo finalmente Pupo non parla genericamente di “foibe” ma specifica che si trattò di “arresti”) lo storico fa un’affermazione quantomeno singolare: non sarebbe degno di interesse tanto il numero dei morti “ovviamente sconosciuto”, quanto la mole di arresti (pag. 230).
A prescindere dal fatto che il numero dei morti “ovviamente” non è sconosciuto (quantomeno non a Trieste, Gorizia, Fiume, per le quali città sono stati condotti degli studi discretamente precisi sulla base dei registri anagrafici), l’insistere nel voler quantificare il problema sul numero degli arresti è del tutto fuorviante, se non si prosegue il discorso precisando quanti furono rilasciati già nell’immediato.
In concreto: come sempre quando un esercito prende il controllo di un territorio già in mano al nemico, tutti i militari e le forze armate sconfitte vengono tratti in arresto. Così è accaduto anche a Trieste nel maggio 1945: ad esempio è vero che tutti i membri della Guardia civica reperibili sono stati arrestati e trattenuti per un paio di giorni dall’esercito jugoslavo: ma è anche vero che dopo alcuni sommari controlli furono rilasciati tutti coloro per i quali non c’erano accuse specifiche di comportamenti criminali. Se consideriamo che le fonti alleate parlarono di diverse migliaia di arresti a Trieste nei primi giorni di maggio, e che in concreto da tutta la provincia furono 500 coloro che non fecero ritorno (sono comprese in questo numero anche le vittime di regolamenti di conti e vendette personali, quindi non imputabili alle autorità jugoslave), la valutazione di Pupo è decisamente fuorviante per la comprensione degli eventi.
Anche in un altro punto la visione politica nuoce alla ricostruzione storica: quando Pupo sostiene che la repressione jugoslava colpì tutti coloro che non volevano collaborare con l’esercito del nascente stato jugoslavo. L’autore non considera che l’esercito jugoslavo, essendo uno degli eserciti alleati contro l’Asse (l’Italia era solo “cobelligerante”, ricordiamo), aveva tutto il diritto, sancito dalle regole dell’armistizio firmato dall’Italia, di chiedere “collaborazione” (nel senso che dovevano porsi a loro disposizione) alle forze armate presenti sul territorio dove arrivavano. A Trieste il CVL (che già era uscito dal CLN Alta Italia perché si rifiutava di collaborare con la resistenza jugoslava: e qui va ribadito un concetto che spesso viene presentato capovolto: quando si dice che a Trieste il Partito comunista non faceva parte del CLN, bisognerebbe specificare che era stato per primo il CLN triestino a porsi fuori dal CLNAI che aveva dato come direttiva quella di allearsi con gli Jugoslavi, e per questo il PC triestino, che lavorava assieme al Fronte di Liberazione – Osvobodilna Fronta non faceva parte del CLN), forse per un malinteso senso di patriottismo, o forse per altri motivi, non volle consegnare le armi all’esercito jugoslavo, così come le guardie di finanza (incorporate all’ultimo momento nel CVL) in alcuni casi non si misero a disposizione degli jugoslavi o addirittura spararono loro contro, probabilmente perché ordini sbagliati erano stati loro impartiti dall’alto (e qui potremmo aprire tutta una lunga dissertazione sul “piano Graziani” che teorizzava le provocazioni contro gli Alleati in modo da creare disordini ed incidenti).
Nella fattispecie il gruppo di guardie di finanza della caserma di Campo Marzio, invece di combattere a fianco della IV Armata jugoslava scesa in città, si mise a sparare contro di essa assieme ai militari germanici, che erano accasermati nello stesso edificio. Di conseguenza un’ottantina di finanzieri furono arrestati ed internati nei campi di prigionia (secondo un documento citato, ma non reso pubblico, da Giorgio Rustia in una lettera pubblicata su “Trieste Oggi” il 25/4/01, 77 di questi sarebbero stati uccisi a Roditti presso Divaccia, a pochi chilometri da Trieste). Ricordando che era compito della brigata Timavo del CVL (per la precisione del battaglione agli ordini del tenente colonnello Domenico Lucente, come leggiamo ne “I cattolici triestini nella Resistenza”, Del Bianco 1960) prendere il controllo della caserma di Campo Marzio, quindi possiamo anche domandarci quale responsabilità ebbero in questi incidenti i dirigenti del CVL, che evidentemente non avevano informato esattamente i finanzieri in merito agli accordi presi.
A proposito di questo episodio, dobbiamo anche citare quanto scrive lo storico Roberto Spazzali (che è stato tra i relatori del lavoro di Pupo il 21/4/10), e cioè che la sera del 30 aprile “quando a Trieste non erano ancora entrate le truppe jugoslave”, Vasco Guardiani (all’epoca impiegato ai Cantieri, organizzatore della brigata Frausin del CVL, ma successivamente anche “gladiatore”), che si trovava nella Curia per parlare col Vescovo, vide passare i finanzieri “prelevati dalla caserma di Campo Marzio, scortati da operai dei Cantieri navali” (in “…l’Italia chiamò”, LEG 2003). E ricordiamo qui che nei “diari” del CVL si legge che ai Cantieri si sarebbero “insinuati” membri delle brigate Venezia Giulia e Frausin.
Dunque se Spazzali ha riportato (ritenendo quindi attendibile) quest’altra versione dell’arresto dei finanzieri di Campo Marzio, perché non ne ha parlato nel corso del dibattito sul nuovo testo di Pupo?
In conclusione di questo discorso, e senza entrare nel merito di quanto avvenuto, consideriamo che si era alla fine di un conflitto mondiale dove sostanzialmente i combattenti erano divisi in due gruppi: quelli che combattevano con l’Asse e quelli che combattevano con gli Alleati. Se all’arrivo di un esercito alleato alcuni armati non si ponevano a loro disposizione, venivano logicamente considerati come “nemici”, con le conseguenze del caso, e ciò vale sia per chi non si consegnava agli angloamericani che per chi non si consegnava agli jugoslavi.
Prendere atto di ciò significa valutare i fatti storici e non “ragionare come nel 1945” quando si eliminava tutti coloro con cui non ci si trovava d’accordo, accusa che Pupo ha mosso alla ricercatrice storica Claudia Cernigoi che aveva fatto queste obiezioni nel corso del dibattito: un’affermazione questa di Pupo piuttosto pesante ed offensiva, oltre che fuori luogo nell’ambito di un dibattito storico.
L’altro punto su cui non concordiamo con le tesi di Pupo è la sua ricostruzione di quanto sarebbe avvenuto presso la “foiba” di Basovizza. Nel suo libro fa dapprima un paio di accenni a possibili infoibamenti nel pozzo della miniera: a pag 24, quando parla della fucilazione di Gaetano Collotti (il commissario dell\'Ispettorato Speciale di PS, corpo speciale di repressione antipartigiana i cui metodi di lavoro erano la tortura sistematica, l\'eliminazione sbrigativa degli arrestati ed il saccheggio delle abitazioni rastrellate) a Carbonera scrive che “la stessa sorte” toccò a “molti suoi collaboratori caduti in mano jugoslava” che “finirono con tutta probabilità nel pozzo della miniera di Basovizza”; ed ancora a pag. 222 parla di “fucilazioni di massa a Basovizza”, quasi a voler preparare psicologicamente il lettore al successivo capitolo nel quale cerca di dimostrare che a Basovizza sarebbero stati uccisi “circa 200 questurini” (come detto nel corso della presentazione del libro). 
A pag. 246 inizia il capitolo su Basovizza (introdotto dalla preghiera scritta da monsignor Santin per gli “infoibati”) e, dopo avere narrato la vicenda degli antifascisti fucilati nel 1930 a Basovizza (su questo fatto vi rinviamo all’articolo “Martiri di Basovizza” http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-martiri_di_basovizza.php), Pupo riprende in mano l’ormai più che noto documento anonimo (la firma Source che significa semplicemente Fonte non permette di identificare il redattore del rapporto) che riporta le presunte dichiarazioni di due sacerdoti (don Virgil Šček e don Francesco Malalan). Sull’attendibilità di questo rapporto scrive: “qualche interprete ha osservato che in realtà i due preti non hanno assistito de visu alle uccisioni: l’osservazione è pertinente, ma il ruolo dei due sacerdoti nella comunità locale e nel movimento di liberazione li rende portavoce attendibili di un sapere comune. Il rapporto dunque è preciso e circostanziato. Ha un solo difetto: è un resoconto di seconda mano proveniente da una fonte coperta. Prima di accettarlo ben sarebbe poterlo incrociare con altre fonti di provenienza diversa”.
Tralasciando che “qualche interprete” sarebbe Claudia Cernigoi (i cui studi Pupo peraltro non considera), vediamo ora le “fonti” di “diversa” provenienza “incrociati” dallo storico.
Il primo è un rapporto dell’Ozna, datato 3/9/45, che riferisce delle ispezioni condotte dagli angloamericani nel pozzo della miniera. In tale rapporto, cita Pupo, si parla di “circa 250 kg cadaveri in putrefazione”.
Noi osserviamo che 250 chili di resti umani possono rappresentare al massimo “una decina di corpi smembrati”, come scriveva quel rapporto “segreto” dei servizi alleati pubblicati sul “Piccolo” del 31/1/1995, e non i 200 questurini di Pupo: ma quando Cernigoi ha fatto presente un tanto nel corso della presentazione di “Trieste ‘45”, si è sentita rispondere “lo sapevo io che si finiva a parlare di ossa e cadaveri”, come se nel corso di un dibattito storico nel quale si parla di eccidi parlare di cadaveri fosse andare fuori tema o, peggio, come asserito dallo storico, non “rispettare la memoria” di chi ha avuto un parente “infoibato”.
A prescindere dal fatto che parlare di storia è una cosa, trarre giudizi morali e rispettare le memorie è altro, quello che sarebbe utile chiarire, a questo punto, è se si rispetta di più la memoria dei morti dicendo (a sproposito) che 250 chili di resti umani rappresentano la prova che 200 questurini sono stati infoibati o evidenziando l’incongruità dell’affermazione.
La seconda “fonte” citata da Pupo è una frase tratta dai diari di don Šček: parla dei “questurini da Trieste trasportati a Basovizza” che “alla sera li fucilarono e li gettarono nelle grotte”. 
Considerando, come ha fatto Pupo, che don Šček era un “leader carismatico rispettato dai partigiani” e quindi un “testimone autorevole”, viene da pensare che se avesse saputo che i “questurini” erano stati gettati nella foiba di Basovizza avrebbe parlato di “pozzo della miniera”, al singolare, e non di “grotte”: per cui non ci sentiamo di condividere la conclusione cui arriva Pupo che uno storico “puntiglioso può ritenere che molto probabilmente i fatti si sono svolti come abbiamo detto”. Infine, come dato essenziale, va detto che i questurini di Trieste “scomparsi” nei “40 giorni” non erano 200 ma un centinaio, e della maggior parte di essi si sa dove e come sono morti, sicuramente non a Basovizza.
Rileviamo a questo punto che lo storico Pupo non ha “incrociato” nessun altro documento, non ha ad esempio preso in minima considerazione la mole di verbali ed atti che un altro storico triestino, Gorazd Bajc ha trovato negli archivi di Washington e che sono stati presentati nel settembre scorso nella stessa Aula magna, alla presenza dello storico Spazzali. Questi documenti, che dimostrano in modo piuttosto esplicito che da Basovizza non furono recuperati che corpi di militari tedeschi, non sembrano esistere per Raoul Pupo.
La conclusione del capitolo su Basovizza è comunque un’altra: “non abbiamo certezze ma può essere che nel pozzo della miniera si trovino membri dell’Ispettorato”, il che porta Pupo a fare un paragone (a nostro parere aberrante) tra i due luoghi della memoria di Basovizza: sui fucilati di Basovizza aleggia il sospetto del terrorismo, sugli infoibati di Basovizza il sospetto che vi siano i torturatori dell’Ispettorato Speciale di PS.
Una valutazione del genere richiederebbe come risposta uno studio di diverse pagine: per motivi di spazio ci limitiamo per ora a dire che secondo noi non è così che si scrive la storia. 

aprile 2010


Nel trentennale della morte di Tito, una galleria fotografica alla
pagina: https://www.cnj.it/AMICIZIA/titovasmrt.htm


http://glassrbije.org/index.php?option=com_content&task=view&id=59391&Itemid=33


30 GODINA OD SMRTI JOSIPA BROZA TITA
4. maj 2010.

Polaganjem venaca i cveća, u Kući cveća i nizom drugih manifestacija
širom Srbije danas se obeležava 30. godišnjica od smrti doživotnog
predsednika Socijalističke Federativne Republike Jugoslavije Josipa
Broza Tita. Iako o njemu postoje oprečna mišljenja među
istoričarima, kult njegove ličnosti i dalje je veoma jak među
velikim brojem građana svih bivših jugoslovenskih republika a mnogi
ga i danas vide kao simbol boljeg, sigurnijeg i uređenijeg života.
Pripremila Jelena Simić.


Među jugonostalgičarima i poštovaocima Titovog lika i dela, venac na
grob svog dede položio je Titov unuk i lider Komunističke partije
Srbije Josip-Joška Broz. On je ocenio da je trenutni loš život i
sećanje na bežbrizne dane uticalo da veliki broj ljudi danas dođe u
Kuću cveća. Titova udovica, Jovanka Broz, u ranim jutarnjim satima
poslala je venac sa natpisom "Voljenom Titu - Jovanka", što radi već
petu godinu za redom. Cveće su do podneva položile brojne delegacije:
predstavnici vojske, ambasadori Gane i Kuvajta, predstavnici
Socijalističke partije Srbije, Invalidi rada iz Stare Pazove, Savez
antifašista iz Hrvatske, penzionisani gardisti koji su bili Titovo
obezbeđenje, društvo "Josip Broz Tito" iz Hrvatske, Makedonije i
Bosne i Hercegovine, predstavnici SUBNOR-a. U ime Socijalističke
partije Srbije, počast Titu su odali Žarko Obradović i Aleksandar
Antić. Zamenik predsednika SPS-a i ministar prosvete Žarko Obradović
je rekao da socijalisti pamte Josipa Broza kao državnika, koji je ime
Jugoslavije učinio poznatim i koja danas predstavlja sinonim za
državu koja je bila poštovana širom sveta. Predsednik Skupštine
grada Beograda Aleksanadar Antić smatra da je Tito bio jedan od
političara koji je ostavio značajan doprinos u novijoj političkoj
istoriji sveta, čovek koji je menjao svet oko sebe i koji zaslužuje
svo naše poštovanje.

Josip Broz Tito umro je 4. maja 1980. u Ljubljani, a njegovoj sahrani
četiri dana kasnije u Beogradu prisustvovalo je 700.000 ljudi, ali i
209 državnih delegacija iz 128 zemalja sveta. Najposećenijem pogrebu
nekog državnika u 20. veku odali su na licu mesta 31 predsednik
države, 22 premijera, četiri kralja, šest prinčeva i 11 predsednika
nacionalnih parlamenata, a u svetu tada podeljenom po hladnoratovskim
linijama, bili su državnici iz oba tabora.
Tito je rođen 7. maja 1892. u zagorskom selu Kumrovec, ali je njegov
rođendan proslavljan 25. maja kao "Dan mladosti", kada je organizovana
štafeta koja je iz ruke u ruku nošena kroz celu zemlju da bi mu bila
uručena na završnom sletu u Beogradu.
Josip Broz je tokom Drugog svetskog rata komandovao najvećim gerilskim
pokretom u porobljenoj Evropi, a o nesumnjivom vojničkom talentu
svedoči činjenica da je razradio koncepciju stvaranja partizanskih
odreda i Pokreta narodnog oslobođenja iz kojeg je 26. novembra 1942.
nastala Narodnooslobodilačka vojska Jugoslavije (NOVJ). Posle rata, u
skladu s revolucionarnim idejama, ukinuo je monarhiju i višestranački
sistem i odmah 1945. izabran za predsednika vlade i ministra odbrane,
da bi predsednik države postao 1953. Na najvišu funkciju je biran
sedam puta, a doživotni predsednik države i partije postao maja 1974.
Posle obračuna sa Staljinom, u vreme hladnog rata, Tito je na
međunarodnoj sceni pozicionirao zemlju između Istoka i Zapada, zbog
čega je od polovine pedesetih godina 20. veka, Jugoslavija decenijama
dobijala značajnu finansijsku i vojnu pomoć SAD. Kao izuzetno vešt
državnik i ideolog, Tito je u vreme liberalizacije pod vladavinom
Hruščova, ubrzo normalizovao odnose sa SSSR-om. Sa liderima Indije i
Egipta Nehruom i Naserom inicirao je osnivanje Pokreta nesvrstanih
zemalja 1961. godine u Beogradu i uspeo vrlo brzo da okupi veliki broj
država Azije, Afrike i Južne Amerike. Prema mnogim viđenjima, sa
Titovom smrću su krenuli dezintegracioni procesi u SFRJ, a u godinama
pred raspad zemlje, počele su kritike i distanciranja od njegovog lika
i dela.
Povodom 30-te godišnjice Titove smrti istoričari u Srbiji ističu da
je nesporno reč o istorijskoj ličnosti, veštom vojskovođi i
državniku. Prema njihovoj oceni, Broz je na međunarodnom planu vodio
realnu politiku i uspeo da jednoj maloj zemlji obezbedi mesto i ugled
u svetu, ali se ne može amnestirati ni od "ličnih zasluga" za propast
Jugoslavije. Istraživač Balkanološkog instituta SANU Čedomir Antić
ocenjuje da je Josip Broz, ličnost velikih političkih sposobnosti i
karijere, punih 35 godina vodio veoma složenu državu u izuzetno
teškim okolnostima. “On je za života hteo da očuva jedinstvenu
Jugoslaviju, ali njegovo nasleđe to nije omogućilo", rekao je Antić.
Profesor istorije Jugoslavije na beogradskom Filozofskom fakultetu
Ljubomir Dimić smatra da je Broz imao veći značaj kao političar i
državnik na svetskoj, nego na domaćoj sceni. On je objasnio da je
Tito, kao vođa Narodnooslobodilačke borbe već u susretima sa
liderima Velike Britanije i SSSR-a, Čerčilom i Staljinom, shvatio
šta je realna politika i zato mu pripada zasluga što je jugoslovenska
revolucija priznata još pre kraja Drugog svetskog rata. Srpski
istoričari su saglasni i da je jugoslovensku krizu generisalo i
razvlašćivanje federacije, koje je vodilo jačanju nacionalizma u
republikama, u čemu Broz takođe ima posredne i neposredne zasluge. To
je dovelo do učvršćivanja republičkih elita koje započinju svađe
oko plana, dohotka, ulaganja, pomoći nerazvijenima, a sporenja s
godinama eskaliraju i vode krvavom raspadu početkom devedesetih.
Jugoslavija se suštinski raspala mnogo ranije nego što se misli, već
70-tih, a ono što je usledilo krajem 80-tih godina, samo je epilog,
ocenio je Predrag J. Marković iz Instituta za savremenu istoriju.
Tri decenije posle Titove smrti i 20 godina nakon početka krvavog
sloma "Titove Jugoslavije", sećanja na visok životni standard,
uređenost i bezbednost u toj zemlji veoma su jaka, naročito u
okolnostima tranzicije i dugogodišnje opšte krize, lik predsednika
SFRJ je ponovo u žiži, a Kuća cveća je u poslednjih 10 godina sve
popularnije odredište za turiste iz sveta i regiona. Kroz Kuću
cveća, u sklopu Muzeja istorije Jugoslavije, prošlo je oko 17 miliona
ljudi, počev od 1980. godine. Poseta se u devedesetim značajno
smanjila, a u prethodnoj deceniji je opet počela da raste. Prema
rečima zaposlenih u muzejskoj upravi, u Kuću cveća 4. i 25. maja
dolaze ljudi iz čitave bivše Jugoslavije, a među njima je i sve
više mladih, koji nisu bili rođeni kada je Tito bio živ.
Muzej istorije Jugoslavije je u poslednje dve godine organizovao
nekoliko vrednih izložbi koje ilustruju značaj i hobije pokojnog
predsednika SFRJ. "Tito je ostvario san svakog apsolutni vladara - da
bude hvaljen i slavljen za života i poštovan posle smrti. Njegova
popularnost velika je i danas, 30 godina posle smrti, ocenjuje Momo
Cvijović, dugogodišnji kustos muzeja. Nekada su se na danasnji dan, u
15.05, kada je umro Josip Broz Tito, oglašavale sirene i tada bi
čitava Jugosalavija na minut stajala mirno i tako odavala počast
"doživotnom predsedniku Socijalističke Federatvine Republike
Jugoslavije".