Informazione

"Foibe" ed espansionismo italiano

1. Nelle foibe la falsa innocenza della patria (di Enzo Collotti)

2. «Quella tragedia non giustifica le colpe del fascismo» (intervista a
Galliano Fogar)

3. Confine orientale: le foibe tra imperialismo e resistenza (di
Antonino Marceca)


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il manifesto - 14 Febbraio 2004

FOIBE - La storia dal nulla

Nelle foibe la falsa innocenza della patria

Un groviglio di silenzi, rimozioni, pentimenti, confessioni e
riabilitazioni a metà. L'uso politico della storia è connaturato alla
classe politica italiana. Di destra e di sinistra. E così, sul solco di
una macabra par condicio, nasce la legge che istituisce la giornata
della memoria dedicata alle vittime delle foibe. Delle cui sofferenze
poco importa agli eredi dei fascisti che sono al governo. In gioco,
soltanto interessi elettorali

ENZO COLLOTTI

Quali che siano le buone intenzioni dei politici le manipolazioni della
storia producono sempre veleno. L'uso politico della storia è così
connaturato alla nostra classe politica, di destra e di sinistra, che
diventa sempre più difficile districarsi nel groviglio di silenzi,
rimozioni, pentimenti, confessioni e riabilitazioni a metà per cui il
risultato della memoria e della storia condivisa finisce per essere
sempre una verità dimezzata. Si è perduta la capacità di distinguere
tra storia e memoria, anche perché questa si impone per
l'amplificazione che ne fanno i media sempre sensibili ai gruppi di
pressione, a chi grida più forte, e soprattutto la capacità di leggere
criticamente la storia, a cominciare dalla propria storia, che viene
schiacciata dall'alternativa di essere ritenuta verità assoluta o di
essere condannata all'abiura. Un effetto devastante per una cultura
politica nella quale si finisce per affermare con cinismo ripugnante
che una memoria vale l'altra, continuando così ad eludere ogni serio
esame di coscienza sul proprio passato. Purtroppo è una metodologia
politica che ha una lunga tradizione e che non ha mai insegnato che il
vittimismo paga sempre e soltanto a destra, altro non essendo che uno
scampolo di patriottismo nazionalista, una proiezione di provincialismo
apparentemente anacronistico nel momento in cui tutti si riempiono la
bocca di afflati europeistici.

Siamo andati così avanti nel nostro cammino verso l'Europa che ora, a
sessant'anni o poco meno dalla liberazione, ci accorgiamo che è
esistito e che esiste un problema del nostro confine orientale. Credo
che delle vittime delle foibe e dei dolori e delle sofferenze di coloro
che condivisero l'esodo istriano ai politici che ne vogliono
monumentalizzare il ricordo in un secondo ambiguo giorno della memoria
interessi relativamente poco. Sono in gioco esclusivamente interessi
elettorali e riscaldare l'opinione pubblica su questi temi con gli
eredi dei fascisti al governo non può che aprire nuovi varchi nelle
infinite operazioni di mistificazione della storia con le quali, ad una
cultura legata ai valori della Resistenza e dell'antifascismo capace di
rinnovarsi e di rivedere criticamente i propri errori, si va
sostituendo una cultura diffusa fatta di parole obsolete, di miti duri
a morire, di meschino localismo, di preconcetti e pregiudizi e di vere
e proprie falsificazioni.

A quasi trent'anni dal processo per la Risiera di S. Sabba non si
vuole allargare la cerchia delle conoscenze e della ricerca della
verità, ma si vuole rovesciare un paradigma storico e non soltanto
storiografico, che dovrebbe rappresentare anche un impegno di
comportamento democratico e civile, restituendo all'Italia l'onore
dell'innocenza ed elevandola sull'altare della vittima. Ne siano o no
consapevoli i protagonisti di questa operazione, questa è la percezione
che non si può non avere del loro disinvolto modo di procedere.

E'stato giustamente sottolineato come per i protagonisti di simili
operazioni la storia cominci nel 1945. Ma ciò che accadde nel 1945 e
non solo in Italia ma su scala continentale europea, non è che un
momento di passaggio di qualcosa di molto più complesso che ha un
prologo molto più lontano. Per crudeli e spiacevoli che possano essere
i fatti del 1945, di cui nessuno può auspicare una ripetizione, essi
non sono scaturiti dal nulla, a meno appunto di accettare un criterio
di atemporalità che può consentire di riabilitare categorie
vetero-antropologiche e di contrapporre all'Italia faro di civiltà la
sempiterna barbarie slava. Ma pensavamo che simili metafore
appartenessero ormai alla cattiva propaganda di un lontano passato.
Evidentemente così non è se ci troviamo a dover cercare di riportare i
fatti alle loro origini e alle loro dimensioni. Foibe ed esodo
dall'Istria sono sicuramente due episodi ben distinti accomunati
problematicamente dal fatto di rappresentare due fasi del processo
storico avviato con la sconfitta del fascismo e con la dissoluzione
dello stato italiano nel settembre del 1943; ma l'origine di questi
sviluppi risalgono molto più indietro negli anni ed è difficile
comprenderne la logica, ci piaccia o no, estrapolandoli dal contesto
nel quale presero corpo. E questo contesto non è rappresentato soltanto
dall'aggressione alla Jugoslavia nel 1941, ma è costituito dal
complesso della politica condotta dall'Italia (purtroppo anche prima
dell'avvento del fascismo) nei confronti del nascente stato dei
serbi-croati e sloveni e successivamente della rilevante minoranza
slava (sloveni e croati) che si trovò inclusa nei confini del regno
d'Italia al termine della prima guerra mondiale. E' noto e arcinoto che
nell'euforia della guerra l'Italia liberale non fu in grado di arginare
il montante nazionalismo imperialista che guardava all'Adriatico come a
un mare interno italiano ed osteggiava perciò la creazione di uno stato
degli slavi del sud. Una politica che ebbe il suo prolungamento ed il
suo culmine nella ostinata avversione con la quale il regime fascista
guardò costantemente alla vicina Jugoslavia, considerandola, al di là
del gioco delle influenze internazionali, come possibile area da
sottomettere alla propria influenza e al limite da disgregare,
alimentando in funzione dei propri obiettivi il separatismo croato e
l'irredentismo di Pavelic e degli ustaÜa. Peggio ancora, dal punto di
vista interno l'avvento del fascismo significò l'esasperazione di una
politica di snazionalizzazione violenta delle comunità nazionali slave
e mano libera accordata al nazionalismo estremo del cosiddetto
«fascismo di frontiera», che è stato fatto oggetto di importanti studi
da parte di una generazione di storici critici della tradizione
storiografica nazionalista (Apih, Sala, Anna Vinci e altri).
L'equiparazione italiani uguali fascisti non è stata una invenzione
degli slavi ma una equazione inventata dal fascismo all'atto di operare
una vera e propria «pulizia etnica» nella Venezia Giulia, rendendo la
vita impossibile alle popolazioni locali, impedendo l'uso della lingua,
sciogliendone le amministrazioni, chiudendone le scuole,
perseguitandone il clero e le manifestazioni associative, boicottandone
lo sviluppo economico, costringendole all'emigrazione. L'espressione di
«genocidio culturale» che è stata adoperata per definire la condizione
della minoranza slava alla luce della vastissima documentazione
esistente risulta corretta.

Ma neppure la contrapposizione frontale tra italiani e slavi è stata
inventata dai titini. Anch'essa fu uno dei cavalli di battaglia del
«fascismo di frontiera». Qualche anno fa, ragionando sulle modalità del
grande e intimidatorio processo che il Tribunale speciale celebrò a
Trieste nel dicembre del 1941 mi ponevo il problema del perché in
quella circostanza il regime avesse voluto unificare in un unico
processo almeno tre diversi filoni dell'opposizione slovena al regime e
concludevo che doveva trattarsi di una circostanza riconducibile non a
strategie processuali ma ad una strategia politica «come per il passato
rivolta a una contrapposizione frontale nei confronti degli slavi». Ne
trovo conferma in una recentissima ricerca appena pubblicata
dall'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel
Friuli Venezia Giulia dedicata a tre dei processi che il Tribunale
speciale per la difesa dello stato celebrò a ridosso del confine
orientale (Puppini - Verginella - Verrocchio. Dal processo Zaniboni al
processo Tomazic. Il tribunale di Mussolini e il confine orientale
1927-1941 Udine, 2003). Come scrivono gli autori «al Tribunale speciale
spetta il compito di ristabilire l'ordine affermando sia il primato
della razza e della civiltà italiana, sia il ruolo giocato da un
confine che funge da barriera con un mondo barbaro e inferiore».

Nell'aprile del 1941 l'aggressione alla Jugoslavia segnò un'ulteriore
escalation del livello di violenze e di sopraffazione, con l'annessione
al regno d'Italia della Slovenia, la cosiddetta «provincia di Lubiana».
Ne derivarono da una parte l'esportazione del «fascismo di frontiera»
con il suo carico di lutti e di violenze, dall'altra la saldatura delle
opposizioni slave nella Venezia Giulia alla ribellione degli sloveni
della provincia annessa. La violenza della repressione italiana ebbe
poco da invidiare alle spedizioni punitive dei tedeschi in altre parti
della Jugoslavia. Esecuzioni in massa, incendi di località,
deportazioni in campi di concentramento nel territorio occupato o
all'interno dei vecchi confini del regno d'Italia (Gonarsi, Renicci).
Impressionante la documentazione che possediamo, tra la quale spiccano,
oltre a pochi studi italiani (Cuzzi, Sala, ora Rodogno), tre volumi
documentari dello storico sloveno Tone Ferenc, scomparso da poche
settimane, uno dei quali stampato a Lubiana nel 1999 reca per titolo Si
ammazza troppo poco, da una frase del generale Mario Robotti,
comandante dell'XI Corpo d'armata di stanza in Slovenia. Saremmo
curiosi di sapere se i libri di questo compianto amico sloveno
entreranno tra i materiali con i quali scuole e istituzioni «culturali»
dovrebbero celebrare questo secondo giorno della memoria, che di fatto
vuole essere un ambiguo contraltare a quello del 27 gennaio, ne siano o
no consapevoli i compiacenti politici. Ai quali dovrebbe essere noto
anche che nessuno dei responsabili dei crimini commessi in Jugoslavia è
mai stato chiamato a rispondere del suo operato, qualcuno anzi su di
essi ha costruito la progressione di una onorata carriera.

La tragedia delle foibe si inserisce in questo contesto. Fu Giovanni
Miccoli nel 1976, all'epoca del processo della Risiera, a rigettare
energicamente l'accostamento foibe-Risiera e a sottolineare la
necessità di considerare il problema delle foibe nel quadro della
risposta ai crimini del fascismo prima o dopo il 1941. E' da questa
presa di coscienza che sono ripartiti gli studi, resi difficili e
complicati dalle interferenze politiche e dall'impossibilità di
arrivare a determinazioni statistiche certe, una impossibilità che di
fronte allo sforzo più equilibrato di riportare il fenomeno a
dimensioni attendibili ha lasciato libero campo a quanti erano
interessati a gonfiare le cifre a dismisura, per fare colpo
sull'opinione pubblica per ragioni che nulla avevano a che vedere con
la ricerca della verità.

Nel corso degli anni successivi la ricerca ha fatto notevoli progressi
facendosi strada a fatica tra le ricorrenti polemiche dell'estrema
desta, l'unica ad avere come punto di orientamento esclusivamente
l'odio antislavo e l'unica anche a non avere mai cambiato nulla nel suo
bagaglio politico-culturale. Contrariamente a quanto si continua a
ripetere, le foibe non sono mai state un tabùù per la pubblicistica e
la storiografia antifascista; nella nuova fase degli studi cessarono di
essere un tabù anche per la storiografia slovena, tanto che la
commissione mista di storici italo-slovena ha potuto consegnare nel
2000 ai rispettivi ministeri degli esteri un ampio rapporto contenente
ipotesi interpretative e ricostruttive dei rapporti tra i due popoli in
cui il problema delle foibe è collocato in una corretta
contestualizzazione e tenendo conto dei risultati acquisiti dalla
storiografia.

Il complesso iter delle conoscenze e del dibattito storiografico è
ricostruito in un lavoro recentissimo a cura di due storici di una
generazione nuova (anche se non più giovanissima) di studiosi cui
spetta il merito di avere rotto lo schema della contrapposizione
frontale tra gli opposti nazionalismi (nessuno dei quali è migliore
dell'altro) (Raoul Pupo -Roberto Spazzali, Foibe, Milano, Bruno
Mondadori, 2003). Almeno due sono i suggerimenti interpretativi che
emergono dalla loro ricognizione; anzitutto la corretta
contestualizzazione nel quadro generale del secondo conflitto mondiale:
«E' difficile concepire le stragi delle foibe senza l'educazione alla
violenza di massa compiuta nell'Europa centro-orientale a partire dal
1941, e il generale imbarbarimento dei costumi che ne seguì». In
secondo luogo un generale spostamento dell'ottica dalla quale guardare
al problema delle foibe, che rifiuta la tesi del «genocidio» a danno
degli italiani per riportare le violenze del 1943 e soprattutto del
1945 nell'alveo della dinamica del processo di conquista del potere da
parte del movimento rivoluzionario capeggiato da Tito, in un incrocio
di lotta di classe e di lotta nazionale in cui evidentemente l'essere
italiani «costituiva un fattore di rischio aggiuntivo tutt'altro che
trascurabile».

Lo stesso contesto nel quale, alla luce della situazione
internazionale di allora e dei rapporti di forze, si inserisce anche la
vicenda dell'esodo dall'Istria, che suggellava la posizione di
sconfitta dell'Italia e che ripeteva le modalità di altri coatti
movimenti di popolazioni (nei fatti non nelle procedure) che avvennero
su larga scala in altre parti d'Europa. Che allora non si fossero
trovati strumenti per tutelare i diritti delle minoranze nazionali fu
certo una grossa lacuna della nuova sistemazione che le potenze
vincitrici si apprestavano al predisporre per l'Europa, ma fu anch'esso
un retaggio della devastazione dell'Europa operata dalle potenze
fascista e nazista. Diverso sarebbe il discorso sui limiti
dell'integrazione degli esuli nella società italiana, che implicherebbe
un discorso specifico tutto interno alla politica italiana.


=== 2 ===

il manifesto - 11 Febbraio 2004

«Quella tragedia non giustifica le colpe del fascismo»

A colloquio con lo storico triestino Fogar: «Gli eredi del Msi ci
parlino di cosa avvenne prima delle foibe»
MATTEO MODER
TRIESTE

Il messaggio di Ciampi a Storace per la giornata dei valori nazionali
è solo la ciliegina sulla torta delle celebrazioni - il ricordo
dell'esodo degli istriani, giuliani e dalmati - che vengono presentate
da An del tutto fuori dalla storia. La tragedia delle foibe e
dell'esodo dalle terre perse - perché il fascismo fu sconfitto - viene
così presentata come esclusivo frutto della violenza «slavocomunista»,
materializzatasi dal nulla per abbattersi terribile su tutto ciò che
era italiano. Lo storico triestino Galliano Fogar, uno dei maggiori
conoscitori delle vicende storiche di queste terre di confine - dove il
ventennio fascista imperversò, ancor prima dell'invasione della
Jugoslavia, con una violenta opera di snazionalizzazione nei confronti
di tutto ciò che non era «italiano» e perciò «fascista» - non vuole
rassegnarsi al fatto che la storia venga dimezzata, che l'ignoranza e
la disinformazione su quanto realmente è avvenuto qui, in quella che fu
la Venezia Giulia, la facciano da padrone e che perfino gli eredi
dell'ex Pci si appiattiscono sulle tesi antistoriche di Alleanza
Nazionale. «An fa nascere la storia - dice - dal 1945, dall'occupazione
di Trieste da parte delle truppe di Tito. Io rispetto ciò che dice
Ciampi per il fatto che gli italiani dell'Istria, di Fiume e di Zara
dovettero abbandonare le terre perse, ma anche lui dimentica di
ricordare che tutto ciò, anche se certamente da condannare
assolutamente sul piano umano e morale, ebbe il suo terreno di coltura
nella violenza fascista e nell'invasione e disgregazione della
Jugoslavia da parte italiana e tedesca. Senza questo - aggiunge - non
si può discutere, non esiste una storia a metà».

«Era quello che volevo dire l'altro giorno a Fassino e Violante -
continua Fogar - quando sono venuti a Trieste per aderire alla proposta
di Roberto Menia (An) di istituire il 10 febbraio, giorno della firma
del Trattato di Pace di Parigi, nel 1947, la giornata della memoria
dell'esodo e per fare un "mea culpa" attribuendo al Pci di allora colpe
ed errori di valutazione. Ma io mi domando - aggiunge - come può
Fassino dire che il Pci sbaglio "perché l'aggressione fascista alla
Jugoslavia non poteva giustificare in nessun modo la perdita di
territori né l'esodo degli Italiani"? Ma è stata quella la causa
scatenante, l'Italia fascista è stata responsabile e corresponsabile
con la Germania di Hitler delle devastazioni e delle stragi che hanno
insanguinato l'Europa. Cosa dovrebbero dire gli ebrei, i polacchi, i
russi, i milioni che sono stati sterminati?».

Ma Fogar non ha potuto parlare, la conferenza stampa di Violante e
Fassino, come ha sottolineato il segretario triestino dei Ds, Bruno
Zvech, «era solo per giornalisti». «Io sono giornalista dal 1946 -
ricorda lo storico - e ho vissuto in prima persona gli avvenimenti di
queste terre e conosco la terribile ignoranza della grande stampa
nazionale e della Rai sulle vicende storiche della Venezia Giulia, dove
gli infoibati, "tutti italiani e solo perché italiani", sono a seconda
delle "disinformazioni" 10, 20, 50mila e i profughi 350mila, quando
l'Opera profughi giuliano dalmati e non certo il Soviet supremo ne
censì fino al 1960 204mila, più altri 40-50mila non censisti e che
hanno preferito allontanarsi senza lasciar traccia di sé».

Indifferenza, ignoranza, bassa politica elettorale, sono i fattori che
impediscono una lettura veramente storica dei fatti, per lasciarli
sospesi in un limbo pseudopatriottico, ignorando del tutto le colpe
fondamentali del fascismo di frontiera in Istria prima e poi nella
Jugoslavia occupata. «Fassino ha detto poi - spiega Fogar - che bisogna
ristabilire la verità storica, assumersi le proprie responsabilità, non
leggere quella vicende - foibe e esodo - che non sono così
consequenziali, se non nella visione antistorica degli eredi dei
fascisti - come una modalità dello scontro fascismo-antifascismo, come
secondo lui fece il Pci allora, perché "andava letta come una
manifestazione di un nazionalismo pericoloso che ha provocato molti
danni e sofferenze in quella parte d'Europa e torna periodicamente a
risvegliarsi". Certo - prosegue - c'era questa componente nel comunismo
di Tito, ma se non si racconta quello che è avvenuto prima come si può
capire, si sposano solo tout court le tesi di An che sono quelle del
Msi, che sono poi quelle repubblichine che perseguitano queste terre
dal 1943, dalle prime foibe istriane. Tralasciamo pure - rileva lo
storico - le nefandezze del fascismo tra le due guerre e partiamo dal
1940, quando l'Italia entra in guerra. La causa storica della nostra
disgrazia delle foibe e del calvario dei profughi è la guerra fascista,
l'occupazione della Jugoslavia, la politica di persecuzione, di
deportazione e di stragi, come nel 1942 a Podhum, vicino a Fiume quando
91 abitanti del paese, considerato "sospetto" dall'esercito e dalla
milizia fascista, furono fucilati e gli 800 abitanti deportati. La
destra attuale, gli ex missini - incalza Fogar - ben si guardano dallo
storicizzare le foibe e l'esodo con i quali tanto si riempiono la
bocca, perché dovrebbero per primi fare ammenda di quanto è successo.
Questi eredi dei missini, che hanno continuato a spadroneggiare e a
compiere atti di inaudita violenza a Trieste dal 1948 a tutti gli anni
Ottanta, e non solo contro comunisti e slavi ma contro gli esponenti e
i militanti di quegli stessi partiti democratici che avevano fatto
parte del Cln e che avevano difeso, pagando anche con la vita,
l'italianità di Trieste e di parte dell'Istria. Di questo non parlano,
ma di questo - conclude Fogar - parlano i nostri libri dell'Istituto
regionale per la storia del movimento di liberazione del Friuli Venezia
Giulia, le indagini di polizia, le inchieste della magistratura, anche
se furono sempre troppo indulgenti verso questi "difensori
dell'italianità" che flirtavano con Avanguardia Nazionale e Ordine
Nuovo, con le cellule nere di Freda e Ventura. Si parta da questa
storia, ammettano le colpe del fascismo e dopo parleremo di giornate
dell'esodo e delle foibe, fatti tragici, fatti tremendi ed esecrabili,
ma che non sono nati da un buco nero della storia».


=== 3 ===

PROGETTO COMUNISTA
giornale dell'Associazione marxista rivoluzionaria
Progetto comunista - sinistra del PRC
febbraio 2004 - n. 5 nuova serie - anno II - Euro 2,00
(per informazioni: redazione@...
oppure scrivere a: Redazione Progetto comunista - via Ghinaglia, 93 -
26100 Cremona)

CONFINE ORIENTALE: LE FOIBE TRA IMPERIALISMO E RESISTENZA

Una storia che merita di essere conosciuta... prima che la riscrivano

di Antonino Marceca


Appena eletto alla presidenza del Friuli-Venezia Giulia, Illy si recò a
Lubiana in Slovenia, a Venezia dal presidente del Veneto Galan, a
Villaco presso il governatore della Carinzia Haider, in Istria dal
presidente Jakovcic e infine in Croazia dal presidente Mesic e ogni
volta propose ai rispettivi interlocutori la realizzazione
dell'Euroregione. Un progetto che vede l'appoggio del presidente del
Veneto Galan ed il sostegno dei presidenti della Confindustria del
Veneto e del Friuli-Venezia Giulia. Un quadro di relazioni
istituzionali mirante al controllo imperialistico della regione
orientale. Interessi strategici imperialistici verso l'oriente che per
quanto riguarda l'Italia possiamo considerare storici. Per limitarci al
'900 con il Patto di Londra, siglato il 26 aprile 1915 tra Italia e
Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia), si prevedeva, in
caso di vittoria nella guerra imperialistica del 1914-1918,
l'assegnazione all'Italia del Trentino, del Sud Tirolo, la
Venezia-Giulia, la penisola dell'Istria, gran parte della Dalmazia e
delle isole adriatiche. Conclusa la prima guerra mondiale, crollato
l'Impero Asburgico, la conferenza di Parigi stabilisce la costituzione
del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Il nuovo assetto pone la
necessità di definire i confini con l'Italia, mentre migliaia di
sloveni si trovano sotto occupazione dell'esercito italiano ed aspirano
a ricongiungersi al nuovo stato jugoslavo. Gli sloveni per quanto
riguarda l'Italia, non si facevano illusioni: i loro connazionali delle
Valli del Natisone, passati sotto l'Italia nel 1866, avevano subito da
allora un costante e sistematico processo di "snazionalizzazione". Il
combinato disposto dell'occupazione militare e dell'iniziativa
nazionalistica (impresa di G. D'Annunzio a Fiume) trovava riscontro nel
Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 che assegna all'Italia nuovi
territori: l'Istria, la Dalmazia, la città di Zara, le isole di Cherso,
Lussino, Lagosta e Pelagosa, infine nel 1927 la città di Fiume. La
regione assume il nome di Venezia Giulia. La borghesia slovena benché
disponibile alla collaborazione con il governo italiano, a condizione
di preservare la propria identità e ruolo sociale, trova nel governo di
Roma, liberale prima e fascista poi, il fermo proposito di assimilare
gli "alloglotti", come venivano chiamate le popolazioni slave. Trieste,
avamposto colonialista verso l'oriente, diviene terreno fertile per lo
sviluppo del fascismo: "di fronte ad una razza inferiore e barbara come
la slava" afferma Mussolini percorrendo la Venezia Giulia nel settembre
1920 "non si deve perseguire la politica che dà lo zucchero, ma quella
del bastone". Nel 1921 la federazione fascista di Trieste è la maggiore
d'Italia, nel maggio del 1920 vengono create le "squadre volontarie di
difesa cittadina", bande armate fasciste, sotto la direzione di Giunta,
che scatenano aggressioni contro la classe operaia delle industrie
tessili, cantieristiche, minerarie e contro le popolazioni slovene e
croate. Tutti i luoghi di aggregazione degli sloveni e dei croati
vengono aggrediti e distrutti: società corali, società sportive, sale
di lettura, circoli dopolavoristici, le scuole.
Nel 1920 a Trieste è incendiato il Narodni Dom, sede delle associazioni
culturali ed economiche slovene. Il fascismo si identifica con
l'italianità e conquista il consenso della borghesia liberalnazionale
triestina. Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, la
repressione acquista il timbro delle leggi dello stato. Il regio
decreto del 15 ottobre 1925 proibisce l'uso delle lingue diversa da
quella italiana. La lingua slovena e serbo-croata viene rimossa da
tutti i luoghi pubblici e dalle insegne, con il regio decreto del 7
aprile del 1927 viene imposta l'italianizzazione dei cognomi, vengono
soppressi e confiscati i beni delle organizzazioni culturali,
ricreative, economiche slovene e croate. La scuola è al centro della
politica di "snazionalizzazione", gli insegnanti di lingua slovena
vengono trasferiti e costretti a licenziarsi, la repressione investe
anche i preti slavi in quanto "si ostinano a celebrare le funzioni
religiose in lingua slovena", e in Italia "si prega in italiano".
Contro questa azione di feroce repressione, contro l'imperialismo
coloniale italiano si organizza la resistenza, in particolare si
formano due organizzazioni clandestine, la T.I.G.R. (dalle iniziali
slovene di Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka) e la "Borba" (lotta) che
affermano la parola d'ordine dell'unione alla Jugoslavia, in
particolare nella T.I.G.R. all'inizio degli anni '30 emerge la figura
di Pinko Tomazic che pone l'obiettivo di una repubblica slovena
inserita nel quadro di una confederasione di repubbliche sovietiche
balcaniche. Negli anni '28-'30 gli agricoltori slavi sono costretti a
mettere all'asta le proprietà, acquisite da coloni italiani mediante
l'Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie. La repressione negli
anni '27-'43 condotta dal Tribunale Speciale fascista contro sloveni e
croati è particolarmente feroce. La stessa cultura della foiba (1)
viene utilizzata da nazionalisti e fascisti, in canzoni e in poesie nei
testi scolastici, per intimorire con la minaccia di finire "in fondo
nella foiba" le popolazioni slave. Il 6 aprile 1941 l'Italia, assieme
alle forze dell'Asse, sferra l'aggressione alla Jugoslavia, che viene
smembrata; l'Albania era stata occupata nell'aprile 1939. Dalla
spartizione della Jugoslavia l'Italia incorpora la Slovenia
meridionale, il litorale Dalmata, Sebenico, Spalato, Ragusa, Cattaro,
le isole e la regione della Carniola, costituendo la nuova Provincia di
Lubiana e il Governatorato della Dalmazia; a Sud incorpora all'Albania
la Macedonia meridionale e il Kosovo, il Montenegro diviene un
protettorato. L'occupazione fu contrassegnata da particolare durezza:
incendi di villaggi, deportazioni in campi di sterminio italiani (202
complessivi, tra cui Arbe-Rab in Dalmazia e Gonars in Friuli) e
tedeschi, eccidi di rappresaglia, rastrellamenti, fucilazioni ed
impiccagioni. Dopo l'invasione nazifascista a Lubiana il 27 aprile 1941
si costituisce l'OF, Osvobodilna Fronta (Fronte di Liberazione
Sloveno), a cui aderiscono personalità indipendenti e gruppi di
ispirazione cristiano-sociale, con un ruolo egemone del Partito
comunista sloveno (2). L'OF inizia la resistenza armata con l'obiettivo
dell'indipendenza nazionale e l'unificazione della Slovenia nel quadro
della Jugoslavia federativa, organizza forze prevalentemente contadine
e popolari. Le forze liberalconservatrici slovene, espressione della
borghesia nazionale, restano in attesa della fine del conflitto o
collaborano con l'occupante. La risposta italiana è la repressione
civile e militare: nell'aprile del 1942 a Trieste viene istituito
l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza che si caratterizzerà per
i rastrellamenti, le violenze, le torture. Alla vigilia dell'8
settembre 1943, nella sola provincia di Lubiana si conteranno 33.000
persone deportate, pari al 10% della popolazione, quasi 13.000 edifici
distrutti, 9000 danneggiati, ed un numero di fucilati, caduti in
combattimento e morti nei campi non quantificati, ma dell'ordine di
alcune migliaia (circa 7000 nei campi italiani). Dopo l'8 settembre
1943, crollate le strutture dello stato italiano, dissolto l'esercito
regio, i comandanti in fuga alla ricerca di vie di salvezza, la
Wehrmacht occupa i centri strategici della Venezia Giulia, le città
portuali di Trieste, Pola, Fiume, l'area industriale di Monfalcone,
Gorizia ma per carenza di forze trascura l'entroterra. Il vuoto di
potere nella penisola istriana è presto riempito dall'insurrezione
popolare e contadina, coinvolge la popolazione italiana dei centri
costieri e quella slava dell'interno, presenta connotazioni di
liberazione nazionale e lotta di classe, ad una fase spontanea con
fenomeni di jacquerie segue l'assunzione del controllo
politico-militare da parte del Novj (l'esercito di liberazione). Una
liberazione assai fragile durata circa venti giorni, in alcune zone
circa un mese. Tra l'11 e il 12 settembre 1943 le forze del Novj
occupano Pisino, nel cuore dell'Istria, organizzandovi il Comando
operativo. Nei villaggi le masse popolari attaccano i simboli e i
rappresentanti dello stato colonizzatore: podestà e segretari comunali,
fascisti, carabinieri, commercianti, esattori delle tasse; nelle
campagne i coloni e i mezzadri attaccano i possidenti terrieri
italiani; nelle imprese industriali, cantieristiche e minerari, in
particolare nella zona di Albona, con una forte tradizione di lotte
operaie e socialiste, stessa sorte investe dirigenti, impiegati e
capisquadra. Mentre la maggior parte vengono arrestati e concentrati
soprattutto a Pisino, in questo contesto alcune centinaia (300-500) di
vittime della furia popolare vengono gettate nelle foibe istriane. La
propaganda nazifascista utilizzerà il fenomeno delle foibe istriane per
incitare all'odio antislavo, moltiplicando il numero e sottolineando la
nazionalità italiana delle vittime. Il primo ottobre 1943 con
l'Operazione Nubifragio le forze armate tedesche rioccupano tutta
l'Istria, il loro passaggio segna decimazione di massa, distruzioni,
incendi, i morti sono migliaia. I territori riconquistati vengono uniti
alle altre aree del confine nordorientale e organizzati nella
Operationszone Adriatisches Kustenland (Zona Operazioni Litorale
Adriatico) comprendente le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola,
Fiume, Lubiana, nelle quali l'autorità suprema è un commissario alle
dipendenze di Hitler. L'Amministrazione tedesca emana una serie di
disposizioni e ordinanze, nomina prefetti e podestà, assegna ad ogni
amministrazione un consigliere tedesco. I giovani di leva vengono
incorporati nella Wehrmacht o nella organizzazione tedesca del lavoro
coatto Todt. Vengono pubblicati giornali e riviste in lingua tedesca,
slovena e serbo-croata, viene quindi ridimensionata la politica di
snazionalizzazione delle popolazioni slave. Il potere decisionale a
tutti i livelli è accentrato in mani tedesche, dai tribunali al
controllo poliziesco, quest'ultimo è gestito dal generale Odilo Lotario
Globocinik, capo delle SS del Litorale, stimato da Himmler per
l'attività svolta nei campi di sterminio in Polonia. A Trieste
organizza nel rione industriale di San Sabba, in edifici già utilizzati
per la pilatura del riso, un lager che funziona come campo di
smistamento, concentramento e sterminio. A San Sabba trovano la morte
migliaia di oppositori politici e combattenti partigiani sloveni e
croati, italiani, renitenti alla leva, ebrei. Per larga parte della
comunità italiana della Venezia Giulia, la borghesia e larghi strati di
piccola e media borghesia la creazione della Zona del Litorale
Adriatico, la presenza della Wehrmacht è una garanzia contro la
minaccia "slavo-comunista". A Trieste la borghesia industriale e
finanziaria vede nella annessione al Reich il rilancio commerciale
della città, porto meridionale del Reich. Nella Venezia Giulia si
costituiscono corpi volontari di milizie fasciste che collaborano col
comando tedesco: la Polizia annonaria, la Guardia Civica-Stadtshutz, la
Milizia Difesa Territoriale, la X Mas, la Guardia di Finanza, inoltre
collaborano con l'occupante anche forze slovene: Slovenski narodni
varnostni zbor (corpo nazionale sloveno di sicurezza) detti domobranci
e Slovensko domobranstvo (difesa territoriale Slovena). All'interno
della popolazione italiana della Venezia Giulia gli operai di Trieste,
Monfalcone, Fiume e delle cittadine costiere istriane diedero origine a
formazioni quali la Brigata Proletaria e Delavska Enotnost-Unità
Operaia che collaborano con la resistenza jugoslava nella prospettiva
della rivoluzione socialista, prospettiva che le organizzazioni egemoni
del movimento operaio italiano (PCI e PSI) non sostengono provocando
grosse contraddizioni tra quadri e militanti comunisti. Il PCI infatti
partecipava attraverso il CLN al Fronte popolare con i partiti borghesi
(DC, PDA, Monarchici, Liberali), e a questa alleanza subordina
l'indipendenza di classe. In Jugoslavia il PCJ, pur aderendo alla
politica dei Fronti popolari, in presenza di una borghesia nazionale
legata al capitale straniero, tipica di un paese semicoloniale, le cui
forze politiche collaboravano con l'occupante o restano passive, è
costretto dalla dialettica della rivoluzione a superare la fase
democratico-borghese (unificazione ed indipendenza nazionale, riforma
agraria) fino a liquidare una borghesia che queste esigenze non aveva
risolto o risolto parzialmente. Un intreccio di contraddizioni
nazionali e di classe che si riversano nel movimento partigiano della
Venezia Giulia, provocando a Trieste rotture nel CLN, qui le forze
borghesi, liberali e cattolici, si oppongono per ragioni di classe
alla rivoluzione jugoslava, tale avversione porterà, come nel caso
delle Brigate Osoppo, alla collaborazione con forze fasciste in
funzione antislava e anticomunista. La situazione politico-militare
costringe gli inglesi a limitare il controllo alla parte occidentale
della regione, per l'importanza strategica delle comunicazioni verso
Nord, in particolare Trieste e Gorizia, rinunciando all'ipotesi greca.
L'offensiva finale jugoslava inizia il 20 marzo 1945 e sono i reparti
del Novj ad arrivare il 1° maggio per primi a Trieste e Gorizia
anticipando le armate britanniche, con essi collaborano le formazioni
partigiane comuniste. Il CLN triestino, costituito dal PSI, PDA, DC, e
Liberali, oscilla tra l'attesa e l'insurrezione, in attesa dell'arrivo
degli inglesi da avvio all'insurrezione mediante il Corpo Volontari
della Libertà, ma questi si scontrano con le forze jugoslave e si
ritirano dalla lotta. Le forze neozelandesi raggiungono Trieste e
Gorizia il 2 maggio, la situazione rimane aperta per circa un mese fino
a quando i governi inglese ed americano costringono le forze jugoslave
a ritirarsi da Trieste e Gorizia. Il nuovo potere jugoslavo nelle zone
liberate si basa sull'Armata, sulla Difesa popolare, sull'Ozna, il
servizio segreto, mentre mancano strutture consiliari tipo i soviet.
L'obiettivo è affermare prima possibile la nuova sovranità jugoslava,
epurare l'apparato amministrativo e di polizia, prelevare i reazionari
e trasferirli per processarli in campi di prigionia in Slovenia, altri
vengono fucilati dopo la cattura o la resa. Nemici vengono considerate
le forze armate dello stato imperialista, le formazioni fasciste, le
forze antislave e anticomuniste tra cui aderenti al CVL del CLN
triestino. In questo quadro, tra il maggio-giugno del '45, si
ripresenterà il fenomeno delle foibe nell'entroterra carsico di Trieste
e Gorizia con aspetti simili al precedente istriano. Da una ricerca
accurata svolta da C. Cernigoi e pubblicata nel libro Operazioni foibe
a Trieste nella provincia triestina le vittime finiti nelle foibe sono
circa 517 di cui 112 della Guardia di Finanza, 149 della Pubblica
Sicurezza, 115 delle Forze armate, 105 civili, tra questi
collaborazionisti e spie. Siamo sicuri che la propaganda reazionaria e
liberaldemocratica, per esorcizzare la rivoluzione proletaria,
continuerà a rivangare di "migliaia di martiri delle foibe", di
"partigiani rossi e violenti", mentre i riformisti, come Bertinotti,
pur di allearsi con i liberali giureranno sulla nonviolenza, per parte
nostra con Marx, Lenin e Trotsky riaffermiamo la necessità della
rivoluzione socialista fino a quando le masse proletarie di questo
pianeta non si saranno liberate dal capitalismo e dall'imperialismo.


1) Geologicamente sono un aspetto tipico del paesaggio carsico,
indicano le fenditure di diametro variabile, profonde decine di metri,
provocate dall'erosione millenaria delle acque nelle rocce calcaree.
Usati dagli abitanti dei luoghi per far sparire ciò di cui intendevano
disfarsi: oggetti, animali, ma anche vittime di tragedie private o
delle violenze della storia.

2) Sulla storia dei comunisti jugoslavi vedi le schede del n°24 di
Proposta del maggio 1999 e il Quaderno, a cura del centro P. Tresso,
A. Ciliga, Come Tito si impadronì del PCJ.

Slovenia: le micidiali conseguenze della secessione dalla Jugoslavia
per l'economia della piccola repubblica


Sulle micidiali conseguenze della liberalizzazione dell'economia in
Slovenia vedi:
Delocalizzazione ad est: la manodopera slovena è troppo cara
http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=2722 )

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http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=2789

La Slovenia ed i mercati del sud est

Gorenje, Lasko, Radenska. Marche ben conosciute nei mercati delle ex
Repubbliche della Jugoslavia. Con l’entrata nell’UE però i prodotti
sloveni subiranno dazi all’export che influiranno sino del 30% sui loro
prezzi. A Lubjana intanto ci si attrezza.

(11/02/2004)

Di Donald F. Reindl – Radio Free Europe
Traduzione a cura dell’Osservatorio sui Balcani

La Slovenia già percepisce i vantaggi economici che potrebbero arrivare
con l’Unione europea, in particolare l’accesso libero ai mercati
europei. Ma l’allargamento potrebbe creare anche problemi ad alcuni
settori dell’economia slovena.

Il primo maggio decadrà automaticamente il trattato di libero scambio
firmato dalla Slovenia con le altre Repubbliche dell’ex-Jugoslavia ed
ai beni sloveni si applicheranno nuove tariffe doganali sino a
raggiungere, in alcuni casi, un 30% del prezzo originale. Lo riporta il
quotidiano “Delo” dello scorso 28 dicembre.

Le nuove tariffe riguarderanno tutti i membri dell’Unione ma avranno
naturalmente effetti in particolare sulla Slovenia che conserva forti
legami economici con i mercati del sud est Europa. France But, Ministro
per l’agricoltura sloveno, su “Delo” del 3 gennaio sottolinea come le
nuove regole colpiranno in particolare il settore agro-alimentare
dell’industria slovena.

L’Unione Europea non ha alcun accordo sul commercio con la Bosnia
Erzegovina ed ha accordi asimmetrici con la Croazia e la Macedonia.
Permette loro di esportare alcuni beni a tariffe ridotte nel mercato
europeo ma non può avvenire viceversa.

Prima del crollo della Jugoslavia, nel 1991, la Slovenia godeva di una
posizione privilegiata nel mercato interno jugoslavo grazie alle sue
industrie ben strutturate ed una manodopera altamente specializzata.
Materia prime o semilavorati venivano inviati da altri luoghi della
Jugoslavia in Slovenia dove venivano trasformati in beni finiti poi
esportati verso l’occidente o rivenduti, con profitto, nelle altre
Repubbliche.

Nel 1949 l’ideologo comunista Edvard Kardelj ed il Ministro per
l’economia Boris Kidric – entrambi sloveni – decisero di promuovere in
Slovenia un’industrializzazione più rapida che in altre parti del
Paese, avvantaggiandosi del relativamente già avanzato stadio di
sviluppo della regione. Questa ed altre decisioni lanciarono la
Slovenia ai vertici della modernizzazione economica nel sud est europeo.

Le tensioni nazionali iniziarono a disgregare il modello economico
jugoslavo ben prima che crollasse la Jugoslavia. Più il benessere
cresceva più gli sloveni percepivano negativamente la necessità di
ridistribuire, attraverso il budget federale, la ricchezza con altre
Repubbliche meno sviluppate, investendola in industrie datate e on
poche prospettive.

Accuse di sfruttamento arrivavano da entrambe le parti in causa: gli
sloveni si lamentavano di essere privati di risorse che avrebbero
potuto investire in modo più efficiente autonomamente; le altre
Repubbliche affermavano che la crescita slovena avveniva sulle loro
spalle. Gli economisti Mojmir Mrak e Joze Damijan descrivono bene come
si decise di imporre sui beni sloveni una sorta di dazio, il che portò
lentamente il mercato interno al collasso (vedi la loro ricerca
[commissionata dall'attuale regime nazionalista antijugoslavo, ndCNJ]).

Dopo l’indipendenza la Slovenia ha ricostruito molti dei legami
economici che aveva con le Repubbliche jugoslave. Nonostante i maggiori
partner commerciali rimangano Germania ed Italia, sia per quanto
riguarda le importazioni che le esportazioni, intensi rapporti, per
quanto riguarda le esportazioni, esistono anche con la Croazia, la
Bosnia Erzegovina, la Macedonia e la Serbia Montenegro. Per l’export
però la questione è diversa. La Croazia, nel 2003, è il quinto Paese
dal quale la Slovenia importa maggiormente. Ma nessuna delle altre
Repubbliche è riuscita ad entrare tra i primi 20 Paesi dai quali la
Slovenia si rifornisce.

La Slovenia, rispetto alle altre ex Repubbliche, ha una bilancia
commerciale sempre in attivo. Da un minimo del 200 per cento ad un
massimo del 600 per cento. Il mercato del sud est Europa è estremamente
attraente per i settori industriali sloveni meno competitivi vista una
domanda di bassa qualità. In particolare per quello agricolo, quello
alimentare, quello chimico e per quanto riguarda il legname. Un solo
esempio riportato da “Delo”. Il 30% della produzione di latte slovena
viene esportato, l’85% di questo verso Paesi della ex-Jugoslavia.

Questi ultimi hanno poco da offrire in cambio. Sempre su di un articolo
di “Delo” si nota come nel 2003 la Slovenia ha esportato beni in
Montenegro per un valore di 51 milioni di dollari mentre ne ha
importati solo per un controvalore di 78 mila dollari. Il Montenegro
poco può offrire oltre al turismo, il vino ed i distillati.

Dati simili anche per quanto riguarda i rapporti con la Macedonia. 23
milioni di export, per la maggior parte acqua minerale, carne in
scatola e salumi e 6 milioni di import: vino, tabacco e pomodori che
vengono diretti verso nord. La Macedonia sarebbe interessata ad
aumentare le proprie esportazioni verso la Slovenia di metalli e
prodotti chimici.

Un modo con il quale la Slovenia ha provato a riequilibrare il rapporto
import-export è quello degli investimenti diretti nelle altre ex
Repubbliche. Lo scorso anno 220 aziende slovene sono state registrate
in Bosnia Erzegovina. E sembra ve ne siano molte altre interessate. Nel
settembre del 2003 Dragan Covic, membro della Presidenza bosniaca,
approfittò di una visita ufficiale a Lubiana per invitare gli
imprenditori sloveni a partecipare, nel febbraio 2004, ad una fiera per
gli investitori organizzata a Mostar. La Slovenia è già attualmente uno
dei maggiori investitori stranieri [SIC] in Bosnia Erzegovina.

Le altre ex Repubbliche jugoslave vedono l’entrata della Slovenia
nell’UE come un’opportunità per rettificare l’andamento delle bilance
commerciali. “Delo” lo scorso 28 dicembre notava come gli importatori
spesso venivano attaccati sui media macedoni quali responsabili di
bilance commerciali pesantemente passive.

D’altro canto gli imprenditori sloveni temono invece che, dati i nuovi
dazi, a trarne vantaggio potrebbero essere i colleghi serbi, che
potrebbero aumentare le loro fette di mercato alle spese della Slovenia.

Vi è un chiaro interesse sloveno a proteggere i propri interessi
commerciali nel sud est Europa che emerge anche dal pieno appoggio che
viene dato all’allargamento dell’Unione verso sud. “Ma questo deve
avvenire in tempi relativamente rapidi perché i prodotti sloveni non
godranno all’infinito di vantaggi comparati derivanti da marchi già
conosciuti nel sud est Europa”, ha commentato a “Delo” Silvester Cotar,
della Camera di Commercio slovena.

Inoltre la somiglianza delle lingue parlate e le affinità culturali non
potranno che significare, nel riavvicinamento tra le ex Repubbliche,
opportunità economiche. [SIC]


» Fonte: © Osservatorio sui Balcani

Da: ICDSM Italia
Data: Gio 12 Feb 2004 17:35:16 Europe/Rome
A: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Oggetto: [icdsm-italia] N. Clark: The Milosevic trial is a travesty


[L'editorialista del Guardian Neil Clark: "Il processo Milosevic e' una
messinscena. La necessita' politica impone che l'ex leader jugoslavo
sia dichiarato colpevole - benche' le prove non sussistano"...]


http://www.guardian.co.uk/print/0,3858,4856972-103677,00.html

Comment

The Milosevic trial is a travesty

Political necessity dictates that the former Yugoslavian leader will be
found guilty - even if the evidence doesn't

Neil Clark

Thursday February 12, 2004
The Guardian

It is two years today that the trial of Slobodan Milosevic opened at
The Hague. The chief prosecutor, Carla Del Ponte, was triumphant as she
announced the 66 counts of war crimes and crimes against humanity and
genocide that the former Yugoslavian president was charged with. CNN
was among those who called it "the most important trial since
Nuremburg" as the prosecution outlined the "crimes of medieval
savagery" allegedly committed by the "butcher of Belgrade".

But since those heady days, things have gone horribly wrong for Ms Del
Ponte. The charges relating to the war in Kosovo were expected to be
the strongest part of her case. But not only has the prosecution
signally failed to prove Milosevic's personal responsibility for
atrocities committed on the ground, the nature and extent of the
atrocities themselves has also been called into question.

Numerous prosecution witnesses have been exposed as liars - such as
Bilall Avdiu, who claimed to have seen "around half a dozen mutilated
bodies" at Racak, scene of the disputed killings that triggered the
US-led Kosovo war. Forensic evidence later confirmed that none of the
bodies had been mutilated. Insiders who we were told would finally
spill the beans on Milosevic turned out to be nothing of the kind. Rade
Markovic, the former head of the Yugoslavian secret service, ended up
testifying in favour of his old boss, saying that he had been subjected
to a year and a half of "pressure and torture" to sign a statement
prepared by the court. Ratomir Tanic, another "insider", was shown to
have been in the pay of British intelligence.

When it came to the indictments involving the wars in Bosnia and
Croatia, the prosecution fared little better. In the case of the worst
massacre with which Milosevic has been accused of complicity - of
between 2,000 and 4,000 men and boys in Srebrenica in 1995 - Del
Ponte's team have produced nothing to challenge the verdict of the
five-year inquiry commissioned by the Dutch government - that there was
"no proof that orders for the slaughter came from Serb political
leaders in Belgrade".

T o bolster the prosecution's flagging case, a succession of
high-profile political witnesses has been wheeled into court. The most
recent, the US presidential hopeful and former Nato commander Wesley
Clark, was allowed, in violation of the principle of an open trial, to
give testimony in private, with Washington able to apply for removal of
any parts of his evidence from the public record they deemed to be
against US interests.

For any impartial observer, it is difficult to escape the conclusion
that Del Ponte has been working backwards - making charges and then
trying to find evidence. Remarkably, in the light of such breaches of
due process, only one western human rights organisation, the British
Helsinki Group, has voiced concerns. Richard Dicker, the trial's
observer for Human Rights Watch, announced himself "impressed" by the
prosecution's case. Cynics might say that as George Soros, Human Rights
Watch's benefactor, finances the tribunal, Dicker might not be expected
to say anything else.

Judith Armatta, an American lawyer and observer for the Coalition for
International Justice (another Soros-funded NGO) goes further, gloating
that "when the sentence comes and he disappears into that cell, no one
is going to hear from him again. He will have ceased to exist". So much
then for those quaint old notions that the aim of a trial is to
determine guilt. For Armatta, Dicker and their backers, it seems that
Milosevic is already guilty as charged.

Terrible crimes were committed in the Balkans during the 90s and it is
right that those responsible are held accountable in a court of law.
But the Hague tribunal, a blatantly political body set up and funded by
the very Nato powers that waged an illegal war against Milosevic's
Yugoslavia four years ago - and that has refused to consider the prima
facie evidence that western leaders were guilty of war crimes in that
conflict - is clearly not the vehicle to do so.

Far from being a dispenser of impartial justice, as many progressives
still believe, the tribunal has demonstrated its bias in favour of the
economic and military interests of the planet's most powerful nations.
Milosevic is in the dock for getting in the way of those interests and,
regardless of what has gone on in court, political necessity dictates
that he will be found guilty, if not of all the charges, then enough
for him to be incarcerated for life. The affront to justice at The
Hague over the past two years provides a sobering lesson for all those
who pin so much hope on the newly established international criminal
court.

The US has already ensured that it will not be subject to that court's
jurisdiction. Members of the UN security council will have the power to
impede or suspend its investigations. The goal of an international
justice system in which the law would be applied equally to all is a
fine one. But in a world in which some states are clearly more equal
than others, its realisation looks further away than ever.

· Neil Clark is a writer specialising in east European and Balkan
affairs

Guardian Unlimited © Guardian Newspapers Limited 2004


==========================
ICDSM - Sezione Italiana
c/o GAMADI, Via L. Da Vinci 27
00043 Ciampino (Roma)
email: icdsm-italia@...

Conto Corrente Postale numero 86557006
intestato ad Adolfo Amoroso, ROMA
causale: DIFESA MILOSEVIC

[Il seguente articolo e' apparso su "Famiglia Cristiana". Dopo una
introduzione "politically correct" che chiama in causa, a sproposito, i
"mostri" mediatici dei nostri tempi, il giornalista descrive
circostanze storiche importanti, delle quali la stampa della sinistra
opportunista preferisce non parlare...]


http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=2793

Pulizia etnica all’italiana

Tra il ‘42 ed il ’43 il nostro esercito internò nel campo di Gonars
migliaia di persone: quasi 500 morirono in pochi mesi. Il progetto:
ripopolare il territorio sloveno con italiani. Un articolo di Alberto
Bobbio pubblicato su Famiglia Cristiana.


(10/02/2004) E’ una storia rimossa che emerge oggi, 65 anni dopo, con
grande difficoltà dalle pieghe della memoria. E’ la storia della
pulizia etnica all’italiana, che ha lo stesso linguaggio, nasce dalle
stesse intenzioni e procede con le stesse azioni dei signori della
guerra nei Balcani dell’ultimo decennio del secolo appena passato.
Cambiano i nomi, ma quello dell’alto commissario fascista di Lubiana,
annessa al Regno d’Italia nel 1941, Emilio Grazioli, potrebbe essere
equivalente a quelli di Milosevic o Karadzic, e a quelli dei generali
Mario Robotti e Mario Roatta al generale serbo Ratko Mladic o al croato
Ante Gotovina, criminali di guerra.

Ma nessun militare né civile italiano è mai stato processato da un
tribunale. L’Italia si è assolta e l’amnistia del dopoguerra non ha
permesso neppure di conservare la memoria giudiziaria dei fatti. Ora
qualcosa lentamente riemerge e il difetto di conoscenza e di coscienza
collettiva è tragico. Alessandra Kersevan, ex insegnante di scuola
media in Friuli, ricercatrice a contratto in didattica delle lingue
all’Universitа di Trieste, ha pubblicato, con il contributo del Comune
di Gonars, uno straordinario studio sul campo di concentramento
fascista di quel paese, ricostruendo tutta la storia della "pulizia
etnica all’italiana" in Slovenia e in Croazia.

Spiega la Kersevan: “Ho lavorato per 15 anni negli archivi sloveni a
Lubiana, all’archivio di Stato di Udine e in quelli dell’Esercito
italiano a Roma. Gonars è una faccenda tutta italiana. Tra il 1942 e il
’43 vennero internate migliaia di persone, rastrellate dall’Esercito
italiano, donne, vecchi, bambini. Quasi 500 morirono in pochi mesi”.

Ma Gonars, come le altre decine di campi di concentramento fascisti,
rimase invisibile nell’Italia del dopoguerra. Spiega il professor
Spartaco Capogreco, docente alla facoltà di Scienze politiche
dell’Università della Calabria, il maggior esperto dei campi di
concentramento fascisti, di cui a febbraio uscirа per Einaudi il volume
I campi del Duce: “E’ una storia di minimizzazioni e amnesie, che hanno
offuscato gravi e precise responsabilità e che hanno contribuito
all’affermazione di un pregiudizio, quello della naturale bontà del
soldato italiano. Va anche rilevato il potente effetto assolutorio di
Auschwitz nei confronti degli altri campi di concentramento. Ma ciò non
giustifica l’oblio, né della politica di internamento fascista né della
pulizia etnica all’italiana”.

Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1942, Roatta, Robotti e
Grazioli fanno circondare Lubiana con reticolati di filo spinato: la
cittа diventa così un immenso campo di concentramento. Robotti spiega
al Duce il suo "metodo deciso": “Gli uomini sono nulla”, e comunica la
sua intenzione di “arrestare in blocco gli studenti di Lubiana”. I
rastrellamenti sono operati dai Granatieri di Sardegna. Il generale
Orlando, comandante della divisione, prevede lo sgombero delle persone
“prescindendo dalla loro colpevolezza”.

Alla fine di giugno Orlando comunica che con l’arresto di “5.858
persone si è tolto dalla circolazione un quarto della popolazione
civile di Lubiana”. Scrive il tenente dei Carabinieri Giovanni De
Filippis in un promemoria che Alessandra Kersevan ha rintracciato a
Roma: “Continua caotico e disorientato il procedimento dei fermi… La
popolazione vive in uno stato di vero incubo”.

La filosofia della pulizia etnica era stata indicata nella circolare
"3C" del generale Roatta: “Internamento di intere famiglie, uso di
ostaggi, distruzione di abitati e confisca di beni”.

“Internamento di massa”

Il 24 agosto 1942 Grazioli prospettava al ministero dell’Interno
“l’internamento di massa della popolazione slovena” e la sua
“sostituzione con la popolazione italiana”. Robotti spiega ai
comandanti: “Non importa se all’interrogatorio si ha la sensazione di
persone innocue. Quindi sgombero totalitario. Dove passate, levatevi
dai piedi tutta la gente che può spararci nella schiena. Non vi
preoccupate dei disagi della popolazione. Questo stato di cose l’ha
voluto lei, quindi paghi”.

In un altro rapporto, Robotti lamentava: “Si ammazza troppo poco”.
Roatta raccomandava l’uso dell’aviazione e dei lanciafiamme per
distruggere i paesi.

Il campo di Gonars, allestito per gli arrestati sloveni, in poche
settimane è pieno. In estate viene approntato in fretta e furia il
campo di tende sull’isola di Rab: donne, vecchi e bambini sono ospitati
in condizioni disumane.

Il vescovo di Krk, monsignor Srebnic, il 5 agosto 1943 in una lettera
al Papa parlerà di più di “1.200 internati morti”. Alla fine del 1942
il sottosegretario all’Interno Buffarini dа notizia al Duce che “50.000
elementi sloveni” sono stati internati in Italia.

Nell’autunno 1942 la diocesi di Lubiana fa arrivare alla Santa Sede un
documento dal tono molto preoccupato, che chiedeva interventi per
evitare che i campi “diventino accampamenti di morte e di sterminio”.
Il Vaticano la inoltra al ministero dell’Interno fascista. Risponde
proprio il generale Roatta, minimizzando la situazione, contestando i
dati e rimproverando il Vaticano: “Molte delle lagnanze affacciate dal
Vaticano sono destituite di fondamento. I comandi militari non hanno
bisogno di suggerimenti per quanto riguarda i doveri di umanità”.

Più volte la Chiesa cattolica interviene a favore degli internati
sloveni nel campo di Gonars, che alla fine del 1942 sono oltre 6.000. I
vescovi di Lubiana, Rozman, di Gorizia, Margotti, e di Krk, Srebnic,
sollecitano un’iniziativa della Santa Sede. Il segretario di Stato
vaticano, cardinale Luigi Maglione, invia a Gonars il nunzio apostolico
in Italia Borgoncini-Duca, il quale però non riesce a capire le reali
condizioni di vita e scrive che “il vitto non manca e l’acqua è
abbondante”.

Altre testimonianze raccolte da Alessandra Kersevan sono assai
diverse. Il segretario dell’arcivescovo di Zagabria Stepinac, don
Lackovic, nel ’43 denuncia alla Croce Rossa italiana che a “Gonars si
trovano oltre 4.000 croati, in maggioranza donne e bambine che soffrono
molto e muoiono in gran numero”. Il salesiano padre Tomec descrive al
Comitato di assistenza di Gorizia la terribile situazione di Gonars in
una lunga relazione: “La gente muore di fame. La minestra è acqua nella
quale nuotano due chicchi di riso e due maccheroni”. E chiede la
possibilitа di inviare pacchi di viveri ai prigionieri.

Il 27 marzo 1943 il prefetto di Udine impone all’Autorità
ecclesiastica di bloccare i pacchi per evitare che “aiuti siano
prodigati a una razza siffatta che non ha mai nutrito, né nutre,
sentimenti favorevoli all’Italia”. E a Lubiana Grazioli ordina di “far
cessare ogni assistenza in favore degli internati”.

Punizioni, torture, orrore

Slavko Malnar, ex internato a Gonars, ha raccontato alla Kersevan:
“Avevo 6 anni e pesavo 13 chili. Con altri bambini cercavamo il cibo
nei bidoni della spazzatura. Se trovavamo qualche grosso osso lo
spaccavamo per succhiare il midollo. Mia madre era incinta. Mio
fratellino è nato il 3 febbraio 1943. E’ morto qualche mese dopo”. Poi
c’erano le punizioni, le torture, insomma, l’orrore di ogni campo di
concentramento.

Oggi non c’è più traccia del campo di Gonars. Nel cimitero del paese
sono sepolti 400 internati, ricordati da un grande sacrario costruito
nel 1973.

Spiega il sindaco Ivan Cignola: “Ricordare la tragedia e riconoscerne
le responsabilitа italiane non è solo un problema storico, ma anche di
sensibilità civile”. Tutti i protagonisti di questa vicenda non sono
mai stati incriminati: Emilio Grazioli venne arrestato dopo la guerra
per due eccidi commessi in provincia di Ravenna. Le accuse circa il suo
operato a Lubiana non vennero menzionate. Tornato subito in libertà,
sparì.

Dei vari comandanti del campo di Gonars solo l’ultimo, il capitano
Macchi, noto per la sua ferocia, venne ucciso dai partigiani nel 1944.
Il generale Robotti è morto ed è stato dimenticato.

Il generale Roatta riparò in Spagna. Poi usufruì di un’amnistia. Una
sua foto è tuttora appesa alle pareti dell’Archivio storico dello Stato
Maggiore dell’Esercito.

Alberto Bobbio – Famiglia Cristiana


Vedi anche:

Le “vacanze al confino” viste dalla Slovenia
http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.view1&NewsID=00

I lager in Italia
http://www.nonluoghi.info/article.php?sid=9


» Fonte: © Osservatorio sui Balcani